"Until the end, my dear" Igor Stravinsky.
1988, forse primi di marzo. Mattina. Treno diretto per Bologna.
Davanti a me si siede un signore anziano (oggi direi di mezza età).
Di fianco a me e a lui due belle ragazze. Io ho in borsa 4 copie della tesi, e sulle ginocchia la quinta copia. Devo andare a consegnare il tutto in segreteria, se voglio finir fuori, dopo 4 anni di nulla.
Il signore anziano parla con accento mantovano e non l’ho riconosciuto.
Dice le solite cose insopportabili dei vecchi e io mi ingobbisco a ripassare e cercare errori di battitura nella mia tesi. Se potessi chiudere le orecchie le chiuderei, ma non posso. Visto che io non comunico attacca bottone alla due belle ragazze. Infila una dopo l’altre perle come: “le ragazze di oggi hanno troppa libertà” “e poi le minigonne! ma non si vergognano?” ecc. Io mi sprofondo con la testa e tutto il resto nella bibliografia. Le ragazze invece rispondono, molto educate, molto gentili, molto comprensive. Poi, mentre il treno arriva a Bologna, e io comincio già a respirare, una delle due ragazze chiede all’anziano: “E lei, cosa va a fare a Bologna?”
E questo risponde con una voce grigia come la cenere: “Vado ad una udienza per il processo della strage di Bologna del 2 agosto 1980, dove è morto mio figlio”.
Non lo vedevo dal giorno del funerale di Davide Caprioli. Ma la parola “vedere” è esagerata: il giorno del funerale del “lapide” i miei occhi non vedevano niente e nessuno: piangevano e basta.
Allora mi sono sentito come se una bomba mi esplodesse dentro e ho fatto un gesto come per parlare. Non so cosa volevo dire: che avevo conosciuto suo figlio? che ero stato in classe con lui per 5 anni di liceo? che per tutta la vita non avrei mai più potuto dimenticare? della rabbia sorda che mi bruciava dentro per questa strage di stato per la quale nessun mandante ha mai pagato?
Non lo so. Ma per fortuna lui, così impegnato a parlare con le ragazze (nonostante avessero le minigonne), non mi vide. Mi vide però una delle ragazze che disse: “questo ragazzo vuol dirle qualcosa”. Ma quel secondo di tempo mi era bastato e avevo capito che quello che quel signore avrebbe visto era un giovane ragazzo, della stessa età che avrebbe avuto suo figlio, che andava a consegnare la sua tesi rilegata, che si sarebbe laureato e avrebbe vissuto. Invece Davide, suo figlio, no: non hanno ritrovato niente di lui. Allora le parole mi si sono inchiodate nella gola e lì sono rimaste fino a oggi. Non ho detto niente, ho fatto un segno come dire: “No. non era niente”. E ho guardato il signore anziano, il papà di Davide Caprioli, allontanarsi sul marciapiede, come uno fra i tanti, come uno che non conoscevo.
Lui andava alla ennesima udienza del processo farsa, io andavo da un’altra parte, con un chiodo di ferro nella gola.