La ragione d’esistere delle MAE risiede nell’eccessiva libertà concessa dalla società moderna. Per quanto possa sembrare assurdo, alcune forme di libertà sono nemiche dell’uomo. Non c’è dubbio che l’abrogazione unilaterale della schiavitù o la libertà di poter decidere liberamente, e per amore, con chi condividere la propria vita, siano esempi di conquiste apicali dell’umanità. Ma altre forme di libertà non vanno a vantaggio dell’uomo: poter decidere liberamente quanto o cosa mangiare è fonte di disagio; disporre di molto tempo libero, soprattutto quando non sono presenti obiettivi a lungo termine, può essere stressante.
La libertà a volte conduce all’insoddisfazione. Lo psicologo Daniel Gilbert, studiando il rapporto tra felicità e costrizione, si è reso conto che, paradossalmente, nell’estendere la propria libertà, a volte le persone diminuiscono i livelli di gratificazione.
I suoi esperimenti sono illuminanti. In uno dei più famosi, Daniel e i suoi collaboratori hanno permesso ad alcuni studenti di partecipare a un corso di fotografia. Gli studenti sono stati suddivisi in due gruppi. Alla fine del corso ogni studente sceglieva quelli che riteneva essere i suoi due scatti migliori, a partire dai quali gli organizzatori realizzavano due stampe. Lo studente appartenente al primo gruppo sceglieva quale tra le due stampe portarsi a casa; l’altra veniva archiviata e non sarebbe mai più stata a sua disposizione. Anche per quanto riguarda il secondo gruppo, ogni studente riceveva in regalo la stampa che riteneva esteticamente più valida; tuttavia gli veniva anche detto che, qualora avesse cambiato idea, anche dopo mesi, avrebbe potuto scambiare la stampa scelta con quella archiviata. Ebbene, analizzando gli indici di apprezzamento delle produzioni artistiche è emerso che gli studenti appartenenti al primo gruppo attribuivano mediamente valori più elevati alla propria produzione. Non avendo possibilità di scelta, apprezzavano il proprio risultato. Quelli appartenenti al secondo gruppo, invece, erano meno generosi nel valutare il proprio lavoro: era il dubbio a condizionare il loro giudizio estetico, l’eventualità di aver fatto la scelta sbagliata.
Questi risultati non devono stupire. Se ci pensate, nella vita di tutti i giorni siamo chiamati a operare delle scelte. E quando le opzioni incrementano in numero, aumenta di pari passo il carico cognitivo associato. Vi è mai capitato di entrare in un negozio di vini e trovarvi di fronte a scaffali ospitanti centinaia di bottiglie diverse? Se non siete un esperto come me, siete spiazzati dall’overdose di offerta.
Personalmente, mi coglie lo stesso tipo di sconforto quando entro in una libreria. La disponibilità di titoli è disarmante. Vorrei dare a ogni scrittore presente l’attenzione che il suo impegno meriterebbe, indipendentemente dalla qualità del libro. Percepisco i volumi come un esercito di questuanti che chiedono a voce alta di essere scelti e sfogliati. Il più delle volte acquisto uno o due volumi basandomi su criteri che, credo, siano irrazionali; anche se non vorrei, titolo e copertina esercitano un’attrazione che supera il valore delle parole scritte. A volte l’acquisto è accompagnato da un senso di stupidità per aver investito parte del mio tempo libero annuale in letture casuali.
La verità è che operare una scelta mette alla prova il cervello. La mente, in determinate circostanze, esige confini. L’abbondanza non si confà all’essere umano. E questo è il motivo per cui la maggior parte degli acquisti suggeriti dalle grandi piattaforme di e-commerce vengono puntualmente ascoltati dai clienti.
Qualcosa di simile avviene alle mostre d’arte. Quadri e sculture entrano nell’animo attraverso i sensi. Solitamente le mostre vengono curate in maniera tale da esporre un numero di opere bilanciato rispetto al “serbatoio” di capacità di attenzione dei visitatori o al costo del biglietto d’ingresso.
Tuttavia vi sono casi in cui il visitatore si trova di fronte ad offerte culturali imponenti. Pochi esperti conoscitori della materia artistica sanno esattamente dove dirigere l’attenzione. Ma il visitatore medio si comporta in modo diverso. Solitamente ammira con rigore le prime opere esposte, leggendo le didascalie e interagendo emotivamente con esse. Proseguendo nell’esposizione però l’attenzione si affievolisce. Allora capita che le opere sfilino davanti agli occhi come alberi fuori dal treno. E non di rado, gli ultimi capolavori presentati al termine del percorso, vengano ignorati. Ciò non significa che i curatori sono degli incompetenti che non tengono conto dei fenomeni psicopercettivi. Semplicemente, non sempre la libertà di lasciare vagare gli occhi del fruitore va a vantaggio della fruizione.
Alcuni curatori, consapevoli della loro influenza sulla percezione complessiva della mostra, hanno creato “percorsi obbligati”. In questo sono diventati essi stessi artisti.
Guidare l’osservatore lungo percorsi prestabiliti invece di lasciarlo scorrazzare guidato dalle proprie pulsioni è uno stratagemma che, in ambito commerciale, viene usato massicciamente.
Un esempio banale: perché nei supermercati la frutta è esposta sempre all’inizio del negozio? Il motivo è presto detto: il cliente entra nel negozio carico di buone intenzioni alimentari. La frutta perciò viene posta nel carrello in maniera spontanea. Successivamente seguono gli scaffali di bibite gasate, patatine ed altro junk food, i quali fanno venir meno i buoni propositi. Se la frutta fosse esposta a valle del junk food, pochi avrebbero la forza di volontà di acquistarla.
Il concetto di “percorso espositivo obbligato” è scientificamente applicato dall’Ikea. I negozi della multinazionale sono budelli statici all’interno dei quali il cliente viene bombardato con stimoli sequenziali. Tutto ha un ordine. La mente viene conquistata da scenari famigliari: il cliente non stima semplicemente un mobile, ma entra in “casa d’altri”, vive per pochi minuti in un set cinematografico. E gli oggetti che non hanno un’“anima famigliare” vengono relegati alla fine.
Quelli descritti non sono esattamente artefatti antiedonistici. Se, da una parte, è vero che il cliente si sottopone volontariamente a queste forme di limitazione della libertà (non può muoversi liberamente), dall’altra non è presente alcun beneficio di lungo periodo.