6 novembre 2020

Ho capito Jack Leopardi

Precauzioni permettendo, fino a pochi giorni fa la vita sembrava scorrere normalmente. La situazione contagi non aveva ancora fatto registrare la risalita nelle cifre che invece sta avvenendo ora, e le attività giornaliere “accadevano”, a ritmo d’ordinanza. Poi, all’improvviso, dal nulla, la botta. Telefonata della Asl, contatto con un positivo, e tra l’altro molto ravvicinato, previsto tampone e quarantena. Non nascondo che sul momento il magone che mi è salito è stato notevole. Dalla sera stessa il fantasma apparentemente svanito da mesi del lockdown era di nuovo realtà, e per diverse ore non sono riuscito a darmi pace. I dieci giorni successivi nemmeno li descrivo, perché tutti li abbiamo vissuti. Le stesse quattro mura della stessa stanza, lo stesso schermo del pc, la stessa voglia zero di fare qualunque cosa tranne pensare. Gli stessi nervi a fior di pelle, a qualunque ora del giorno. Eppure, pur in questo tremendo limbo, in questa striscia di Gaza tra due mondi, una cosa l’ho capita. Anzi, una persona l’ho capita. Ho capito Giacomo Leopardi.

Persa la metà dei lettori dopo questa affermazione a dir poco gagliarda, passo a spiegare.

In uno dei tanti momenti di noia con contorno di depressione esistenziale, la lucciola nella notte. Nei video consigliati, “L’Infinito”. Confesso che fosse davvero tanto tempo che non la rileggevo/risentivo, se non sbaglio da quando la Rai, con quel meraviglioso (...una volta tanto...) spot, ne aveva festeggiato il bicentenario due anni orsono. E non so se fosse la sensazione di vuotezza di quel contesto ad amplificare qualunque sensazione o altro, ma in quel momento, in quella situazione, mi è sembrato che il buon Jack avesse scritto quelle righe apposta per me, per tenermi compagnia in una serata di sberleffi da parte del mondo, a distanza di duecento anni. Sembrava che la dedica del suo capolavoro recitasse: “A Tommaso Nista, chiuso in camera durante l’epidemia da coronavirus 2020, un dolce riempitivo serale. Con affetto, Giacomo”.

“Che razza di coraggio, quale egoismo letterario è mai questo, che sfregio storico, come osi…?!”. Parliamone.

Ho capito l’ermo colle, e anche la siepe, e le sensazioni dietro essi. Ho capito contemporaneamente quanto sia bello e confortante averli e quanto sia necessario andarvi oltre. Ho capito quanto sia piacevole stare a casa, nel proprio nido, circondato da quelle mura, o quelle siepi, scegliete voi, in cui siamo cresciuti, abbiamo inscatolato ricordi ed emozioni, ci sentiamo cullati dalle abitudini. Ma solo finché la permanenza non risulti forzata. L’essere a casa, più che un luogo fisico, è uno stato d’animo, un insieme di percezioni, tra cui, secondo me la più importante, quella di sapere che per quante volte si possa andare via, sempre lì si vorrebbe ritornare. Ma un conto è la volontà, un conto è il rispetto di una regola ferrea. Per quanto possiamo amare il nostro ermo colle, non è salutare costruirsi una vita al suo interno. Il guardo non può solo escludere, deve anche spaurarsi, vivere.

Ho capito lo scorrere del tempo e delle stagioni. Non avevo mai fatto caso al loro incedere, eppure in quei giorni mi è sembrato la cosa più ovvia e naturale del mondo, qualcosa che non ha bisogno che qualcuno ci pensi per assumere il suo significato. Ogni minimo cambiamento atmosferico, ogni stormire del vento tra le piante, ogni banco di nebbia mattutino, diventava un evento in grado di catalizzare la mia attenzione, e distogliermi dalla bolla in cui ero rinchiuso. E ho notato che nessuna stagione può mai definirsi morta. Come nell’Arte, ci sono sempre elementi di transizione. Colori particolari, temperature ballerine, vestiari fuori stagione,...

Soprattutto, ho capito lo straordinario potere dell’immaginazione. I lungometraggi mentali generati dal mio cervello in periodo lockdown hanno raggiunto livelli da Oscar alla carriera, non c’è che dire. Ed è stato piacevole, veramente rilassante abbandonarmi totalmente per qualche tempo alla mia singola fantasia, e darle tempo di svilupparsi, per una volta. Sul serio mi sono reso conto che se perdiamo la capacità fantasiosa che abbiamo da bambini è tutto merito della nostra brama di realtà, di occupazioni, corse contro il tempo e frenesia, dove stare un’ora distesi a fantasticare sembra essere un lusso inutile da aristocrazia intellettuale. Ho visitato interminati spazi, distese erbose sconfinate e mondi grotteschi, dove tu sei il vero protagonista dei tuoi sogni, ed essi divengono la tua realtà. Ho apprezzato come non mai i sovrumani silenzi della casa vuota, o delle notti senza sonno, o delle difficoltà mentali, perché anche la mia di pazienza ha pur sempre un limite. Ho conosciuto la profondissima quiete in tutti i suoi tratti, dalla solitudine alla meditazione, da “Silence” di John Cage alle letture più disparate. Ho visto con i miei occhi quel che dicono ai piani alti del mondo scientifico, ovvero che il cervello non distingue tra sensibile e immaginifico. Altro che finzione, come la chiama il Maestro. E’ vera e propria creazione, in tutto e per tutto. E a volte raggiunge dei picchi di maestria architettonica e letteraria da mettere quasi paura. E quanto numerose, e quanto forti le voci. Ogni cosa sembrava improvvisamente aver rivelato la propria anima. Ogni oggetto pareva in quel momento aver vissuto da sempre alle mie spalle, aver sempre chiacchierato di me e delle mie distrazioni. E’ assolutamente pazzesco quanto, in un momento di silenzio, si possa percepire chiaramente la voce di ogni particella di esistenza.

La cosa immensamente triste, o forse immensamente felice, dipende dalla sensibilità di ognuno, è che probabilmente tutto questo tornerà molto presto a riempire le mie e le nostre giornate, vista la situazione. Questo virus ha decisamente superato il limite, e non c’era bisogno di un nuovo isolamento per capirlo. E’ una bestia violenta e spietata, che oltre che nei caratteri fisici che tutti conosciamo, colpisce in un ambito potenzialmente molto più pericoloso, essendo nascosto alla vista e spesso poco considerato: quello mentale. Paura, angoscia, ansia, e molti altri demoni psicologici sono gli strumenti di cui si serve, per riempire di oscurità un luogo che dovrebbe essere soltanto nostro.

Però, in mezzo al fiume di disturbo che esso ha portato, c’è una cosa che questo periodo può insegnarci a fare, e parlo dopo essere riuscito a farlo in prima persona. Possiamo imparare a liberare il nostro infinito, e sorvolare l‘orizzonte. Perché infinita è la nostra immaginazione, e infinito è il nostro potere di creazione. Ecco cosa può fare una siepe che il guardo esclude, oppure nel nostro caso, cosa possono fare quattro mura. Basta avere il tempo di annegare e di pensare.

E mai naufragar sarà più dolce, in nessun mare.

«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quïete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s'annega il pensier mio:

e il naufragar m'è dolce in questo mare.»

Giacomo leopardi, “L’Infinito”

Tommaso Nista


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