Luigi Faggiani, nato a Genova, ha risieduto ad Agnola in estate negli anni della sua giovinezza. La passione per le montagne lo induce nel '74 a trasferirsi a Trento dove vive attualmente. In questi anni ha esplorato a fondo il Trentino salendo le sue cime e sconfinando nelle regioni limitrofe, visitando valli e castelli, musei etnografici e valli alpine, malghe e laghi. Frutti di queste esperienze sono varie collaborazioni a pubblicazioni locali e la scrittura di guide come Bivacchi del Trentino, Le malghe del Trentino, Le dolomiti di Brenta. Recentemente ha voluto cimentarsi nella narrativa pubblicando 31 Racconti minimi, un volume sempre legato al tema della montagna ma questa volta dal punto di vista personale: dagli incontri (in montagna) con persone, animali, paesaggi, con l'amore, l'autore ci guida al percorso esistenziale compiuto alla ricerca di se stesso. Uno dei racconti è dedicato ad Agnola, qui il cordiale incontro con due amici di famiglia fornisce l'occasione per delucidare i lettori sul "cacin", il piatto della cucina povera fatto nei caratteristici "testi" che è tradizione ancora presente nella vallata e nel nostro borgo in particolare.
Il Cacin - Anni 2000 Appennino Ligure, Castello (La Spezia)
Una volta l'anno, durante le feste natalizie, torno con mia madre a Genova, la città dove sono nato ed ho vissuto per una ventina d'anni. In questo periodo andiamo a passare una giornata nell'entroterra di Sestri Levante, in un piccolo paesino appenninico chiamato Castello, dove, in un altrettanto piccolo cimitero, riposa mio padre. Stiamo un po' di tempo a pulire il marmo, a cambiare i vecchi fiori, a togliere l'erba alta intorno alla tomba; insomma quelle piccole cose inutili che si fanno in queste occasioni. Tutto con una solerzia fin troppo eccessiva, come se ciò rivestisse un'importanza fondamentale per il buon funzionamento dell'universo intero: è solo un modo come un altro di sentirsi vicini nonostante tutto. A me poi serve per far qualcosa e non piangere, cosa che stranamente sembra poco consona per un uomo.
Lasciato mio padre passiamo a salutare un paio di famiglie, alle quali siamo rimasti molto affezionati, trovando sempre ospitalità schietta e festosa. La Maria ed il Bertin un tempo gestivano l'unico bar del paese con, al piano superiore, due sale destinate a ristorante; i clienti venivano da mezza Liguria pur di assaggiare i piatti che l'energica Maria cucinava per /oro nella sua grande e bellissima cucina a legna. Di solito da sola, si muoveva di qua e di là tra pentolini e pentoloni, tra pasta fatta in casa, sughi, arrosti, funghi raccolti nei boschi dei dintorni, uova di galline ruspanti e tanto altro ancora. Penso proprio che l'abbandono della loro attività avrà creato senza dubbio alcuno, molto rimpianto nella loro affezionata clientela. Clientela conquistata non solo dal cibo ma anche dalla cortesia spontanea del Bertin, un omone grande e grosso , con un cuore più grosso di lui. Ricordo sempre il suo affaccendarsi tra i tavoli portando enormi piatti di ravioli o di "parsoti" alla salsa di noci e, quando il piatto era vuoto, eccolo di nuovo pronto a riempirlo finché l'ospite, anche la forchetta più robusta, diceva basta! Così per i secondi, per i contorni e tutto il resto e quando, molti se non tutti, facevano onore alla tavola, spazzolando ben bene i piatti, il suo viso simpatico si apriva in un bel sorriso, soddisfatto e quasi complice. Proprio lui, poveretto, che la Maria si sforza, oggi come allora, di tenere a dieta giacché la mole, purtroppo, incide sulla sua salute.
Lasciato Castello, dopo una manciata di chilometri, arriviamo ad Agnola. Se il primo è un piccolo paese il secondo è minuscolo; soltanto un raccolto ciuffo di case con una chiesetta. Qui siamo accolti dalla simpatia e dagli abbracci di Liliana e dal sorriso di Armando. Quest'ultimo ha il volto segnato dalle rughe della vita dura del contadino, illuminato da due occhi buoni e di un azzurro incredibile. Legati da sincera amicizia con i miei genitori, fin da quando essi si trasferirono in una casa poco distante, Liliana e Armando sono due persone con le quali potrei passare ore e giorni senza mai stancarmi. Il loro modo di fare è così spontaneo ed affabile che non riesco a sentirmi solo un ospite, pur gradito e bene accetto, ma sono "a casa" anzi forse questo stato d'animo è più forte tra queste mura che non nell'appartamento dove risiedo abitualmente. Armando si premura sempre di portare in tavola un fiasco del suo vino, ogni volta scusandosi perchè, come dice lui, è un vinello fatto in casa. Un vinello appena colorato a volte un po' torbido, asprigno e poco alcolico, è versato in un bicchiere da cucina, quelli, tanto per capirci, usati tutti i giorni.
Ricordo allora un castello in Alto Adige, una cantina antica, nobilitata da bellissime botti di rovere, bordate di rosso e con intagliati stemmi contornati da grappoli; uno Chardonnay ideale dal colore paglierino con riflessi verdognoli, un profumo delicato e fruttato, un sapore asciutto sapido e pieno, una gradazione di 11 gradi, servito ad una temperatura di 8-10 gradi in un calice di cristallo a tulipano slanciato; il padrone di casa è perfetto nella mescita e nelle spiegazioni tecniche, con giusto orgoglio, accompagna gli ospiti nella visita alla magione.
Però come si sta bene in questa luminosa cucina di Agnola con la stufa a legna che spande calore e profumo, un gatto che fa la sua rapida comparsa, però buono questo vinello di Armando! In quel "bicchiere di tutti i giorni" c'è più calore che in qualsiasi bottiglia di vino superlativo ed ottimo.
In questa casa ho avuto la fortuna di assorbire un po' di cultura, quella che a me interessa di più. Non "La Cultura Alta" ma quella indispensabile del falegname che sa eseguire un perfetto incastro, del contadino che sa usare stagioni ed attrezzi, del fabbro che sa piegare il metallo più duro, della massaia che deve sfamare la famiglia. In questa casa ho scoperto il "Cacin": un piatto antico della tradizione e della povertà; anche se a molti può sembrare una stupidaggine, anche questa è cultura. Cultura antica, vissuta, cultura sofferta, infine imposta dai tempi e dai luoghi, quindi da non dimenticare.
L'Appennino ligure è sempre stato ricco... di terra avara e povera; un tempo il castagno era la pianta principe di questi luoghi. La castagna rappresentava la base di un'alimentazione che non conosceva colesterolo o trigliceridi, semplicemente perchè certi cibi, oggi sempre disponibili, erano allora un lusso per pochi. Ma torniamo al nostro Cacin!
Le grandi foglie dell'albero vengono raccolte e messe in bell'ordine a seccare, poi verranno conservate impilate in mazzi pronti per la bisogna. Il prezioso dono del gran vegetale, le castagne, è consumato sotto forma di caldarrosta, oppure di marmellata (avete mai assaggiato un cucchiaino di marmellata di castagne? Nooo, poveri tapini mi dispiace per voi), ed ancora, allora come oggi, con esse si prepara la farina, (Armando dice sempre che non si riesce più a trovare farina fatta come si deve!).
Oltre alle foglie dell'albero ed alla farina di castagne per fare il cacin serve un po' di latte oppure acqua, sale ed alcuni attrezzi fondamentali di cui il più importante è "il testo". Il testo non è un libro sacro, bensì la traduzione italiana del dialettale "u testu": si tratta di un rustico disco di materiale refrattario, leggermente concavo e con un basso bordo che assolve il compito fondamentale della cottura.
Cercherò di spiegarmi meglio. Prima di tutto serve una stufa in cui bruciare buona legna ben secca. Aspettando il giusto calore si prepara una pastella abbastanza densa fatta con farina di castagne, latte, oppure acqua, ed il sale. Si prendono i cosiddetti testi e si mettono nella stufa direttamente tra le fiamme, quando hanno accumulato il calore in quantità sufficiente sono tirati fuori una alla volta. Sul primo viene steso uno strato di foglie di castagno così da ricoprirne per intero la superficie, quindi si versa la pastella di farina di castagne che viene coperta con un altro strato di foglie. Si estrae il secondo testo posandolo direttamente sulle foglie e si ricomincia di nuovo lo strato; così di seguito fino ad ottenere una curiosa pila di questi rozzi piatti dalla quale fanno capolino le foglie di castagno. Il calore sviluppato da ogni testo basta a cuocere lo strato di farina tra le foglie, mentre queste ultime evitano che il Cacin bruci per contatto diretto. A cottura ultimata si procede in senso inverso, togliendo un testo alla volta, recuperando man mano il Cacin che ormai ha assunto la sua forma definitiva: una rotonda, scura e bassa focaccina di farina di castagne. Prima di mangiarla occorre però liberare il Cacin dalle foglie ormai semi bruciate; basta strofinare con un coltello od un panno ruvido e vengono via a pezzetti.
Un tempo il contadino usava queste focacce come pane e, purtroppo spesso e malvolentieri, anche come companatico. Oggi, nelle poche famiglie che ancora usano questo piatto, sono consumate come una piadina con del formaggio (stracchino o meglio ancora del buon gorgonzola), oppure con degli affettati, in confronto ad un tempo un vero mangiare da Re!
Da Luigi Faggiani, Racconti minimi. Ricordi e riflessioni di un Ligure vocato alla Montagna, 2003, Trento, Eured