UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAMERINO
Corso di formazione manageriale
per direttori di struttura complessa del SSN
ANNO ACCADEMICO 2018-2019
Diritto costituzionale – Prof. Paolo Bianchi(Unicam)
13 aprile 2019
Trattamenti sanitari obbligatori e danno
Corte cost., sent. n. 307/90 Indennizzo per danni conseguenti a vaccinazione obbligatoria
La vaccinazione antipoliomielitica per bambini entro il primo anno di vita, come regolata dalla norma denunciata, che ne fa obbligo ai genitori, ai tutori o agli affidatari, comminando agli obbligati l'ammenda per il caso di inosservanza, costituisce uno di quei trattamenti sanitari obbligatori cui fa riferimento l'art. 32 della Costituzione.
Tale precetto nel primo comma definisce la salute come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività"; nel secondo comma, sottopone i detti trattamenti a riserva di legge e fa salvi, anche rispetto alla legge, i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Da ciò si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.
Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili.
Con riferimento, invece, all'ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri. Un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute - e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell'imposizione del trattamento sanitario - implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l'essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito.
E parimenti deve ritenersi per il danno - da malattia trasmessa per contagio dalla persona sottoposta al trattamento sanitario obbligatorio o comunque a questo ricollegabile - riportato dalle persone che abbiano prestato assistenza personale diretta alla prima in ragione della sua non autosufficienza fisica (persone anche esse coinvolte nel trattamento obbligatorio che, sotto il profilo obbiettivo, va considerato unitariamente in tutte le sue fasi e in tutte le sue conseguenze immediate).
Se così è, la imposizione legislativa dell'obbligo del trattamento sanitario in discorso va dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto non prevede un'indennità come quella suindicata.
3. - La dichiarazione di illegittimità, ovviamente, non concerne l'ipotesi che il danno ulteriore sia imputabile a comportamenti colposi attinenti alle concrete misure di attuazione della norma suindicata o addirittura alla materiale esecuzione del trattamento stesso. La norma di legge che prevede il trattamento non va incontro, cioè, a pronuncia di illegittimità costituzionale per la mancata previsione della tutela risarcitoria in riferimento al danno ulteriore che risulti iniuria datum. Soccorre in tal caso nel sistema la disciplina generale in tema di responsabilità civile di cui all'art. 2043 c.c.
La giurisprudenza di questa Corte è infatti fermissima nel ritenere che ogni menomazione della salute, definita espressamente come (contenuto di un) diritto fondamentale dell'uomo, implichi la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. Ed ha chiarito come tale tutela prescinda dalla ricorrenza di un danno patrimoniale quando, come nel caso, la lesione incida sul contenuto di un diritto fondamentale (sentt. nn. 88 del 1979 e 184 del 1986).
È appena il caso di notare, poi, che il suindicato rimedio risarcitorio trova applicazione tutte le volte che le concrete forme di attuazione della legge impositiva di un trattamento sanitario o di esecuzione materiale del detto trattamento non siano accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l'arte prescrivono in relazione alla sua natura. E fra queste va ricompresa la comunicazione alla persona che vi è assoggettata, o alle persone che sono tenute a prendere decisioni per essa e/o ad assisterla, di adeguate notizie circa i rischi di lesione (o, trattandosi di trattamenti antiepidemiologici, di contagio), nonché delle particolari precauzioni, che, sempre allo stato delle conoscenze scientifiche, siano rispettivamente verificabili e adottabili.
Ma la responsabilità civile opera sul piano della tutela della salute di ciascuno contro l'illecito (da parte di chicchessia) sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con gli effetti risarcitori pieni previsti dal detto art. 2043 c.c.
Con la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, invece, si introduce un rimedio destinato a operare relativamente al danno riconducibile sotto l'aspetto oggettivo al trattamento sanitario obbligatorio e nei limiti di una liquidazione equitativa che pur tenga conto di tutte le componenti del danno stesso. Rimedio giustificato - ripetesi - dal corretto bilanciamento dei valori chiamati in causa dall'art. 32 della Costituzione in relazione alle stesse ragioni di solidarietà nei rapporti fra ciascuno e la collettività, che legittimano l'imposizione del trattamento sanitario.
Trattamenti sanitari consigliatie danno
Corte cost., sent. n. 107/12
In tema di vaccinazioni obbligatorie o raccomandate, e di diritto all’indennizzo per danni alla salute a seguito del trattamento praticato, questa Corte ha avuto modo di affermare, sin dalla sentenza n. 307 del 1990 − pronunciata in materia di vaccinazione antipoliomielitica per i bambini entro il primo anno di vita, all’epoca prevista come obbligatoria − che «la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale».
Ma se «il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività» − si soggiunse − esige che, «in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico», tuttavia esso «non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri». Ne deriva che «un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute − e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell’imposizione del trattamento sanitario − implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l’essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito».
La richiamata pronuncia costituì, come è noto, la base su cui venne, poco dopo, approvata la legge n. 210 del 1992 (si veda la relazione al progetto di legge n. 4964 presentato alla Camera dei deputati il 12 luglio 1990 e confluito, assieme ad altre iniziative parlamentari, nei lavori preparatori della legge in esame), risultando poi progressivamente acquisita − sul fermo presupposto che, in ogni caso, la vaccinazione non sia «configurabile quale trattamento coattivo» (sentenza n. 132 del 1992) − non solo la stretta correlazione, nella «disciplina costituzionale della salute», tra diritto fondamentale dell’individuo (lato «individuale e soggettivo») e interesse della intera collettività (lato «sociale e oggettivo») (sentenza n. 118 del 1996); quanto, soprattutto, la necessità che, ove i valori in questione vengano a trovarsi in frizione, l’assunzione dei rischi, relativi a un trattamento “sacrificante” della libertà individuale, venga ricondotta ad una dimensione di tipo solidaristico.
Ponendosi, inoltre, nella prospettiva di individuare la ratio della provvidenza indennitaria in ogni situazione in cui il singolo abbia esposto a rischio la propria salute per la tutela di un interesse collettivo, si è in seguito affermato che dagli artt. 2 e 32 Cost. deriva l’obbligo, simmetricamente configurato in capo alla stessa collettività, «di condividere, come è possibile, il peso delle eventuali conseguenze negative» (sentenza n. 27 del 1998). Se ne è fatto conseguire che non vi è, dunque, ragione di differenziare il caso in cui «il trattamento sanitario sia imposto per legge» da quello «in cui esso sia, in base a una legge, promosso dalla pubblica autorità in vista della sua diffusione capillare nella società; il caso in cui si annulla la libera determinazione individuale attraverso la comminazione di una sanzione, da quello in cui si fa appello alla collaborazione dei singoli a un programma di politica sanitaria». «Una differenziazione − si è precisato − che negasse il diritto all’indennizzo in questo secondo caso si risolverebbe in una patente irrazionalità della legge. Essa riserverebbe infatti a coloro che sono stati indotti a tenere un comportamento di utilità generale per ragioni di solidarietà sociale un trattamento deteriore rispetto a quello che vale a favore di quanti hanno agito in forza di minaccia di sanzione» (sentenza n. 27 del 1998).
Ne è, in sintesi, derivato che «la ragione determinante del diritto all’indennizzo» è «l’interesse collettivo alla salute» e non «l’obbligatorietà in quanto tale del trattamento, la quale è semplicemente strumento per il perseguimento di tale interesse»; e che lo stesso interesse è fondamento dell’obbligo generale di solidarietà nei confronti di quanti, sottoponendosi al trattamento, vengano a soffrire di un pregiudizio (sentenze n. 226 e n. 423 del 2000).
4.— Su queste basi, si può osservare, più in dettaglio, che, se nella profilassi delle malattie infettive appaiono decisive le attività di prevenzione, dirette a scongiurare e a contenere il pericolo del contagio, è in ogni caso decisivo il rilievo assunto dalle campagne di sensibilizzazione da parte delle competenti autorità pubbliche allo scopo di raggiungere e rendere partecipe la più ampia fascia di popolazione. In questa prospettiva − nella quale è perfino difficile delimitare con esattezza uno spazio “pubblico” di valutazioni e di deliberazioni (come imputabili a un soggetto collettivo) rispetto a uno “privato” di scelte (come invece imputabili a semplici individui) − i diversi attori finiscono per realizzare un interesse obiettivo − quello della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia − indipendentemente da una loro specifica volontà di collaborare: e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito.
In presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore della pratica di vaccinazioni è, infatti, naturale che si sviluppi un generale clima di “affidamento” nei confronti proprio di quanto “raccomandato”: ciò che rende la scelta adesiva dei singoli, al di là delle loro particolari e specifiche motivazioni, di per sé obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo.
Corrispondentemente a questa sorta di cooperazione involontaria nella cura di un interesse obiettivamente comune, ossia autenticamente pubblico, apparirà naturale reputare che tra collettività e individui si stabiliscano vincoli propriamente solidali, nel senso − soprattutto − che le vicende delle singole persone non possano che essere riguardate anche sotto una prospettiva “integrale”, vale a dire riferita all’intera comunità: con la conseguenza, tra le altre, che, al verificarsi di eventi avversi e di complicanze di tipo permanente a causa di vaccinazioni effettuate nei limiti e secondo le forme di cui alle previste procedure, debba essere, per l’appunto, la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio individuale piuttosto che non i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio collettivo.
Sul piano dei valori garantiti, in Costituzione, dall’art. 2, nonché dall’art. 32, lo sfumare, in altri termini, del rilievo delle motivazioni strettamente soggettive (che possano aver indotto verso le scelte imposte o auspicate dall’amministrazione sanitaria) giustifica la traslazione in capo alla collettività (anch’essa obiettivamente favorita da quelle scelte) degli effetti dannosi eventualmente conseguenti.
In un contesto di irrinunciabile solidarietà, del resto, la misura indennitaria appare per se stessa destinata non tanto, come quella risarcitoria, a riparare un danno ingiusto, quanto piuttosto a compensare il sacrificio individuale ritenuto corrispondente a un vantaggio collettivo: sarebbe, infatti, irragionevole che la collettività possa, tramite gli organi competenti, imporre o anche solo sollecitare comportamenti diretti alla protezione della salute pubblica senza che essa poi non debba reciprocamente rispondere delle conseguenze pregiudizievoli per la salute di coloro che si sono uniformati.
In un quadro di riferimento quale quello accennato, è agevole avvedersi di come la pratica della vaccinazione contro morbillo-parotite-rosolia abbia formato oggetto, da più di un decennio, di insistite ed ampie campagne, anche straordinarie, di informazione e raccomandazione da parte delle pubbliche autorità sanitarie, nelle loro massime istanze (con distribuzione di materiale informativo specifico sia tra gli operatori sanitari sia presso la popolazione); al punto che, nel sito informatico ufficiale dello stesso Ministero della salute, tra le «vaccinazioni raccomandate», compare tuttora quella in questione, in linea con le determinazioni di cui già al decreto ministeriale 7 aprile 1999 (Nuovo calendario delle vaccinazioni obbligatorie e raccomandate per l’età evolutiva), alla circolare n. 12 del 13 luglio 1999 (Controllo ed eliminazione di morbillo, parotite e rosolia attraverso la vaccinazione), al Piano nazionale per l’eliminazione del morbillo e della rosolia congenita (approvato, per il periodo 2003-2007, dalla Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 13 novembre 2003 e ora, per il periodo 2010-2015, con Intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2011) nonché al Piano nazionale vaccini (aggiornamento 2005). La ricognizione operata, sul punto, dallo stesso giudice rimettente deve ritenersi pertanto esaustiva ai fini della dimostrazione dell’assunto secondo il quale la pratica in questione, pur non essendo obbligatoria ex lege, si inserisce in quel filone di protocolli sanitari per i quali l’opera di sensibilizzazione, informazione e convincimento delle pubbliche autorità − in linea, peraltro, con i «progetti di informazione» previsti all’art. 7 della stessa legge n. 210 del 1992 e affidati alle unità sanitarie locali «ai fini della prevenzione delle complicanze causate da vaccinazioni» e comunque allo scopo di «assicurare una corretta informazione sull’uso di vaccini» − viene reputata più adeguata e rispondente alle finalità di tutela della salute pubblica rispetto alla vaccinazione obbligatoria.
il costo del diritto – problemi legati al bilanciamento tra diritto e esigenze finanziarie
1. l’autorizzazione al rimborso per la prestazione sanitaria
Sent. n. 509/00 – illegittimo imporre la previa autorizzazione ai fini del rimborso in caso d’urgenza della prestazione
La previsione legislativa di un sistema autorizzatorio per l'accesso alle forme di assistenza indiretta tende a realizzare, nell’attuale quadro normativo, un adeguato contemperamento tra la necessità, da un lato, di assicurare una tutela piena ed effettiva del diritto alla salute nei casi in cui le strutture sanitarie preposte all'assistenza diretta non siano in grado di erogare le cure indispensabili e, dall'altro lato, le esigenze organizzative e finanziarie che sono alla base della natura eccezionale del regime dell'assistenza indiretta. Ma questo stesso sistema appare incongruo e lesivo del diritto alla salute in tutte le ipotesi -come quelle in esame- in cui l'assolutezza della previsione del carattere preventivo del provvedimento autorizzatorio, che non ammette comunque deroghe, determina "un vuoto di tutela proprio nei casi nei quali la gravità delle condizioni dell'assistito non consente di adempiere a tale modalità temporale di espletamento della domanda di autorizzazione, senza peraltro che la soluzione legislativamente prescritta appaia imposta da ragioni plausibili" (sentenza n. 267 del 1998).
Pertanto, anche in riferimento alle norme regionali denunciate, la soluzione costituzionalmente corretta appare quella -già indicata nella citata decisione n. 267 del 1998- che permette il differimento del controllo sui presupposti essenziali, che condizionano il rimborso, ad un tempo successivo alla fruizione della prestazione sanitaria, qualora comprovate ragioni di gravità ed urgenza, che rendono indispensabile la prestazione stessa, non abbiano permesso di chiedere ed ottenere l'autorizzazione in data anteriore.
Entrambe le norme regionali censurate debbono quindi essere dichiarate costituzionalmente illegittime nelle rispettive parti in cui non prevedono, in casi di dimostrata gravità ed urgenza, il concorso nelle spese per le prestazioni in esame, limitatamente a quelle per le quali non sia stato possibile richiedere ed ottenere l'autorizzazione preventiva, ferme restando tutte le altre condizioni stabilite per il rimborso.
LEGGE 8 marzo 2017, n. 24
Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonche' in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.
Vigente al: 10-4-2019
Art. 1
Sicurezza delle cure in sanità
1. La sicurezza delle cure e' parte costitutiva del diritto alla salute ed e' perseguita nell'interesse dell'individuo e della collettivita'.
2. La sicurezza delle cure si realizza anche mediante l'insieme di tutte le attivita' finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all'erogazione di prestazioni sanitarie e l'utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative.
3. Alle attivita' di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, e' tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale.
Art. 2
Attribuzione della funzione di garante per il diritto alla salute al
Difensore civico regionale o provinciale e istituzione dei Centri
regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del
paziente.
1. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono
affidare all'ufficio del Difensore civico la funzione di garante per
il diritto alla salute e disciplinarne la struttura organizzativa e
il supporto tecnico.
2. Il Difensore civico, nella sua funzione di garante per il
diritto alla salute, puo' essere adito gratuitamente da ciascun
soggetto destinatario di prestazioni sanitarie, direttamente o
mediante un proprio delegato, per la segnalazione di disfunzioni del
sistema dell'assistenza sanitaria e sociosanitaria.
3. Il Difensore civico acquisisce, anche digitalmente, gli atti
relativi alla segnalazione pervenuta e, qualora abbia verificato la
fondatezza della segnalazione, interviene a tutela del diritto leso
con i poteri e le modalita' stabiliti dalla legislazione regionale.
4. In ogni regione e' istituito, con le risorse umane, strumentali
e finanziarie disponibili a legislazione vigente e comunque senza
nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, il Centro per
la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, che
raccoglie dalle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e
private i dati regionali sui rischi ed eventi avversi e sul
contenzioso e li trasmette annualmente, mediante procedura telematica
unificata a livello nazionale, all'Osservatorio nazionale delle buone
pratiche sulla sicurezza nella sanita', di cui all'articolo 3.
5. All'articolo 1, comma 539, della legge 28 dicembre 2015, n. 208,
e' aggiunta, in fine, la seguente lettera:
«d-bis) predisposizione di una relazione annuale consuntiva sugli
eventi avversi verificatisi all'interno della struttura, sulle cause
che hanno prodotto l'evento avverso e sulle conseguenti iniziative
messe in atto. Detta relazione e' pubblicata nel sito internet della
struttura sanitaria».
Art. 3
Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanita'
1. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, con decreto del Ministro della salute, previa intesa in sede
di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano, e' istituito, senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica, presso l'Agenzia nazionale
per i servizi sanitari regionali (AGENAS), l'Osservatorio nazionale
delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanita', di seguito
denominato «Osservatorio».
2. L'Osservatorio acquisisce dai Centri per la gestione del rischio
sanitario e la sicurezza del paziente, di cui all'articolo 2, i dati
regionali relativi ai rischi ed eventi avversi nonche' alle cause,
all'entita', alla frequenza e all'onere finanziario del contenzioso
e, anche mediante la predisposizione, con l'ausilio delle societa'
scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle
professioni sanitarie di cui all'articolo 5, di linee di indirizzo,
individua idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio
sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza
delle cure nonche' per la formazione e l'aggiornamento del personale
esercente le professioni sanitarie.
3. Il Ministro della salute trasmette annualmente alle Camere una
relazione sull'attivita' svolta dall'Osservatorio.
4. L'Osservatorio, nell'esercizio delle sue funzioni, si avvale
anche del Sistema informativo per il monitoraggio degli errori in
sanita' (SIMES), istituito con decreto del Ministro del lavoro, della
salute e delle politiche sociali 11 dicembre 2009, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 8 del 12 gennaio 2010.
Art. 4
Trasparenza dei dati
1. Le prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e
private sono soggette all'obbligo di trasparenza, nel rispetto del
codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
2. La direzione sanitaria della struttura pubblica o privata, entro
sette giorni dalla presentazione della richiesta da parte degli
interessati aventi diritto, in conformita' alla disciplina
sull'accesso ai documenti amministrativi e a quanto previsto dal
codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, fornisce la documentazione
sanitaria disponibile relativa al paziente, preferibilmente in
formato elettronico; le eventuali integrazioni sono fornite, in ogni
caso, entro il termine massimo di trenta giorni dalla presentazione
della suddetta richiesta. Entro novanta giorni dalla data di entrata
in vigore della presente legge, le strutture sanitarie pubbliche e
private adeguano i regolamenti interni adottati in attuazione della
legge 7 agosto 1990, n. 241, alle disposizioni del presente comma.
3. Le strutture sanitarie pubbliche e private rendono disponibili,
mediante pubblicazione nel proprio sito internet, i dati relativi a
tutti i risarcimenti erogati nell'ultimo quinquennio, verificati
nell'ambito dell'esercizio della funzione di monitoraggio,
prevenzione e gestione del rischio sanitario (risk management) di cui
all'articolo 1, comma 539, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, come
modificato dagli articoli 2 e 16 della presente legge.
4. All'articolo 37 del regolamento di polizia mortuaria, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1990, n. 285,
dopo il comma 2 e' inserito il seguente:
«2-bis. I familiari o gli altri aventi titolo del deceduto possono
concordare con il direttore sanitario o sociosanitario l'esecuzione
del riscontro diagnostico, sia nel caso di decesso ospedaliero che in
altro luogo, e possono disporre la presenza di un medico di loro
fiducia».
Art. 5
Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida
1. Gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle
prestazioni sanitarie con finalita' preventive, diagnostiche,
terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si
attengono, salve le specificita' del caso concreto, alle
raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del
comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonche'
dalle societa' scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche
delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e
regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro
novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge,
e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette
raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono
alle buone pratiche clinico-assistenziali.
2. Nel regolamentare l'iscrizione in apposito elenco delle societa'
scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche di cui al
comma 1, il decreto del Ministro della salute stabilisce:
a) i requisiti minimi di rappresentativita' sul territorio
nazionale;
b) la costituzione mediante atto pubblico e le garanzie da
prevedere nello statuto in riferimento al libero accesso dei
professionisti aventi titolo e alla loro partecipazione alle
decisioni, all'autonomia e all'indipendenza, all'assenza di scopo di
lucro, alla pubblicazione nel sito istituzionale dei bilanci
preventivi, dei consuntivi e degli incarichi retribuiti, alla
dichiarazione e regolazione dei conflitti di interesse e
all'individuazione di sistemi di verifica e controllo della qualita'
della produzione tecnico-scientifica;
c) le procedure di iscrizione all'elenco nonche' le verifiche sul
mantenimento dei requisiti e le modalita' di sospensione o
cancellazione dallo stesso.
3. Le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai
soggetti di cui al comma 1 sono integrati nel Sistema nazionale per
le linee guida (SNLG), il quale e' disciplinato nei compiti e nelle
funzioni con decreto del Ministro della salute, da emanare, previa
intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato,
le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, ((...))
entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge. L'Istituto superiore di sanita' pubblica nel proprio
sito internet le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse
indicati dal SNLG, previa verifica della conformita' della
metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso
Istituto, nonche' della rilevanza delle evidenze scientifiche
dichiarate a supporto delle raccomandazioni.
4. Le attivita' di cui al comma 3 sono svolte nell'ambito delle
risorse umane, finanziarie e strumentali gia' disponibili a
legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica.
Art. 6
Responsabilita' penale dell'esercente la professione sanitaria
1. Dopo l'articolo 590-quinquies del codice penale e' inserito il
seguente:
«Art. 590-sexies (Responsabilita' colposa per morte o lesioni
personali in ambito sanitario). - Se i fatti di cui agli articoli 589
e 590 sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si
applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo
comma.
Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la
punibilita' e' esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni
previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di
legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche
clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle
predette linee guida risultino adeguate alle specificita' del caso
concreto».
2. All'articolo 3 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158,
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189,
il comma 1 e' abrogato.
Art. 7
Responsabilita' civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria
1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che,
nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di
esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e
ancorche' non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi
degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte
dolose o colpose.
2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle
prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione
intramuraria ovvero nell'ambito di attivita' di sperimentazione e di
ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio
sanitario nazionale nonche' attraverso la telemedicina.
3. L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2
risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice
civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione
contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella
determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta
dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5
della presente legge e dell'articolo 590-sexies del codice penale,
introdotto dall'articolo 6 della presente legge.
4. Il danno conseguente all'attivita' della struttura sanitaria o
sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione
sanitaria e' risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli
138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto
legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con
la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base
dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle
fattispecie da esse non previste, afferenti alle attivita' di cui al
presente articolo.
5. Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme
imperative ai sensi del codice civile.
Art. 8
Tentativo obbligatorio di conciliazione
1. Chi intende esercitare un'azione innanzi al giudice civile
relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da
responsabilita' sanitaria e' tenuto preliminarmente a proporre
ricorso ai sensi dell'articolo 696-bis del codice di procedura civile
dinanzi al giudice competente.
2. La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce
condizione di procedibilita' della domanda di risarcimento. E' fatta
salva la possibilita' di esperire in alternativa il procedimento di
mediazione ai sensi dell'articolo 5, comma 1-bis, del decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28. In tali casi non trova invece
applicazione l'articolo 3 del decreto-legge 12 settembre 2014, n.
132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n.
162. L'improcedibilita' deve essere eccepita dal convenuto, a pena di
decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima
udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui
all'articolo 696-bis del codice di procedura civile non e' stato
espletato ovvero che e' iniziato ma non si e' concluso, assegna alle
parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a
se' dell'istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di
completamento del procedimento.
3. Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si
concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del
ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda
sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o
dalla scadenza del termine perentorio, e' depositato, presso il
giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso
di cui all'articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal
caso il giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti; si
applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura
civile.
4. La partecipazione al procedimento di consulenza tecnica
preventiva di cui al presente articolo, effettuato secondo il
disposto dell'articolo 15 della presente legge, e' obbligatoria per
tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui
all'articolo 10, che hanno l'obbligo di formulare l'offerta di
risarcimento del danno ovvero comunicare i motivi per cui ritengono
di non formularla. In caso di sentenza a favore del danneggiato,
quando l'impresa di assicurazione non ha formulato l'offerta di
risarcimento nell'ambito del procedimento di consulenza tecnica
preventiva di cui ai commi precedenti, il giudice trasmette copia
della sentenza all'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni
(IVASS) per gli adempimenti di propria competenza. In caso di mancata
partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il
giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento
delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall'esito del
giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata
equitativamente, in favore della parte che e' comparsa alla
conciliazione.
Art. 9
Azione di rivalsa o di responsabilita' amministrativa
1. L'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione
sanitaria puo' essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave.
2. Se l'esercente la professione sanitaria non e' stato parte del
giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno,
l'azione di rivalsa nei suoi confronti puo' essere esercitata
soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di
titolo giudiziale o stragiudiziale ed e' esercitata, a pena di
decadenza, entro un anno dall'avvenuto pagamento.
3. La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la
struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l'impresa di
assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la
professione sanitaria non e' stato parte del giudizio.
4. In nessun caso la transazione e' opponibile all'esercente la
professione sanitaria nel giudizio di rivalsa.
5. In caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta
dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o
sociosanitaria pubblica, ai sensi dei commi 1 e 2 dell'articolo 7, o
dell'esercente la professione sanitaria, ai sensi del comma 3 del
medesimo articolo 7, l'azione di responsabilita' amministrativa, per
dolo o colpa grave, nei confronti dell'esercente la professione
sanitaria e' esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei
conti. Ai fini della quantificazione del danno, fermo restando quanto
previsto dall'articolo 1, comma 1-bis, della legge 14 gennaio 1994,
n. 20, e dall'articolo 52, secondo comma, del testo unico di cui al
regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, si tiene conto delle
situazioni di fatto di particolare difficolta', anche di natura
organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica,
in cui l'esercente la professione sanitaria ha operato. L'importo
della condanna per la responsabilita' amministrativa e della
surrogazione di cui all'articolo 1916, primo comma, del codice
civile, per singolo evento, in caso di colpa grave, non puo' superare
una somma ((pari al triplo del valore maggiore della retribuzione
lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di
inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente
precedente o successivo)). Per i tre anni successivi al passaggio in
giudicato della decisione di accoglimento della domanda di
risarcimento proposta dal danneggiato, l'esercente la professione
sanitaria, nell'ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie
pubbliche, non puo' essere preposto ad incarichi professionali
superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce
oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici
concorsi per incarichi superiori.
6. In caso di accoglimento della domanda proposta dal danneggiato
nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata o
nei confronti dell'impresa di assicurazione titolare di polizza con
la medesima struttura, la misura della rivalsa e quella della
surrogazione richiesta dall'impresa di assicurazione, ai sensi
dell'articolo 1916, primo comma, del codice civile, per singolo
evento, in caso di colpa grave, non possono superare una somma ((pari
al triplo del valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa
la retribuzione lorda, conseguito nell'anno di inizio della condotta
causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o
successivo)). Il limite alla misura della rivalsa, di cui al periodo
precedente, non si applica nei confronti degli esercenti la
professione sanitaria di cui all'articolo 10, comma 2.
7. Nel giudizio di rivalsa e in quello di responsabilita'
amministrativa il giudice puo' desumere argomenti di prova dalle
prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti
della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell'impresa di
assicurazione se l'esercente la professione sanitaria ne e' stato
parte.
Art. 10
Obbligo di assicurazione
1. Le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private
devono essere provviste di copertura assicurativa o di altre analoghe
misure per la responsabilita' civile verso terzi e per la
responsabilita' civile verso prestatori d'opera, ai sensi
dell'articolo 27, comma 1-bis, del decreto-legge 24 giugno 2014, n.
90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n.
114, anche per danni cagionati dal personale a qualunque titolo
operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e
private, compresi coloro che svolgono attivita' di formazione,
aggiornamento nonche' di sperimentazione e di ricerca clinica. La
disposizione del primo periodo si applica anche alle prestazioni
sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero
in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonche'
attraverso la telemedicina. Le strutture di cui al primo periodo
stipulano, altresi', polizze assicurative o adottano altre analoghe
misure per la copertura della responsabilita' civile verso terzi
degli esercenti le professioni sanitarie anche ai sensi e per gli
effetti delle disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 7, fermo
restando quanto previsto dall'articolo 9. Le disposizioni di cui al
periodo precedente non si applicano in relazione agli esercenti la
professione sanitaria di cui al comma 2.
2. Per l'esercente la professione sanitaria che svolga la propria
attivita' al di fuori di una delle strutture di cui al comma 1 del
presente articolo o che presti la sua opera all'interno della stessa
in regime libero-professionale ovvero che si avvalga della stessa
nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con
il paziente ai sensi dell'articolo 7, comma 3, resta fermo l'obbligo
di cui all'articolo 3, comma 5, lettera e), del decreto-legge 13
agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14
settembre 2011, n. 148, all'articolo 5 del regolamento di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 2012, n. 137, e
all'articolo 3, comma 2, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158,
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189.
3. Al fine di garantire efficacia alle azioni di cui all'articolo 9
e all'articolo 12, comma 3, ciascun esercente la professione
sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o
sociosanitarie pubbliche o private provvede alla stipula, con oneri a
proprio carico, di un'adeguata polizza di assicurazione per colpa
grave.
4. Le strutture di cui al comma 1 rendono nota, mediante
pubblicazione nel proprio sito internet, la denominazione
dell'impresa che presta la copertura assicurativa della
responsabilita' civile verso i terzi e verso i prestatori d'opera di
cui al comma 1, indicando per esteso i contratti, le clausole
assicurative ovvero le altre analoghe misure che determinano la
copertura assicurativa.
5. Con decreto da emanare entro novanta giorni dalla data di
entrata in vigore della presente legge, il Ministro dello sviluppo
economico, di concerto con il Ministro della salute, definisce i
criteri e le modalita' per lo svolgimento delle funzioni di vigilanza
e controllo esercitate dall'IVASS sulle imprese di assicurazione che
intendano stipulare polizze con le strutture di cui al comma 1 e con
gli esercenti la professione sanitaria.
6. Con decreto del Ministro dello sviluppo economico, da emanare
entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, di concerto con il Ministro della salute e con il
Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano, sentiti l'IVASS,
l'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA), le
Associazioni nazionali rappresentative delle strutture private che
erogano prestazioni sanitarie e sociosanitarie, la Federazione
nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, le
Federazioni nazionali degli ordini e dei collegi delle professioni
sanitarie e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative
delle categorie professionali interessate, nonche' le associazioni di
tutela dei cittadini e dei pazienti, sono determinati i requisiti
minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e
sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni
sanitarie, prevedendo l'individuazione di classi di rischio a cui far
corrispondere massimali differenziati. Il medesimo decreto stabilisce
i requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di
operativita' delle altre analoghe misure, anche di assunzione diretta
del rischio, richiamate dal comma 1; disciplina altresi' le regole
per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di
un'impresa di assicurazione nonche' la previsione nel bilancio delle
strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a
riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri
denunciati. A tali fondi si applicano le disposizioni di cui
all'articolo 1, commi 5 e 5-bis, del decreto-legge 18 gennaio 1993,
n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993, n.
67.
7. Con decreto del Ministro dello sviluppo economico da emanare, di
concerto con il Ministro della salute e sentito l'IVASS, entro
centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente
legge, sono individuati i dati relativi alle polizze di assicurazione
stipulate ai sensi dei commi 1 e 2, e alle altre analoghe misure
adottate ai sensi dei commi 1 e 6 e sono stabiliti, altresi', le
modalita' e i termini per la comunicazione di tali dati da parte
delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e
degli esercenti le professioni sanitarie all'Osservatorio. Il
medesimo decreto stabilisce le modalita' e i termini per l'accesso a
tali dati.
Art. 11
Estensione della garanzia assicurativa
1. La garanzia assicurativa deve prevedere una operativita'
temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la
conclusione del contratto assicurativo, purche' denunciati
all'impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della
polizza. In caso di cessazione definitiva dell'attivita'
professionale per qualsiasi causa deve essere previsto un periodo di
ultrattivita' della copertura per le richieste di risarcimento
presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e
riferite a fatti generatori della responsabilita' verificatisi nel
periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di
retroattivita' della copertura. L'ultrattivita' e' estesa agli eredi
e non e' assoggettabile alla clausola di disdetta.
Art. 12
Azione diretta del soggetto danneggiato
1. Fatte salve le disposizioni dell'articolo 8, il soggetto
danneggiato ha diritto di agire direttamente, entro i limiti delle
somme per le quali e' stato stipulato il contratto di assicurazione,
nei confronti dell'impresa di assicurazione che presta la copertura
assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o
private di cui al comma 1 dell'articolo 10 e all'esercente la
professione sanitaria di cui al comma 2 del medesimo articolo 10.
2. Non sono opponibili al danneggiato, per l'intero massimale di
polizza, eccezioni derivanti dal contratto diverse da quelle
stabilite dal decreto di cui all'articolo 10, comma 6, che definisce
i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture
sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le
professioni sanitarie di cui all'articolo 10, comma 2.
3. L'impresa di assicurazione ha diritto di rivalsa verso
l'assicurato nel rispetto dei requisiti minimi, non derogabili
contrattualmente, stabiliti dal decreto di cui all'articolo 10, comma
6.
4. Nel giudizio promosso contro l'impresa di assicurazione della
struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata a norma del
comma 1 e' litisconsorte necessario la struttura medesima; nel
giudizio promosso contro l'impresa di assicurazione dell'esercente la
professione sanitaria a norma del comma 1 e' litisconsorte necessario
l'esercente la professione sanitaria. L'impresa di assicurazione,
l'esercente la professione sanitaria e il danneggiato hanno diritto
di accesso alla documentazione della struttura relativa ai fatti
dedotti in ogni fase della trattazione del sinistro.
5. L'azione diretta del danneggiato nei confronti dell'impresa di
assicurazione e' soggetta al termine di prescrizione pari a quello
dell'azione verso la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o
privata o l'esercente la professione sanitaria.
6. Le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere
dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 6
dell'articolo 10 con il quale sono determinati i requisiti minimi
delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e
sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie.
Art. 13
Obbligo di comunicazione all'esercente la professione sanitaria del
giudizio basato sulla sua responsabilita'
1. Le strutture sanitarie e sociosanitarie di cui all'articolo 7,
comma 1, e le imprese di assicurazione che prestano la copertura
assicurativa nei confronti dei soggetti di cui all'articolo 10, commi
1 e 2, comunicano all'esercente la professione sanitaria
l'instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal
danneggiato, ((entro quarantacinque giorni)) dalla ricezione della
notifica dell'atto introduttivo, mediante posta elettronica
certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento
contenente copia dell'atto introduttivo del giudizio. Le strutture
sanitarie e sociosanitarie e le imprese di assicurazione ((entro
quarantacinque giorni)) comunicano all'esercente la professione
sanitaria, mediante posta elettronica certificata o lettera
raccomandata con avviso di ricevimento, l'avvio di trattative
stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte.
L'omissione, la tardivita' o l'incompletezza delle comunicazioni di
cui al presente comma preclude l'ammissibilita' delle azioni di
rivalsa o di responsabilita' amministrativa di cui all'articolo 9.
Art. 14
Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilita' sanitaria
1. E' istituito, nello stato di previsione del Ministero della
salute, il Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilita'
sanitaria. Il Fondo di garanzia e' alimentato dal versamento di un
contributo annuale dovuto dalle imprese autorizzate all'esercizio
delle assicurazioni per la responsabilita' civile per i danni causati
da responsabilita' sanitaria. A tal fine il predetto contributo e'
versato all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnato
al Fondo di garanzia. Il Ministero della salute con apposita
convenzione affida alla Concessionaria servizi assicurativi pubblici
(CONSAP) Spa la gestione delle risorse del Fondo di garanzia.
2. Con regolamento adottato con decreto del Ministro della salute,
da emanare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore
della presente legge, di concerto con il Ministro dello sviluppo
economico e con il Ministro e dell'economia e delle finanze, sentite
la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano e le rappresentanze delle
imprese di assicurazione, sono definiti:
a) la misura del contributo dovuto dalle imprese autorizzate
all'esercizio delle assicurazioni per la responsabilita' civile per i
danni causati da responsabilita' sanitaria;
b) le modalita' di versamento del contributo di cui alla lettera
a);
c) i principi cui dovra' uniformarsi la convenzione tra il
Ministero della salute e la CONSAP Spa;
d) le modalita' di intervento, il funzionamento e il regresso del
Fondo di garanzia nei confronti del responsabile del sinistro.
3. Il Fondo di garanzia di cui al comma 1 concorre al risarcimento
del danno nei limiti delle effettive disponibilita' finanziarie.
4. La misura del contributo di cui al comma 2, lettera a), e'
aggiornata annualmente con apposito decreto del Ministro della
salute, da adottare di concerto con il Ministro dello sviluppo
economico e con il Ministro dell'economia e delle finanze, in
relazione alle effettive esigenze della gestione del Fondo di
garanzia.
5. Ai fini della rideterminazione del contributo di cui al comma 2,
lettera a), la CONSAP Spa trasmette ogni anno al Ministero della
salute e al Ministero dello sviluppo economico un rendiconto della
gestione del Fondo di garanzia di cui al comma 1, riferito all'anno
precedente, secondo le disposizioni stabilite dal regolamento di cui
al comma 2.
6. Gli oneri per l'istruttoria e la gestione delle richieste di
risarcimento sono posti a carico del Fondo di garanzia di cui al
comma 1.
7. Il Fondo di garanzia di cui al comma 1 risarcisce i danni
cagionati da responsabilita' sanitaria nei seguenti casi:
a) qualora il danno sia di importo eccedente rispetto ai
massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati dalla
struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero
dall'esercente la professione sanitaria ai sensi del decreto di cui
all'articolo 10, comma 6;
b) qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o
privata ovvero l'esercente la professione sanitaria risultino
assicurati presso un'impresa che al momento del sinistro si trovi in
stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa o vi
venga posta successivamente;
c) qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o
privata ovvero l'esercente la professione sanitaria siano sprovvisti
di copertura assicurativa per recesso unilaterale dell'impresa
assicuratrice ovvero per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione
dall'albo dell'impresa assicuratrice stessa.
((7-bis. Il Fondo di garanzia di cui al comma 1 assolve anche alla
funzione di agevolare l'accesso alla copertura assicurativa da parte
degli esercenti le professioni sanitarie che svolgono la propria
attivita' in regime libero-professionale, ai sensi dell'articolo 10,
comma 6)).
8. Il decreto di cui all'articolo 10, comma 6, prevede che il
massimale minimo sia rideterminato in relazione all'andamento del
Fondo per le ipotesi di cui alla lettera a) del comma 7 del presente
articolo.
9. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai
sinistri denunciati per la prima volta dopo la data di entrata in
vigore della presente legge.
10. Il Ministro dell'economia e delle finanze e' autorizzato ad
apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
Art. 15
Nomina dei consulenti tecnici d'ufficio e dei periti nei giudizi di
responsabilita' sanitaria
1. Nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad
oggetto la responsabilita' sanitaria, l'autorita' giudiziaria affida
l'espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico
specializzato in medicina legale e a uno o piu' specialisti nella
disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto
oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare,
scelti tra gli iscritti negli albi di cui ai commi 2 e 3, non siano
in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o
in altri connessi e che i consulenti tecnici d'ufficio da nominare
nell'ambito del procedimento di cui all'articolo 8, comma 1, siano in
possesso di adeguate e comprovate competenze nell'ambito della
conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi.
2. Negli albi dei consulenti di cui all'articolo 13 delle
disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e
disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941,
n. 1368, e dei periti di cui all'articolo 67 delle norme di
attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura
penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, devono
essere indicate e documentate le specializzazioni degli iscritti
esperti in medicina. In sede di revisione degli albi e' indicata,
relativamente a ciascuno degli esperti di cui al periodo precedente,
l'esperienza professionale maturata, con particolare riferimento al
numero e alla tipologia degli incarichi conferiti e di quelli
revocati.
3. Gli albi dei consulenti di cui all'articolo 13 delle
disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e
disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941,
n. 1368, e gli albi dei periti di cui all'articolo 67 delle norme di
attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura
penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, devono
essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale, al fine di
garantire, oltre a quella medico-legale, un'idonea e adeguata
rappresentanza di esperti delle discipline specialistiche riferite a
tutte le professioni sanitarie, tra i quali scegliere per la nomina
tenendo conto della disciplina interessata nel procedimento.
4. Nei casi di cui al comma 1, l'incarico e' conferito al collegio
e, nella determinazione del compenso globale, non si applica
l'aumento del 40 per cento per ciascuno degli altri componenti del
collegio previsto dall'articolo 53 del testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui
al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.
Art. 16
Modifiche alla legge 28 dicembre 2015, n. 208, in materia di
responsabilita' professionale del personale sanitario
1. All'articolo 1, comma 539, lettera a), della legge 28 dicembre
2015, n. 208, il secondo periodo e' sostituito dal seguente: «I
verbali e gli atti conseguenti all'attivita' di gestione del rischio
clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell'ambito di
procedimenti giudiziari».
2. All'articolo 1, comma 540, della legge 28 dicembre 2015, n. 208,
le parole da: «ovvero» fino alla fine del comma sono sostituite dalle
seguenti: «, in medicina legale ovvero da personale dipendente con
adeguata formazione e comprovata esperienza almeno triennale nel
settore».
Art. 17
Clausola di salvaguardia
1. Le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle
regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di
Bolzano compatibilmente con i rispettivi statuti e le relative norme
di attuazione, anche con riferimento alla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3.
Art. 18
Clausola di invarianza finanziaria
1. Le amministrazioni interessate provvedono all'attuazione delle
disposizioni di cui alla presente legge nell'ambito delle risorse
umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e
comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
La responsabilità penale del personale sanitario dopo la legge Gelli
MASSIMA
L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio dell’attività medico chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “ lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee–guida o dalle buone pratiche clinico assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “ lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta delle linee guida o di buone pratiche clinico – assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee – guida o buone pratiche clinico – assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 22 febbraio 2018, n.8770 - Pres. Canzio – est. Vessichelli
Ritenuto in fatto
1. Ha proposto ricorso per cassazione M.F. avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze in data 7 dicembre 2015 con la quale è stato confermato, nei suoi confronti, il giudizio di responsabilità pronunciato dal Tribunale di Pistoia con riferimento all’imputazione di lesioni personali colpose.
1.1. Al ricorrente, nella qualità di medico specialista in neurochirurgia in servizio presso l’ambulatorio del Centro Fisioterapico (omissis), è stato addebitato il comportamento omissivo ingiustificatamente tenuto dopo alcune visite del paziente P.G. , nell’ottobre del 2008. Un comportamento contestato come caratterizzato da negligenza, imprudenza e imperizia e consistito nel non avere effettuato tempestivamente la diagnosi della sindrome da compressione della “cauda equina”, con conseguente considerevole differimento nella esecuzione - avvenuta ad opera di altro medico specialista, successivamente interpellato dalla persona offesa - dell’intervento chirurgico per il quale vi era, invece, indicazione di urgenza, in base alle regole cautelari di settore.
L’intervento doveva essere finalizzato alla decompressione della cauda e, per l’effetto, avrebbe dovuto impedire che la prolungata compressione in atto procurasse al paziente effetti poi riscontrati, e cioè un rilevante deficit sensitivo-motorio con implicazioni dirette sul controllo delle funzioni neurologiche concernenti l’apparato uro-genitale e di quelle motorie del piede destro.
1.2. In punto di fatto, era rimasto accertato che il ricorrente, in occasione della prima visita del 9 ottobre 2008, nella quale il paziente aveva manifestato forti dolori alla schiena, aveva prescritto una terapia farmacologica e richiesto una elettromiografia; in occasione della seconda visita, a distanza di una settimana, non avendo il P. eseguito l’esame diagnostico, il medico aveva prospettato, in ragione del persistere dei forti dolori, la eventuale necessità di un intervento chirurgico con inserimento di dischetti in silicone fra le vertebre; in occasione della terza visita del 23 ottobre, verificata la esecuzione dell’esame prescritto, il ricorrente aveva diagnosticato un’ernia in L2 e consigliato un intervento chirurgico per la relativa asportazione.
Il paziente aveva chiesto una pausa per riflettere ma la stessa notte (tra il 23 e il 24 ottobre) aveva accusato una marcata ingravescenza del quadro clinico, evidenziata da sintomi allarmanti di incontinenza fecale, notevole difficoltà nella motilità degli arti inferiori ed infine perdita dello stimolo ad urinare.
L’indomani mattina, sollecitata telefonicamente all’imputato una visita in ragione della nuova e più preoccupante condizione in cui versava, il P. l’aveva potuta ottenere non prima di una settimana, il 30 ottobre, ma, giunto in ritardo all’appuntamento, non aveva rinvenuto il medico. Questi, raggiunto telefonicamente per rimarcare la persistenza della sintomatologia invalidante, aveva replicato di poterlo operare non prima del mese successivo e di insistere nella terapia farmacologica, non accennando ad alcuna problematica legata all’urgenza, ma indicando il Pronto soccorso per la ricerca di un rimedio ai dolori. Una ricostruzione, quella appena ricordata, accreditata in base al racconto della persona offesa, che i giudici di primo e secondo grado hanno reputato affidabile sia per intrinseca coerenza, sia perché confortato dalla deposizione della teste A. , sebbene in contrasto con la prospettazione dell’imputato che invece aveva affermato di non essere stato reso edotto, nella telefonata del 24 ottobre, della gravità dei nuovi sintomi.
Ritenutosi non adeguatamente seguito, il paziente si era rivolto ad altro sanitario, l’ortopedico dott. D.B. , il quale a sua volta, fissato in tre giorni l’appuntamento ed effettuata la diagnosi di 'sindrome della cauda', nonché verificata l’urgenza dell’intervento di competenza neurochirurgica, aveva indirizzato il P. al CTO di Firenze ove, eseguita una TAC, questi era stato operato, in via d’urgenza, nella notte tra il 4 e il 5 novembre.
L’intervento era consistito nella decompressione della cauda ed exeresi di una grossa ernia discale espulsa.
1.3. A seguito dell’intervento, ed a distanza di circa due mesi, era stata accertata, mediante consulenza tecnica, la permanenza di una serie di gravi sintomi e quindi di un danno neurologico a carico delle funzioni sfinteriche, della sensibilità perineale e della motilità del piede destro, ritenuti effetto della prolungata compressione delle fibre della 'cauda equina', non prontamente contrastata con intervento chirurgico urgente. Questo sarebbe intervenuto tardi a causa del differimento della visita finalizzata alla diagnosi, ritardo quest’ultimo a sua volta dovuto alla sottovalutazione, imputata al ricorrente, dei gravi e allarmanti sintomi da ultimo manifestatisi nel paziente, pur affetto da lombosciatalgia cronica per la quale era da tempo seguito dal M. stesso.
In conclusione, il ritardo colpevole del M. veniva quantificato almeno nei sei giorni fatti inutilmente decorrere tra il momento in cui il paziente gli rappresentò i gravissimi sintomi neurologici e quello in cui ritenne di far cadere l’appuntamento per la verifica della situazione, senza peraltro, neppure in quella occasione, prospettare la necessità di un pronto intervento chirurgico.
Nella sentenza di primo grado, inoltre, veniva verificata positivamente la configurabilità del nesso di causalità ed esclusa la causa di non responsabilità penale introdotta dall’art. 3 d.l. n. 158 del 2012 (c.d. decreto Balduzzi) perché l’imputato non si era attenuto alle linee-guida o alle best practices che gli avrebbero imposto una diagnosi tempestiva e la sollecitazione di un intervento chirurgico non ulteriormente procrastinabile.
2. Deduce il ricorrente:
- il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento agli artt. 199 e 499 cod. proc. pen. in particolare denunciando il travisamento della prova costituita dalle dichiarazioni della teste A. , citate a riscontro della versione della persona offesa costituita parte civile che sarebbero state frutto di domande suggestive del pubblico ministero.
- il vizio della motivazione e la violazione dell’art. 40 cod. pen. in tema di nesso di causalità.
Assume la difesa che illogicamente sarebbe stato trascurato il rilievo del consulente dell’imputato, accreditato neuropatologo, secondo cui, posto che nella cartella clinica relativa alla degenza per l’intervento neurochirurgico era stato attestato un recupero parziale del deficit motorio agli arti inferiori, avrebbe dovuto inferirsene che la compressione della cauda non aveva potuto avere la durata denunciata dalla parte civile, ma una ben inferiore, in quanto, diversamente, i relativi effetti sarebbero stati ben più gravi.
Allo stesso modo, la difesa denuncia il travisamento delle certificazioni mediche in atti circa la datazione dei sintomi che derivava non dalla constatazione diretta da parte dei sanitari successivamente interpellati ma dalla ripresa delle dichiarazioni del paziente.
Posto, dunque, che il 30 ottobre era la data di effettiva 'presa in carico', da parte del ricorrente, quantomeno sul piano cognitivo, degli allarmanti sintomi della parte civile, non poteva non considerarsi che l’indicazione in quel frangente, da parte del medesimo, di rivolgersi al Pronto soccorso con urgenza rappresentava la corretta attuazione delle buone pratiche sanitarie.
Ne derivava altresì che, dovendosi imputare al P. l’ulteriore ritardo di cinque giorni connesso alla scelta di non recarsi al Pronto soccorso diversamente da quanto suggeritogli, ma di investire altri due sanitari, il differimento e l’addebito delle correlate conseguenze lesive non potevano ricondursi, con il necessario grado di certezza, al comportamento del ricorrente.
3. Il ricorso è stato segnalato al Primo Presidente dal Presidente del Collegio della Quarta Sezione cui il processo era stato assegnato perché, all’interno di questa, si registrava un contrasto giurisprudenziale su tema di possibile rilievo ai fini della trattazione, e cioè quello della misura della incidenza della recente legge 8 marzo 2017, n. 24, che, nell’abrogare la previgente disciplina della legge n. 189 del 2012, ha rimodulato i limiti della colpa medica a fronte del rispetto delle linee-guida dettate in materia, con conseguenze in punto di individuazione della legge più favorevole.
Con decreto del 13 novembre 2017, il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen., l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi all’odierna udienza pubblica.
4. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria avente ad oggetto la specifica questione di diritto devoluta alle Sezioni Unite.
L’interpretazione letterale della riforma induce a ritenere che la nuova causa di non punibilità è operativa in ogni caso in cui risultino rispettate le raccomandazioni previste dalle linee-guida pertinenti. Anche l’andamento dei lavori parlamentari starebbe a dimostrare che la colpa grave non viene ritenuta ragione di inoperatività della causa che esclude la punibilità.
Secondo la nuova normativa, il parametro di verifica della colpa è il rispetto, constatato ex post, della adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida, non anche le modalità di applicazione in concreto delle stesse, altrimenti non comprendendosi quale possa essere l’area di operatività della causa di non punibilità introdotta dall’art. 590-sexies cod. pen. e riferita espressamente all’imperizia.
Nel caso di specie, le linee-guida erano state correttamente individuate, e cioè il medico aveva fatto una scelta attendista in assenza di sintomi rivelatori della 'sindrome della cauda'; quando invece tali sintomi egli aveva percepito, aveva correttamente avviato il paziente al Pronto soccorso per l’espletamento dell’attività diagnostica o interventistica, avente carattere di urgenza.
In conclusione, nessun rimprovero può muoversi al sanitario e, per l’eventualità che, invece, si ravvisasse imperizia con riferimento alle scelte operate il 24 ottobre 2008, la stessa dovrebbe ricadere nell’ambito della causa di non punibilità introdotta dalla novella del 2017.
5. Il Procuratore generale, pur dando atto della inammissibilità dei motivi di ricorso volti ad accreditare una ricostruzione dei fatti alternativa a quella motivatamente emergente dalla sentenza impugnata, ha chiesto sollevarsi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-sexies cod. pen., per contrasto con i principi posti negli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 32, 33, 101, 102 e 111 Cost.
Ha osservato preliminarmente che l’unica interpretazione possibile della nuova norma codicistica sarebbe quella propugnata dalla sentenza che ha dato luogo al contrasto giurisprudenziale, Sez. 4, n. 50078 del 19/10/2017, Cavazza, basata sulla lettera della legge, a differenza di quella della sentenza Tarabori della medesima Sezione, n. 28187 del 20/04/2017, che se ne è distaccata tentando una ricostruzione normativa costituzionalmente conforme ma inaccettabile perché sostanzialmente abrogativa del nuovo precetto. Il Procuratore generale ha perciò rilevato che ci si troverebbe di fronte alla necessità di applicare una previsione normativa che confligge: con il principio di divieto ingiustificato di disparità di trattamento fra situazioni omologhe (le diverse forme di colpa e le diverse categorie di professionisti coinvolti); con il principio di tassatività della norma penale, per la derivazione delle linee-guida da fonte normativa secondaria; con quello di responsabilità personale, per la scarsa prevedibilità ed evitabilità dell’evento; con quello del diritto alla tutela della salute, posto in crisi da una richiesta di applicazione dei protocolli non chiaramente calibrati sul caso concreto; con quello della dignità della professione sanitaria, che si contrappone alla rigidità delle linee-guida da applicare; con quello della libera valutazione del giudice, che si verrebbe a limitare attribuendogli un criterio di giudizio non flessibile.
In subordine, il Procuratore generale ha sollecitato l’annullamento con rinvio al giudice civile, data la ormai maturata prescrizione del reato, per il necessario approfondimento riguardo alla possibilità di parametrazione della condotta del M. alle linee-guida e alla eventuale sussistenza di profili di negligenza nel suo operato.
Considerato in diritto
1. La questione sottoposta alle Sezioni Unite è la seguente:
'Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di 'non punibilità' prevista dall’art. 590-sexies cod. pen., introdotta dalla legge 8 marzo 2017, n. 24'.
2. All’origine del contrasto giurisprudenziale che ha determinato la rimessione alle Sezioni Unite vi è la promulgazione della legge 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie), entrata in vigore il 1 aprile 2017, nota come 'legge Gelli-Bianco' in ragione dei nomi dei rispettivi relatori di maggioranza alla Camera e al Senato. Questa, proseguendo nella volontà manifestatasi nella presente legislatura, di tipizzazione di modelli di colpa all’interno del codice penale, ha disposto, all’art. 6, nel primo comma, la formulazione dell’art. 590-sexies cod. pen. contenente la nuova disciplina speciale sulla responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario e, nel secondo comma, la contestuale abrogazione della previgente disciplina extra-codice della materia. E cioè del comma 1 dell’art. 3, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute, decreto convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189 e conosciuto come 'decreto Balduzzi', dal nome del Ministro della Salute del Governo che lo aveva presentato.
2.1. L’art. 3 del d.l. Balduzzi era stato concepito per normare i limiti della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria a fronte di un panorama giurisprudenziale divenuto sempre più severo nella delineazione della colpa medica punibile, salvo il mantenimento di una certa apertura all’utilizzo della regola di esperienza ricavabile dall’art. 2236 cod. civ., per la stessa individuabilità della imperizia, nei casi in cui si fosse imposta la soluzione di problemi di specifica difficoltà di carattere tecnico-scientifico (fra le molte, Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggé, Rv. 237875).
Si era, invero, pervenuti nel volgere di un ventennio - dopo un passato di approdi giurisprudenziali più indulgenti che ricavavano direttamente dall’art. 2236 cod. civ. la possibilità di punire il solo errore inescusabile derivante dalla mancata applicazione delle cognizioni generali - ad un assetto interpretativo in base al quale la colpa medica non veniva di regola esclusa, una volta accertato che l’inosservanza delle linee-guida era stata determinante nella causazione dell’evento lesivo, essendo rilevante in senso liberatorio soltanto che questo, avuto riguardo alla complessiva condizione del paziente, fosse, comunque, inevitabile e, pertanto, ascrivibile al caso fortuito (Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Ingrassia, Rv. 254618).
Ebbene, l’art. 3 citato era stato congegnato nel senso di sancire la esclusione della responsabilità per colpa lieve, quando il professionista, nello svolgimento delle proprie attività, non ulteriormente perimetrate con riferimento alla idoneità dell’evento ad integrare specifiche figure di reato né quanto alla afferibilità alla negligenza, imprudenza o imperizia, si fosse 'attenuto' a linee-guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
2.2. Dal canto suo, l’art. 6 della legge Gelli-Bianco, volto ad incidere con la previsione di una causa di non punibilità sulla responsabilità colposa per morte o lesioni personali da parte degli esercenti la professione sanitaria, la ha introdotta come specificazione ai precetti penali generali in tema di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.) o omicidio colposo (art. 589), con espressa limitazione agli eventi verificatisi a causa di 'imperizia' e sul presupposto che siano state ''rispettate' le raccomandazioni previste dalle linee-guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee-guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto'.
È comunque fatta salva, dall’art. 7, la responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria, ai sensi dell’articolo 2043 cod. civ..
2.3. Il precetto dell’art. 6 deve essere letto alla luce degli artt. 1, 3 e 5 che lo precedono: norme che costituiscono uno dei valori aggiunti della novella, nella ottica di una migliore delineazione della colpa medica, poiché pongono a servizio del fine principale dell’intervento legislativo - la sicurezza delle cure unitamente ad una gestione consapevole e corretta del rischio sanitario (art. 1), a sua volta anticipato nel disegno dell’art. 1, commi 538 e segg. della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) - un metodo nuovo di accreditamento delle linee-guida. Queste ambiscono così a costituire non solo, per i sanitari, un contributo autorevole per il miglioramento generale della qualità del servizio, essendo, tutti gli esercenti le numerose professioni sanitarie riconosciute, chiamati ad attenervisi (art. 5, comma 1), ma anche, per il giudizio penale, indici cautelari di parametrazione, anteponendosi alla rilevanza delle buone pratiche clinico-assistenziali, che, elemento valorizzato nel decreto Balduzzi, assumono oggi rilievo solo sussidiario per il minor grado di ponderazione scientifica che presuppongono, pur rimanendo comunque da individuare in modelli comportamentali consolidati oltre che accreditati dalla comunità scientifica.
È qui sufficiente rammentare che dall’art. 3 è prevista la istituzione di un Osservatorio delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità destinato a raccogliere dati utili per la gestione del rischio sanitario e quelli concernenti le buone pratiche per la sicurezza delle cure, predisponendosi linee di indirizzo con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie. Oltre a ciò, viene regolamentata la creazione di un elenco delle predette società e associazioni, aventi peculiari caratteristiche idonee a garantirne la trasparenza e la capacità professionale scientifica; enti deputati ad elaborare, unitamente alle istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in linee-guida che hanno la finalità di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale.
Tali linee-guida sono recepite attraverso un sistema di pubblicità garantito dall’Istituto superiore di sanità pubblica che lo realizza nel proprio sito internet, previa una ulteriore verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti resi pubblici dello stesso Istituto.
È sicuramente rimarchevole che tanto l’istituzione dell’Osservatorio quanto la formazione del predetto elenco siano ufficialmente avvenuti mediante la pubblicazione di due decreti del Ministero della Salute in date, rispettivamente, 2 agosto e 29 settembre 2017 (in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 186 del 10 agosto 2017 e n. 248 del 23 ottobre 2017).
3. Va osservato preliminarmente che, sul tema della natura, finalità e cogenza delle linee-guida - che hanno assunto rilevanza centrale nel costrutto della intera impalcatura della legge - non vi è motivo per discostarsi dalle condivisibili conclusioni maturate in seno alla giurisprudenza delle sezioni semplici della Cassazione, icasticamente riprese e sviluppate, anche dopo la introduzione della novella, dalla sentenza Sez. 4, n. 28187 del 20/04/2017, nota nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale col riferimento al nome, Tarabori, della parte civile ricorrente contro il proscioglimento dell’imputato De Luca: sentenza che costituisce uno dei due poli del contrasto sottoposto alle Sezioni Unite, ma non sul tema della natura delle linee-guida, che non risulta investito da divergenza di interpretazioni.
Ebbene, può convenirsi con il rilievo che, anche a seguito della procedura ora monitorata e governata nel suo divenire dalla apposita istituzione governativa, e quindi tendente a formare un sistema con connotati pubblicistici, le linee-guida non perdono la loro intrinseca essenza, già messa in luce in passato con riferimento alle buone pratiche. Quella cioè di costituire un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti.
La utilità della descritta introduzione delle linee-guida, pubblicate a cura del competente istituto pubblico, resta indubbia.
Da un lato, una volta verificata la convergenza delle più accreditate fonti del sapere scientifico, esse servono a costituire una guida per l’operatore sanitario, sicuramente disorientato, in precedenza, dal proliferare incontrollato delle clinical guidelines. Egli è oggi posto in grado di assumere in modo più efficiente ed appropriato che in passato, soprattutto in relazione alle attività maggiormente rischiose, le proprie determinazioni professionali. Con evidenti vantaggi sul piano della convenienza del servizio valutato su scala maggiore, evitandosi i costi e le dispersioni connesse a interventi medici non altrettanto adeguati, affidati all’incontrollato soggettivismo del terapeuta, nonché alla malpractice in generale.
Dall’altro lato, la configurazione delle linee-guida con un grado sempre maggiore di affidabilità e quindi di rilevanza - derivante dal processo di formazione - si pone nella direzione di offrire una plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose qui di interesse. Fattispecie che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo.
Con una espressione sintetica, proprio attraverso tali precostituite raccomandazioni si hanno parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia. Ed è in relazione a quegli ambiti che il medico ha la legittima aspettativa di vedere giudicato il proprio operato, piuttosto che in base ad una norma cautelare legata alla scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante. Sempre avendo chiaro che non si tratta di veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto.
Così come è da escludere che il nuovo sistema introdotto, pur sembrando formalmente sollecitare alla esatta osservanza delle linee-guida, anche al fine di ottenere il beneficio previsto in campo penale, possa ritenersi agganciato ad automatismi.
Non si tratta, infatti, di uno 'scudo' contro ogni ipotesi di responsabilità, essendo la loro efficacia e forza precettiva comunque dipendenti dalla dimostrata 'adeguatezza' alle specificità del caso concreto (art. 5), che è anche l’apprezzamento che resta, per il sanitario, il mezzo attraverso il quale recuperare l’autonomia nell’espletare il proprio talento professionale e, per la collettività, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici. Evenienza dalla quale riemergerebbero il pericolo per la sicurezza delle cure e il rischio della 'medicina difensiva', in un vortice negativo destinato ad autoalimentarsi.
Non, dunque, norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare, ma regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene.
4. Tutto ciò premesso, può ora più efficacemente riassumersi il senso del contrasto giurisprudenziale rilevato.
4.1. Il primo orientamento è sostenuto dalla sentenza De Luca-Tarabori sopra citata, concernente il caso di un medico psichiatra, responsabile del piano riabilitativo redatto per un paziente e chiamato a rispondere, a titolo di colpa, dell’omicidio volontario da questi compiuto, con un mezzo contundente, nella occasione della convivenza con la futura vittima, posta unitamente all’imputato in una struttura residenziale a bassa soglia assistenziale: posizione, quella del medico prosciolto dal Gip ai sensi dell’art. 425 cod. proc. pen., che la Cassazione ha fatto oggetto di annullamento con rinvio, tra l’altro, per il necessario raffronto con le linee-guida del caso concreto, anche nella prospettiva della operatività del decreto Balduzzi quale legge più favorevole.
Tale decisione, confrontandosi con le potenzialità apparentemente liberatorie della novella, muove dal preliminare rilievo di incongruenze interne alla formulazione del precetto dell’art. 6 cit. che porrebbero in crisi la possibilità stessa di comprendere la ratio della norma e poi quella di applicarla, se dovesse darsi corso ad una adesione acritica alla lettera della legge.
Questa, infatti, con l’enunciato della non punibilità dell’agente che rispetti le linee-guida accreditate, nel caso in cui esse risultino adeguate alle specificità del caso concreto, sarebbe una norma quantomeno inutile perché espressione dell’ovvio; e cioè del fatto che chi rispetta le linee-guida scelte in modo appropriato non può che essere riconosciuto esente da responsabilità, sia a titolo di imperizia che ad altro titolo, perché non ha tenuto alcun comportamento rimproverabile.
La sentenza ripudia anche la interpretazione della norma secondo cui l’ambito della imperizia esclusa dall’area della colpevolezza sarebbe quello che vede prodotto l’evento lesivo in una situazione nella quale, almeno 'in qualche momento della relazione terapeutica', il sanitario 'abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate'.
Infatti, ove tale evento lesivo fosse legato causalmente ad un comportamento in sé connotato da imperizia ed esulasse dall’ambito specificamente regolato dalle linee-guida adottate dal sanitario nel caso concreto, sarebbero traditi, con l’applicazione della causa di non punibilità, lo stesso principio costituzionale di colpevolezza e i connotati generali della colpa. Questa, pur non estendendosi a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione di una prescrizione, è tuttavia inscindibilmente connessa ai risultati che la regola mira a prevenire e, soggettivamente, alla prevedibilità e prevenibilità oltre che, in sintesi, alla rimproverabilità.
In conclusione, per l’orientamento in esame, non è consentito invocare l’utilizzo di direttive non pertinenti rispetto alla causazione dell’evento, per vedere esclusa la responsabilità colpevole, non dovendosi per giunta dimenticare il carattere non esaustivo e non cogente delle linee-guida.
La scelta contraria sarebbe in violazione dell’art. 32 Cost., implicando un radicale depotenziamento della tutela della salute, e del principio di uguaglianza, ove stabilisse uno statuto normativo irrazionalmente diverso rispetto a quello di altre professioni altrettanto rischiose e difficili.
Secondo la sentenza De Luca-Tarabori, dunque, va escluso che il sintagma enunciativo della 'causa di non punibilità' possa davvero reputarsi riferibile dogmaticamente a tale istituto, dovendo piuttosto essere inteso come un atecnico quanto ripetitivo riferimento al giudizio di responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa.
Ne discende che, in primo luogo, va dato per certo che la nuova disciplina specificatrice dei precetti generali in tema di colpa comunque non è destinata ad operare negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee-guida, rientrando in questa ipotesi anche il caso di linee-guida pertinenti ma aventi ad oggetto regole di diligenza o prudenza e non di perizia; né nelle situazioni concrete nelle quali le raccomandazioni dipendenti da quelle debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate (la previsione della possibile inadeguatezza, nella relazione terapeutica esecutiva, peraltro, è essa stessa evidenza della impossibilità di qualificare la linea-guida come fonte di colpa specifica); né in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee-guida pertinenti ed appropriate (con riferimento, dunque, al momento della scelta delle linee stesse), non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo.
Negli altri casi, il riferimento alle linee-guida è null’altro che il parametro per la individuazione-graduazione-esclusione della colpa secondo le regole generali, quando quella dipenda da imperizia.
Dal punto di vista del regime intertemporale, la previgente disciplina - che pure abrogata continuerebbe ad operare se risultasse essere legge sostanziale più favorevole - appare avere tale connotato alla stregua della novella del 2017. Essa infatti, come interpretata dalla giurisprudenza maggioritaria di legittimità, introduceva una ipotesi di decriminalizzazione delle condotte connotate da colpa lieve, a prescindere dal tipo di colpa, evenienza invece cancellata dalla legge Gelli-Bianco, con la conseguenza della impossibilità di continuare a distinguere, per i comportamenti futuri, ai fini della esclusione della responsabilità penale, la colpa lieve da quella grave.
In chiusura, la sentenza De Luca-Tarabori auspica che possa continuare a rappresentare un valido contributo la tradizione ermeneutica che accredita la possibile rilevanza, in ambito penale, dell’art. 2236 cod. civ., quale regola di esperienza cui attenersi nel valutare, in ambito penalistico, l’addebito di imperizia.
4.2. La sentenza Cavazza che sostiene l’orientamento opposto è della Sez. 4, n. 50078 del 19/10/2017, intervenuta in un caso di doppia pronuncia conforme di condanna, nei confronti di un medico che aveva effettuato un intervento di ptosi (lifting) del sopracciglio, cagionando al paziente una permanente diminuzione della sensibilità in un punto della zona frontale destra per la lesione del corrispondente tratto di nervo. Tale decisione ha dichiarato la prescrizione del reato rilevando che la condotta del sanitario, descritta dai giudici del merito come gravemente imperita, non poteva godere della novella causa di non punibilità sol perché nella motivazione della sentenza non si affrontava il tema dell’eventuale individuazione di corrette linee-guida, omissione non più emendabile per il sopravvenire della causa di estinzione; non poteva neppure beneficiare della previsione liberatoria della legge Balduzzi, data la accertata 'gravità' della colpa e dell’'errore inescusabile', come plasmato dalla giurisprudenza della Cassazione con riferimento tanto alla scelta del sapere appropriato quanto al minimo di correttezza della fase esecutiva.
In essa si sostiene il carattere innovativo e in discontinuità col passato, sul versante penalistico, della legge Gelli-Bianco.
Questa viene recepita eminentemente in base al criterio della interpretazione letterale, il quale evidenzia che si è voluta adottare una causa di esclusione della punibilità per la sola imperizia, la cui operatività è subordinata al rispetto delle linee-guida ufficiali. Non manca, nella stessa sentenza, l’inquadramento sistematico di tale conclusione, basato sulla considerazione della finalità perseguita e cioè quella di attenuare specifici profili della colpa medica, favorendo tale professione di cui il legislatore ha inteso diminuire l’ambito della responsabilità penale, ferma restando quella civile.
Tale rispetto viene però preteso soltanto nella fase della selezione delle stesse, cosicché resta fuori dalla gamma delle condotte punibili la 'imperita applicazione' di esse, cioè la imperizia che cada nella fase esecutiva.
Si tratterebbe di una previsione, quella della non punibilità, che opera al di fuori delle categorie dogmatiche della colpevolezza e della causalità colposa e trova giustificazione nell’intento del legislatore di non vedere mortificata la professionalità medica dal timore di ingiuste rappresaglie e, con una sola espressione, di prevenire la c.d. medicina difensiva.
5. Ritengono le Sezioni Unite che in ciascuna delle due contrastanti sentenze in esame siano espresse molteplici osservazioni condivisibili, in parte anche comuni, ma manchi una sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione. Sintesi che richiede talune puntualizzazioni sugli elementi costitutivi della nuova previsione, da individuare attraverso una opportuna attività ermeneutica che tenga conto, da un lato, della lettera della legge e, dall’altro, di circostanze anche non esplicitate ma necessariamente ricomprese in una norma di cui può dirsi certa la ratio, anche alla luce del complesso percorso compiuto negli anni dal legislatore sul tema in discussione. Percorso al quale non risultano estranei il contributo della Corte costituzionale né gli approdi della giurisprudenza di legittimità, di cui, dunque, ci si gioverà.
Infatti, val la pena osservare che il canone interpretativo posto dall’art. 12, comma primo, delle preleggi prevede la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro connessione nonché della 'intenzione del legislatore'. E da tale disposizione - che va completata con la verifica di compatibilità coi principi generali che regolano la ricostruzione degli elementi costitutivi dei precetti - si evince un solo vincolante divieto per l’interprete, che è quello riguardante l’andare 'contro' il significato delle espressioni usate, con una modalità che sconfinerebbe nell’analogia, non consentita nella interpretazione del comando penale. Non gli è invece vietato andare 'oltre' la letteralità del testo, quando l’opzione ermeneutica prescelta sia in linea con i canoni sopra indicati, a maggior ragione quando quella, pur a fronte di un testo che lascia aperte più soluzioni, sia l’unica plausibile e perciò compatibile col principio della prevedibilità del comando; sia, cioè, il frutto di uno sforzo che si rende necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, candidandosi così a dare luogo, in presenza di una divisione netta nella giurisprudenza delle sezioni semplici, al 'diritto vivente' nella materia in esame.
Il tentativo di sperimentare una interpretazione costituzionalmente conforme è, d’altro canto, il passaggio necessario e, se come nella specie concluso con esito positivo, ostativo all’investitura della Corte costituzionale, in contrasto con quanto auspicato dal Procuratore generale.
Ed è, quella anticipata, l’elaborazione che le Sezioni Unite intendono rendere, essendo proprio compito, nell’esercizio della funzione nomofilattica, individuare il significato più coerente del dato precettivo, anche scegliendo tra più possibili significati e plasmando la regola di diritto la quale deve mantenere il carattere generale ed astratto.
Ciò, in altri termini, senza che sia riconducibile alla attività interpretativa che ci si accinge a compiere un’efficacia sanante di deficit di tassatività della norma, non condividendosi il sospetto che la scelta sulla portata normativa dell’art. 6 sia sospinta dalla esistenza di connotati di incertezza e di imprevedibilità delle conseguenze del precetto, le quali, se ravvisate, avrebbero condotto alla sola possibile soluzione di sollevare, nella sede propria, il dubbio di costituzionalità.
6. È utile premettere, all’analisi degli enunciati delle due sentenze in contrasto, che la ricostruzione del sistema di esenzione da pena della legge Gelli-Bianco usufruisce in maniera consistente del dibattito già avviato su temi affacciatisi alla disamina della giurisprudenza e della dottrina in relazione al decreto Balduzzi, essendo presente anche in questo la previsione del raffronto del comportamento medico con il complesso di linee-guida o buone pratiche oggetto di accreditamento da parte della comunità scientifica e scaturendo da esso la necessità di confrontarsi col problema delle diverse forme di colpa generica.
6.1. Occorre ribadire che la valutazione da parte del giudice sul requisito della rispondenza (o meno) della condotta medica al parametro delle linee-guida adeguate (se esistenti) può essere soltanto quella effettuata ex ante, alla luce cioè della situazione e dei particolari conosciuti o conoscibili dall’agente all’atto del suo intervento, altrimenti confondendosi il giudizio sulla rimproverabilità con quello sulla prova della causalità, da effettuarsi ex post. Ma con la ulteriore puntualizzazione che il sindacato ex ante non potrà giovarsi di una soglia temporale fissata una volta per sempre, atteso che il dovere del sanitario di scegliere linee-guida 'adeguate' comporta, per il medesimo così come per chi lo deve giudicare, il continuo aggiornamento della valutazione rispetto alla evoluzione del quadro e alla sua conoscenza o conoscibilità da parte del primo. Attività, quella qui descritta, destinata a rimanere estranea al pericolo di vedere confuso il giudizio sulla 'adeguatezza' delle linee-guida (ex ante) con quello sulle modalità e gli effetti della loro concreta 'attuazione' che, essendo necessariamente postumo, non è incluso fra i criteri di individuazione della condotta esigibile.
6.2. Nella stessa ottica di fissazione delle linee generali lungo le quali sviluppare la disamina qui richiesta, va anche ribadita la consapevolezza della estrema difficoltà, che talvolta si presenta, nel riuscire ad operare una plausibile distinzione tra colpa da negligenza e colpa da imperizia. Distinzione comunque da non potersi omettere in quanto richiesta dal legislatore del 2017 che, consapevolmente, ha regolato solo il secondo caso, pur in presenza di un precedente, articolato dibattito giurisprudenziale sulla opportunità di non operare la detta differenziazione quando non espressamente richiesta dalla lettera della legge (come avveniva per il decreto Balduzzi) per la estrema fluidità dei confini fra le dette nozioni.
La distinzione riacquista oggi una peculiare rilevanza perché, nell’ipotesi di colpa da negligenza o imprudenza, la novella causa di non punibilità è destinata a non operare; mentre la semplice constatazione della esistenza di linee-guida attinenti al caso specifico non comporta che la loro violazione dia automaticamente luogo a colpa da imperizia.
Si è già rilevato che non può escludersi che le linee-guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza di compiti magari particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale (Sez. 4, n. 45527 del 01/07/2015, Cerracchio, non massimata sul punto).
È da citare il caso paradigmatico della omessa valutazione del sintomo e della conseguente omessa o ritardata diagnosi: una ipotesi da ascrivere, di regola, all’imperizia per inosservanza delle leges artis che disciplinano tale settore della attività sanitaria, salvo il caso che il comportamento del sanitario sia improntato ad indifferenza, scelleratezza o comunque assoluta superficialità e lassismo, sicché possa escludersi di essere nel campo della negligenza propria dell’agire del sanitario o specifica di esso e dunque della imperizia.
Il superamento di tali difficoltà che attengono, in genere, all’inquadramento del caso concreto più che alle categorie astratte, va perseguito mediante il ricorso agli ordinari criteri sulla prova, sul dubbio e sulla ripartizione dell’onere relativo che, nella fattispecie qui in discussione, hanno condotto più che plausibilmente alla delineazione di un caso di negligenza, dal quale non vi è ragione di prescindere, anche per mancanza di specifiche contestazioni sul punto da parte dell’interessato. Con la conseguenza che anche la prospettazione della questione di legittimità costituzionale sull’art. 590-sexies, da parte del Procuratore generale, è destinata a mostrare la sua irrilevanza, non venendo in considerazione l’ipotesi della imperizia.
7. Può ora entrarsi nel merito del contrasto giurisprudenziale.
7.1. La sentenza Tarabori-De Luca ha il pregio di richiamare alla necessità di perimetrazione dell’ambito di operatività della novella, in modo da evidenziarne la notevole efficacia riduttiva rispetto al passato, pur non facendo a meno, nel prosieguo, di criticare in radice la eventualità stessa di trovarsi al cospetto di una vera e propria causa di non punibilità.
È condivisibile la prima parte del ragionamento seguito, laddove si pongono in luce gli evidenti limiti applicativi alla causa di non punibilità enunciati dall’art. 590-sexies, posto che la dipendenza di questa dal rispetto delle linee-guida adeguate allo specifico caso in esame, nell’ipotesi di responsabilità da imperizia, non consente di sfuggire alla esatta osservazione che lo speciale abbuono non può essere invocato nei casi in cui la responsabilità sia ricondotta ai diversi casi di colpa, dati dalla imprudenza e dalla negligenza; né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche; né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso. Evenienza, quest’ultima, comprensiva sia della ipotesi in cui la scelta è stata del tutto sbagliata, sia della ipotesi in cui la scelta sia stata incompleta per non essersi tenuto conto di fattori di co-morbilità che avrebbero richiesto il ricorso a più linee-guida regolatrici delle diverse patologie concomitanti o comunque la visione integrata del quadro complesso, sia, infine, della ipotesi in cui il caso avrebbe richiesto il radicale discostarsi dalle linee-guida regolatrici del trattamento della patologia, in ragione della peculiarità dei fattori in esame.
Situazioni, quelle descritte, che danno conto della incompatibilità della novella con qualsiasi forma di appiattimento dell’agente su linee-guida che a prima vista possono apparire confacenti al caso di specie (e magari risultano, in rapporto al caso specifico, sbilanciate verso la tutela del generale contrasto del rischio clinico e quindi verso interessi aziendalistici piuttosto che verso la tutela della sicurezza della cura del singolo paziente) e conseguentemente con ipotesi di automatismo fra applicazione in tale guisa delle linee-guida ed operatività della causa di non punibilità.
Una conclusione che consente anche di escludere che il precetto in esame possa essere sospettato di tensione col principio costituzionale di libertà della scienza e del suo insegnamento (art. 33 Cost.), come pure di quello dell’assoggettamento del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.).
Ciò posto, va tuttavia osservato che la sentenza richiamata commette l’errore di non rinvenire alcun residuo spazio operativo per la causa di non punibilità, giungendo alla frettolosa conclusione circa l’impossibilità di applicare il precetto, negando addirittura la capacità semantica della espressione 'causa di non punibilità' e così offrendo, della norma, una interpretazione abrogatrice, di fatto in collisione con il dato oggettivo della iniziativa legislativa e con la stessa intenzione innovatrice manifestata in sede parlamentare. Senza considerare che la principale obiezione della sentenza in questione, e cioè la confusione della formulazione legislativa e la sua incongruenza interna, avrebbero dovuto trovare sfogo nella denuncia di incostituzionalità per violazione del principio di legalità.
7.2. Dal canto suo, la sentenza Cavazza ha il pregio di non discostarsi in modo patente dalla lettera della legge, ma, per converso, nel valorizzarla in modo assoluto, cade nell’errore opposto perché attribuisce ad essa una portata applicativa impropriamente lata: quella di rendere non punibile qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni, pur se connotata da colpa grave. E ciò, sul solo presupposto della corretta selezione delle linee-guida pertinenti in relazione al caso di specie, sì da rendere più che concreti i profili di illegittimità della interpretazione stessa, quantomeno per violazione del divieto costituzionale di disparità ingiustificata di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti che parimenti operano con alti coefficienti di difficoltà tecnica.
8. Invero, proprio a partire dalla interpretazione letterale, non può non riconoscersi che il legislatore ha coniato una inedita causa di non punibilità per fatti da ritenersi inquadrabili - per la completezza dell’accertamento nel caso concreto - nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 cod. pen., quando l’esercente una delle professioni sanitarie abbia dato causa ad uno dei citati eventi lesivi, versando in colpa da imperizia e pur avendo individuato e adottato, nonché, fino ad un certo punto, bene attualizzato le linee-guida adeguate al caso di specie.
8.1. Il comportamento dell’esercente la professione sanitaria oggetto di scrutinio è quello che ha prodotto un evento causalmente connesso ad un errore colpevole, a sua volta dipendente dalla violazione di una prescrizione pertinente. Sono destinati a rimanere esclusi i casi di eventi lesivi o letali connessi a comportamenti in relazione ai quali la violazione di prescrizioni potrebbe non essere per nulla ravvisabile o comunque potrebbe non essere stata qualificante, avendo il sanitario, ad esempio, fatto ricorso, pur senza l’esito sperato, e fatti salvi i principi in materia di consenso del paziente, a raccomandazioni o approdi scientifici di dimostrato, particolare valore i quali, pur sperimentati con successo dalla comunità scientifica, non risultino ancora avere superato le soglie e le formalità di accreditamento ufficiale descritte dalla legge.
8.2. La previsione della causa di non punibilità è esplicita, innegabile e dogmaticamente ammissibile non essendovi ragione per escludere apoditticamente - come fa la sentenza De Luca-Tarabori - che il legislatore, nell’ottica di porre un freno alla medicina difensiva e quindi meglio tutelare il valore costituzionale del diritto del cittadino alla salute, abbia inteso ritagliare un perimetro di comportamenti del sanitario direttamente connessi a specifiche regole di comportamento a loro volta sollecitate dalla necessità di gestione del rischio professionale: comportamenti che, pur integrando gli estremi del reato, non richiedono, nel bilanciamento degli interessi in gioco, la sanzione penale, alle condizioni date.
Semmai, è da sottolineare che era il decreto Balduzzi, non messo in discussione dalla giurisprudenza passata sotto il profilo della tecnica legislativa, ad agire sul terreno della delimitazione della colpa che dà luogo a responsabilità, circoscrivendo la operatività dei principi posti dall’art. 43 cod. pen. e dunque derogando ad essa, tanto che il risultato è stato ritenuto quello della parziale abolitio criminis. Viceversa, la legge Gelli-Bianco non si muove in senso derogatorio ai detti principi generali, bensì sul terreno della specificazione, ricorrendo all’inquadramento nella non punibilità, sulla base di un bilanciamento ragionevole di interessi concorrenti.
La possibile disparità di trattamento dovuta a tale opzione, rispetto ad altre categorie di professionisti che pure siano esposti alla gestione di peculiari rischi, non è automaticamente evocabile, una volta che l’intera operazione si riveli, anche per la delimitazione enucleata dallo stesso precetto, non irragionevole ed anzi in linea con uno schema già collaudato dalla Corte costituzionale (sent. n. 166 del 1973; ord. n. 295 del 2013).
Anche la modifica in senso limitativo, rispetto all’art. 3 del decreto Balduzzi, della esenzione da pena ai soli comportamenti che causano uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e 590 cod. pen. fa ritenere più adeguatamente finalizzato il nuovo precetto al contrasto del sospetto - che si materializzò con riferimento al citato art. 3 - di incompatibilità con il divieto costituzionale di disparità di trattamento (art. 3 Cost.), data l’ampiezza allora reputata ingiustificata, dal giudice che sottopose la norma allo scrutinio costituzionale, della platea dei soggetti che potevano avvantaggiarsene.
Appare infatti oggi, diversamente che in passato, direttamente connesso, l’intervento protettivo del legislatore, con la ragione ispiratrice della novella, che è quella di contrastare la c.d. 'medicina difensiva' e con essa il pericolo per la sicurezza delle cure, e dunque creare - in relazione ad un perimetro più circoscritto di operatori ed atti sanitari che si confrontano con la necessità della gestione di un rischio del tutto peculiare in quanto collegato alla mutevolezza e unicità di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare - un’area di non punibilità che valga a restituire al sanitario la serenità dell’affidarsi alla propria autonomia professionale e, per l’effetto, ad agevolare il perseguimento di una garanzia effettiva del diritto costituzionale alla salute.
9. La formulazione della causa di non punibilità nell’art. 590-sexies sollecita dunque a sperimentare una interpretazione della norma che consenta di darle concreta applicazione.
Non è condivisibile, in senso ostativo, il rilievo contenuto nella sentenza De Luca-Tarabori, anche sulla scia di una parte della dottrina, secondo cui la formulazione lessicale del precetto creerebbe un corto circuito capace di renderlo inservibile.
La norma descrive un presupposto per la operatività della causa di non punibilità - quella del versare, il sanitario, nella situazione di avere cagionato per colpa da imperizia l’evento lesivo o mortale, pur essendosi attenuto alle linee-guida adeguate al caso di specie - che non è incongruente con la soluzione che promette. Le fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida adeguate sono, infatti, articolate al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e/o 590 cod. pen..
Si tratta, d’altro canto, di una struttura del precetto che ricalca quella dell’art. 3 del decreto Balduzzi il quale, allo stesso modo, ricavava un’area di irresponsabilità a favore del sanitario che, pur rispettoso ('si attiene') delle linee-guida, potesse riconoscersi in colpa nella causazione dell’evento lesivo dipendente dalla propria professione. Una struttura, cioè, metabolizzata dalla giurisprudenza che su di essa ha edificato un complesso apparato ricostruttivo del precetto.
In tal senso, la sentenza Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, nel commentare la portata dell’art. 3 del decreto Balduzzi, aveva osservato, con una affermazione utile anche relativamente alla formulazione dell’art. 590-sexies, che 'il professionista (che) si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico' è l’agente che in base al decreto del 2012 non rispondeva per colpa lieve.
9.1. L’errore non punibile non può, però, alla stregua della novella del 2017, riguardare - data la chiarezza dell’articolo al riguardo - la fase della selezione delle linee-guida perché, dipendendo il 'rispetto' di esse dalla scelta di quelle 'adeguate', qualsiasi errore sul punto, dovuto a una qualsiasi delle tre forme di colpa generica, porta a negare l’integrazione del requisito del 'rispetto'.
Ne consegue che la sola possibilità interpretativa residua non può che indirizzarsi sulla fase attuativa delle linee-guida, sia pure con l’esigenza di individuare opportuni temperamenti che valgano a non esporre la conclusione a dubbi o censure sul piano della legittimità costituzionale, per irragionevolezza o contrasto con altri principi del medesimo rango.
La ratio di tale conclusione si individua nella scelta del legislatore di pretendere, senza concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni accreditate, dunque alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che gli si presentino. Con la conseguenza che, se tale percorso risulti correttamente seguito e, ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia potrà, alle condizioni che si indicheranno, essere quello che chiama in campo la operatività della novella causa di non punibilità.
Infatti, nel caso descritto, che è indispensabile contemplare per dare attuazione alla nuova riforma, può dirsi che si rimanga nel perimetro del 'rispetto delle linee guida', quando cioè lo scostamento da esse è marginale e di minima entità.
9.2. Viene di nuovo in considerazione, per tale via, la necessità di circoscrivere un ambito o, se si vuole, un grado della colpa che, per la sua limitata entità, si renda compatibile con la attestazione che il sanitario in tal modo colpevole è tributario della esenzione dalla pena per avere rispettato, nel complesso, le raccomandazioni derivanti da linee-guida adeguate al caso di specie.
Tanto più ove si consideri contestualmente che, come sottolineato nel parere espresso dalla Commissione giustizia del Senato sul disegno di legge approvato dalla Camera in prima lettura, il testo è volto ad assicurare una tutela effettiva della salute del paziente anche nello specifico ambito del processo civile garantendogli il risarcimento dovutogli in base ad una sentenza, attraverso una serie di strumenti disciplinati dall’art. 7, oltre, tra l’altro, la previsione del sistema di assicurazione obbligatoria (art. 9) accompagnato dalla azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice (art. 12).
A ciò va aggiunto che la contemplazione di un errore lieve (da imperizia) esente da sanzione penale ha, come pendant e rafforzamento sul piano sistemico, all’interno della legge Gelli-Bianco, la disciplina (art. 16) che favorisce i flussi informativi volti a far emergere le criticità nel compimento della ordinaria attività professionale, onde elaborarle e superarle, con divieto di utilizzazione di quei flussi nel processo penale: un insieme coordinato di regole, cioè, finalizzato ad una gestione del rischio clinico sempre più responsabilizzante per la stessa struttura organizzativa e senza la frustrante ricerca, in ogni caso, di un capro espiatorio.
È necessario peraltro sottolineare che non osta a tale scelta interpretativa l’obiezione di fondo, scaturente dalla giurisprudenza passata in tema di esclusione della operatività in ambito penale dell’art. 2236 cod. civ., nonché da una parte dalla dottrina, secondo cui non è consentita e comunque non ha senso la distinzione tra colpa lieve e colpa grave nel diritto penale ove, applicando rigorosamente il criterio della valutazione ex ante ed in concreto il giudizio di prevedibilità ed evitabilità proprio della colpa, sono già presenti tutti gli strumenti per la risoluzione dei casi liminari, potendosi giungere, per essi, alla esclusione, in radice, della ravvisabilità della colpa.
Invero, non solo la previsione esplicita della 'colpa lieve' come ambito di esclusione della responsabilità, nel decreto Balduzzi, ha dimostrato che è già stato legittimato, dal legislatore, un approccio dogmatico diverso, apprezzabile non solo come opzione meramente interpretativa o ricognitiva dei termini generali di definizione della colpa, ma come possibilità aggiuntiva di misurazione di questa a fini diversi da quelli - già previsti dall’art. 133, primo comma, n. 3, cod. pen. - di commisurazione della pena. In più, l’interpretazione qui accolta, rispetto a quella appena ricordata, è destinata ad ampliare il novero dei comportamenti che si sottraggono legittimamente all’intervento del giudice penale e a far risaltare concretamente la intuibile volontà del legislatore di proseguire lungo la direttrice segnata dal decreto Balduzzi; soprattutto con la finalità di impedire che l’abrogazione di questo apra scenari di automatica reviviscenza dei pregressi indirizzi interpretativi che, per la loro estrema severità nel passato, sono all’origine del porsi del tema delle risposte difensive dei sanitari.
D’altra parte, il timore che la distinzione tra colpa lieve e colpa grave possa essere anche fonte di scelte non prevedibili e ondivaghe, dipendenti dalla ampiezza della valutazione del giudice e quindi in contrasto con la necessaria tassatività del precetto, non tiene conto che analogo timore sarebbe ravvisabile, a monte, riguardo al giudizio sulla 'esigibilità' della condotta, ossia al momento valutativo, qualificante per la individuazione stessa della colpevolezza: timori da sempre adeguatamente contrastati dalla complessa opera ricostruttiva, in seno alla dottrina e alla giurisprudenza, riguardo ai criteri utili per la tendenziale definizione dei giudizi in esame e, nella presente decisione, utilmente richiamati.
10. La ricerca ermeneutica conduce a ritenere che la norma in esame continui a sottendere la nozione di 'colpa lieve', in linea con quella che l’ha preceduta e con la tradizione giuridica sviluppatasi negli ultimi decenni. Un complesso di fonti e di interpreti che ha mostrato come il tema della colpa medica penalmente rilevante sia sensibile alla questione della sua graduabilità, pur a fronte di un precetto, quale l’art. 43 cod. pen., che scolpisce la colpa senza distinzioni interne.
Dal punto di vista teorico non si individua alcuna ragione vincolante per la quale tale conclusione debba essere scartata, diversamente da quanto ritenuto da entrambe le sentenze che hanno dato luogo al contrasto.
Queste, peraltro, proprio sulla base di una conclusione di tal genere, fatta discendere dal silenzio della legge, si sono trovate a polarizzare in modo opposto le relative conclusioni, avendo osservato, la sentenza De Luca-Tarabori, che l’esonero complessivo da pena, destinato ad inglobare anche il responsabile di colpa grave da imperizia, non è praticabile perché genera una situazione in contrasto con il principio di colpevolezza e, la sentenza Cavazza, che la novella causa di non punibilità è destinata a operare senza distinzione del grado della colpa.
Al contrario, ritengono le Sezioni Unite che la mancata evocazione esplicita della colpa lieve da parte del legislatore del 2017 non precluda una ricostruzione della norma che ne tenga conto, sempre che questa sia l’espressione di una ratio compatibile con l’esegesi letterale e sistematica del comando espresso.
10.1. In tale prospettiva appare utile giovarsi, in primo luogo, dell’indicazione proveniente dall’art. 2236 cod. civ..
L’articolazione colpa grave/altre tipologie di condotte rimproverabili, pur causative dell’evento, è presente nelle valutazioni giurisprudenziali sui limiti della responsabilità penale del sanitario che, sotto diversi profili, hanno valorizzato nel tempo i principi e la ratio della disposizione contenuta nella norma citata, plasmata, invero, nell’ambito civilistico del riconoscimento del danno derivante da prestazioni che implichino soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e che lo esclude, appunto, salvo il caso di dolo o colpa grave.
Ebbene, tralasciando l’ormai sopito dibattito sulla non diretta applicabilità del precetto al settore penale per la sua attinenza alla esecuzione del rapporto contrattuale o al danno da responsabilità aquiliana, merita di essere valorizzato il condivisibile e più recente orientamento delle sezioni penali che hanno comunque riconosciuto all’art. 2236 la valenza di principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione del genere di problemi sopra evocati ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza.
Ciò che del precetto merita di essere ancor oggi valorizzato è il fatto che, attraverso di esso, già prima della formulazione della norma che ha ancorato l’esonero da responsabilità al rispetto delle linee-guida e al grado della colpa, si fosse accreditato, anche in ambito penalistico, il principio secondo cui la condotta tenuta dal terapeuta non può non essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto (Sez. 4, n. 4391 del 12/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv.251941; Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggé, Rv. 237875; Sez. 4, n. 1693 del 29/09/1997, dep. 1998, Azzini, non massimata sul punto). Sicché l’eventuale addebito di colpa era destinato a venire meno nella gestione di un elevato rischio senza errori rimproverabili connotati da gravità. Viceversa, quando non si fosse presentata una situazione emergenziale o non fossero da affrontare problemi di particolare difficoltà, non sarebbe venuto in causa il principio dell’art. 2236 cod. civ. e non avrebbe avuto base normativa la distinzione della colpa lieve. Ne conseguiva che il medico in tali ipotesi, come in quelle nelle quali venivano in considerazione le sole negligenza o imprudenza, versava in colpa, essendo pacifico che in queste si dovesse sempre attenere ai criteri di massima cautela.
Un precetto, quello appena analizzato, che mostra di reputare rilevante, con mai perduta attualità, la considerazione per cui l’attività del medico possa presentare connotati di elevata difficoltà per una serie imprevedibile di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare e delle risorse disponibili. Sicché, vuoi sotto un profilo della non rimproverabilità della condotta in concreto tenuta in tali condizioni, vuoi sotto quello della mera opportunità di delimitare il campo dei comportamenti soggetti alla repressione penale, sono richieste misurazioni e valutazioni differenziate da parte del giudice.
Non è marginale, del resto, l’avallo dato a tale interpretazione da parte della Corte costituzionale, con sentenza n. 166 del 1973, per taluni aspetti ribadita dalla ordinanza n. 295 del 2013. Un avallo cui, viceversa, va riconosciuta riacquisita rilevanza ai fini che ci occupano, soprattutto a seguito della scelta, operata dalla legge Gelli-Bianco, di rendere la causa di non punibilità operativa soltanto in relazione alla colpa da imperizia, pur dopo che, nel recente passato, la giurisprudenza di legittimità applicativa del sopravvenuto decreto Balduzzi, aveva invece mostrato di propendere per la estensione della irresponsabilità da colpa lieve a tutte le forme di colpa generica. La prima pronuncia del Giudice delle leggi aveva, infatti, ammesso che gli artt. 589 e 42 cod. pen. potessero essere integrati dall’art. 2236 cod. civ., così da ricavarsene il principio, costituzionalmente compatibile, della graduabilità della colpa da 'imperizia' del sanitario impegnato nella soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e il riconoscimento della possibilità di esenzione di una parte di essa dal rilievo pena listico.
La stessa sentenza De Luca-Tarabori evoca tale soluzione sia pure per presentarla come strumento tecnico residuo per perseguire il pur meritevole fine di mandare esente da rimproverabilità l’errore colpevole del sanitario contestato a titolo di imperizia.
10.2. In secondo luogo, è un dato di fatto che il legislatore del 2012 abbia espressamente utilizzato e disciplinato l’ipotesi della 'colpa lieve' del sanitario come quella da sottrarre, a condizioni date, alla responsabilità penale.
Tale opzione legislativa prescindeva dalla pregiudiziale della dimostrata situazione di particolare difficoltà tecnica ed era invece plasmata sul criterio della conformazione alle linee-guida, con riferimento a situazioni che potevano sottrarsi alla repressione penale anche quando non qualificate da speciale difficoltà. Con l’avvertenza che se, da un lato, tale ultima condizione è quella che, di regola, ha minore attitudine a generare 'colpa lieve', dall’altro possono darsi condotte del sanitario che, pur rientranti agevolmente in linee-guida standardizzate, risultano di difficile esecuzione per la urgenza o per l’assenza di presidi adeguati.
Quella opzione ha dato luogo ad una cospicua elaborazione giurisprudenziale volta a fissare i criteri utili per individuare preventivamente e, quindi, in sede giudiziaria riconoscere il grado lieve della colpa, del quale - stante l’esplicito testo normativo sopravvenuto - non sembra ragionevole negarsi la idoneità alla convivenza con i principi generali dettati dall’art. 43 cod. pen..
Questi, peraltro, continuano ad avere piena applicazione con riferimento alla colpa da negligenza e da imprudenza.
Basterà, al fine di dare pratica attuazione alla lettura dell’art. 590-sexies qui accreditata, rievocare i canoni maggiormente condivisi nel recente passato, sollecitati dall’esigenza di contrastare gli effetti di interpretazioni eccessivamente severe, nella cui filigrana traspariva una non condivisibile tendenza a fare della relazione sanitaria una 'obbligazione di risultato', laddove il fine di garantire la 'sicurezza delle cure' ne ribadisce la natura di 'obbligazione di mezzi'.
È da ribadire, cioè, quanto già sostenuto in molte sentenze pubblicate sotto la vigenza del decreto Balduzzi (tra le molte, Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105; Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri) in ordine al fatto che la colpa sia destinata ad assumere connotati di grave entità solo quando l’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente. Ovvero, per converso, quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente: come nel caso di 'patologie concomitanti' emerse alla valutazione del sanitario, e indicative della necessità di considerare i rischi connessi.
Nella demarcazione gravità/lievità rientra altresì la misurazione della colpa sia in senso oggettivo che soggettivo e dunque la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente e del suo grado di specializzazione; la problematicità o equivocità della vicenda; la particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; la difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicità e novità della situazione; la impellenza; la motivazione della condotta; la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (oltre alle precedenti, Sez. 4, n. 22405 del 08/05/2015, Piccardo, Rv. 263736; Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260740).
In altri termini, è da condividere l’assunto consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui la valutazione sulla gravità della colpa (generica) debba essere effettuata 'in concreto', tenendo conto del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis, che è quello del modello dell’agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi.
Meritano di essere ricordati, tali criteri, non sempre in relazione diretta al loro contenuto, riferito anche alla rimproverabilità del momento di 'scelta' delle linee-guida adeguate al caso concreto che, come si è visto, esorbita dal perimetro di operatività della novella causa di non punibilità. Piuttosto è utile richiamare l’elaborazione del metodo 'quantitativo', del quantum dello scostamento dal comportamento che ci si sarebbe attesi come quello utile, per determinare il grado della colpa.
La discrezionalità del giudice, ravvisabile nel dare pratica attuazione ai detti criteri nel contesto del decreto Balduzzi che li connetteva a linee-guida e buone pratiche di non univoca individuazione, risulta oggi drasticamente ricomposta attraverso la novella che riguarda il procedimento pubblicistico per la formalizzazione delle linee-guida rilevanti.
Oltre a ciò, la circoscrizione, dovuta alla legge Gelli-Bianco, della causa di non punibilità alla sola imperizia spinge ulteriormente verso l’opzione di delimitare il campo di operatività della causa di non punibilità alla 'colpa lieve', atteso che ragionare diversamente e cioè estendere il riconoscimento della esenzione da pena anche a comportamenti del sanitario connotati da 'colpa grave' per imperizia - come effettuato dalla sentenza Cavazza - evocherebbe, per un verso, immediati sospetti di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento ingiustificata rispetto a situazioni meno gravi eppure rimaste sicuramente punibili, quali quelle connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza; determinerebbe, per altro verso, un evidente sbilanciamento nella tutela degli interessi sottesi, posto che la tutela contro la 'medicina difensiva' e, in definitiva, il miglior perseguimento della salute del cittadino ad opera di un corpo sanitario non mortificato né inseguito da azioni giudiziarie spesso inconsistenti non potrebbero essere compatibili con l’indifferenza dell’ordinamento penale rispetto a gravi infedeltà alle leges artis, né con l’assenza di deroga ai principi generali in tema di responsabilità per comportamento colposo, riscontrabile per tutte le altre categorie di soggetti a rischio professionale; determinerebbe, infine, rilevanti quanto ingiuste restrizioni nella determinazione del risarcimento del danno addebitabile all’esercente una professione sanitaria ai sensi dell’art. 7 della legge Gelli-Bianco, poiché è proprio tale articolo, al comma 3, a stabilire una correlazione con i profili di responsabilità ravvisabili ex art. 590-sexies cod. pen..
10.3. È indicativa, in terzo luogo, l’evoluzione dei lavori parlamentari.
L’originario testo della legge approvato dalla Camera mostrava di volere differenziare, ai fini della esenzione da responsabilità, la colpa grave (da imperizia) dagli altri minori gradi della (stessa tipologia di) colpa, in una prospettiva specifica. Nel senso, cioè, che la colpa non grave (da imperizia) era automaticamente inclusa in detta esenzione anche a prescindere dal raffronto con linee-guida, mentre quella grave dello stesso tipo lo era alla condizione del rispetto delle stesse linee-guida.
La scomparsa della detta previsione dal testo successivamente passato al vaglio dell’altro ramo del Parlamento non può però dirsi un ripudio tout court della differenziazione del grado della colpa, non risultando in tal senso esplicitata la volontà del legislatore in alcun passo dei lavori preparatori, quanto piuttosto, come auspicato nel citato Parere della Commissione Giustizia del Senato, l’espressione della rinuncia a quella peculiare distinzione che si poneva come tendenzialmente apparente e quindi fortemente a rischio di censura per incostituzionalità, perché garantiva una tutela eccessivamente e irragionevolmente estesa alla colpa tecnica del sanitario in tutte le sue espressioni, essendo per di più, la esclusione della imperizia grave in caso di rispetto delle linee-guida, conformata in una sorta di presunzione che poteva essere vinta soltanto con la prova delle 'rilevanti specificità del caso concreto'.
Si apprende, dai resoconti delle discussioni della Commissione giustizia del Senato del 7, 8 e 21 giugno 2016 - mostratasi interessata a cristallizzare certi approdi della giurisprudenza di legittimità e a sollecitare una apposita riformulazione dell’art. 6 poi realizzata -, semmai un reiterato ed esplicitato timore del legislatore che il comma 2 del precetto della legge in itinere si prestasse, attraverso la condizione del rispetto delle linee-guida, ad una interpretazione aperta alla esclusione della responsabilità penale anche per imperizia grave; evenienza non perseguita, oltre che in aperta discontinuità con i principi del decreto Balduzzi, nel cui solco, tanto nei lavori della Camera in prima lettura quanto in quelli del Senato, si dichiara di volersi mantenere.
Specularmente, può dunque ammettersi che la colpa lieve è rimasta intrinseca alla formulazione del nuovo precetto, posto che la costruzione della esenzione da pena per il sanitario complessivamente rispettoso delle raccomandazioni accreditate in tanto si comprende in quanto tale rispetto non sia riuscito ad eliminare la commissione di errore colpevole non grave, eppure causativo dell’evento.
In conclusione, la colpa dell’esercente la professione sanitaria può essere esclusa in base alla verifica dei noti canoni oggettivi e soggettivi della configurabilità del rimprovero e altresì in ragione della misura del rimprovero stesso. Ma, in quest’ultimo caso - e solo quando configurante 'colpa lieve' -, le condizioni richieste sono il dimostrato corretto orientarsi nel campo delle linee-guida pertinenti in relazione al caso concreto ed il progredire nella fase della loro attuazione, ritenendo l’ordinamento di non punire gli adempimenti che si rivelino imperfetti.
11. Sul quesito proposto devono quindi affermarsi i seguenti principi di diritto:
'L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:
a) se l’evento si è verificato per colpa (anche 'lieve') da negligenza o imprudenza;
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche 'lieve') da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l’evento si è verificato per colpa (anche 'lieve') da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;
d) se l’evento si è verificato per colpa 'grave' da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico'.
12. Il connesso tema concernente la individuazione della legge più favorevole, in dipendenza dai principi posti dall’art. 2, quarto comma, cod. pen. sulla successione delle leggi penali nel tempo, trova il proprio naturale sviluppo raffrontando il contenuto precettivo dell’art. 590-sexies cod. pen., come individuato, con quello dell’art. 3, abrogato.
Si enucleano soltanto i casi immediatamente apprezzabili.
In primo luogo, tale ultimo precetto risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario - commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco - connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilità quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate.
In secondo luogo, nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilità del decreto Balduzzi (v. Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, non massimata sul punto), mentre non lo è più in base alla novella che risulta anche per tale aspetto meno favorevole.
In terzo luogo, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’art. 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio.
Analogamente, agli effetti civili, l’applicazione dell’art. 3, comma 1, del decreto Balduzzi prevedeva un coordinamento con l’accertamento del giudice penale, nella cornice dell’art. 2043 cod. civ., ribadito dall’art. 7, comma 3, della legge Gelli-Bianco. La responsabilità civile anche per colpa lieve resta ferma (v. Sez. 3 civ., n. 4030 del 19/02/2013; Sez. 4 civ., ord. n. 8940 del 17/04/2014) a prescindere, dunque, dallo strumento tecnico con il quale il legislatore regoli la sottrazione del comportamento colpevole da imperizia lieve all’intervento del giudice penale.
13. In ordine ai motivi di ricorso, deve rilevarsene la inammissibilità perché diversi da quelli che possono legittimamente fondare l’impugnazione dinanzi a questa Corte di legittimità. La inammissibilità del ricorso impedisce, altresì, la rilevazione della prescrizione atteso che il termine per la estinzione del reato non è più decorso dalla data della pronuncia della sentenza impugnata, che non può dirsi seguita dalla valida instaurazione di un rapporto processuale in prosecuzione.
13.1. La prima doglianza viene prospettata come vizio di motivazione anche nella forma del travisamento della prova (quella dichiarativa della teste A. ) con riferimento alla ricostruzione dei fatti che precedettero il finale ricovero della persona offesa. In altri termini, posto che la rimproverabilità della condotta del neurochirurgo, censurata dai giudici di merito come ingiustificatamente manchevole, si fonda sull’assunto della sua piena consapevolezza dei gravissimi sintomi neurologici, comunicatigli dallo stesso P. la mattina del 24 ottobre 2008, il punto toccato dalla difesa è quello del mancato raggiungimento della prova - e a maggior ragione di una plausibile motivazione - riguardo alla effettività e pienezza di detta conoscenza.
Per far ciò, il difensore ricorrente aggredisce la motivazione nel punto riguardante la asserita attendibilità della persona offesa - che tanto ha sostenuto - nonché il giudizio della Corte di merito riguardo alla idoneità della testimonianza della A. a costituire valido riscontro e comunque prova aggiuntiva della bontà del costrutto del denunciante: tale prova dichiarativa sarebbe, sul punto, frutto di domande suggestive della accusa.
Si tratta di censure volte, in realtà, a criticare inammissibilmente il punto di vista accolto e ampiamente motivato nella sentenza impugnata, sul piano della opinabilità piuttosto che su quello della decisiva carenza o manifesta illogicità.
La evenienza di domande suggestive da parte del pubblico ministero risulta dedotta per la prima volta con il ricorso e in nessun modo riesce a dare corpo a una ammissibile censura sulla illogicità della motivazione riguardante la credibilità della teste, la quale è stata fondata su una serie di ulteriori elementi di fatto valorizzati in sentenza e non contestati nel ricorso.
Anche il tema della prova oggettiva della effettiva manifestazione, sin dal 24 ottobre, dei sintomi della cauda per i quali le linee-guida prescrivono un intervento di decompressione nelle 24-48 ore, risulta congruamente affrontato nella sentenza impugnata ove sono posti in evidenza i numerosi e gravi elementi (la certificazione rilasciata dal dott. D.B. ; la assoluta non significatività della diversa data riportata nella relazione di dimissione del paziente dal C.T.O. di Firenze l’11 novembre; il grado di recupero incompleto del paziente, dopo l’intervento, come accertato dal c.t. della persona offesa) dimostrativi della correttezza della ricostruzione sostenuta dalla accusa e del tutto razionalmente condivisa dai giudici, con una motivazione alla quale la difesa ricorrente oppone soltanto diversi elementi di fatto, considerazioni congetturali e, in definitiva, una alternativa ricostruzione di quelli, che è prospettiva non perseguibile nella sede di legittimità.
13.2. Il secondo motivo è inammissibile per analoghe considerazioni.
La contestazione della motivazione sul nesso di causalità ha natura e valenza meramente fattuali, fondandosi sul presupposto della preferibilità della tesi dell’imputato circa il momento in cui ebbe effettivamente conoscenza della gravità dei sintomi e della condizione del paziente e, conseguentemente spostata in avanti di una settimana tale evenienza -, sulla richiesta che sia riconosciuta la assenza di qualsiasi rimproverabilità nelle sue scelte diagnostiche e terapeutiche. Il tutto, con sollecitazione, altresì, del riconoscimento che il rapporto di causalità con l’evento andrebbe ridelineato, dovendo esso essere riferito all’unica condotta colpevole individuabile: quella della persona offesa che, pure invitata tempestivamente a recarsi al pronto soccorso, avrebbe lasciato trascorrere numerosi giorni prima di sottoporsi all’intervento chirurgico.
Ebbene, va ribadito che la proposta di alternativa ricostruzione delle emergenze fattuali non è ricevibile dalla Cassazione, dovendosi piuttosto notare che il rapporto di causalità è stato razionalmente delineato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, nel rispetto degli approdi condivisi della giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 22213). Con riferimento, cioè, alla natura della patologia accertata; alla gravità dei relativi sintomi che danno indicazione di intervento urgente nelle 48 ore secondo le acquisizioni scientifiche non contestate nemmeno dalla difesa; al momento di acquisizione della conoscenza dei sintomi da parte del sanitario cui il paziente si era affidato; al comportamento gravemente negligente e ingiustificatamente omissivo, motivo dell’inescusabile ritardo che ha dato luogo al non tempestivo riconoscimento della patologia, al suo aggravamento e all’instaurarsi dei postumi neurologici accertati.
Un comportamento che la giurisprudenza costante di questa Corte inquadra nella cornice della negligenza avendo il medico l’obbligo di seguire, appunto con diligenza, il decorso della sintomatologia del paziente che a lui si affida ed essendo suo dovere assicurare, attraverso i concordati controlli periodici, nonché interpretando e valorizzando le sintomatologie riferite, o comunque apprese, che l’intervento eventualmente richiesto con urgenza abbia luogo o venga indicato come indifferibile, mediante le necessarie comunicazioni (vedi, tra le molte, Sez. 4, n. 40703 del 14/06/2016, Roggia, Rv. 267778).
14. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma che si reputa equo determinare in Euro 2.000,00.
In virtù del principio della soccombenza, il ricorrente deve anche essere condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate, alla luce della nota depositata, come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 alla cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, oltre gli accessori di legge.
APPENDICE
La diffusione ai terzi di dati sensibili
MASSIMA
Nel regime della L. n. 675 del 1996, l’ultimo inciso dell’art. 23 di essa, in situazione in cui il sanitario e la struttura sanitaria, nell’ambito del rapporto curativo, avesse acquisito dati personali sullo stato di salute dell’interessato il cui trattamento risultava indispensabile per la tutela dell’incolumità e della salute dei terzi o della collettività, in presenza di un’originaria autorizzazione dell’interessato ad informare circa la vicenda curativa i suoi familiari e, quindi, al trattamento, si doveva non solo ritenere autorizzato a rivelare i dati ad essi, senza necessità di intervento del Garante, ma obbligato a farlo, con la conseguenza che un comportamento omissivo, dal quale fosse conseguita, in ragione della mancata conoscenza dei dati stessi, una lesione dell’integrità o della salute dei terzi o della collettività, risultava idoneo a cagionare danno ingiusto agli effetti dell’art. 2043 cod. civ.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE, SENTENZA 16 maggio 2017, n.11994 - Pres. Chiarini – est. Frasca
Svolgimento del processo
1. L’Azienda Sanitaria Provinciale di (…) ha proposto ricorso per cassazione contro S.M.G. e S.P. , nella qualità di eredi di S.G. , nonché nei confronti della Compagnia di Assicurazioni Unipol s.p.a. avverso la sentenza del 20 maggio 2014, con cui la Corte d’Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Crotone nel febbraio del 2008, ha condannato essa ricorrente al risarcimento del danno nella misura di Euro 13.053,71 oltre accessori, in accoglimento della domanda proposta nell’ottobre del 2002 dal padre delle ricorrenti, S.G. , cui le stesse erano succedute riassumendo il processo di appello a seguito del suo decesso.
2. La domanda introdotta dal de cuius aveva ad oggetto il risarcimento dei danni che il medesimo asseriva di avere subito a seguito di contagio di HCV, che asseriva di aver contratto dalla moglie L.G. , la quale, prima di decedere il 14 gennaio del 2002, era stata sottoposta negli ultimi anni di vita ad intense cure ed interventi di dialisi presso la struttura ospedaliera dell’ASL n. (omissis) con trasfusioni infette che ne avevano provocato la morte. A fondamento della pretesa risarcitoria il S. lamentava che la struttura ospedaliera, pur risultando da un referto di analisi del 6 marzo 2000 che la Longo era affetta dalla patologia, non gli aveva mai comunicato la circostanza, così impedendogli di adottare le necessarie cautele per sottrarsi al contagio.
3. Al ricorso, che si fonda su due motivi, hanno resistito le S. , mentre non ha svolto attività difensiva la società assicuratrice intimata, che era stata chiamata in causa dall’Azienda Sanitaria e nei cui confronti quest’ultima ha rinunciato alla manleva.
4. La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. "violazione ovvero falsa applicazione degli artt. 1, 11, 20, 22 e 23 della Legge 31 dicembre 1996 n. 675 (abrogata dal d.lgs. n. 196/2006, ma comunque vigente all’epoca dei fatti) e violazione ovvero falsa applicazione dell’art. 31, dell’art. 9 e dell’art. 30 del Codice di Deontologia Medica approvato nel 1998".
L’illustrazione del motivo si articola nei termini seguenti:
a) inizia con la dichiarazione di voler impugnare la decisione "nella parte in cui, alle pagine 8/9 ha ritenuto di inquadrare nell’ambito della responsabilità extracontrattuale la responsabilità dei sanitari dell’ASP di (…) per via della (...) mancata informazione al S. della patologia contagiosa della consorte, atteso che, per un verso, la L. aveva autorizzato una tale comunicazione, e per altro verso, che ella non era in grado di comprendere la natura della patologia da cui era affetta";
b) prosegue osservando che nelle pagine 9, 10 e 11 la sentenza impugnata avrebbe individuato la violazione degli artt. 1, 11, 20, 22 e 23 della I. n. 675 del 1996 e degli artt. 31, 9 e 30 del Codice di Deontologia Medica del 1998;
c) assume che: c1) "in virtù del quadro normativo così inquadrato", la corte catanzarese - di cui si riproduce un passo riportato a pagina 12 della sentenza - ha argomentato che "il complesso delle norme delineate comporta, a parere del collegio, la indicazione di un comportamento doveroso imposto al sanitario, al quale è consentito di accantonare i doveri derivanti dal segreto professionale quando sia in grave pericolo di (rectius: la) salute o la vita di altri, e quelli derivanti dal divieto di comunicazione dei dati ultrasensibili quando vi sia necessità di tutela dell’incolumità fisica e della salute del’interessato e di terzi"; c2) che "conseguentemente" la sentenza - come emergerebbe da un passo motivazione a pagina 14, che si riproduce - ha ritenuto che "l’aver i sanitari dell’ASP di (…) omesso di comunicare al S. la patologia, grave e contagiosa, da cui era affetta la L. , costituisce violazione di un obbligo generico di evitare il danno, come desumibile dal contesto normativo, ed è pertanto fonte di responsabilità in confronto del S. , soggetto colpito dall’evento che la disciplina è intesa ad evitare";
d) sostiene, di seguito, che "dal ragionamento sviluppato dal Giudice di secondo grado i generali obblighi di riservatezza sul trattamento dei dati personali della paziente, normalmente imposti ai sanitari, nel caso de quo, sarebbero dovuti essere accantonati alla luce dei gravi danni che i terzi avrebbero potuto patire per una presunta e mai provata incapacità di intendere e di volere della sig.ra L. che le avrebbe impedito di poter informare prontamente i propri familiari".
Le considerazioni che, sulla base di tali premesse asseritamente evocative della sentenza impugnata, vengono sviluppate di seguito, nelle pagine 12-17 del ricorso, si muovono, quindi, sull’assunto che in atti non risultava provata la mancanza di capacità di intendere e di volere della L. e che, nel sistema delle norme della L. n. 675 del 1996 e del Codice Deontologico del 1998 emergerebbe un bilanciamento fra il diritto alla riservatezza del paziente e la tutela della salute dei terzi o della collettività, nel senso che solo in situazione in cui il paziente sia incapace di intendere e di volere e, quindi, di disporre del suo diritto, quest’ultimo arretrerebbe di fronte a quella tutela e gli operatori sanitari potrebbero disporre dei dati riservati di loro conoscenza, mentre, qualora "il paziente sia capace di intendere e di volere e conseguentemente di proteggere, egli per primo, la salute dei suoi congiunti, sussiste(rebbe) ancora l’obbligo di riservatezza in capo agli operatori sanitari che lo hanno in cura, anche laddove questi ultimi abbiano preventivamente ricevuto l’indicazione dei nominativi da poter contattare nell’ipotesi in cui sia concretamente messo in grave pericolo la loro salute".
Poiché nel caso di specie né in primo né in secondo grado era stato accertato che il disturbo bipolare misto con manifestazioni incongrue dell’umore sofferto dalla L. , avrebbe potuto determinare un suo stato di incapacità di intendere e di volere, tale da impedirle di informare i propri familiari sul proprio stato di salute, l’obbligo di riservatezza dei sanitari non risultava venuto meno. L’esistenza della capacità di intendere e di volere della L. e la circostanza che i sanitari avevano adempiuto correttamene all’obbligo di informazione nei suoi riguardi circa la contrazione dell’HCV cronica, da un lato, dall’altro la circostanza che la dichiarazione, sottoscritta dalla L. il 17 gennaio 2000, di autorizzazione a fornire informazioni sul proprio stato di salute solo ai signori S.M.G. , S.P. e S.G. , sarebbe stata da ritenere limitata all’impossibilità della L. di fornire quella informazione, avrebbero impedito ai sanitari di procedere all’informazione.
Mette conto di rilevare che tutte le riferite argomentazioni vengono svolte nel presupposto, ribadito a pagina 16, e basato sulla frase della Corte territoriale riprodotta sopra sub a), che Essa sarebbe pervenuta ad addebitare la responsabilità ai sanitari, per l’omessa informazione al defunto S.G. , assumendo come presupposto di essa che la defunta moglie, cioè la L. , versasse in una situazione di incapacità di intendere e di volere.
1.1. Il motivo è inammissibile, perché, assumendo erroneamente l’esistenza del detto presupposto motivazionale, non si correla all’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata e, comunque, prospetta una ricostruzione delle norme che regolavano l’operato dei sanitari priva di fondamento.
Del tutto infondatamente, infatti, il motivo attribuisce alla sentenza impugnata di avere assunto come presupposto per l’affermazione della responsabilità dei sanitari uno stato di incapacità di intendere e di volere della L. .
Si rileva, in primo luogo e sarebbe dirimente, che il passo della sentenza impugnata, che viene evocato all’inizio dell’illustrazione del motivo e che si è riportato sub a) è enunciato dalla sentenza in forma di interrogativo in limine della motivazione, dopo il rilievo che nella prospettazione dell’attore si rivendicava come dovuta l’informazione in suo favore e non come obbligo verso la paziente L. (si veda l’intera pagina 8 della sentenza, prima del passo riportato), come, del resto, fa manifesto l’inciso di esordio, non riprodotto dalla ricorrente, che è il seguente: "In altre parole quel che qui rileva è se possa considerarsi....". È palese che la sede e la modalità di enunciazione del passo di cui si ragiona lo fanno del tutto privo di valenza affermativa, anche solo per condivisione, dell’esistenza della incapacità della L. .
Ma, inoltre, e comunque, ancorché non ve ne sia bisogno, la conferma della sua mancanza di forza motivazionale emerge per il fatto che nell’ampia motivazione che la Corte calabra ha, poi, enunciato, per pervenire all’affermazione dell’obbligo dei sanitari di informare il S. , e che si sviluppa, dopo la frase programmatica riportata alla pagina 8, fino alla pagina 14, non v’è mai alcuna affermazione a sostegno dell’iter logico seguito, che la L. versasse in situazione di incapacità di intendere e di volere, ma viene, al contrario, valorizzata, dopo l’analisi del tessuto normativo evocato dal motivo in esame, l’esistenza dell’autorizzazione all’informazione data dalla L. , che viene indicata come alternativa a quella del Garante.
Ne segue, poi, la conclusione - che chiude il percorso motivazionale, innestandosi sull’affermazione che la patologia della L. era idonea ad arrecare danno grave alla salute ed all’incolumità dei terzi - che "mentre di norma il sanitario che sia in possesso dell’autorizzazione può comunicare i dati di salute del concedente ai soggetti indicati, egli deve farlo quando tale comunicazione sia diretta ad evitare il danno alla salute ed all’incolumità proprio di quei soggetti a cui la informazione può essere data", e, quindi, l’ulteriore notazione che "in tal senso l’omissione è ingiusta perché contraria all’obbligo generico - di impedire quell’evento, ossia quel danno alla salute che, nel caso, si è puntualmente verificato con il contagio".
La Corte territoriale ha, dunque, ritenuto non già che i sanitari avessero il dovere di informare il de cuius, perché la L. si trovava in situazione di incapacità di intendere e di volere, bensì perché l’autorizzazione all’informazione da essa data rendeva i sanitari obbligati all’informativa verso il terzo, cioè il de cuius. La Corte ha ritenuto tale autorizzazione come alternativa a quella che avrebbe potuto dare in sua mancanza il Garante, evidentemente a norma dell’ultimo inciso dell’art. 23 della L. n. 675 del 1996, che non a caso è richiamato a pagina 11 della sentenza.
L’illustrazione del motivo si è del tutto disinteressata dell’effettiva motivazione della sentenza e l’assenza di critica della ratio decidendi, derivante dall’assunzione di un presupposto motivazionale inesistente, rende il motivo inidoneo allo scopo e, dunque, nullo e, perciò inammissibile.
1.2. Mette conto, comunque, di rilevare che l’esegesi scelta dalla Corte territoriale con riferimento al regime normativo regolante la vicenda appare pienamente corretta, atteso che, quando l’ultimo inciso dell’art. 23 della L. n. 675 del 1996 disponeva che, se le finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute, supposte dall’inciso precedente a proposito dell’interessato alla tutela dei dati riservati, riguardavano un terzo o la collettività, in mancanza del consenso dell’interessato, il trattamento "potesse" avvenire previa autorizzazione del garante, intendeva certamente riferirsi sia all’ipotesi di impossibilità di prestare il consenso da parte dell’interessato (ad esempio, proprio per incapacità di intendere e volere), sia all’ipotesi di un suo rifiuto di prestarlo, ma nel contempo, nonostante l’uso del verbo "potere", non poteva essere letto nel senso di limitarsi soltanto a legittimare il sanitario al trattamento informativo a garanzia del terzo o della collettività, senza autorizzazione del Garante, certamente nel caso di prestazione del consenso dell’interessato nell’immediato, ma anche nel caso di prestazione del consenso all’inizio dello svolgimento della prestazione e, quindi, del trattamento (come accaduto nel caso di specie) e, naturalmente, purché il consenso non fosse stato revocato.
In effetti, per l’evidenza derivante dalla natura prioritaria dell’interesse tutelato con il trattamento, sia quando fosse stato del singolo terzo sia quando fosse stato della collettività, in realtà, come ha osservato la Corte territoriale, configurava un vero e proprio dovere di attivarsi. E ciò o con la richiesta di autorizzazione al Garante, quando necessaria o con l’iniziativa diretta, quando non fosse stata necessaria.
Quello che apparentemente la norma costruiva come un potere di trattamento era, in realtà, un dovere di trattamento e, dunque, di attivarsi per informare il terzo o la collettività, esistendo il consenso preventivo o manifestato nell’immediato, e di attivarsi rivolgendo richiesta al Garante, in mancanza di consenso nei sensi indicati. Tale conclusione è imposta dalla natura stessa dell’interesse tutelato: tanto quello del terzo quanto quello della collettività, inerendo alla salute e all’integrità (psico-fisica), sono, all’evidenza, interessi non disponibili, il che esclude che l’uso del verbo "potere" voglia suggerire una scelta in capo al sanitario di tutelarli oppure no.
Il motivo sarebbe, dunque, anche infondato sulla base del seguente principio di diritto: "Nel regime della L. n. 675 del 1996, l’ultimo inciso dell’art. 23 di essa, in situazione in cui il sanitario e la struttura sanitaria, nell’ambito del rapporto curativo, avesse acquisito dati personali sullo stato di salute dell’interessato il cui trattamento risultava indispensabile per la tutela dell’incolumità e della salute dei terzi o della collettività, in presenza di un’originaria autorizzazione dell’interessato ad informare circa la vicenda curativa i suoi familiari e, quindi, al trattamento, si doveva non solo ritenere autorizzato a rivelare i dati ad essi, senza necessità di intervento del Garante, ma obbligato a farlo, con la conseguenza che un comportamento omissivo, dal quale fosse conseguita, in ragione della mancata conoscenza dei dati stessi, una lesione dell’integrità o della salute dei terzi o della collettività, risultava idoneo a cagionare danno ingiusto agli effetti dell’art. 2043 cod. civ.".
Tanto si osserva non senza doversi rilevare che, quando il pericolo per il terzo o per la collettività fosse stato sì stringente da configurare la posizione del titolare del trattamento, in relazione alla particolarità della figura dell’operatore e della struttura sanitaria, addirittura come rilevante sotto il profilo della figura civilistica e penalistica dello stato di necessità, si sarebbe potuto dubitare che - mancando il consenso dell’interessato - la stessa autorizzazione del Garante non fosse necessaria, per la prevalenza dei presupposti di quella figura. Ma è questa una questione che non è necessario qui approfondire.
2. Con il secondo motivo ci si duole, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per "omesso esame da parte della Corte di Appello di Catanzaro sul fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti consistente nella tardività dell’eccezione sollevata dal sig. S.G. sull’incapacità della sig.ra L.G. ".
L’illustrazione del motivo muove dal presupposto che nella stessa sentenza impugnata lo svolgimento processuale di primo grado viene riferito dando atto che in sede di memoria ex art. 183 cod. proc. civ., il S. aveva replicato - alla comparsa della struttura sanitaria, che aveva dedotto che la L. era stata informata della contrazione del virus - eccependo che la L. sin dal 1992 era in cura presso il servizio psichiatrico dell’ospedale crotonese per un disturbo bipolare misto con manifestazioni incongrue dell’umore e che nella cartella clinica del 17 gennaio 2000 era contenuta una dichiarazione a firma della paziente in cui la stessa autorizzava i medici a fornire notizie sul proprio stato di salute al marito, S.G. , e ai figli, Maria Giuseppina e S.P. .
Si sostiene che le due "eccezioni" erano state tardive, perché non introdotte all’udienza di trattazione ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., ma con la memoria.
Quindi, si assume: aa) che la tardività era stata oggetto di discussione fra le parti e che il Tribunale l’aveva rilevata, affermando a pagina 5 che "sul punto si deve evidenziare che l’eccezione è tardiva essendo stata sollevata dalla parte attrice soltanto con memoria ex art. 183 c.p.c. e non anche all’udienza di trattazione così come prescritto dall’art. 183 c.p.c."; bb) che il S. nel proprio atto di appello non aveva "ribadito le eccezioni tardivamente formulate con la sua memoria (...) né ritenuto di dover impugnare le parti della pronuncia in cui è stata dichiarata detta tardività"; cc) che, ciò nonostante, la Corte territoriale aveva posto a fondamento della sua decisione "il presunto, ad ogni modo non provato e comunque tardivamente dedotto stato di incapacità di intendere e di volere della sig.ra L. (desunto, forse, dalle cure alle quali era sottoposta presso il servizio psichiatrico crotonese nel 1992), e quindi escluso la responsabilità della stessa per non aver informato il marito di aver contratto l’HCV cronica", nonché "esteso ai sanitari crotonesi la responsabilità del contagio del sig. S. , in virtù dell’autorizzazione della sig.ra L. a comunicare i dati relativi al proprio stato di salute ai propri congiunti, fatto anche questo, però, tardivamente dedotto".
2.1. Il motivo in primo luogo deduce una doglianza ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. in modo del tutto irrituale, atteso che non si denuncia l’omesso esame di un fatto rilevante ai fini della ricostruzione della quaestio facti, bensì un error in procedendo che avrebbe commesso la sentenza impugnata, dando rilievo a due fatti integratori di contro eccezioni, che sarebbero stati introdotti tardivamente in primo grado, sarebbero state tali ritenute dal primo giudice, e le cui statuizioni nemmeno sarebbero state censurate con l’appello dal S. .
Il motivo, dunque, avrebbe dovuti dedursi ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., denunciando violazione di norme del procedimento, in ultima analisi individuabili nell’art. 329 cod. proc. civ. quanto al giudizio di appello.
Peraltro, se lo si apprezza come tale, alla stregua di quanto ammette Cass. sez. un. n. 17931 del 2013, il motivo risulta manifestamente inammissibile per violazione dell’art. 366 n. 6 cod. proc. civ..
Non solo, non si identifica se e dove la sentenza di primo grado, di cui si riproduce il breve passo che avrebbe ritenuto la tardività, sia stata prodotta e sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità, siccome imponeva la suddetta norma, ma, inoltre, tale riproduzione, attesa la sua genericità nemmeno individua l’eccezione cui il primo giudice ebbe a riferirsi: si parla, tra l’altro di "eccezione" e non di "eccezioni". Si aggiunga che la sentenza impugnata, nel riferire dello svolgimento processuale di primo grado e del contenuto della sentenza di primo grado dice che il Tribunale osservò che l’autorizzazione del 17 gennaio 2000, data dalla L. , non comportava alcun obbligo dei sanitari di informare il marito e, quindi, secondo la sentenza impugnata, il Tribunale avrebbe considerato il relativo documento e non avrebbe reputato tardiva l’allegazione in esso contenuta.
Si rileva, poi, che ancora una volta la ricorrente ragiona della sentenza impugnata attribuendole di avere deciso considerando lo stato di incapacità della L. , ma s’è visto che così non è.
Inoltre, il motivo, come rivela la sua intestazione e come conferma la parte finale dell’illustrazione i si riferisce solo all’introduzione della questione relativa al detto stato e non alle emergenze della citata dichiarazione e, quindi, alla sua introduzione nel giudizio, sicché quanto a quest’ultima manca di attività assertiva.
Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile.
3. Il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nel rapporto fra ricorrente e resistente e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione alla resistente della spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro quattromilaottocento di cui 20 per esborsi oltre spese generali e accessorie. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qulateralel d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.