Ca' Dolfin a Venezia

1. Premessa

Noto ai più come Palazzo Dolfin - o come viene appellato nei testi antichi Palazzo Delfino, dai tre pesci presenti nello stemma della famiglia – dopo essere stato di proprietà della famiglia Secco, l’edificio fu dell’illustre famiglia veneziana per quasi due secoli per poi passare a vari proprietari, almeno cinque, in una cinquantina d’anni.

Dalla ricerca bibliografica e archivistica condotta in questa occasione, è stato possibile giungere a una soddisfacente ricostruzione delle fasi di trasformazione del palazzo nel periodo antecedente la caduta della Repubblica Veneziana, mentre per quando concerne il periodo successivo, essa risulta frammentaria.

Pur avendo riferimenti archivistici importanti, come quelli relativi al fondo della Prefettura, che avrebbero potuto far maggior chiarezza sul reale stato di conservazione del Palazzo al momento della sua alienazione avvenuta nel 1871, non è stato possibile prendere visione dei documenti in quanto da anni esclusi dalla consultazione.

La ricerca presso l’Archivio Comunale, se da un lato non ha dato alcun risultato per quanto riguarda l’intervento ottocentesco, più volte citato dalle fonti bibliografiche, dall’altro ha restituito un pezzetto di storia circa un piccolo intervento di ampliamento e modifica interna, avvenuto nel 1925.

Per quanto riguarda l’intervento di ristrutturazione avvenuto negli anni Cinquanta del Novecento - avvenuto a breve distanza di tempo dall’acquisto dell’immobile da parte dell’Università degli studi di Venezia - non vi è alcun documento depositato presso l’Archivio Comunale, mentre presso l’archivio della Soprintendenza ai Beni architettonici di Venezia si conserva solo piccola parte della corrispondenza intercorsa tra l’Istituto Universitario e il Genio Civile.

2. Dai primi insediamenti al secolo XVI

L’area in cui sorge Palazzo Dolfin risulta essere frequentata fin da tempi assai remoti.

Alcuni studi recenti evidenziano infatti che la tessitura urbanistica, facente capo all’orientamento della facciata della chiesa di San Pantalon, è quella tipica dei tracciati agrimensori altomedievali[1]. Questo tuttavia non fornisce reali indicazioni circa l’intensità d’insediamento dei lotti attestati sulla Crosera di San Pantalon.

Certo è che il lotto dove insiste Palazzo Dolfin era già edificato nel IX secolo, visti i reperti trovati sul lato destro dell’androne e venuti alla luce durante i lavori di consolidamento delle fondamenta effettuati a metà del secolo scorso. Si tratta di alcuni resti di fondazione appartenenti a un edificio di epoca bizantina, un pozzo e alcuni pilastri costruiti con altinelle[2] frammisti ad altri mattoni di epoca romana[3].

Per reperire ulteriori informazioni sull’area di Ca’ Dolfin[4], bisogna guardare a un periodo ben oltre il Mille. A partire da metà Duecento, essa apparteneva alla famiglia Barpo la quale era proprietaria di due rughe di case o curtis da segentibus[5] attestate sulla Crosera di San Pantalon, altri edifici dei quali non si conosce la funzione e una piccola superficie non edificata[6].

Per quanto riguarda il secolo successivo, analizzando i dati oggi disponibili, si rileva che nessuna trasformazione appare avvenire sul lotto in cui insiste Ca’ Dolfin, mentre per quanto attiene quello adiacente, che lambisce calle larga Foscari, è da segnalare la presenza di una kasa grande, di proprietà di Pancrazio Barbo e che nel 1309 viene lasciata in eredità al nipote Francesco[7].

Se la preziosa opera di Dorigo, Venezia romanica, è fondamentale per delineare la consistenza abitativa dell’area compresa tra calle della Saonaria e calle Larga Foscari, altrettanto lo è per stabilire il termine ante quem della presenza della famiglia Dolfin nel luogo che in seguito segnerà l’identificazione del ramo famigliare, ossia dei Dolfin di San Pantalon.

Apprendiamo infatti dal Dorigo che già nel 1259 Giacomo Dolfin possedeva una proprietà nel lotto prospiciente calle Larga Foscari, dirimpetto ai possedimenti Barbo[8].

Di Giacomo non si conosce molto se non che, originariamente, apparteneva al ramo dei Dolfin di San Canciano, che nacque a Venezia nei primi decenni del XIII secolo e che trascorse buona parte della sua vita a fare affari nel commercio, prima di approdare nel Maggior Consiglio nel 1261.

Dalle fonti bibliografiche si apprende inoltre che proprio a Giacomo Dolfin si deve la costruzione del primo palazzo di famiglia nella parrocchia di San Pantalon[9].

Anche se scarne, queste notizie servono per affermare una famigliarità con i luoghi della famiglia Dolfin, che nel corso del XVII secolo sceglierà nuovamente un’area vicina alla Crosera di San Pantalon, poco interna al Canal Grande, per stabilire la propria residenza.

Ma tornando allo sviluppo urbanistico nell’area oggetto di studio, per avere un’idea del tipo di edifici che vi insistevano, dobbiamo affidarci ai rilevamenti fatti da Jacopo de’ Barbari alla fine del Quattrocento.

Nella sua celebre Pianta prospettica di Venezia, edita nel 1500, si vede chiaramente la casa delle due Torri - meglio conosciuta come Ca’ Foscari –, con la sua notevole mole, che in parte nasconde gli edifici circostanti; leggermente distaccate sulla sua destra, si può vedere invece un gruppo disomogeneo di case di dimensioni assai minori, probabilmente non più alte di tre piani.

Ciò che è evidente nell’immagine rimandataci dal De’ Barbari è che lungo la Crosera di San Pantalon, calle che appare assai più larga di come la vediamo oggi, si attestavano ormai edifici di discrete dimensioni, che nel tempo avevano sostituito gli ultimi residui di domus de lignamine rilevate nei documenti trecenteschi[10].

3. Dalla Famiglia Secco ai nobili Dolfin

Dalle ricerche finora effettuate non è stato possibile individuare il periodo in cui i Barbo alienarono le proprietà che avevano nella parte terminale della Crosera di San Pantalon.

È probabile che il lotto affianco a quello di Ca’ Dolfin sia entrato nelle facoltà dei Renier già nel terzo quarto del secolo XV ossia quando Nicolò Renier, patron de nave, assoldò dei soldati e mise del proprio nella guerra che i Veneziani combatterono contro i Genovesi. Fu infatti grazie a questa impresa che Nicolò, nel 1381, venne ammesso nella nobiltà veneziana e per identificare il ramo della famiglia da inserire nell’elenco dei Nobil Homeni, venne specificato quello di San Pantalon[11].

Ciò sta a significare che a quella data i Renier abitavano già nella casa che, ancora oggi, possiamo parzialmente vedere sul finire dell’omonima calle, e di cui rimane ancora un’antica traccia nel portale gotico prospiciente il rio di Ca’ Foscari[12].

Per avere invece notizie sul lotto di Ca’ Dolfin, bisogna attendere fino al rilevamento d’estimo del 1582 quando Galeazzo Secco del qm. Gio. Antonio[13], abitante nella contrada di San Polo, dichiara di possedere “una casa da stazio posta in contrà di San Pantalon dalla qual cavo de fitto ogni anno ducati novantacinque et è tenuta adesso ad affitto per la Mag.ca Madonna Marcella Marcello”[14].

Dalla breve dichiarazione rilasciata da Galeazzo Secco si possono trarre due importanti dati: la tipologia dell’edificio affittato a Marcella Marcello e la rendita che da esso ricava.

Come viene definita da Mario Piana[15], la casa da stazio è la residenza della nobiltà e della borghesia mercantile con uno schema compositivo che poteva essere bi o tripartito: il portego perpendicolare alle vie d’acqua sul quale prospetta l’edificio e che lo attraversa per l’intera lunghezza, affiancato da una o due enfilade di stanze.

Se si mette assieme questo dato con i 95 ducati di affitto annui che Madonna Marcello pagava ogni anno[16], si può affermare, con buona certezza, che l’edificio dei Secco assomiglia più a un palazzo che a una casa di modeste dimensioni.

Alla morte di Galeazzo Secco i figli, ormai grandi e tutti residenti da tempo a Padova dove erano stati ammessi nella nobiltà cittadina, decisero di vendere la casa un tempo abitata dalla Marcello[17].

Fu il cardinale Giovanni Dolfin del ramo di San Pantalon – la stessa famiglia che da tempo, come abbiamo visto, risiedeva poco lontano dalla casa dei Secco – che, dopo una brillante carriera politica ed ecclesiastica[18], decise nel 1621 di acquistare la casa da stazio[19] dove poter trascorrere gli ultimi giorni che gli restavano da vivere.

Alla morte di Giovanni, avvenuta appena un anno dopo l’acquisto della casa, fu Nicolò, devoto nipote che lo accudì nei suoi ultimi giorni di vita, a ereditare i suoi averi.

Assieme alla casa acquistata da poco dallo zio, nella quale Nicolò trasferì fin da subito l’intera famiglia, egli ereditò anche la possesion polesana della Pincara, la quale gli rendeva ben 950 ducati di affitto annuo[20].

È perciò da ritenere che, non avendo avuto Giovanni il tempo necessario per adeguare la casa che fu dei Secco ai livelli di ‘decoro’ propri delle residenze delle famiglie di rango, quale era la famiglia Dolfin, sia stato Nicolò, grazie anche alla nuove cospicue entrate, a dare avvio ai lavori di rimaquillage di Ca’ Dolfin[21].

É ipotizzabile che tale intervento sia stato realizzato subito dopo il trasferimento della famiglia Nicolò Dolfin nella nuova casa, e comunque che non si sia protratto oltre la metà del secolo XVII[22].

La prima fonte che dà notizia delle trasformazioni avvenute nella casa da stazio dei Dolfin, è il Martinioni nel 1663, che nelle sue ‘aggiunte’ alla guida di Venezia del Sansovino scrive: “Sono ancora ragguardevoli li Palazzi di Nicolò Delfino gravissimo senatore, fabbricato anch’egli alla Romana e di Gio. Antonio Zeno prestantissimo Senatore, situati in rio di S. Pantalon.” [23].

Dalla lettura delle ‘aggiunte’, riguardanti altri edifici presi in considerazione dal Martinioni, si può rilevare che nelle sue descrizioni egli fa specifico riferimento a decorazioni o a stanze particolari, oppure dice “fabbricato pochi anni sono” [24].

Nel caso di Ca’ Dolfin, oltre a dare indicazioni della mole dell’edificio, definendolo ‘ragguardevole’[25], e al modo in cui era ‘fabbricato’, null’altro dice.

È quindi assai probabile che nel 1663 i lavori di ristrutturazione del palazzo fossero stati ultimati da tempo e che il riferimento allo stile adottato nella costruzione del palazzo, forse riguardasse semplicemente la facciata principale ossia quella prospiciente il canale.

La vicinanza con Palazzo Renier, oggi parzialmente demolito ma che in alcune immagini antiche appare con una facciata tipicamente gotica con fornici ad arco trilobato, doveva rendere ancora più evidente la trasformazione operata sulla facciata di Ca’ Dolfin (vedi: Foto 1).

L’operazione compiuta dal Dolfin infatti potrebbe aver riguardato semplicemente la ridefinizione del profilo delle aperture, svecchiandole da un retaggio stilistico ormai superato e adeguandole a un gusto moderno con l’utilizzo di archi a tutto sesto.

Se poi Nicolò avesse operato delle trasformazioni strutturali più importanti nell’edificio ereditato, è difficile da stabilire. Certo è che le fonti contemporanee, quale può essere il Martinioni[26], se fossero state a conoscenza della formazione di un salone delle dimensioni di quello di Ca’ Dolfin, non avrebbero sicuramente taciuto.

Alla morte di Nicolò, avvenuta nel marzo 1669, il palazzo di famiglia passò prima al figlio Daniele II, detto Andrea, e successivamente al nipote Daniele III più noto con il nome di Zuanne, che dedicò quasi tutta la sua vita al servizio della Repubblica alternando lunghi periodi di viaggi all’estero con brevi permanenze nella città natale.

E fu proprio durante uno dei periodi ‘casalinghi’ che Zuanne pensò di mettere mano alla sua residenza, migliorandone la struttura e arricchendola con nuove decorazioni.

Alcune fonti fanno coincidere l’intervento di restauro di Ca’ Dolfin con la visita a Venezia di Federico IV re di Danimarca e Norvegia[27], che nel lungo periodo di permanenza nella città lagunare fu ospite anche di una grandiosa festa tenuta da Giovanni e Girolamo Dolfin l’11 febbraio 1709[28].

Racconta Giustina Renier Michiel che il palazzo del Dolfin “non era fornito di troppa spaziosa sala” e quindi si dovette provvedere alla costruzione provvisoria di una sala in legno che copriva tutto il giardino, arredandola come fosse un ambiente interno[29].

Non furono gli unici però i Dolfin ad adottare questo stratagemma: anche gli altri deputati incaricati di rendere omaggio a sua maestà furono costretti a pensare a una soluzione che permettesse di ospitare un gran numero di persone in un ambiente protetto, vista l’ondata di freddo che caratterizzò l’inverno del 1709 con temperature assai rigide e bufere di neve[30].

Non fu quindi a causa dei lavori in corso nel palazzo Dolfin che la festa per Federico IV non si poté svolgere nei suoi ambienti interni ed è pure improbabile che il salone principale fosse già stato dipinto perché, come ricorda la Conticelli, se anche la progettazione della decorazione del salone fosse già stata ultimata, non si sarebbe mai potuto procedere con la sua realizzazione viste le temperature rigide di quell’inverno[31].

Per riuscire a definire un ambito temporale nel quale inserire l’intervento di restauro e di decorazione di palazzo Dolfin, bisognerà mettere assieme una serie di date in cui i vari soggetti impegnati nella realizzazione dell’opera possono essere compatibilmente entrati nel progetto.

Come abbiamo visto, Giovanni (Zuanne) Dolfin, non trascorreva mai lunghi periodi a Venezia tra un viaggio e l’altro, fatto salvo un intervallo pressoché ininterrotto che andò dal 1710 al 1715 in cui riprese a occuparsi dei suoi interessi seguendo di persona l’ampliamento del palazzo di città e l’abbellimento della villa che possedeva a Carrara San Giorgio in provincia di Padova[32].

La scelta di Domenico Rossi[33] quale progettista della sua residenza non fu certo casuale: già il fratello Dionigi lo assunse nel 1708 per la costruzione della sontuosa biblioteca dell’arcivescovado di Udine, decorata poi dallo stesso Nicolò Bambini che troveremo impegnato anche nel palazzo veneziano.

Subito dopo l’ultimazione del lavoro di Udine, Rossi decise di unirsi alla compagnia di artisti che verso la fine del 1710 si recarono a Roma per un viaggio studio: assieme a lui partirono gli scultori Pietro Baratta e Giuseppe Torretti, il cognato Giovanni Scalfurotto[34] anch’egli architetto, e altri due artisti minori[35].

Fu probabilmente al suo rientro a Venezia che Domenico Rossi venne contattato da Giovanni Dolfin. La scelta dell’architetto luganese fu suggerita sicuramente da Dionigi Dolfin, soddisfatto del lavoro che aveva portato a termine a Udine, ma anche perché, come verrà ricordato qualche anno più tardi da Temanza (1738), Rossi era sì un architetto che “poco o nulla intendeva di buon gusto dell’arte” ma era anche un uomo “molto pratico nel meccanismo degli edifici”[36] e per risistemare palazzo Dolfin ci voleva un professionista che fosse assai preparato in tecniche strutturali.

Per le decorazioni di Ca’ Dolfin, Giovanni chiamò gli stessi artisti che già Dionigi aveva assunto a Udine: Antonio Felice Ferrari e Nicolò Bambini.

La prima fonte che cita il Ferrari come esecutore dell’impianto decorativo di Ca’ Dolfin, è il Cittadella che nel 1783, nella sua opera Catalogo Istorico de’ Pittori e Scultori ferraresi e delle opere loro, così scrisse: “Dipinse il Ferrari in quella Dominante per il nobile Delfino, e tutto ornò il palazzo vicino a S. Pantaleone, la scala, e la magnifica sala, mescendo a meraviglia il vero con il finto onde meglio restasse l’occhio deluso”[37].

Dell’intervento di Antonio Felice non si hanno riferimenti post quem ma sicuramente deve ritenersi concluso ben prima del 1720, anno della sua morte, in quanto, come ricorda il Baruffaldi, Ferrari dovette abbandonare l’attività qualche anno prima a causa di un indebolimento della vista e del tremore che lo colpì alle mani[38].

Viene da sé che l’opera di Nicolò Bambini non può che inserirsi nello stesso periodo in cui il Ferrari eseguì il suo intervento[39].

Sappiamo inoltre che, come si conveniva a ogni buon fapresto, Bambini portò a termine la decorazione del salone di Ca’ Dolfin in appena quindici giorni. È lo stesso artista che lo riferisce all’inglese Edward Wright, in visita a Venezia tra il 1720 e il 1721, accompagnandolo in visita a palazzo Dolfin[40].

Definito l’ambito temporale nel quale è stata realizzata l’intera opera di ‘ammodernamento’ di Ca’ Dolfin, per capire la portata dell’intervento di restauro è necessario fare alcune considerazioni di tipo strutturale.

Il giudizio che Elena Bassi esprime su Domenico Rossi non è certo lusinghiero: lo descrive come uomo più incline ad assecondare i gusti dei committenti che non a sviluppare uno stile proprio, e pertanto pronto a creare anche un’opera priva di gusto e di armonia pur di compiacere chi lo pagava.

Forse influenzata dal giudizio del Temanza, la studiosa veneziana mette in dubbio che nella facciata di Ca’ Dolfini ci sia la mano di Domenico Rossi, se non nella realizzazione dell’ultimo piano, così poco armonizzato con il resto degli elementi compositivi[41]. È, infatti, sua convinzione che Rossi abbia operato una vera e propria sopraelevazione, aggiungendo un terzo piano su un edificio progettato da colleghi con doti ben più elevate delle sue.

Durante i lavori di restauro eseguiti sul finire degli anni cinquanta del Novecento, è stato però possibile appurare che non esiste alcun elemento di discontinuità tra il secondo e il terzo piano, pertanto il palazzo possedeva già quella tripartizione verticale tipica delle case veneziane e propria delle case da stazio[42].

Osservando le piante di Ca’ Dolfin, appare inoltre evidente che il piano terra, mantenne pressoché inalterato il suo impianto di casa da stazio, con portego centrale e due enfilade di stanze poste ai lati (vedi: Allegato 4 – Piano Terreno)[43].

Se poi passiamo al piano superiore, vediamo che l’avancorpo perse ogni connotazione dello schema tipico della casa veneziana: un unico salone infatti copre l’intera superficie, che in origine doveva essere tripartita con lo stesso schema del piano terra[44] (vedi: Allegato 5 – Primo Piano).

È interessante, a questo punto, citare un passo del testamento che Giovanni redasse poco prima della sua partenza per Costantinopoli, datato 31 aprile 1726: “a maggior decoro e comodo della casa mi è sortito, col Divino aiuto, di ristorare, migliorare et accrescere notabilmente le fabbriche di Venezia, Mincana, Frata e Cavarzere con grave dispendio, fatica et aplicazione”[45].

Incrociando questo passo delle ultime volontà di Giovanni Dolfin con una lettura attenta delle piante dell’edificio, è da ritenere che Rossi abbia costruito un corpo nuovo a forma di L sul lato che guarda il giardino, addossandolo alla vecchia fabbrica[46], ipotesi questa che trova riscontro anche nei rilevamenti fatti durante i lavori di restauro eseguiti negli anni Cinquanta, quando fu possibile appurare che non esisteva ammorsamento tra le pareti della vecchia casa da stazio e il corpo aggiunto successivamente.

A fronte di tali dati oggettivi, trova spiegazione l’affermazione del Dolfin, “accrescere notabilmente le fabbriche”, poiché l’aggiunta del corpo a L ha di fatto raddoppiato le dimensioni del palazzo (vedi Allegati).

Il testamento di Giovanni Dolfin prosegue poi con una preghiera indirizzata ai suoi commissari e ai suoi figli: “Prego però li miei commissari e raccomando con tutto il cuore gli amati figli, d’averne cura e di conservarle in buon stato, mentre col poco si mantiene ciò che non si fabrica col molto”[47], sottolineando che l’impegno economico per la realizzazione dell’ampliamento non fu proprio cosa da poco.

Consapevole che nel salone di Ca’ Dolfin mancava parte di quell’arredo che l’avrebbe elevato a “magnifica sala”, Giovanni Dolfin, nel suo testamento, stabilì che se fosse tornato vivo da Costantinopoli, avrebbe fatto dipingere dei quadri dai più celebri pittori e li avrebbe collocati lungo le pareti; se invece la sorte gli fosse stata avversa, dava comunque mandato ai suoi commissari per realizzare le sue volontà.

Sappiamo però che tra la data di stesura del testamento, 31 marzo 1726, e la sua partenza, avvenuta 27 giugno dello stesso anno, Giovanni scelse di contattare direttamente il pittore più adatto per dipingere le tele con episodi di storia romana. Nel 1729 Giambattista Tiepolo consegnò l’ultimo quadro finito[48].

Quest’ultimo episodio, da solo, può ben delineare la personalità di Giovanni Dolfin che nemmeno nel momento in cui era in procinto di partire per quello che lui intuiva essere il suo ultimo viaggio[49], volle delegare ad altri un compito delicato come quello di decidere il nome dell’artista e il soggetto delle tele che dovevano ornare la stanza da lui tenuta in maggior considerazione.

Allo stesso modo, si potrebbe pensare che Giovanni non abbia delegato completamente all’architetto nemmeno la ristrutturazione della sua casa. Conoscendo poi l’inclinazione del Rossi di assecondare i gusti della committenza, potrebbe essere che la scelta compositiva della facciata, così poco armonica sia nelle forme che nelle misure, sia frutto di una stretta collaborazione tra i due, dove sicuramente hanno prevalso più i suggerimenti di Giovanni Dolfin che non l’esperienza del professionista[50].

Nel suo testamento Giovanni designa anche i suoi successori alla guida della famiglia. Egli infatti rivolgerà ai figli Daniele V, da poco eletto al soglio di Aquileia, Giovanni, suo primogenito, e Andrea la preghiera di condurre con giudizio gli affari di famiglia.

Di Giovanni sappiamo che non ebbe progenie, mentre Andrea era già padre di Zanetto, nipote prediletto di Giovanni Dolfin (Daniele III). Tutti, escluso naturalmente Daniele V, risiedevano nel palazzo di San Pantalon[51].

Un bello spaccato su come doveva essere la distribuzione delle stanze a Ca’ Dolfin lo delinea un inventario del 1771, redatto in occasione della morte di Bertucci Dolfin[52].

Ciò che colpisce nella lettura del documento è la grande quantità di suppellettili d’arredamento conservate all’interno del palazzo. Vengono elencati non solo quadri, ma anche sedie, armadi in quantità, e le tappezzerie, che a seconda della loro natura, davano il nome alle stanze, come la camera dei velluti o quella delle trine.

Da un conteggio veloce di tutte le stanze presenti nel palazzo, compresi i locali di servizio e le stanze nei mezà affittate a terzi, si arriva all’incirca a una settantina di locali. Un numero decisamente cospicuo che a fatica si riesce a far collimare con gli spazi presenti nel palazzo.

A parte il salone grande, che apre l’elenco dell’inventario, la biblioteca, ricca di libri, archivi, carte e globi geografici, che si trova al piano superiore, e una stanza denominata “appartamento dal canto di Ca’ Renier”, delle altre stanze è difficile capirne la collocazione esatta. E’ assai probabile che nell’elenco vengano denominate “camere” anche porzioni di stanze ottenute magari con l’utilizzo di armadi o separé.

Allo stato attuale delle ricerche, non è possibile stabilire quali ulteriori lavori siano stati compiuti a palazzo Dolfin nella seconda metà del secolo XVIII.

Dopo Zanetto, il palazzo passerà ad Andrea, ultimo discendente dei Dolfin del ramo di San Pantalon.

Come tutti i suoi predecessori, anche Andrea intraprese la carriera politica diplomatica. Fu ambasciatore in Francia con un occhio sempre rivolto a quanto succedeva oltre oceano, non meno di quanto potesse fare un moderno inviato speciale.

I suoi impegni all’estero gli impediranno di fatto di occuparsi pienamente delle sue proprietà; sarà comunque la moglie, Giustiniana Gradenigo, a provvedere ad eventuali modifiche da apportare nella loro casa.

In un lettera che essa scrive al marito nel 1780, appare infatti evidente la dinamicità con cui si provvedeva all’occorrenza delle stanze maggiormente frequentate.

Scrive infatti Giustiniana a riguardo della stanza trasformata in casino: “La nuova camera è terminata affatto ed è divenuta nel suo semplice assai buona. Dove v’era la porta famosa in questione ho fatto poner una specchieretta con lume a vernice simile alle suaze, la quale è elegantissima. Due canapè, due soffadini, e careghini tutti egualmente vernisati. La spesa non è riuscita gravisissima perché fatta con respiro, e con molto giudizio”[53].

Rientrato a Venezia al tramonto della gloriosa Repubblica, Andrea si prodigò non poco nella transazione di poteri ai Francesi, ma questo non lo risparmiò dall’essere incluso nella lista degli ostaggi consegnata al generale Bolland.

Ricchissimo e senza eredi, i figli Zanetto e Bianca gli erano entrambi premorti, Andrea trascorse gli ultimi suoi giorni tra la residenza padovana e il palazzo a san Pantalon[54].

La moglie Giustiniana invece gli sopravvivrà fino al 1814.

4 Dall’ultimo Dolfin all’Istituto Universitario

Con Andrea non si estinse solo un ramo della famiglia, la sua morte segnò anche l’inizio dello uno stato di abbandono per Ca’ Dolfin.

Non è dato sapere se la moglie Giustiniana abbia preferito la residenza di Padova o il palazzo di Venezia per trascorrere il resto dei suoi giorni, di certo, come abbiamo visto anche nel caso della formazione di un casino per accogliere i suoi amici, senza l’appoggio del marito non deve aver fatto grandi investimenti sul palazzo.

Le vicende successive di Ca’ Dolfin non sono diverse da quelle di altri palazzi di famiglia, passati a lontani parenti che non se ne curavano.

La parente più prossima di Andrea, alla quale andranno le proprietà di casa Dolfin, fu Cecilia, sposata a Francesco Lippomano e, alla morte di costei, tutto il patrimonio, compreso il palazzo di San Pantalon, entrerà nella facoltà di suo figlio Gaspare.

I Lippomano, oltre alle innumerevoli proprietà che possedevano in tutto il Veneto, in special modo nel Trevigiano, avevano il loro palazzo di famiglia a San Basilio.

È quindi difficile pensare che Gaspare, nei suoi soggiorni veneziani, abitasse nella casa che fu di lontani parenti; potrebbe essere che lo avesse affittato ma, visti i notevoli introiti su cui poteva contare dalle altre proprietà, è possibile che lo tenesse semplicemente chiuso.

Questa ipotesi potrebbe essere avvalorata dallo stato di conservazione in cui versava Ca’ Dolfin quando, morto Gaspare nel 1854, passò di proprietà a Giovanni Querini Stampalia[55].

La miglior descrizione di come poi siano andate le cose per palazzo Dolfin, la traccia lo Zorzi dicendo che Giovanni Querini Stampalia, filantropo e mecenate, “non seppe da vivo trovare amici e consiglieri che gli dicessero esser vandalismo lasciar cadere a pezzi un palazzo ed una facciata veramente magnifici”.

E aggiunse poi un tragico particolare, quasi che Ca’ Dolfin fosse stata trasformata in una cava di materiali: “quando ad uno stabile di casa Querini occorreva un gradino di scala, un’imposta di finestra o di porta, una vera da pozzo, una trave, una colonna, un marmo, o delle pietre, si diceva al capo mastro ‘andate in palazzo’, ed il capo maestro, o chi per esso, dal palazzo (...) pigliavasi l’occorrente, o disfacendo una porta della scala o lasciando senza imposta una porta, o senza pietre un muro” [56].

A rendere ancor più difficile la situazione per il mantenimento di Ca’ Dolfin, ci fu poi il fisco. Le tasse ereditarie, calcolate alla morte di Giovanni Querini, raggiunsero una cifra tale che la Fondazione da lui istituita, che prevedeva l’istituzione di una Galleria d’arte e di una biblioteca a uso pubblico che doveva aprire negli orari in cui altre pari istituzioni erano chiuse, si vide costretta a vendere parte del suo patrimonio.

A farne le spese fu proprio Ca’ Dolfin con i suoi tesori. Le prime ad essere alienate furono le dieci tele con le storie romane del Tiepolo che, per appena 6.000 lire, vennero acquistate dal mercante d’arte Michelangelo Guggenheim[57].

Appena due mesi dopo, il 29 agosto 1871, toccò a palazzo Dolfin finire sul mercato immobiliare. Fu ancora una volta Michelangelo Guggenheim ad approfittare dell’occasione: la cifra esborsata fu talmente esigua da rasentare quasi il ridicolo tanto che dovette intervenire l’Ufficio di Tutela per verificare la legittimità della vendita[58].

Probabilmente, come protestò giustamente Giuseppe Mayer il 24 luglio del 1871[59], il palazzo senza le tele non aveva più alcun pregio, tanto più se lo stato di abbandono e di depredazione di materiali lo aveva ulteriormente deteriorato.

Divenuto un ‘peso’ anche per Guglielmo Guggenheim che ormai, già come aveva fatto Giovanni Querini prelevando quanto gli necessitava per la manutenzione delle altre sue proprietà, aveva depredato di tutto ciò che di artistico ancora si trovava all’interno del palazzo, Ca’ Dolfin venne venduta, nel 1876, all’architetto milanese Giovanni Battista Brusa[60].

Il Brusa non era solo un architetto ma anche un grande fotografo, sensibile alle nuove correnti artistiche che in quel periodo si stavano facendo strada nella città lagunare.

É probabile che Brusa abbia iniziato subito i lavori di ristrutturazione di Ca’ Dolfin, visto che già nel 1879 egli poté ospitare il giovane Luigi Nono nel suo palazzo di San Pantalon[61].

Le successive vicende di Ca’ Dolfin, si possono considerare come storia recente.

Il primo intervento documentato nel XX secolo, è quello del 1925 quando Paolo Labia, nuovo proprietario di Palazzo Brusa, inoltrò formale richiesta agli organi competenti per poter effettuare dei lavori di ristrutturazione all’interno del palazzo e per poter aggiungere un nuovo piccolo corpo di fabbrica sul prospetto verso il giardino (vedi Allegati)[62].

Dalla lettura delle piante, è possibile ipotizzare che, come già probabilmente fece il Brusa, anche Labia abbia voluto migliorare la distribuzione degli ambienti interni in modo da poter ricavarne degli appartamenti.

La trasformazione più consistente però Ca’ Dolfin la subì sul finire degli anni cinquanta del Novecento, quando perse definitivamente la sua funzione domestica per essere trasformata in sede Universitaria.

Di questo intervento purtroppo non si può dire molto in quanto i documenti depositati presso la competente Soprintendenza non illustrano nello specifico le fasi di lavoro portate a termine[63], mentre quelli che di logica avrebbero dovuto essere conservati presso l’Archivio Comunale, non è stata riscontrata alcuna traccia, come se nessuna autorizzazione fosse mai stata richiesta.

I due documenti più interessanti rinvenuti presso gli uffici della Soprintendenza, riguardano: uno i danni provocati dal getto di una platea in calcestruzzo al piano terra che ha causato lo scivolamento del corpo di fabbrica prospiciente al canale con conseguente fessurazione verticale, per mancanza di ammorsature, tra corpo principale dell’edificio e quello che guarda verso il giardino[64]. L’altro invece, più nello specifico, il soffitto del salone principale. L’impalcato ligneo che sorreggeva la soffittatura affrescata presentava gravi consunzioni nelle testate delle travi e nella parte centrale delle stesse. Tale deterioramento era la causa dell’inflessione del soffitto che, se non si interveniva con tempestività, avrebbe potuto crollare.

Purtroppo, la mancata visione dell’archivio del Genio Civile, ente che ha seguito nei dettagli il restauro di Ca’ Dolfin, non permette di aggiungere molto altro su un intervento di restauro che avrebbe potuto essere documentato in modo molto dettagliato.

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Pedrocco, Filippo (1996). Appunti per una storia del mecenatismo artistico della famiglia Dolfin. In: Splendori di una dinastia: l’eredità europea dei Manin e dei Dolfin. Milano.

Dorigo, Wladimiro (2003). Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all'età gotica. Padova.

Piana, Mario (2004). Materiali, tecniche, sistemi costruttivi dell’architettura lagunare; problemi di conservazione e di nuova utilizzazione. Relazione tenuta a Granada.

Filippi, Nadia Maria (a cura di) (2006), Donne sulla scena pubblica: società e politica in Veneto tra Sette e Ottocento. Milano.

[1] (Dorigo 2003, Tavole)

[2] Le altinelle sono laterizi di piccole dimensioni (alt. 4 cm, lung. 17,5 cm, prof. 8,5 cm) impiegati normalmente in opere di pavimentazione in tarda età imperiale soprattutto nella terraferma. Questi mattoni devono il loro nome alla città dalla quale venivano prelevati, Altino, ormai divenuta una grande ‘cava’ dove prelevare materiali da reimpiegare nella più sicura Venezia.

[3] Longega 1963, p. 45

[4] Quando si parla di ‘area di Ca’ Dolfin’, si intende anche il lotto in cui era costruita Ca’ Renier, oggi giardino della sede universitaria di Ca’ Dolfin, estesi fino alla Crosera di San Pantalon.

[5] Come scrive Concina questo modello di insediamento è molto antico: accanto alla casa domenicale o da stazio, in genere prospiciente il canale, vengono costruite anche dei gruppi di abitazioni da serzenti o sarzenti in un rapporto di dipendenza tra insediamento domenicale e quello destinato agli inquilini dell’edilizia d’affitto aggregata (1989, pp. 131-132)

[6] Nella pianta pubblicata nel libro Venezia Romanica, si vede infatti la situazione insediativa nell’area di Ca’ Dolfin, antecedente al 1300. Si può ben individuate calle della Saoneria, che dalla Crosera di San Pantalon taglia perpendicolarmente l’area per finire nel canale di Ca’ Foscari e i lotti che su essa si attestavano. (Dorigo 2003, vol. II, p. 909).

[7] Tra il 1300 e il 1360 il lotto dove sorge Ca’ Dolfin risulta ormai completamente insediato e la Crosera di San Pantalon è completata. Nessuna notizia però si ha invece sul tipo di residenza costruita sul lotto. (Dorigo 2003, vol. II, p. 909)

[8] (2003, vol. II, p. 909)

[9] Pozza 1991, vol. XL, ad vocem

[10] Nel 1331 Caterina, vedova di Marco Barbo, vendette a Betta Barbo tre domus de sergentibus de lignamine simul coniucte et duo hospicia sive proprietas a trabadura inferius cum una curticella (Dorigo 2003, p. 909).

[11] Zorzi 2001, p. 304

[12] Il palazzo Renier è ancora presente in tutta la sua completezza nel catasto napoleonico del 1810, mentre risulta già parzialmente demolito nella parte prospiciente il rio di Ca’ Foscari, nel rilevamento fatto per la redazione del catasto austriaco del 1840. L’area del demolito palazzo Renier è oggi occupata dal giardino della sede universitaria di Ca’ Dolfin.

[13] Scrive il Cicogna riguardo alla famiglia Secco: “Famiglia Secchi o Secco era originaria della Bergamasca (...), fermò anche a Venezia la sua abitazione e fabbricò nobile casa da stazio in San Pantaleone, che ora (dice la Cronaca Zilioli, circa 1630) è posseduta da’ Dolfini” (1853, vol. II, p. 682). I Secco, oltre alla casa da stazio di San Pantalon, avevano altre proprietà a Venezia.

[14] ASVE, Dieci Savi alle Decime di Rialto, b. 166, c. 354

[15] (2004, p. 6)

[16] A metà Cinquecento per il piano nobile di una casa da stazio si potevano pagare anche 40 ducati annui, somma considerata rilevante ma non enorme.

[17] Cicogna 1853, vol. II, p. 682

[18] Giovanni Dolfin di Giuseppe di Benedetto, nacque a Venezia nel 1545. Dopo aver assunto delle cariche minori, nel 1577 venne nominato podestà di Belluno. Nel 1586 lo troviamo in Francia in veste di ambasciatore e successivamente, con pari incarico, a Roma presso la Santa Sede fino al 1598. Rientrato in patria assunse la carica di Procuratore di San Marco. Rimasto vacante il vescovado di Vicenza, Giovanni vestì gli abiti sacerdotali e nel 1603 divenne vescovo. Un anno dopo, papa Clemente VII lo creò infine cardinale.

[19] Le cronache riportano che la cifra versata da Giovanni Dolfin agli eredi Secco fu di 12.000 scudi (Dazzi 1954, p. 43).

[20] Benzoni 1991, vol. XL, ad vocem

[21] Nicolò, riconoscente allo zio per la fortuna che gli lasciò, commissionò a Pietro Bernini le statue della Fede e della Prudenza, oltre al busto con il Ritratto del Cardinal Giovanni Dolfin, da collocare nel monumento funebre fatto innalzare sopra la porta d’accesso della chiesa di San Michele in Isola. (Pedrocco 1996, p. 44)

[22] Nel 1647, durante una missione di guerra comandata da Nicolò, il figlio Marcantonio appena ventenne venne fatto prigioniero dei turchi. Egli trascorse l’intera sua vita in prigionia premorendo al padre cinque mesi prima. Questo episodio segnò profondamente la vita di Nicolò che si ritenne per tutto il resto della vita responsabile della sventura del figlio.

[23] Sansovino 1663, p. 393

[24] Sansovino 1663, p. 393

[25] Considerando che Ca’ Dolfin nel rilevamento di decima del 1585, venne dichiarato come casa da stazio, è plausibile che si trattasse già di un edificio a tre piani.

[26] Nelle sue aggiunte infatti, Martinioni non fu certo parco nel dare informazioni sulla magnificenza di molti palazzi o semplicemente nel rilevarne gli elementi caratteristici.

[27] Bassi 1962, p. 213

[28] Federico IV arrivò in incognito a Venezia sul finire del dicembre 1708 e si trattenne in città fino a marzo (Conticelli 1998, p. 231). Essendo la sua una visita non ufficiale, le spese per i festeggiamenti in suo onore dovevano, secondo le leggi della Serenissima, essere divise fra quattro deputati: Erizzo, Nani, Morosini e Daniele Dolfin (Longega 1963, p. 46)

[29] (1824, pp. 106-107)

[30] Conticelli 1998, p. 236 n. 8

[31] (1998, p. 231)

[32] Benzoni, 1991 vol. XL, ad vocem

[33] Domenico Rossi nacque a Marcote, sul lago di Lugano nel 1657. Era figlio di Francesco, minatore, e della sorella dell’architetto Giuseppe Sardi. Secondo quanto riporta Elena Bassi, fu il padre a mandarlo a Venezia dallo zio Giuseppe in modo da garantirgli un’educazione adeguata. Domenico però si rivelò poco propenso allo studio e quindi venne avviato alla professione presso la bottega di scalpellino di Alessandro Tremignon e successivamente in quella di Baldassare Longhena. Fu probabilmente la sua formazione, più propensa alla manualità, a determinare quello che in molti definiscono “mancanza del buon gusto dell’arte” (Bassi 1962, p. 207).

[34] Giovanni Scalfurotto fu l’architetto in cui si formò Giovanni Piranesi.

[35] Caruso 1989, p. 169

[36] Temanza1963, p. 40

[37] Cittadella 1782-83, p. 147

[38] Mariuz 1981, p. 184

[39] Valentina Conticelli fissa come termine di realizzazione dell’intero impianto decorativo di Ca’ Dolfin un periodo compreso tra il 1710 e il 1715 adducendo come spiegazione il fatto che doveva essere stato compiuto poco tempo dopo quello della Biblioteca udinese in quanto “il programma iconografico della sala intrattiene una forte relazione d’insieme” (1998, p. 232).

[40] Scrive Wright nel suo libro di viaggio riguardo a palazzo Dolfin: “The Cieling and Sides of it are painted in Fresco by the Cavalier Bambini, who was there with us, and told us he perform’d i’t in fifteen Days”. (1730, vol. I p. 77)

[41] Scrive la Bassi: “Osservando la facciata, pare abbastanza probabile che il pianterreno ed il primo piano siano di restauro seicentesco, poiché hanno caratteri legati a quelli del Longhena e del Sardi; mentre il piano ultimo, con il motivo dei lunghi modiglioni sui quali poggiano i balconi, potrebbe effettivamente essere stato aggiunto dal Rossi: che si tratti poi di una sopraelevazione, è evidente, ed essa può essere stata conclusa poco prima che nel palazzo si tenesse la festa sopra accennata (quella del re di Danimarca)” (1963, p. 213)

[42] Ricordiamo che la casa venduta da Secco a Giovanni Dolfin, doveva già possedere quelle caratteristiche tipiche della casa veneziana, con doppia tripartizione, in pianta e in alzato.

[43] Nell’allegato 4 è possibile notare che un grosso muro portante, parallelo a quello che da su canale Foscari, taglia l’edificio a circa due terzi dalla facciata. Quel muro in origine era il quarto muro esterno della casa da stazio che Secco affittò a Madonna Marcello.

[44] Il secondo piano poi, ripropone lo stesso schema compositivo del primo, con salone prospiciente l’intera facciata sul canale.

[45] ASVE, Notarile Testamenti, b. 801, n. 67, c. 5

[46] Osservando infatti le piante del palazzo, appare evidente che un nuovo corpo di fabbrica sia stato aggiunto, in appoggio alla vecchia casa da stazio, nella parte che da verso il giardino. Si tratta di un corpo a L che, grazie a modifiche successive (si noti il diverso modo di disegnare le finestre sull’appendice di sinistra, molto simili a quelle presenti nel progetto di restauro presentato da Labia nel 1923), lo fanno ora apparire come un corpo a U.

[47] ASVE, Notarile Testamenti, b. 801, n. 67, c. 5

[48] Pedrocco 1996, p. 45

[49] Giovanni Dolfin (7 luglio 1654 – 22 settembre 1729), alla data della partenza per Costantinopoli, per assumere il delicato ruolo di Bailo, era già avanti con l’età. Sapeva perfettamente che il suo compito non si sarebbe esaurito in breve tempo e la possibilità che la morte sopraggiungesse prima del suo rientro a Venezia era un’eventualità più che probabile.

[50] Sicuramente la facciata di Ca’ Dolfin non rientra tra i lavori più riusciti di Domenico Rossi. Però non gli si renderebbe giustizia giudicarlo solo in base a quell’opera. Forse, come dice il Temanza, Rossi mancava del buon gusto dell’arte, ma egli non mancò mai di circondarsi di collaboratori di assoluta eccellenza.

[51] ASVE, Notarile Testamenti, b. 801, n. 67, cc. 7 e s.

[52] ASVE, Giudici di Petizion, b. 467, n. 110

[53] Filippi 2006, p. 59

[54] Preto 1991, vol. XL, p. 481

[55] Nel 1854 Giovanni Querini entrerà in possesso del palazzo Dolfin grazie al “residuo” ereditario di Gaspare Lippomano, fratello della sua defunta madre.

[56] Zorzi 1985, p. 236

[57] Il Guggenheim a sua volta vendette poi i dipinti a Eugen Miller von Aichholz il quale ne espose cinque nel suo palazzo viennese e le altre cinque le vendette al russo A. Polotzeff che le portò nella sua residenza di San Pietroburgo. Le cinque tele rimaste a Vienna, furono acquistate nel 1915 dal banchiere di origine triestina Camillo Castiglioni che, in cambio dell’autorizzazione di esportarne tre in Svizzera prima di farle approdare in America, ne cedette due al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Le tele che rimasero in russia, nel 1886 vennero donate all’Accademia Stiuglitz dalla quale nel 1934 confluirono al Museo dell’Ermitage (Pedrocco 1996, p. 45).

[58] Il palazzo, con tutte le sue dipendenze e il suo giardino, fu infatti venduto ad appena 16.520 lire, poco più del doppio del valore delle tele (Dazzi, 1954, p. 48)

[59] Dazzi 1954, p. 48

[60] Serafini 2006, p. 88 nota

[61] Luigi Nono, a seguito della morte del padre, si trasferì definitivamente a Venezia (Serafini 2006, p. 18)

[62] Il materiale relativo al restauro del 1925 è stato reperito presso l’archivio della Soprintendenza ai Beni Architettonici di Venezia e presso l’Archivio Comunale.

[63] I documenti contenuti entro la cartellina relativa al restauro di Ca’ Dolfin infatti, riguardano più lo studio dei dettagli di arredamento che non quelli relative alle strutture del palazzo.

[64] Questo spiacevole inconveniente, conferma l’ipotesi già formulata che palazzo Dolfin è costituito da due corpi di fabbrica costruiti in appoggio.