Curdi: il popolo usa e getta

Cos’è la solidarietà tra popoli se di fronte alla guerra il mondo si gira dall’altra parte? Non ha senso parlare di Italia, di Europa, di identità, di dignità della vita, di diritti umani, di giustizia, di bambini, di patrie se quando i nostri vicini chiedono aiuto, rimaniamo in un indifferente silenzio.

“Quando è nato mio figlio, l’abbiamo chiamato Avan. Significa prospero e florido e speravamo che questo nome avrebbe rispecchiato la strada che la sua vita avrebbe intrapreso. Adesso è passato un anno e mi chiedo: com’è stato possibile dargli un nome del genere? Come può una persona avere un briciolo di speranza in mezzo a tutta la devastazione e la distruzione che affliggono il mio paese? Sono un curdo della Siria del nord, e da anni fotografo la guerra. Dal momento che, insieme alle forze statunitensi, abbiamo sconfitto il “califfato” del gruppo Stato islamico (Is) nella regione, avevamo osato sognare che il nostro territorio sarebbe rimasto in pace. Ci sono stati perfino momenti in cui ho effettivamente pensato che esistesse un briciolo di giustizia in questo mondo. […] Scrivo queste parole mentre una brezza fredda mi avvolge le dita e un destino ignoto ci attende, in questa terra dove avrei voluto trascorrere tutta la mia vita con la mia famiglia”

Queste sono le parole di un fotografo, un comune cittadino curdo che sta vedendo crollare

sogni e speranze di una vita a causa di una nuova ondata di violenza che si sta imbattendo su un paese già devastato dalla guerra. Il due novembre in occasione della commemorazione dei defunti molti di noi si sono recati al cimitero per tenere vivo il ricordo delle persone care.

In Siria, come riportato dal fotografo, le persone muoiono consapevoli del fatto che il loro paese verrà raso al suolo e perfino le loro tombe distrutte, come già accaduto ad Afrin, regione occupata dalla Turchia all’inizio dello scorso anno. Di questo passo non ci saranno quindi neppure delle lapidi a testimoniare la presenza curda in quella terra. Cosa sta succedendo? Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha militarizzato il suo paese attraverso campagne che lodano il lavoro delle forze armate e che sono di fatto a favore della guerra, come lo slogan “ogni turco è nato soldato”. Tra le varie offensive c’è quella della città di Afrin, caduta nell’operazione detta “Ramoscello d’ulivo” nel marzo 2018 e quella del 9 ottobre chiamata “Fonte di pace” che a detta del presidente mira ad eliminare un “corridoio terroristico” che minaccia il futuro e l’integrità della Siria. Solo i nomi delle operazioni militari rappresentano ossimori che fanno riflettere sull’assurdità della situazione. Dacia Maraini in un’intervista ha detto che in ciò che sta avvenendo in questi giorni, in queste ore nel Nord della Siria c’è un aggressore e un aggredito e noi abbiamo il dovere di stare dalla parte di quest’ultimo. Dobbiamo ricordare che i curdi hanno difeso la loro terra sconfiggendo Daesh (Isis) e per questo dobbiamo loro parte della nostra sicurezza. Sicuramente le cose non sono lineari come ci stanno facendo credere. Questa è una guerra che dura ormai da oltre otto anni, nella quale sono coinvolti numerosi Paesi, probabilmente dovuta ad interessi economici dei quali non abbiamo la minima idea. Non si può quindi parlare di buoni e cattivi ma non si può nemmeno fingere che non stia accadendo nulla perché al di là degli interessi territoriali o politici ci sono Persone: uomini che quando escono di casa salutano le mogli consapevoli che potrebbero non rivederle più, donne che erano state schiave dell’Isis ma che hanno affrontato faccia a faccia i jihadisti sconfiggendoli e bambini di entrambe le fazioni ai quali è stata negata l’infanzia. Ogni giorno intere famiglie vengono uccise, non possiamo essere complici di un genocidio. Che senso ha parlare di lotta al terrorismo se si abbandona chi la combatte? Chiara Ferrara IVB