ANNALISA DURANTE
Annalisa Durante era una ragazzina di 14 anni, graziosa, vivace, sempre col sorriso stampato in volto, con i suoi magnifici occhi azzurri, che amava stare in compagnia dei suoi compagni e che sperava un giorno di diventare parrucchiera, nonostante fosse a conoscenza delle problematiche che affliggevano il suo quartiere. Infatti lei ne era spaventata: le strade erano piene di scippi e rapine, di ragazzi che si drogavano senza motivo e di tossicodipendenti. Sperava tanto un giorno di fuggire da Napoli ed andare a vivere in un'altra città. Ci troviamo nel 27 marzo del 2004 in uno dei quartieri più malfamati di Napoli, Forcella, posta nel centro storico della città, durante un sabato sera. Annalisa era uscita di casa alle 21:45 con le sue amiche di una vita per andare a mangiare una pizza. Ella indossava dei jeans con tasche gialle, una maglietta nera a collo alto, delle scarpe da ginnastica e una giacca nera. Il gruppo poi si divise: alcune ragazze andarono in pizzeria, altre continuarono a passeggiare tra le strade di Forcella, ma Annalisa rimase vicino casa, in Via Vicaria Vecchia 22 mentre parlava con Sasà ‘o russ, chiamato in questo modo per via del colore dei suoi capelli, chiedendole di comprargli un pacchetto di sigarette. Così Annalisa si fece accompagnare da Antonio, il fratello di Salvatore. All’arrivo delle 22:50 il silenzio nelle strade di Forcella venne interrotto da colpi di arma da fuoco, alcuni provenienti dalla pistola di Salvatore Giuliano poiché fu colpito da due ragazzini su uno scooter, ma accidentalmente uno di questi colpì Annalisa alla testa, trafiggendole l’occhio e distruggendole il cervello. Cadde per terra, in un bagno di sangue. Suo padre scese in strada e provò a rianimarla con la respirazione bocca a bocca ma fu inutile. Venne portata successivamente all’Ospedale “Ascalesi”, nel quale entrò in coma e morì subito dopo. La famiglia, in seguito alla morte della loro bambina, decise di donare i suoi organi e riuscirono in questo modo a salvare 7 vite. Annalisa però non si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma in quello giusto, perché stava solamente vivendo la sua vita da adolescente con i suoi amici. Il 31 marzo del 2006 Salvatore Giuliano venne condannato a 24 anni di reclusione, ma la pena fu ridotta ai 20. Prima che Annalisa morisse, morì anche un altro giovane, Claudio Taglialatela durante lo svolgimento di una rapina. Annalisa dopo l’accaduto sfogò tutta la sua rabbia nel suo diario: “Oggi abbiamo visto i funerali di Claudio in televisione. Abbiamo pianto tanto. Mia madre è sconvolta, dice che è la cosa più orribile perdere un figlio. A me mi è venuto il freddo addosso. Che tragedia. Perché si deve morire così? Non è giusto”. Quest’anno Annalisa avrebbe compiuto 29 anni e per ricordarla l’anno scorso si sono ristretti intorno alla famiglia della ragazza tutti gli studenti delle scuole di Napoli che hanno esposto una mostra di cartelloni con scritte dediche e rappresentati disegni. Col suo nome sono stati intitolati biblioteche e asili nido, è stato realizzato un dvd, dal titolo “Seminiamo legalità” che parla appunto dell’antimafia, veicolato nelle scuole napoletane come obiettivo di insegnare l’educazione ai ragazzi, la conoscenza della Costituzione italiana il rispetto delle regole e del vivere civile, e infine una ludoteca. Durante lo svolgimento dei funerali, la madre Carmela con accanto l’altra sua figlia nonché la sorella di Annalisa, non riuscì a vedere la sua bambina in quella bara bianca, mentre suo marito Giovanni lasciò in quest’ultima un cellulare e un biglietto con su scritto: “Ti prego, chiamami: dimmi se sei arrivata in Paradiso.” In questo giorno fu anche ritrovato il suo diario da una signora che abitava in quel quartiere e disse di averla sognata. In questo sogno Annalisa le chiese di ritrovare il suo diario blu con un cuoricino rosso perché voleva che tutti conoscessero la sua storia. In una delle pagine di quest’ultimo, fu trovato scritto il messaggio seguente: “Vivo e sono contenta di vivere, anche se la mia vita non è quella che avrei desiderato (…) Ma so che una parte di me resterà immortale. E presto andrò in paradiso.” Altri messaggi erano dedicati alla sua cotta Francesco, altri erano dedicati alla sorella, altri ai genitori e alle sue migliori amiche. Tra le pagine del suo diario ritroviamo anche un presentimento sulla sua morte in età giovane. Secondo una sua compagna lei aveva risposto in maniera dubbiosa ad una domanda della sua prof: “Annalisa ci vediamo lunedì?” e lei rispose: “Lo spero. Non so se verrò a scuola.”
Don Peppe Diana
Don Peppe Diana è nato a Casal di Principe il 4 luglio del 1958. Dopo i suoi studi al seminario di Aversa, prese la maturità classica nel 1976; così si iscrisse alla facoltà di teologia di Posillipo. Nel 1978 entrò a far parte della AGESCI, e nel 1982 venne ordinato sacerdote. Amava molto stare con i ragazzi, infatti dato che era un gran tifoso, andava con loro a guardare le partite del Napoli. Il 19 settembre del 1989 tornò nella sua terra natia, infatti gli venne assegnata la parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Oltre ad essere parroco, era anche un insegnante di religione negli istituti superiori. Don Peppe Diana combatteva la camorra, infatti insieme ad altri parroci della sua zona, e di zone limitrofe dove la camorra era molto presente, scrisse una lettera aperta, diffusa nel Natale del 1991, intitolata “Per amore del mio popolo non tacerò”. In questa lettera viene detto che da sempre si assiste alla morte di giovani a causa della camorra, essi vengono anche reclutati per spacciare droghe come l’eroina e la cocaina; che la camorra impone le sue regole con la violenza, le estorsioni, le armi, e ha fatto si che in quelle zone non ci potesse essere uno sviluppo, al di fuori dei commerci della camorra. Inoltre viene detto che c’è anche una grande responsabilità politica, e che i cittadini devono denunciare attività illecite. Don Peppe Diana fu ucciso il 19 marzo del 1994, poco prima di celebrare la messa; fu ucciso con 5 colpi di pistola a bruciapelo: 1 al volto, 2 alla testa, 1 al collo ed 1 alla mano. L’assassino fu riconosciuto dal suo amico fotografo Augusto di Meo, che si trovava in sacrestia, fu Giuseppe Quadrano, mentre il mandante fu Nunzio De Falco. Oltre ad ucciderlo fisicamente, hanno anche tentato di uccidere la sua immagine, infangando il suo nome accusandolo di essere un pedofilo, un frequentatore di prostitute, e anche di aver costudito delle armi per uccidere il procuratore Cordova. Anche il Corriere di Caserta lo diffamò ulteriormente scrivendo che lui era un camorrista e che era stato trovato a letto con 2 donne. Le persone per bene non credettero mai a queste falsità, perché amavano Don Peppe Diana e sapevano che non si era unito alla camorra, ma l’aveva combattuta. Al suo funerale parteciparono 20.000 persone e vennero stese lenzuola bianche.
Don Peppe Diana
Don Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe il 4 luglio del 1958. Il papà, Gennaro e la mamma Iolanda di Tella, vivono lavorando la terra. Giuseppe è il primo di tre figli. Gli altri due sono Emilio e Marisa. Giuseppe entra nel seminario vescovile di Aversa nell’ottobre del 1968, appena compiuto i dieci anni di età, dove consegue la licenza media e quella classica liceale. La famiglia faceva enormi sacrifici per farlo studiare. Il padre doveva pagare una retta. Ma ai genitori interessava innanzitutto toglierlo dalla strada. Casal di Principe era un paese difficile. Tornava a casa solo a Pasqua e a Natale.
Conseguì la licenza liceale con ottimi voti. Tanto che vinse anche una borsa di studio. Il Vescovo dell’epoca, Antonio Cece, diceva che Giuseppe non era un prete come gli altri e che doveva fare carriera, doveva andare a Roma.
Dopo la licenza Liceale il giovane Giuseppe Diana entra nell’Almo Collegio Capranica di Roma per diventare sacerdote. Comincia a frequentare i corsi di Filosofia e Teologia nella Pontificia Facoltà Gregoriana. In un primo momento ci andò contento. Poi cominciò a ricredersi. Al ragazzo, che era giovane, allegro, gioviale, ma anche un po’ esuberante, quel clima austero del collegio e il distacco dal suo mondo, gli stavano un po’ stretti. Così cominciò a tempestare di telefonate la mamma perché non ci voleva più stare in quell’istituto. Alla fine tornò a casa.
S’iscrisse alla facoltà di Ingegneria dell’università Federico II di Napoli. Ma anche questo non gli bastava. Era sempre triste, pensieroso. Questa sua crisi durò all’incirca tre mesi, durante i quali diede anche un esame ad ingegneria. Più passava il tempo e più si incupiva. Finché un giorno prese sua madre da parte e le confidò: “Mamma voglio tornare in seminario. Non ce la faccio più a stare fuori”. Andò da solo a parlare col vescovo di Aversa, Monsignor Antonio Cece, che gli consigliò di attendere ancora qualche mese prima di rientrare in seminario. Ma lui rispose che la scelta l’aveva già fatta. Quello stesso pomeriggio se ne andò a Napoli, al seminario di Posillipo. Da allora non ebbe più incertezze sulle sue scelte.
Venne ordinato sacerdote il 14 marzo del 1982. Don Diana, da giovane prete, aveva un rapporto speciale con i ragazzi. Anche perché nel frattempo era diventato uno scout. Era il responsabile diocesano dell’Agesci, gli scout cattolici, ed era anche cappellano dell’Unitalsi. Accompagnava i malati nei viaggi a Lourdes, perché era anche assistente nazionale del settore Foulard Blanc. E poi aveva una passione sfrenata per il calcio. Quasi ogni domenica era presente sugli spalti dello stadio San Paolo di Napoli per seguire squadra del cuore insieme a un folto gruppo di giovani della sua comunità.
Il 19 settembre del 1989 viene nominato parroco della parrocchia di San Nicola a Casal di Principe.
Don Giuseppe Diana fu ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19 marzo del 1994, poco dopo le 7,20 del mattino, nel giorno del suo onomastico. Fu ucciso nella sua chiesa, la parrocchia di San Nicola di Bari. Gli spararono contro quattro colpi di pistola mentre si preparava per celebrare la messa. Aveva 36 anni.
È il 19 marzo 1994. Sono da poco passate le 7,20. Don Giuseppe Diana, 36 anni, parroco della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, arriva prima del solito nella sua parrocchia. È anche il giorno del suo onomastico. Dopo la messa delle 7.30 ha dato appuntamento in un bar a diversi amici per un dolce e un caffè. Sulla porta il sagrestano lo saluta. In chiesa ci sono già alcune donne e le suore. C’è anche Augusto di Meo ad aspettarlo, il suo amico fotografo. Vuole essere tra i primi a fargli gli auguri per il suo onomastico. Ma ad aspettare don Peppe c’è anche un’altra persona. È sul piazzale della chiesa, in auto. È un uomo con meno di 40 anni. con un giubbotto nero e capelli lunghi. Appena vede il prete entrare, scende. Si guarda intorno, mette la pistola nella cintura e si avvia a passo deciso verso la sagrestia.
Don Peppe, intanto, mentre comincia ad indossare i paramenti sacri, sta ancora concordando con il suo amico fotografo il da farsi per vedersi dopo la messa. Ed ecco che entra l’uomo col giubbotto. “Chi è don Peppe?”, chiede lo sconosciuto. Don Diana si gira e risponde: “Sono io”. L’uomo tira fuori la pistola dalla cintola e spara quattro colpi, al volto e al petto. Per don Peppe, che cade in una pozza di sangue, non c’è niente da fare. Muore a 36 anni il prete che aveva osato sfidare apertamente la camorra dei casalesi. Il killer si dilegua. Ad aspettarlo ci sono dei complici con l’auto del motore acceso. Augusto, il fotografo amico di don Diana invece, corre dai carabinieri a denunciare l’accaduto. Sarà lui a riconoscere in Giuseppe Quadrano il killer di don Diana.
Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 4 marzo 2004, la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autore materiale dell’omicidio il boss Giuseppe Quadrano condannandolo a 14 anni, perché collaboratore di Giustizia. Decisiva la testimonianza di Augusto Di Meo.
Quanto ai mandanti, la giustizia ha accertato che la morte di don Diana venne ordinata dalla Spagna, dal boss Nunzio De Falco detto “’o Lupo”, con l’intento di colpire il clan Schiavone- Bidognetti.
Ma prima della sentenza definitiva, ci sono stati vari tentativi di infangare la memoria di don Giuseppe Diana. Tentativi che iniziarono sin dalle prime ore dopo la sua morte, quando venne fatta circolare la voce che era stato ucciso per vicende di donne.
A queste voci seguirono vere e proprie campagne denigratorie con articoli apparsi sul “Corriere di Caserta” che avevano l’obiettivo di delegittimare non solo la figura di don Diana, ma soprattutto il suo forte messaggio lanciato dagli altari delle chiese della Forania di Casal di Principe, a Natale del 1991, con il documento “Per amore del mio popolo”. Un messaggio dirompente contro la cultura camorristica e criminale, nato nel cuore di quella che lo stesso don Diana definiva la “dittatura armata” della camorra.
Da 19 marzo di ventiquattro anni fa, molte cose sono cambiate. La sua morte è stata come un seme caduto nella buona terra, perché ha dato molti frutti. I colpi inferti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura ai clan, sono stati pesanti. Le condanne all’ergastolo per i capi della camorra casalese hanno messo in ginocchio l’organizzazione criminale. Nel frattempo diversi beni sono stati confiscati ai boss e assegnati ad associazioni e cooperative sociali. Ora i criminali sono per lo più in carcere, mentre nel Cimitero di Casal di Principe la tomba di don Giuseppe Diana, è meta di migliaia di visitatori. E’la rivincita dei familiari e degli amici di don Diana che sin dal giorno dopo la sua uccisione ne hanno difeso la memoria tra mille insidie, difficoltà e pericoli. Il giorno dei funerali di don Diana, Don Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, ebbe a dire parole profetiche: “Il 19 marzo è morto un prete ma è nato un popolo”.
Giancarlo Siani è stato un giornalista italiano assassinato dalla camorra La sua uccisione fu ordinata dal boss Angelo Nuvoletta frequentò le elementari presso la scuola "Vincenzo Cuoco", le medie presso la Scuola media statale "Michelangelo Schipa", e le superiori presso il Liceo Ginnasio G. B. Vico Conseguì la maturità classica nel 1978 con il massimo dei voti. Giancarlo Siani si occupò principalmente di cronaca nera e quindi di camorra, studiando e analizzando i rapporti e le gerarchie delle famiglie camorristiche che controllavano il comune e i suoi dintorni. Fu in questo periodo che iniziò anche a collaborare con l'Osservatorio sulla Camorra, il suo sogno era strappare il contratto da praticante giornalista per poi poter sostenere l'esame e diventare giornalista professionista. Un titolo che gli verrà riconosciuto ad honorem, nel giorno del 35esimo anniversario dall'uccisione, Lavorando per Il Mattino, Siani riuscì ad approfondire la conoscenza del mondo della camorra, dei boss locali e degli intrecci tra politica e criminalità organizzata, scoprendo una serie di connivenze che si erano stabilmente create tra esponenti politici oplontini e il boss locale, Valentino Gionta, che, da pescivendolo ambulante, aveva costruito un business illegale. Gionta era partito dal contrabbando di sigarette, per poi spostarsi al traffico di stupefacenti, e infine controllando l'intero mercato di droga nell'area torrese-stabiese. Diverse scuole in Italia sono a lui intitolate A Giancarlo Siani sono state inoltre intitolate anche strade e Licei Classici Il 19 settembre 2016, a trentuno anni dalla morte di Giancarlo Siani, è stata inaugurata un'opera di street art dedicata alla vita del giovane giornalista. Il murale è stato realizzato dal duo di artisti italiani Orticanoodles con la tecnica dello stencil ed è caratterizzato da due colori predominanti: il verde della
Paolo Borsellino
Paolo Borsellino, nato a Palermo il 19 gennaio 1940, è stato un importante magistrato, ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992 nella strage di via D'Amelio insieme ai cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Assieme a Giovanni Falcone, collega e amico d'infanzia fino alla morte, Paolo Borsellino è considerato una delle personalità più importanti e prestigiose nella lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale.
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940 in una famiglia borghese, nell'antico quartiere di origine araba della Kalsa. Entrambi i genitori sono farmacisti. Frequenta il Liceo classico "Meli" e si iscrive presso la facoltà di Giurisprudenza di Palermo: all'età di 22 anni consegue la laurea con il massimo dei voti. Pochi giorni dopo la laurea subisce la perdita del padre. Prende così sulle sue spalle la responsabilità di provvedere alla famiglia. Si impegna con l'ordine dei farmacisti a tenere l'attività del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Borsellino studia per il concorso in magistratura che supera nel 1963.
L'amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia. La professione di magistrato nella città di Palermo ha per lui un senso profondo.
Nel 1965 è uditore giudiziario presso il tribunale civile di Enna. Due anni più tardi ottiene il primo incarico direttivo: Pretore a Mazara del Vallo nel periodo successivo al terremoto.
Si sposa alla fine del 1968, e nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora in stretto contatto con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile.
E' il 1975 quando Paolo Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo; a luglio entra all'Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia: da questo momento comincia il suo grande impegno, senza sosta, per contrastare e sconfiggere l'organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l'arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano Basile viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia: il giudice deve relazionarsi con i ragazzi della scorta che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le sue abitudini e quelle della sua famiglia.
Successivamente, Chinnici istituì presso l'Ufficio istruzione un "pool antimafia", ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso e, lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso e, di conseguenza, la possibilità di combatterlo più efficacemente. Diminuiva inoltre il rischio che venissero assassinati da Cosa Nostra con lo scopo di riseppellire i segreti scoperti. Chinnici chiamò Borsellino a fare parte del pool insieme con Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Il 29 luglio 1983 Chinnici rimase ucciso nell'esplosione di un'autobomba insieme a due agenti di scorta e al portiere del suo condominio. Pochi mesi dopo giunse a Palermo da Firenze il giudice Antonino Caponnetto nominato al suo posto.
Il pool, sempre più affiatato continua nell'incessante lavoro raggiungendo i primi risultati. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Tommaso Buscetta: un pentito fondamentale per le indagini.
Nel 1985 vengono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, i commissari Beppe Montana e Ninni Cassara’. Falcone e Borsellino vengono trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, dove iniziano a scrivere l'istruttoria per il maxiprocesso. Il 19 dicembre 1986 Borsellino viene trasferito alla Procura di Marsala. Nel 1987 Caponnetto lascia il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si aspettano la nomina di Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) non la vede nella stessa maniera e nasce la paura di vedere il pool sciolto. Il 14 settembre Antonino Meli diventa (per anzianità) il capo del pool; Borsellino torna a Marsala, dove riprende a lavorare alacremente e insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Inizia in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porne a capo. Falcone va a Roma per prendere il comando della direzione affari penali e preme per l'istituzione della Superprocura.
Con Falcone a Roma, Borsellino chiede il trasferimento alla Procura di Palermo e l'11 dicembre 1991 Paolo Borsellino, insieme al sostituto Antonio Ingroia, torna operativo alla Procura di Palermo.
Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si reca insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove vive sua madre.
Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di tritolo a bordo esplode, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traia. L'unico sopravvissuto è Antonino Vullo.
Per la strage di via D’Amelio, il 3 luglio 2003, la Cassazione ha confermato le condanne all' ergastolo inflitte ai mandanti dell’eccidio. In particolare, i giudici della V sezione penale hanno reso definitive le condanne per Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Natale e Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Scotto, Gaetano Murano e Gaetano Urso.
Simonetta lamberti
L'omicidio di Simonetta Lamberti è un fatto di cronaca nera avvenuto a Cava de' Tirreni il 29 maggio 1982. La vittima, una bambina di 11 anni figlia del magistrato Alfonso Lamberti, rimase uccisa nel corso di un attentato il cui obiettivo era suo padre, all'epoca procuratore di Sala Consilina.
Il crimine viene ricordato come il primo di una serie che coinvolse vittime innocenti nelle lotte di criminalità organizzata negli anni ottanta.
Simonetta Lamberti, nata a Napoli il 21 novembre 1970, era figlia del magistrato Alfonso, procuratore di Salerno prima e di Sala Consilina poi, impegnato nel contrasto ai sequestri di persona e, successivamente, nella lotta contro la camorra; proprio per le attività investigative sulla criminalità organizzata era sotto protezione della polizia.
Il 29 maggio 1982 Lamberti si recò con la figlia da Cava de' Tirreni, dove abitava, alla contigua Vietri sul Mare, per passare alcune ore in spiaggia. Sulla via del ritorno, a poche centinaia di metri dall'ingresso in Cava de' Tirreni, la vettura del magistrato fu affiancata da un altro veicolo da cui furono esplosi numerosi colpi di arma da fuoco che colpirono il magistrato in modo non grave, mentre sua figlia, addormentata sul sedile posteriore, fu colpita alla testa, rimanendo uccisa quasi istantaneamente.
Le indagini per l'omicidio di Simonetta Lamberti si sono concentrate quasi immediatamente sull'attività di magistrato del padre, inscrivendo l'omicidio nel quadro delle attività camorristiche.
L'attività investigativa ha portato nel 1987 la Corte di Assise di Salerno a condannare all'ergastolo Francesco Apicella sulla base di una testimonianza oculare[4]. Il 18 aprile 1988, giorno della sentenza, basandosi sulla non credibilità dei pentiti interrogati in primo grado, la Corte d'Appello di Salerno presieduta da Mario Consolazio prosciolse Salvatore Di Maio e Carmine Di Girolamo per non aver commesso il fatto.
Il 18 maggio 1993 il padre della vittima, il giudice Alfonso Lamberti, fu arrestato sulla base delle dichiarazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Pasquale Galasso, nell'ambito delle quali Lamberti fu definito come "organico alla camorra". Secondo le dichiarazioni di Galasso, Lamberti avrebbe favorito Carmine Alfieri e lo stesso Galasso, emettendo sentenze che annullavano "misure di prevenzione personale e patrimoniale" a loro carico. Nel luglio dello stesso anno, Alfonso Lamberti tentò il suicidio in carcere. In seguito le accuse al giudice si rivelarono infondate e Lamberti fu scarcerato.
Nel 2006 lo scrittore Roberto Saviano indicò nel suo libro Gomorra in Raffaele Cutolo il mandante dell'omicidio di Simonetta Lamberti. Dal carcere di Novara, in cui è rinchiuso, il boss della NCO respinse le accuse, querelando Saviano per quanto riportato. Il Tribunale di Trento ha respinto le richieste di Raffaele Cutolo contro Saviano archiviando.
L'inchiesta sull'omicidio di Simonetta Lamberti è stata riaperta nella prima settimana di novembre 2011, sulla base delle rivelazioni del pregiudicato Antonio Pignataro, reo confesso. Quest'ultimo avrebbe partecipato all'ideazione dell'attentato al giudice Lamberti, la cui esecuzione materiale sarebbe stata effettuata da altre quattro persone, su mandato di Salvatore Di Maio. Secondo Pignataro l'auto utilizzata per l'agguato, una Fiat 127 bianca, sarebbe stata ceduta agli attentatori da Giovanni Gaudio, collaboratore di giustizia della camorra, ora indagato nell'ambito di questa nuova inchiesta.
Il 5 novembre del 2019 Pignataro fu scarcerato e sottoposto alla misura cautelare dell'obbligo di dimora. Pignataro aveva ricevuto una condanna a 30 anni di reclusione.
GIOVANNI FALCONE
Giovanni Falcone nacque il 20 maggio 1939 a Palermo e crebbe nella Kalsa, l'antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia.
Nella vita del piccolo Giovanni c'erano la scuola, l'Azione cattolica e pochi divertimenti. Per l'austero padre, viaggi e villeggiatura non esistevano. E anche la madre era una donna energica e autoritaria. “Con i 7 e gli 8, la mia pagella veniva considerata brutta” raccontava in un libro scritto su di lui.
Giovanni frequentò il liceo classico. Per lui le scuole secondarie furono particolarmente importanti: grazie al suo professore di storia e filosofia, Franco Salvo, imparò a sfuggire ai dogmi e a coltivare il dubbio, fino ad abbandonare il rito della messa domenicale con la madre. Dopo la maturità entrò all'Accademia militare di Livorno, poi ci ripensò e s’iscrisse a giurisprudenza, dove si laureò a pieni voti. E l'anno successivo conobbe una donna di nome Rita: fu un colpo di fulmine, al quale seguì il matrimonio. I primi passi della sua carriera Falcone li mosse a Lentini (Siracusa) come pretore, per poi trasferirsi nel 1966 a Trapani, dove rimase per 12 anni. Così, un po' alla volta, il magistrato si emancipò definitivamente dalla famiglia (tanto che la sorella Anna raccontò di averlo ritrovato "comunista") e cominciò a entrare in contatto con la realtà della mafia. Non era ancora costretto a vivere sotto scorta, quindi trovò il tempo per dedicarsi ad alcune attività sociali e s’impegnò a favore del referendum sul divorzio.
Anni dopo Falcone si trasferì a Palermo, dove lavorò al processo al costruttore edile Rosario Spatola, accusato di associazione mafiosa. Fu così che rivide e cominciò a lavorare con un vecchio amico, Paolo Borsellino. Il processo Spatola mise tra l'altro in luce le qualità di Falcone, che accompagnò l'istruttoria con indagini bancarie e societarie: un metodo di indagine innovativo che si rivelò efficacissimo.
La situazione a Palermo era in rapido cambiamento. Falcone si era accorto che spesso gli indagati e i membri delle cosche sotto inchiesta venivano uccisi o sparivano misteriosamente. Il motivo? Era cominciata una guerra di mafia, che tra gli ultimi mesi del 1981 e i primi del 1982 causò nel capoluogo siciliano un morto ogni tre giorni. Alla fine le vittime furono circa 1.200, una cifra da guerra civile, che andarono ad assottigliare le file delle cosche nemiche del "capo dei capi", Totò Riina. Si scoprì, infatti, che dietro gli omicidi c'erano i "viddani" (villani, cioè contadini) di Corleone, circa settanta persone provenienti dal paese vicino a Palermo. E Riina era il loro capo.
La "guerra" finì nel 1983, ma già l'anno prima la violenza dei corleonesi si era rivolta contro lo Stato: furono uccisi il Generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme a sua moglie, Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista e membro della Commissione antimafia, e Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio istruzione di Palermo.
Falcone entra a far parte di un pool antimafia per far luce su queste stragi. E comincia ad interrogare i primi grandi pentiti tra cui Buscetta. Quest’ultimo, prima di parlare con Falcone, gli disse queste parole, raccolte in un libro: ”L'avverto signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?».
Falcone lo interrogò e Buscetta parlò. Risultato: il 29 settembre 1984 vennero spiccati 366 mandati di arresto. Era il momento magico del pool.
Nel frattempo però, Totò Riina continuò con le stragi, uccidendo anche uno stretto collaboratore di Falcone.
La paura di altri attentati era forte. Falcone e la sua famiglia furono trasferiti in fretta e furia all'Asinara, per concludere l'istruttoria del maxi-processo, che fu depositata l'8 novembre di quello stesso anno.
Il maxi-processo si chiuse il 16 dicembre 1987 con 360 condanne e 114 assoluzioni. Si pensava che Falcone sarebbe stato nominato capo dell’ufficio istruzioni di Palermo, ma così non fu, a causa anche del nuovo ministro della Giustizia, Vassalli, che si era dichiarato contrario al programma di protezione di pentiti. E da quel giorno Falcone ha cominciato a morire.
A lui furono tolte le indagini sulla mafia e gli furono assegnate invece solo indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto.
Falcone era sempre più isolato. Un'altra sconfitta arrivò quando il governo nominò Domenico Sica alto commissario per la lotta antimafia, bocciando la sua candidatura. Lettere anonime lo accusarono di una gestione discutibile di un pentito, e nel giugno del 1989 fu sventato un attentato ai suoi danni.
Lo scontro con Meli raggiunse livelli altissimi in seguito all'inchiesta sulle confessioni del pentito Antonino Calderone: Meli voleva dividere il processo tra 12 procure diverse (secondo la competenza territoriale) mentre Falcone insisteva che dovesse occuparsene il pool (per non disperdere le indagini, dal momento che unica era l'origine mafiosa).
Falcone chiese di essere destinato ad altro ufficio e fu nominato procuratore aggiunto presso la Procura della repubblica. Lentamente venne allontanato da coloro che in passato avevano collaborato strettamente con lui. Infine Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e fino ad allora in ottimi rapporti con lui, lo accusò di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Per Falcone fu un periodo molto duro e maturò allora la scelta di accettare la proposta del nuovo ministro della Giustizia, Claudio Martelli, lasciando Palermo per la direzione degli Affari penali a Roma.
Nella capitale, però, Falcone non allentò il suo impegno contro la mafia, pur avendo ricevuto tante minacce.
Sconfitto nel maxi-processo che gli costò l'ergastolo, Totò Riina volle vendicarsi, tanto per cominciare, di chi non gli aveva garantito l'impunità: il 12 marzo 1992, a Mondello, la spiaggia dei palermitani, fu assassinato Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia.
Pochi mesi dopo, il 23 maggio del 1992 segnò per tutti una delle pagine più buie della storia della Repubblica. Sono quasi le sei del pomeriggio. Sull’autostrada A29 che dall’aeroporto di Punta Raisi, in Sicilia, porta a Palermo, viaggiano tre Fiat Croma. A bordo, ci sono il giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonino Montinaro. Con loro, gli altri membri della scorta Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello, assieme all’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
La corsa delle tre vetture si arresta all’altezza dello svincolo di Capaci. Sotto all’asfalto è stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo. Un detonatore azionato dalla collina che sovrasta l’autostrada alle 17:58 scatena l’inferno: la carreggiata viene ridotta ad un cumulo di macerie. Del convoglio, si salvano soltanto Capuzza, Corbo, Cervello e Costanza.
Finiva in quel modo la vita di uno dei più grandi protagonisti della lotta alla mafia, un uomo che aveva dedicato la sua vita al suo lavoro, che si era prodigato affinchè la mafia fosse sradicata non solo dalla Sicilia, la sua terra, ma dall’Italia intera. Un uomo che ha continuato imperterrito a lavorare pur essendo stato minacciato di morte più volte. Un uomo che ha dato la vita per noi. Gli hanno chiuso gli occhi per sempre ma lo hanno reso immortale perché la Sicilia onesta ha cominciato a ribellarsi ad anni di soprusi e di violenza. Come affermato dal Presidente Mattarella, il sacrificio delle vittime è divenuto motore di una riscossa di civiltà che deve continuare fino alla sconfitta definitiva della mafia. Dobbiamo avere un unico obiettivo: fare terra bruciata alla mafia. Il mezzo che abbiamo a disposizione è quello di impegnarci a garantire una maggiore giustizia sociale. Sappiamo che le organizzazioni criminali hanno buon gioco a instaurarsi come sistema alternativo sul territorio, là dove mancano diritti e opportunità. Pertanto, puntando al rispetto e alla salvaguarda di essi, riusciremo a sconfiggerla definitivamente.
La nostra responsabilità oggi è proprio mantenere viva la testimonianza di Falcone e continuare la sua lotta contro le associazioni mafiose. Solo così il suo sacrificio non sarà stato vano.
Peppino Impastato
Giuseppe Impastato o noto come Peppino, nacque a Cinisi in provincia di Palermo il 5 gennaio 1948 da una famiglia mafiosa, è stato un giornalista, conduttore radiofonico e attivista italiano, lui era un membro di Democrazia Proletaria ed è noto per le denunce contro le attività di Cosa Nostra, Cosa Nostra è un’espressione che viene utilizzata per indicare un’organizzazione criminale di tipo mafioso terroristico presente in Italia ma soprattutto in Sicilia.
Nel 1977 radio Aut, una radio libera con cui denunciò i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini.
Nel 1978 si candidò nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali, ma non fece in tempo a sapere l'esito delle votazioni perché, dopo vari avvertimenti che aveva ignorato, nel corso della campagna elettorale venne assassinato nella notte tra l'8 e il 9 maggio da Gaetano Badalamenti. Col suo cadavere venne inscenato un attentato, per distruggerne anche l'immagine, in cui la stessa vittima apparisse come suicida, ponendo una carica di tritolo sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo gli elettori di Cinisi votarono comunque il suo nome, riuscendo a eleggerlo simbolicamente al Consiglio comunale.
Dopo la sua morte, grazie al suo coraggio il fratello e la madre ruppero con la mafia. Il Centro siciliano di documentazione di Palermo, fu fondato a Palermo nel 1977 e intitolato proprio a Giuseppe Impastato nel 1980.