IO C’ERO
Tutto confuso, l’unica cosa che ricordo bene è che stavo facendo i compiti come ogni giorno, ma poi questo ricordo si conclude con un assordante rumore alla porta come se qualcuno volesse entrare per forza anche a costo di sfondarla. E ora mi ritrovo qui, in un treno di legno scadente simile a quelli per gli animali , ma dentro c’eravamo noi, persone di tutte le età una addosso all’altra. Le più fortunate erano sedute mentre noi altri eravamo alzati. Vedo a malapena i miei genitori e provo a stendere la mano verso di loro, ma essa si confonde tra i corpi delle altre persone, loro non mi vedono e io non riesco a muovermi. Da quanto tempo stiamo qua? Dove stiamo andando? Perché non ci sono finestre? Per quanto ancora durerà? Non riuscivo a levarmi dalla testa queste domande, volevo solo mamma e papà ma nonostante fossero vicini erano allo stesso tempo troppo lontani per raggiungerli. A un certo punto la porta si apre e una ventata d’aria m’arriva in volto. Vedo qualcuno scendere con un secchio ammaccato in mano, sgrano gli occhi e capisco che quello era il nostro bagno “Perché ci trattano come animali?” Non è ancora successo niente eppure mi sento come se questo treno stesse cadendo in picchiata verso l’inferno… “va be magari mi sbaglio”e mi sforzo di tornare alla realtà, noto un po’ di spazio per raggiungere papà, una piccola e breve occasione e decido di coglierla in pieno. Mi ci butto e riesco a prendere a prendere la sua enorme e forzuta mano… per la prima volta dopo non so quante ore mi sento a casa. Alzo la testa e vedo papà guardarmi e sorridere, è ansioso e ha tanta paura ma prova a farsi forza per me. “Papà, ma mamma?” “lei…. È in un altro vagone” Mi limito ad annuire ma nella mia mente ci sono altre mille domande “vagone? E la donna che ho visto prima” non fa niente, ora con papà di fianco mi sento più al sicuro. Sono passate tante ore, forse un giorno o forse solo 5 minuti non lo so, penso a quando a casa mi stavo organizzando cosa fare, e ora? La cosa più brutta non è aver annullato tutto i piani, è non esser più in grado di gestire la propria vita, come guardare seduti in panchina delle persone che non avevi mai visto prima spartirsi la tua vita. Vedo delle persone inginocchiate, stanche? No, stanno pregando “straordinario “ penso tra me e me, li ammiro molto, avere la forza e il coraggio di pregare anche in questi momenti, essere umani anche attorno tutta questa disumanità. Sento pioggia cadere sul tetto del vagone ma ci metto un po a capire, sembrano tanti spari che puntano sulla nostra testa “ Ma in Italia c’era un sole che spacca a le pietre e poi la pioggia non fa questo rumore… è il legno scadente di questo vagone? “non credo ma provo ad autoconvincermi “mi sembra più un segnale penso tra me e me… ma segnale di cosa? Ancora non lo so. Non so da quanto tempo non mangio ma non mi sento le gambe, mi guardo il polso e sembra si sia fatto più stretto “apparenza o no? “non riesco a ragionare ho la mente troppo confusa, ma devo sopportare perché se lo dicessi a papà peggiorerei la situazione, qui nessuno ha cibo. Nonostante la mente annebbiata i miei ricordi felici non si sono smossi, il ricordare il passato felice nel triste presente mi sembrava una tortura e sentivo che non sarebbe stata l’ultima. Ci fermiamo e sento il vagone aprirsi, all’improvviso quel silenzio si trasforma in un gran casino che però si placa in poco tempo, le nostre urla rispetto a quella dei militari non sono niente. Ci lanciano qualcosa addosso “cibo? CIBO” da quando sono qua dentro è la prima volta che lo vedo. Lo tocco e mi sembra surreale : è un piccolissimo pezzetto di pane, però mi sento così felice. In poco tempo il vagone si richiude ma io non ho il coraggio di mangiare e anche troppo affamata per resistere, né mangio un po’, un altro po’ lo lascio per dopo e il resto lo distribuisco agli altri “la dignità “penso, “la dignità non me la toglieranno”… mi faccio forza e sopporto le altre ore di viaggio sempre sullo steso posto, sempre accanto a papà. Ora la temperatura si è abbassata di qualche grado, ho freddo ma non ho vestiti, abbraccio papà in cerca di calore; è tutto diverso, dentro questa gabbia con le ruote è come se avessero azzerato la vita, tutto il passato ora è un ricordo e non più una parte di te. Passano ore e ore, e io si e no ho dormito una ventina di minuti, come si puó dormire quando piano a piano senti che ti stanno per uccidere sia metaforicamente sia letteralmente? Improvvisamente si ferma. Aprono da entrambi i lati il vagone e urla e gelo inondano il vagone. Improvvisamente vedo gente esser colpita “scendere…. Bisogna scendere ”sono sia spaventato sia felice di ciò. Io e papà siamo vicine all’uscita e lui mi gira prendendomi dalle spalle “ometto” mi dice, non è la prima volta che mi chiama così, ma è la prima volta che lo dice piangendo “ora io andrò a destra e tu non mi dovrai seguire, vai a sinistra e non fare domande, per favore.. “stava per continuare la frase finché un uomo in divisa non lo tira fuori dal vagone “ricordati di sorridere “, “sorridere? Perché? “…è così che terminò il mio viaggio e da quel giorno non lo vidi più… Ora, dopo aver superato il fiore dei miei anni ho capito cosa intendesse papà quel maledetto giorno. Non voleva che sorridessi, voleva che non perdessi la mia umanità, ed è grazie a lui se oggi sono ancora vivo.
Erika Cepparulo III D
Era un giorno normale, un giorno come gli altri. Io e la mia famiglia stavamo tranquillamente pranzando, ridendo e scherzando, ignari di quello che stava per accaderci e pensando che ormai la guerra stesse per finire.
Ad un certo punto sentimmo un rumore molto forte e successivamente delle urla in tedesco. Non conoscevo molto quella lingua ma riuscii a capire abbastanza da rendermi conto che eravamo in pericolo. Decisi a quel punto di cercare una via di uscita prima che i tedeschi sfondassero la porta. Trovai una vecchia botola che portava allo scantinato e decisi di farci nascondere mia moglie e mia figlia visto che non c’era moltissimo spazio, dopodiché coprii l’ingresso della botola con un tappeto e lasciai che accadesse quello che sapevo sarebbe accaduto. I soldati, dopo aver sfondato la porta, mi presero, mi strattonarono via e mi misero su un carro assieme ad altre persone. Quel tragitto non fu molto lungo, infatti dopo non più di dieci minuti un gruppo di soldati fece scendere tutti dal carro e ci fecero mettere in fila. Da lì ci portarono alla stazione e ci condussero verso un binario sotterraneo, dove poi ci avrebbero caricati tutti su dei vagoni per bestiame e ci avrebbero chiusi dentro tutti ammassati uno affianco a l’altro. Quel treno aveva una meta a noi sconosciuta e quel pensiero non mi piaceva…mi metteva i brividi. Passarono le ore…passarono i giorni. La fame e soprattutto la sete erano insopportabili. A tratti mancava l’aria. Cercavo di muovermi ma non riuscivo a fare grandi movimenti. C’era solo una piccola apertura in alto sul vagone. Da lì capivamo se era giorno o notte. Le forze sembravano venir meno. Qualcuno non ce la fece. Sembrava addormentato…il suo corpo era freddo e duro… Il viaggio fu molto lungo, stancante ma soprattutto pieno di incognite. Poi un giorno, non so dopo quanto tempo dalla partenza, il treno cominciò a frenare fino a fermarsi del tutto. Fuori si udivano delle voci…erano stranieri…tedeschi…Improvvisamente qualcuno aprì le porte del vagone e la luce soffusa di un tramonto grigio quasi accecarono i nostri occhi. Mi alzai a stento, le gambe sembravano non reggermi. Mi appoggiai ad un uomo che era sempre stato seduto accanto a me e insieme seguimmo il soldato tedesco che ci indicava la strada con il suo fucile. Improvvisamente una grande scritta si parò davanti ai miei occhi. Su un grosso cancello di ferro c’era “Auschwitz” e più sotto ce n’era un’altra : “Il lavoro rende liberi”.
Tutti eravamo un po’ intimoriti da quella scritta ma quella paura non era niente in confronto a quello che fummo costretti a passare più tardi.
Dopo averci privati di ogni effetto personale, denudati, con i capelli rasati a zero, ci impressero un numero su una mano con un ferro bollente…Quello sarebbe stato il mio nome…da quel momento io non ero più nessuno ma solo un numero…Dopo ci diedero delle divise a righe bianche e azzurre e delle scarpe con la suola di legno che dovemmo indossare in fretta.
Una volta rivestiti, fummo divisi in file, le donne e i bambini da una parte e gli uomini da un’altra. Da quel momento, privati di tutto, fummo derubati anche della nostra identità e fu da lì che tutti iniziarono a stare peggio. Più tardi portarono uomini, donne e bambini in posti differenti.
Ancora non capivo…mi chiedevo spesso “Dove sono?”…”Cosa vogliono da me?”… Quando ci portarono in un capannone, un soldato tedesco ci spiegò le regole in tedesco. Cercai di capire…di tradurre… Conoscevo poco il tedesco ma dal modo in cui parlava e dal modo in cui ci guardava freddamente, capii che non era nulla di buono. Ero intimorito, mi mancava la mia famiglia…Chissà se l’avrei rivista….. Da quel giorno ognuno iniziò una specie di lotta per la sopravvivenza in cui ognuno pensava solo non essere ucciso. Mangiavamo solo una specie di acqua sporca con qualche filo d’erba e, se eravamo fortunati, trovavamo all’interno qualche briciola di pane vecchio. Io fui destinato ai lavori in un piccolo campo alle spalle di un edificio dal quale usciva spesso del fumo maleodorante…Quell’odore mi incuteva paura…cercavo di non guardare il fumo e di tapparmi il naso per non sentire quella tremenda puzza… Dovevamo essere attenti a quello che facevamo, a come camminavamo e a cosa dicevamo perché bastava una piccola disattenzione per finire sotto gli spari di qualche soldato. Passai ben un anno e mezzo nel campo di concentramento di Auschwitz, un anno e mezzo che mi è sembrato non finisse mai. Ho vissuto atrocità che mi sono rimaste impresse negli occhi, nel cuore e nella mia anima…Eravamo diventati degli scheletri…sembravamo tutti uguali. Quando mi svegliavo ringraziavo il mio Dio di essere ancora vivo. Ho visto gente molto più giovane di me morire a causa delle malattie o delle percosse. Ho assistito alla separazione di nuclei familiari…Le persone anziane arrivavano ma poi non le vedevamo più…Dormivamo in condizioni disperate, su assi di legno freddi e duri, spesso ricoperti dagli escrementi delle persone che contraevano il tifo. Ogni giorno era una lotta di sopravvivenza…E pensavo che mai più sarei uscito da quel cancello di ferro.
Poi…un giorno ci accorgemmo che i soldati cominciavano improvvisamente ad andare via…Eravamo atterriti ma non ci muovevamo per paura di finire ammazzati. Io ero nascosto sul mio giaciglio quando vidi avvicinarsi un uomo in divisa…ma non era la divisa tedesca…Non credevo ai miei occhi: era un soldato sovietico che, trovatomi, mi tese la mano per aiutarmi ad uscire da lì…
Non mi sono mai più ripreso da quell’orrendo periodo ma ho cercato di andare avanti lo stesso. Sono solo, non ho più nessuno, non so che fine abbiano fatto tutti… vado avanti pensando al dolce sorriso della mia bambina e di quanto mi divertisse veder giocare lei e mia moglie in giardino.
Spero che mai nessuno in futuro si dimentichi di noi…identità perdute, e ricordi queste parole per tenerle strette nella memoria affinché non si ripeti mai più quest’atrocità.
Io non dimentico…non potrei mai…quel numero è sempre qui a ricordarmelo…
Non dimenticare nemmeno TU!
Santantonio Alessio III D
Ero con mio padre quel giorno quando ci presero e ci portarono nei campi di concentramento. Stavamo facendo una passeggiata ed era una giornata fredda e triste, al ritorno a casa dopo neanche due secondi, sentimmo la porta spalancarsi, erano i soldati nazisti. Ci avevano presi dalle braccia e ci avevano portato in un vagone tutto nero, tenevo la mano di mio padre stretta, avevamo molta paura ma non potevamo fare nulla e fino all’arrivo eravamo rimasti muti. Una volta scesi dal vagone mi ritrovai circondata da tanta gente, avevo tanta paura, ma ricordavo la solita frase che mi diceva mia madre “ce la farai, tu sei forte e potrai superare tutti i problemi che ti darà la vita”. Dopo aver pensato a quella frase mi sentì più sicura di me, continuai a tenere la mano di mio padre, mi passavano mille domande per la testa ma non riuscivo a rispondere neanche a una. Poi chiamarono me ed altri bambini per fare una doccia, forse volevano farci riposare un po’!. Entriamo ed era una camera tutta nera, poi ci portarono in un’altra stanza dove ci tatuarono dei numeri sull’avanbraccio, ormai non avevamo più un’identità, non avevamo più un nome eravamo numeri. Quando ero uscita da queste camere, incontrai mio padre che mi diede un forte abbraccio e mi disse che non mi dovevo preoccupare e che non dovevo avere paura, perché ci sarebbe stato sempre lui a proteggermi. Era passato ormai un anno non ricordavo neanche che giorno era, talmente dalla paura che avevo. Quando finì la guerra ritornammo a casa dopo moltissimo tempo e c’era ancora lui accanto a me, mio padre. Quella esperienza infernale ormai era terminata ma il ricordo rimane indelebile e non possiamo dimenticare tutto ciò che abbiamo passato e tutto quello che di disumano abbiamo vissuto.
Di Caprio Maria III D