IL LIBRO è in distribuzione presso gli Autori o sul sito dell'Editore (Edizioni Era Nuova).
Su questo sito puoi curiosare tra le immagini che abbiamo raccolto (e che continueremo a raccogliere...) ed i documenti che saranno aggiunti dopo la messa in stampa del libro, in una sorta di "appendice" alla storia che abbiamo raccontato.
"Buona Visione"!
PRESENTAZIONE
di Moreno Orazi
Il libro è una biografia collettiva. E’ stato il modo più appropriato per esercitare la memoria collettiva: Per ricordarci e per essere ricordati, appunto. In questo senso se “La memoria non è ciò che ricordiamo ma ciò che ci ricorda” secondo quanto recita il poeta messicano O. Paz, allora questo libro è la memoria stessa nel suo manifestarsi. Stando a Proust secondo il quale La realtà non si forma che nella memoria”, l’aver scritto questo libro è aver dato realtà e consistenza non solo alle nostre vite ma anche all’ambiente sociale nel quale si sono dipanate. Come dire che noi esistiamo solo nel ricordo.
Come è strutturato il libro?
Il libro si divide in due capitoli, e da un prologo ed un epilogo che hanno la forma del componimento poetico.
Nel primo capitolo si tirano le somme dell’esperienza di quei 10 anni che, parafrasando John Reed, segnarono le nostre vite. Si formula un giudizio su quel periodo cercando di dare una risposta alla domanda “In che cosa abbiamo sbagliato?”. Come mai eravamo ad un passo dalla società perfetta, una società comunistica di uguali, orizzontale e pienamente democratica e partecipata, eravamo prossimi al superamento del capitalismo, e ci siamo ritrovati catapultati in una società che quanto a valori ed aspirazioni collettive e dei singoli è tutto il contrario di quella sperata? Tra Diogene o, meglio, San Francesco, e Mida ha vinto Mida.
Nel secondo capitolo ognuno di noi racconta la sua di storia. Tutti parliamo delle stesse vicende viste dai singoli punti di vista, come nel film di Kubrick degli anni ’50 “Rapina a mano armata”.
In questa parte si illustra anche il metodo seguito per rendere stilisticamente omogenea la narrazione che non è cosa così semplice per un libro scritto a otto mani. Da questo punto di vista questo libro può essere considerato un prototipo di una autobiografia gruppo, la versione collettiva di un genere, quello diaristico, che è incentrato sulla singola persona. Questo capitolo contiene una ricostruzione dell’ambiente urbano e della sua evoluzione da città sostanzialmente chiusa ancora dentro le mura a città-territorio aperta disseminata lungo la valle che segna il passaggio da una comunità coesa ad una comunità dispersa. La vicende narrate hanno come scenario il Centro Storico che è ancora, negli anni ’80, il centro della vita sociale e culturale. La vicenda dell’Arci si svolge ancora all’interno di una comunità aggregata. Una coesione che progressivamente si dissolve con l’espansione fuori le mura della città e con il conseguente svuotamento del Centro Storico.
Ogni singola storia si conclude con un regesto fotografico e documentario che è una sorta di libro nel libro. Si tratta di una storia parallela per immagini che oltre a visualizzare e a facilitare la comprensione del racconto con la loro evidente immediatezza, in alcuni casi lo completano e lo integrano fornendo ulteriori informazioni.
Il libro cerca di delineare le componenti ideologiche e di pensiero sulle quali si basava la mentalità di sinistra di quegli anni:
l’antifascismo e i due miti ad esso collegati, della Rivoluzione e del Comunismo,
il rapporto con i nuovi media del cinema e della televisione ed il loro impatto nelle diffusione e radicamento del modello urbano-industriale-capitalista,
la critica ed il rifiuto del lavoro alienato e spersonalizzante all’interno della fabbrica e dell’organizzazione aziendale in tutti i settori in cui tale modello è stato applicato, dagli istituti di credito alle strutture amministrative pubbliche all’organizzazione scolastica dove la vecchia figura del Preside, che era in genere un intellettuale ed un educatore, ha assunto il profilo, almeno nominalmente, del dirigente manager,
l’importanza del viaggiare,
il rapporto con la violenza e la cultura della non violenza,
il rapporto con il Partito Comunista, con gli altri gruppi d’impegno politico e culturale e con la Religione,
l’impatto sociale devastante della diffusione del consumo di stupefacenti tra i giovani.
Il libro è anche il racconto della rivendicazione, della lotta e delle conquiste della nostra generazione (e di quella che ci aveva preceduto che si era resa protagonista della rivoluzione del’68) per il riconoscimento dell’esercizio concreto del diritto di libertà all’interno di una società tradizionalista, maschilista e paternalista, autoritaria e repressiva, fortemente intrisa dei valori di un cattolicesimo che consideravamo ipocrita, oscurantista e sessuofobico, e dai forti retaggi lasciati dal fascismo, di cui beneficiano ampiamente i nostri figli.
Il libro è stata anche la presa d’atto che anche le società americane e inglesi, di tradizione liberale, sono tutt’altro che immuni dall’autoritarismo e dalla repressione, come i movimento hippies ed antirazziali negli Stati Uniti degli anni ’60 e ’70 dimostrano e come mi ha fatto rilevare Mario in una delle tante discussioni tra noi che hanno accompagnata la stesura del libro.
Il libro è la storia del processo di acculturazione e di formazione di un gruppo di persone che provengono dal ceto popolare e non appartengono alla vecchia aristocrazia terriera ed alla borghesia urbana colta e benestante. I libri in casa ci sono entrati con noi. Tale processo di acculturazione è consistito nell’acquisire gli strumenti della conoscenza propri della cultura urbana borghese e nell’applicarli alla nostra realtà per comprendere la nostra posizione sociale e per misurare, in rapporto ad essa, la realizzabilità delle nostre aspettative rispetto a quanto venivamo apprendendo su noi stessi e sul mondo esterno, per valutare la portata e la direzione delle novità che provenivano dalle aree urbane e dai centri di diffusione del nuovo modello di sviluppo, di cosa facemmo nostro e di cosa rigettammo.
Il tempo presente è stata il campo di applicazione della nostra riflessione e la chiave per comprendere il passato. Possiamo capire meglio come eravamo ieri partendo da come siamo oggi. Per questo il libro è un saggio di archeologia del presente. Del passato vediamo il suo compiersi oggi. E’ questo oggi che mostra la direzione verso cui si muoveva in quegli anni, per molti versi tragici, la Storia. Una direzione di cui allora non comprendemmo la meta perché troppo immersi nel nostro presente ed ancora poco esperti nel maneggiare degli strumenti culturali di cui ci stavamo dotando, che non appartenevano al nostro DNA culturale e sociale. Più che sbagliare, diciamo che, nel nostro idealismo ed ardore giovanile di allora, eravamo troppo poco esperti degli uomini e della forza dell’io desiderante, sottovalutavamo la seduzione esercitata da sempre dalla ricchezza e gli effetti negativi dell’opulenza e del benessere materiale. Se non abbiamo imboccato strade sbagliate è stato più per una sorta di istintivo rifiuto dell’ignoto o delle situazioni che si distaccavano troppo dalla nostra quotidianità legate alla percezione della nostra condizione socialmente marginale che per una lucida consapevolezza di quanto stava accadendo.
L’icona del libro sul retro coperta è la Tartaruga. Questo segno grafico è stato estrapolato da Properzio Raus che ha curato la copertina e la veste grafica del volume, da una tessera dell’Arci di quegli anni sta a significare la lentezza e la resistenza. La lentezza è riferita al processo di acculturazione che procede, appunto, lentamente ed in parallelo alle vicende della vita, si alimenta di quelle, ma è stato per noi, quanto alla loro comprensione, temporalmente sfasato.
Il libro non è una semplice registrazione di eventi ma un’indagine di tipo archeologico che ricerca i nessi tra quanto avveniva a Spoleto e ciò che accadeva all’esterno, sui modi attraverso i quali le novità si calavano all’interno di questa realtà contribuendo a modificarla e il ruolo svolto dalle nuove generazioni. Oltre che un libro di ricordi in senso stretto, si tratta di un saggio di storia locale, di psicologia sociale, di sociologia urbana e di geografia urbana.
L’utilizzo degli strumenti di cui sopra applicato al passato attraverso il filtro del presente è divenuto il modo per esercitare la memoria storica collettiva. La memoria storica collettiva è stato il campo di applicazione di questi strumenti.
Il nostro vissuto è stato passato al setaccio come fa l’archeologo con gli strati di terreno depositatisi al di sopra dei resti di un antico insediamento sepolto sotto di esso per isolare reperti significativi in grado di illuminare su aspetti fondamentali della civiltà a cui appartenevano. La nostra ricerca è consistita nel ricercare e mettere in luce le varie componenti politiche e culturali, gli eventi, le mitologie che contribuirono a formare la mentalità e le aspettative della nostra generazione.
Faccio due esempi concreti.
Walter Benjamin ne “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnologica” pensa al cinema come ad uno strumento di conoscenza. Nel mondo antico le immagini erano soprattutto icone delle divinità: ora sono una rappresentazione della realtà materiale e dei rapporti di classe. I rapporti sociali e la quotidianità acquistano una nuova dignità. Il cinema è uno strumento politico in quanto aiuta gli uomini a conoscere la loro condizione e a formarsi una coscienza politica. La prassi di fornire delle schede di presentazione al pubblico ha questa origine e motivazione e spiega anche l’importanza assegnata al cinema dalle formazioni e gruppi culturali di sinistra in quegli anni.
Le esperienze comunitarie sviluppatesi in quegli anni anche a Spoleto, che pure ci sono state, avevano come matrice il movimento degli hippies sviluppatosi negli Stati Uniti e le colonie di artisti nate nel centro Europa come quella di Darmstadt dei primi del novecento.
Ma veniamo ai contenuti specifici del Libro alla materia del racconto.
Il libro parla del significato del lavoro per i nostri padri. Per i nostri padri il lavoro rappresentava un fattore di identità sociale, l’espressione di uno status sociale. Negli anni ’70 e ’80 il lavoro perde questa aura; diventa sinonimo di alienazione e di sfruttamento. Si sviluppa una cultura del non-lavoro, del rifiuto del lavoro che fa capo al Movimento del ’77 ed ai leader dell’Autonomia operaia con Toni Negri in testa. Nelle società industriali il lavoro è solo un mezzo per disporre di denaro per restare nelle catena del consumo. La realizzazione personale non passa attraverso il lavoro. La proposta del reddito di cittadinanza avanzata dal Movimento a cinque stelle si inscrive in questa visione puramente strumentale del lavoro.
Questo il libro mette a confronto due universi mentali e due culture materiali tra loro inconciliabili: quello contadino povero dove regnava il fai da te, una visione autarchica della vita, un forte senso sociale, e l’intera esistenza era permeata dall’arte di arrangiarsi e quello industriale nel quale sei dipendente in tutto; vi è un esperto per ogni aspetto pratico e spirituale dell’esistenza che diffonde i suoi consigli dagli schermi televisivi. E’ una società atomizzata e tecnocratica, antisociale ed etero-diretta, apparentemente liberale, in cui il controllo sociale è esercitato con gli strumenti della seduzione e con la promessa del conseguimento della felicità materiale per tutti a condizione che ci si uniformi al sistema, come ha messo bene in evidenza Guy Debord ne “La società dello spettacolo”. A noi che siamo vissuti in entrambi questi due universi non ci resta che testimoniare alle giovani generazioni i limiti e le povertà di entrambi e la consapevolezza che solo il lavoro e l’impegno costante e quotidiano ci rende liberi e protagonisti del nostro futuro.
Per quanto riguarda la concezione del lavoro eravamo vicini al mondo dei nostri padri. Ci contraddistinguevano dagli altri gruppi giovanili per l’impegno lavorativo che si accompagnava a quello politico e culturale. Oltre a partecipare alla redazione di fogli politico-culturali, fondammo una cooperativa, gestimmo il Campeggio Monteluco, organizzammo corsi di lingua per stranieri, avviammo la gestione dell’enoteca, gestimmo una struttura alberghiera. Il circolo cittadino dell’Arci è stato il luogo elettivo della nostra formazione dove coltivavamo le nostre passioni, sviluppavamo una cultura dell’impegno sociale concreto, avevamo modo di condividere ed elaborare le frustrazioni e delusioni personali.
Il nostro partito di riferimento era il Partito Comunista Italiano. Eravamo antifascisti, cioè contro l’autoritarismo. Sognavamo il cambiamento totale e per questo inneggiavamo alla Rivoluzione. Vedevamo la partecipazione come lo strumento principale del cambiamento strumento. Eravamo democratici e pacifisti e vedevamo nella cultura e nella presa di coscienza delle distorsioni e delle ingiustizie i mezzi per realizzare una società di uguali. Il libro parla del profilo ideologico bifronte del P.C.I., insieme conservatore, antindustriale ed aperto al tempo stesso alla modernità. Non poteva essere il contrario: questa duplicità è proprio di tutti i grandi movimenti di massa. Il pensiero politico di un partito di massa è necessariamente sincretico. Eravamo conservatori ed antindustriali nell’ecologismo, nella difesa e valorizzazione delle tradizioni popolari, nella tutela dei beni culturali. Eravamo modernisti, proseliti dell’industrialesimo, nell’interesse verso i nuovi media e l’arte contemporanea, nella rappresentazione dei conflitti, nell’operaismo e nella assunzione della centralità della fabbrica nell’organizzazione sociale, nella tutela dei diritti civili individuali, nell’accoglienza, a volte acritica, e nel consenso incondizionato nei confronti delle novità in ogni campo.
Nel libro inevitabilmente non poteva mancare un giudizio su Berlinguer e sulla stagione delle riforme e una riflessione sul terrorismo e sul delitto Moro a distanza di anni.
Eravamo idealisti ed estremisti. Vivevamo di miti. Avevamo un’idea eroica dell’esistenza formatasi sui banchi di scuola attraverso lo studio una rappresentazione della storia patria intrisa della retorica risorgimentale e fascista e la lettura dei romanzi di avventura. Roberto a S. Angelo dei Lombardi, soccorrendo le popolazioni terremotate dell’Irpinia vive in condizioni precarie. E’ una situazione che mi ha fatto venire alla mente la grande guerra e l’esperienza della trincea. Nelle sua rievocazione di quell’esperienza traspare un sentimento epico/eroico dell’esistenza e dell’immaginario. Il mito della Rivoluzione ben si confaceva a questa concezione della storia.
Reagendo più emotivamente che razionalmente e difettando sul piano degli strumenti culturali a nostra disposizione non avevamo una visone chiara dei processi politici. Avversavamo Berlinguer perché troppo revisionista, in quanto aveva abbandonato la prospettiva rivoluzionaria. Non comprendemmo allora la portate innovatrice della politica berlingueriana che coronava la grande stagione delle riforme avviata in Italia dai primi governi di centrosinistra che ruotava intorno alla figura di Aldo Moro e che si sostanziò in alcune importanti riforme: la legge sull’aborto e sul divorzio, la costituzione del sistema sanitario nazionale, la legge sull’esproprio. Le forze politiche conservatrici, dalla seconda metà degli anni ’80, si sono adoperate per svuotare di contenuto e quindi neutralizzare la portata di alcune di queste riforme come quella rappresentata dalla legge per l’esproprio che ledeva fortemente gli interessi dei proprietari delle aree. Se giudicato da questo punto di vista il nostro si può considerare politicamente un libro revisionista.
Questo libro parla del modo attraverso il quale l’apparato produttivo ha ricondotto i bisogni culturali nuovi dei giovani all’interno di una logica del consumo, trasformandoli in una occasione di profitto.
Il libro parla di molte altre cose ancora : di Don Guerrino rota e del CEIS, dell’impatto tragico delle droghe pesanti sulle giovani generazioni, di Don Elio Simonelli e del “circoletto del Duomo”, di RADIO SPOLETO UNO, che funse da incubatoio per la nascita del Circolo Cittadino dell’Arci, dell’amicizia di Sol Lewitt, delle iniziative culturali promosse sempre con l’intenzione di promuovere la partecipazione diretta dei giovani alla vita culturale e di promuovere l’impegno sociale delle classi popolari, del rapporto problematico con Leopoldo Corinti, dell’importanza che il Festival dei Due Mondi ha avuto nell’allargare i nostri orizzonti culturali, per entrare in contatto con personaggi di primo piano del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo, per compiere le prime esperienze lavorative.
Il libro cerca di misurare le differenti reazioni di fronte all’odio di classe ed alla esplosione delle violenza politica tra chi viveva nella grandi città e chi, come noi, continuava a vivere in una piccola città di provincia. Nella prima i rapporti sono più impersonali, le relazioni sono di natura funzionale. L’ambiente urbano metropolitano genera solitudine, alienazione. E’ lo spazio ideale per costruite la figura del nemico e per generare ed alimentare la violenza politica. Nella piccola città ti conosci da bambini, tutto è più ovattato, smorzato, anche i conflitti e l’odio di classe. Il rogo di Primavalle, cioè l’uccisione dei figli di un segretario del MSI ad opera di militanti di Potere Operaio, uno degli episodi più cruenti del conflitto che oppose i militanti di estrema sinistra e di estrema destra che sfociò a volte in scontri fisici aperti, a Spoleto non sarebbe stato possibile.
Il libro infine si interroga sulle modalità della diffusione dei cambiamenti e sui suoi impatti sulla realtà politica e sociale. Negli anni ’60 e ’70 sono stati i giovani i vettori principali del cambiamento sociale. Andavamo fuori città all’Università e trasferivamo le nostre esperienze nello spazio sociale cittadino. Iniziavamo a viaggiare su e giù per l’Italia e fuori. La televisione era agli albori. La carta stampata era la principale fonte di informazioni. Solo negli anni ’80 la televisione prese il sopravvento e si impose sugli altri media. Negli anni ’90 è la Rete il principale veicolo di diffusione delle informazioni. Con la Rete il mondo è diventato un villaggio globale e le informazioni si diffondono in tempo reale da un punto all’altro del Pianeta.