PAROLE CHIAVE rubrica tenuta sulla rivista "Musica Domani" dal 1998 al 2005

PAROLE CHIAVE: SOUND.

AUTORE: francesco bellomi

(per il n° 109 di Musica Domani)

L'insegnante ha preparato una cassetta con frammenti di brani. Frammenti brevissimi, non più di due o tre secondi, con musiche appartenenti a vari stili e a varie epoche. Il gioco consiste nel far dire ai ragazzi immediatamente dopo l'ascolto di ciascun frammento se il brano da cui il frammento è tratto appartiene ai generi preferiti, pop e rock generalmente, oppure no. A questo gioco i ragazzi vincono praticamente sempre. Spesso la risposta arriva addirittura prima della conclusione di quei tre secondi di musica. Come ci riescono? In tre secondi non c'è il tempo di seguire l'andamento di un profilo melodico, di riconoscere le tecniche di sviluppo, di avere informazioni sicure sulla struttura ritmica.

Riconoscono il sound. Verrebbe da pensare che, come esiste il colpo d'occhio, esista anche il colpo d'orecchio. Per una volta sia lecito confrontare due diverse definizioni del sound:

1) "Ingl. per suono. Nel lessico jazzistico e in quello della pop music indica inoltre il particolare timbro di un solista o di una band"[DEUMM]

2) "(suono, in inglese) elemento dominante nella musica leggera che, in buona misura e in ogni campo, ha superato la nozione di nota in favore, appunto, del suono, processo accelerato dalle nuove fonti sonore elettroniche. Nel jazz il sound a sempre avuto un ruolo di primo piano: proprio nella sonorità si caratterizza espressivamente la personalità stilistica del musicista. Orchestralmente è il timbro che emerge e, a sua volta, caratterizza un gruppo. Il ruolo del sound è stato accentuato nella musica pop, talvolta prevalendo sui valori ritmici e melodici." [GARZANTINA]

E' evidente, soprattutto nel secondo caso, un legame forte con un concetto ampio di timbro. Un concetto nel quale il timbro è una sorta di parametro onnicomprensivo che, per così dire, "assorbe" tutti gli altri parametri. Numerosi esperimenti di psicoacustica hanno ormai dimostrato che lavorando sul timbro è possibile modificare nell'ascoltatore la percezione delle intensità, delle altezze e perfino delle durate. Un esempio per tutti: la difficoltà di percepire la sensazione di dissonanza con un bicordo dissonante di sinusoidali semplici (toni puri). E' interessante notare che, in un ambito musicale lontanissimo dalla musica leggera e dal pop come quello della musica sperimentale, si siano elaborati concetti e termini "gemelli" a quelli di sound: termini come texture (J.La Rue, R.Smith Brindle), sonor (M. De Natale) sonority (L. Ratner). Il motivo è evidente: nella musica sperimentale, come nel pop, il sound complessivo è più importante della singola altezza o della singola durata. In un pezzo atonale si può sbagliare una altezza e probabilmente nessuno se ne accorge (spesso nemmeno l'autore); ma se si sbaglia il sound (magari perché si è troppo impegnati a cercare di eseguire esattamente le altezze e le durate prescritte) tutti se ne accorgono perché le intenzioni comunicative dell'autore vengono semplicemente stravolte. Nella musica classica non si una dire "il sound dei Wiener Philarmoniker" ma piuttosto "il suono dell'Amsterdam Baroque Orchestra". E qui cominciano i dolori perché la querelle fra i sostenitori del sound "filologico" e i sostenitori del sound "ottocentesco" è tutt'altro che chiusa. Ma un certo tipo di orchestra può, entro certi limiti, anche cambiare sound a seconda del direttore che la dirige. La Sagra della Primavera incisa da Strawinski e quella incisa da Karajan hanno due sound opposti: spigoloso, duro, secco e lacerante nell'incisione dell'autore; eufonico, morbido e levigato come quello di una sinfonia di Bruckner nell'incisione di Karajan. E' lo stesso pezzo sulla carta, teoricamente ne dovrebbe venir fuori lo stesso timbro ma le mille piccole scelte dinamiche, agogiche e di fraseggio finiscono per produrre risultati sonori contrastanti. Oggi ci sono familiari i sound della world music e della new age. Nel caso della musica new age è facile determinare il tipo di sound: basta leggere le note di copertina dei dischi o le riviste specializzate. L'aggettivo di gran lunga più ricorrente è rilassante. Persino una etichetta discografica (ad esempio la famosa ECM) può essere caratterizzata da un suo particolare sound.

Recentemente un nuovo sound apparso nel mercato della musica pop, a base di gregoriano sommato a ritmi techno, ha contribuito non poco a far vendere migliaia di dischi incisi dai frati benedettini di Santo Domingo de Silos (Spagna). C'è però chi sostiene che il sound del canto gregoriano fosse in realtà ben diverso da quello cui oggi siamo abituati. Dall'esame delle maschere facciali di cantori raffigurati in molti dipinti del XII° e XIII° secolo, un gruppo di musicologi e logopedisti ha dedotto che il tipo di timbro vocale più probabile dovesse essere quello nasale o forse gutturale ma certamente non la voce "di testa" o "di petto" degli attuali cori. Un premio al primo coro che proverà coraggiosamente a cantare il gregoriano con un sound nasale, aspro ed un poco aggressivo.

PAROLE CHIAVE: TECNICA.

AUTORE: francesco bellomi

(per il n° 111 di Musica Domani)

«La tecnica è tutto» «La tecnica da sola non basta». «La tecnica in musica non serve a niente se non si ha musicalità». Tre luoghi comuni dei discorsi sulla musica, tre mezze verità e tre mezze bugie, come sempre. Per l'esecutore la parola tecnica fa venire in mente subito titoli come La tecnica giornaliera del pianista o Tecnica delle corde doppie e triple ecc. Insomma la tecnica è qualcosa di operativo e manuale che ha a che fare con i muscoli e con i tendini. Molte persone diverse mi hanno raccontato la stessa storia: «Una cattiva impostazione tecnica iniziale mi ha rovinato in modo quasi irreversibile la voce e le corde vocali ma, per fortuna, con l'aiuto di bravi insegnanti, di logopedisti e quant'altro, i problemi sono in via di risoluzione». Le tendiniti e altre patologie varie non sono rare nemmeno fra gli strumentisti. Mani, schiena, labbra, diaframma segnano una mappa del dolore "tecnico". Su di una cosa sembrano tutti d’accordo: la tecnica si costruisce, non è un dono di natura, e si costruisce solo con l'esercizio continuo. Sloboda ci ha raccontato le principali ipotesi sul funzionamento cerebrale inerente alle abilità motorie del musicista. Un dato ormai condiviso è che man mano che si sviluppa una certa abilità tecnica aumenta anche l'area cerebrale coinvolta. L'esempio chiarissimo è quello dell'area cerebrale collegata alla sensibilità del polpastrello del dito indice: relativamente piccola per la maggioranza delle persone, molto più estesa nei non vedenti che utilizzano il polpastrello per leggere il Braille. Uno dei musicisti tecnicamente più dotato è stato, a quanto dicono le testimonianze dell'epoca, J. S. Bach. Quel Bach che dichiarava: «Studiate quanto ho studiato io e otterrete gli stessi risultati». In alcuni casi la tecnica diventa meno "muscolare" e più "cerebrale", ammesso che si possa tracciare una differenza netta fra le due cose. Mussorgskij e Schumann sono di solito indicati come orchestratori dalla tecnica non troppo raffinata. Quando ci si è decisi a lasciar perdere il Boris Godunov "brillantemente" riorchestrato da Rimskij Korsakov e a suonare la oscura l'orchestrazione originale di Mussorgskij si è capito che la sua traballante tecnica di orchestratore era una componente essenziale della sua poetica musicale. del resto Debussy l'aveva già capito quando scriveva, a proposito della musica amatissima di Mussorgskij: «Questo accordo, che sembrerebbe troppo povero al Maestro ***...» Forse un giorno qualcuno riproporrà le "maldestre" orchestrazioni che Schumann ha dato alle sue sinfonie, e non quelle ritoccate da Mahler che abitualmente si eseguono. Così forse scopriremo qualcosa di importante sulla poetica di questo visionario autore tecnicamente "sfortunato".

Qualcuno preferisce usare il termine metodo quando le abilità coinvolte sono più cognitive che muscolari: Metodo compositivo, metodo analitico, metodo educativo ecc. Come ci si appropria di un metodo? usandolo, non "leggendolo". Albert Einstein raccontava che "sentiva" le risoluzioni delle formule matematiche nei muscoli. Forse aveva delle straordinarie capacità propriocettive e aveva capito che anche il metodo o la tecnica più astratte passano in qualche modo attraverso il corpo.

A scuola capita spesso che qualche alunno chieda aiuto per risolvere un problema tecnico. Gli insegnati che ho conosciuto mi hanno mostrato il più ampio ventaglio di risposte possibili. Il più insicuro andava a tirare fuori dall'armadio il trattato o il manuale o il libro di testo per cercarvi La RISPOSTA GIUSTA e la faccia dell'allievo era del tipo: «Vabbe’, lasciamo perdere, ho capito». Il più sadico cominciava da: «Dovresti già saperlo come si fa» e finiva con qualcosa del tipo «Vorrei proprio sapere chi ti ha dato la licenza di solfeggio!». Il più onesto diceva: «Prova a fare così; nel mio caso ha funzionato». Il più "bravo" faceva una cosa strana, sembrava che facesse finta di dimenticare quello che sapeva e provava a, come si dice, mettersi nei panni dell'allievo. Una specie di piccolo esperimento di deprivazione tecnica. Poi cominciava a cercare la soluzione assieme all'alunno ma l'alunno di solito a quel punto aveva già capito "da solo" dove stava il problema. Anche ascoltare la musica può essere fatto a livelli di grande raffinatezza e consapevolezza tecnica, ma solo quando il musicista ci fa "dimenticare" quello che sappiamo sulla musica e ci fa vivere una esperienza della musica come se fosse la prima volta che scopriamo qualcosa, solo in questo caso possiamo vivere quella profonda comunicazione cognitiva ed emozionale che sembra essere il fine ultimo di chi fa e fruisce di queste particolari variazioni di pressione dell'aria che si chiamano suoni.

PAROLE CHIAVE: ACCENTO.

AUTORE: francesco bellomi.

(per il n° 112 di Musica Domani)

ACCENTO RITMICO O METRICO.

Nella tradizione europea l'accento forte è una intensificazione attribuita ad un suono o ad un insieme di suoni allo scopo di porli in evidenza rispetto agli altri suoni non accentati. Generalmente i libri di teoria musicale raccontano che, nelle misure di quattro quarti, l'accento forte si trova sul primo quarto o "in battere". Dove non c'è l'accento forte c'è, con un guizzo di fantasia terminologica, l'accento debole. Qualcuno, dotato di più raffinata smania classificatoria racconta che sul terzo quarto delle battute di quattro quarti c'è un accento mezzoforte o un semiaccento. Di seguito si danno solitamente tutte le tabelle di distribuzione degli accenti nei vari tipi di metro. Assolto il dovere d'ufficio di spendere quattro parole sull'accento, per così dire, "burocratico", passiamo al vasto mondo degli accenti "non scolastici". Tanto per cominciare ricordiamo che nella cultura afroamericana gli accenti forti sono in "levare", cioè esattamente il contrario di quello che succede generalmente nella musica di Beethoven. Ma cosa succede all'ascoltatore quando si accenta il levare invece che il battere? Difficile da raccontare, si "sente" che c'è un altro modo di organizzare il ritmo. Le voci della «competenza comune» dicono: «c’è più ritmo». Enrico Strobino ci ha raccontato sui quaderni della Siem come fabbricare a scuola ritmi che profumano di rock. I percussionisti usano in questo caso, per spiegarsi, delle metafore come: «suonare in avanti, lavorare sul levare» e mentre dicono queste cose fanno generalmente un gesto molto eloquente, con la mano, che ricorda il movimento di un surf mentre cavalca un’onda. Anche la musica classica europea presenta casi di organizzazione degli accenti estremamente interessanti. Nella musica rinascimentale e barocca è noto il caso dell’emiola: in pratica l’accostamento di due diverse distribuzioni degli accenti nelle misure contenenti sei movimenti, in altre parole: TUM, CIA’, TUM, CIA’, TUM, CIA’ e TUM, CIA’, CIA’, TUM, CIA’, CIA’ (dove tum è il battere e cià il levare). E’ interessante notare che spesso l’emiola (o Hemiolia) ritmica è usata come segnale per l’ascoltatore: un segnale che serve a far capire l’imminenza della conclusione della frase o dell’intero brano. Dal punto di vista della distribuzione degli accenti la musica del novecento è una vera miniera di soluzioni. Si va da brani che cercano di eludere in tutti i modi il ritorno ciclico, regolare e prevedibile degli accenti forti (Schoenberg predodecafonico) a brani che organizzano le regolari otto crome di una battuta di quattro quarti in segmenti di tre più tre più due, oppure cinque più tre, oppure accenti che cadono ogni cinque pulsazioni, ogni sette o altri ritmi più o meno “bulgari” (Bartok), alla pirotecnica e imprevedibile, ma non troppo, distribuzione degli accenti dello Strawinsky russo. Il famoso accordo ribattuto della Saga della Primavera ne è forse l’esempio più noto. La cosa particolarmente interessante nel caso di Strawinsky è proprio la straordinaria abilità con cui questo autore riesce a creare delle aspettative ritmiche nell’ascoltatore per poi disattenderle con soluzioni ritmiche inaspettate. La tecnica del lapsus applicata alla organizzazione ritmica! Proprio di Strawinsky esiste un documento sonoro sugli accenti semplicemente commovente. Negli storici dischi della Columbia, dove Strawinsky dirige la propria musica, si trova la registrazione di una prova con Cathy Berberian dove il compositore chiede alla cantante di realizzare in modo particolarmente evidente un certo accento, dopo qualche tentativo, non ottenendo il risultato voluto chiede uno «sforzissimo» e pronuncia questa parola in modo completamente diverso dalle altre: la pronuncia con un accento…«sforzissimo»!

In questi ultimi anni, con le apparecchiature che consentono di analizzare “al microscopio” le esecuzioni musicali si è capito chiaramente che l’esecutore per eseguire correttamente un accento non si limita al semplice aumento dell’intensità del suono. Il comportamento messo in atto è molto più complesso e ricco. Anche piccole variazioni altezza durata e timbro sono utilizzate dall’esecutore per eseguire un normale accento. Tutti gli organisti sanno creare la sensazione di un accento lavorando solo sul parametro durata, non potendo influire se non in maniera quasi impercettibile sul parametro altezza e sull’intensità del singolo suono. Charles Burney racconta di come Carl Philipp Emanuel Bach sapesse trarre dal clavicordo un vero e proprio accento di dolore lavorando contemporaneamente su durata, intensità, timbro e altezza, la quale come è noto, è modificabile sul clavicordo attraverso il tocco. Proprio questa testimonianza di Bach ci permette di prendere in considerazione l’altro significato dell’accento musicale: quello espressivo. Cantare con un accento solenne, oppure suonare con un accento malinconico, ecc. Stiamo ancora parlando dell’accento musicale, ma non ho mai sentito domande su questo significato dell’accento agli esami di solfeggio. «Mi canti per favore questa melodia con un accento patetico» potrebbe essere una richiesta assolutamente plausibile per la lettura di un solfeggio cantato. Non fosse altro che per il fatto che la stessa etimologia della parola accento proviene dal latino accentus, composto di ad + cantus (accinere [da canere] = «cantare» e «pronunciare melodicamente». Basterebbe dare un’occhiata a qualche trattato di retorica musicale, pensare che non si studia la teoria musicale ma piuttosto le teorie musicali, provare a partire, una volta tanto, dalla dimensione espressiva dei fatti sonori invece che dalla organizzazione delle altezze, non scegliere, per fare un viaggio turistico, il percorso in linea d’aria…

PAROLE CHIAVE: ACCORDATURA

AUTORE francesco bellomi

Per il numero 113 di MUSICA DOMANI

Osservare e ascoltare un bravo accordatore al lavoro è un’esperienza che ogni esecutore dovrebbe fare. L’accordatore che accorda periodicamente il mio pianoforte in poco più di un’ora ha già finito. Ma chi accorda un organo di medie dimensioni può passare in rassegna tranquillamente qualcosa come mille, milleduecento canne. E’ un lavoro che può durare giorni. Sentire canna per canna l’avvicinarsi progressivo all’unisono, con i battimenti che gradualmente rallentano fino alla sensazione di un suono fermo, è qualcosa di ipnotico. Talvolta è anche un’esperienza faticosa: quando si lavora sui suoni più gravi l’effetto ombra è così forte che in certi momenti non si sa più cosa ascoltare; quando si lavora sulle piccole canne si arriva a casa alla sera con le orecchie piene di fischi. Eppure si scoprono molte cose. Ad esempio che una accordatura temperata perfetta con tutti i semitoni assolutamente uguali è semplicemente brutta da ascoltare. Il bravo accordatore tempera ad orecchio la sua prima ottava, e non va avanti fino a quando il temperamento di quell’ottava non “suona bene”. In realtà suona bene semplicemente perché è quasi perfetto. Altro mistero: gli intervalli di quinta, nell’accordatura temperata, come è noto, sono leggermente calanti. Ma gli intervalli di quinta di alcune canne che fanno parte delle cosiddette “file di ripieno” dell’organo sono assolutamente giusti. Logica vorrebbe che l’ascoltatore percepisse una accozzaglia di battimenti insopportabili fra le quinte, calanti, degli accordi prodotti dall’esecutore e le quinte giuste del ripieno. Niente di tutto questo, anzi con molti strumenti si ha perfino la sensazione di un suono limpido e cristallino. Quando poi si ha a che fare con le accordature antiche le sorprese sono veramente molte. Per esempio tutti noi abbiamo imparato, da diligenti studenti di storia della musica, che con i 24 preludi e fughe del Clavicembalo ben Temperato J. S. Bach ha sancito definitivamente l’uso del temperamento.. Basta applicare le regole per accordare suggerite dai trattati di organaria, anche del secolo successivo, per capire che si è continuato a utilizzare altre accordature anche dopo Bach. Che poi l’accordatura temperata sia una scoperta dell’epoca di Bach si scontra con la constatazione che il liuto produceva una accordatura temperata fin dall’epoca rinascimentale. Allora si scopre che in un tipico ensamble barocco, con liuti, tiorbe, organo, cornetti, ecc., alcuni strumenti erano accordati in modo temperato ed altri no. Ve lo immaginate il risultato? Già i detrattori delle filologia musicale non sopportano questi strumenti originali così aspri e stonacchiati, figurarsi se ci mettiamo ad accordarli in modo diverso! Eppure, varrebbe la pena di provare. Suonando i 24 preludi e fughe di cui sopra con un’accordatura ineguale si scoprirebbe così che quello in si maggiore ti contorce le budella con le sue terze sempre troppo grandi o troppo piccole e che in fondo non era poi tanto pazzo il buon vecchio Johann Mattheson (1713) quando diceva che Si Maggiore è la più dura e disperata di tutte le tonalità. Altro che Do Maggiore un semitono sotto!

Educare il nostro orecchio ad assaporare anche questi sottili “profumi sonori” non sarebbe un obiettivo proprio da buttare via. Oggi la tecnologia ci aiuta a giocare con facilità anche con le accordature. Alcune tastiere hanno già diverse accordature già programmate e richiamabili solo pigiando un bottone. Oppure è possibile decidere l’altezza voluta tasto per tasto. Personalmente non resisterei alla tentazione di assegnare le altezze in modo assolutamente casuale mettendo, che so i fa diesis al posto di re, i mi bemolle al posto dei si, ecc. per poi provare a suonarci sopra una sonata di Mozart. Un bell’esercizio di dissociazione dita\orecchio. Oppure assegnare un do al tasto più grave, un re al più acuto, e mettere in mezzo tutte altezze intermedie. Come cambierebbe la stessa sonata di prima. Ma assolutamente micidiale sarebbe poter invertire la dinamica dei tasti: un tasto appena sfiorato suona fortissimo, premuto a tutta forza suona pianissimo. Potremmo chiamarli giochetti, esperimenti di deprivazione sensoriale o, come fa Kagel, “nuova filologia”. Si potrebbero scoprire delle cose interessanti, oppure no. Ma la curiosità, la creatività, la capacità di esprimere e di esprimersi nascono alle volte da “giochetti” come questi. Non si sa chi abbia effettivamente scoperto l’effetto detto rossignoli presente su alcuni organi rinascimentali. (Si tratta di un paio di piccole canne capovolte immerse per una parte nell’acqua di una bacinella. L’aria uscendo dalla canna passa attraverso l’acqua e produce delle bolle il cui gorgoglio fraziona il suono lungo della canna facendolo sembrare una specie di canto d’usignolo) ma mi piace pensare che siano stati i figli scatenati di qualche fabbricante di flauti che volevano provare a suonare sott’acqua. Forse si sarebbero presi qualche scapaccione se il loro papà non si fosse fermato all’ultimo momento ascoltando e pensando: «Però, niente male come effetto!» e se ne fosse tornato trotterellando verso il laboratorio grattandosi la nuca.

PAROLE CHIAVE: PENTAGRAMMA

AUTORE: francesco bellomi

Chi si occupa di educazione musicale e lavora con i bambini conosce l’importanza delle grafie “intuitive” o “pittoriche” o comunque non tradizionali come strumento utile per l'approccio alla scrittura e alla notazione musicali. Che poi molti musicisti delle avanguardie anni 60 e 70 abbiano utilizzato ed elaborato grafie di questo tipo è un motivo in più di interesse. Tuttavia non sempre si considerano le reali potenzialità didattiche di questi strumenti.

Allievo: «Ma perché dobbiamo perdere tempo utilizzando queste notazioni quando sappiamo già che i nostri alunni dovranno prima o poi imparare a leggere sul pentagramma la notazione tradizionale? Tanto vale cominciare subito con le cinque righe e i quattro spazi!» Dopo domande come questa si è pronti ad iscriversi alla associazione “Non tutte le ciambelle riescono con il buco” e ci si rende conto di quanto sia incredibilmente più difficile insegnare l’elasticità mentale piuttosto che il contrappunto di terza specie. Ma se un giorno si comincia a scoprire quanti modi ci sono di fare a meno del pentagramma il gioco diventa di colpo interessante.

Il primo esperimento può essere fatto con il tetragramma (quattro linee) delle melodie gregoriane in notazione quadrata contenute nel liber usualis. Facile. Molto più facile da leggere di qualsiasi numero del Pozzoli solfeggi parlati terzo corso.

Quando ho visto un mio compagno di studi che eseguiva una toccata di Frescobaldi leggendo una ristampa anastatica la prima cosa che ho pensato è stata: “Se ci riesce lui allora posso provarci anch’io”. Mi sono comperato il mio primo libro in ristampa anastatica (la bellissima Selva di varie compositioni d’intavolatura per cimbalo e organo di Bernardo Storace) e ho imparato gradualmente a leggere su sei righe per la mano destra e sette righe per la mano sinistra. Tutto sommato è più facile di quello che si immagini. Per la zona acuta del rigo superiore e per quella più grane grave del pentagramma inferiore è come leggere in chiave di violino e basso. Nella zona centrale bisogna stare un po’ più attenti, ma poco.

Convinto di poter conquistare il mondo sono passato alle Frottole intabulate per sonar organi di Andrea Antico (sempre in ristampa anastatica). Sembravano facilissime tanto più che utilizzavano il pentagramma! Che delusione: abituarsi a leggere quella scrittura è tutt’altro che facile, la polifonia non è quasi mai “ben incolonnata” in verticale. I simboli delle pause sono così piccoli e simili che è facilissimo confonderli o semplicemente non vederli. Alla fine per poter suonare quei brani leggendo ho preso una matita e li ho trascritti in notazione moderna. Ovviamente, a lavoro finito, ho scoperto che qualcuno lo aveva già fatto e pubblicato, ma poco male: trascrivere è uno dei metodi migliori che conosco per imparare.

Attraverso il fondamentale testo di Willy Apel La notazione nella musica polifonica si può esplorare il vasto mondo delle intavolature. Nel corso della storia è stato usato di tutto: numeri, lettere dell’alfabeto, colori, ecc. si scopre infine quel particolare piacere della lettura che affiora quando ci si impadronisce sufficientemente del codice di comunicazione.

Perfino la cosa più odiosa del corso di armonia complementare, i “numeri”, diventa un codice da scoprire e da metabolizzare quando si realizza estemporaneamente il basso continuo. Com’è interessante accorgersi di quanto Domenico Scarlatti metteva piuttosto “male” questi numeri, tanto lui non ne aveva bisogno, improvvisatore strepitoso qual era. Lo semi sconosciuto Roberto Valentini era di gran lunga più preciso, “corretto” e … prevedibile in questo compito.

Andando a zonzo in tutto quello che non è pentagramma il didatta si imbatte inevitabilmente nella notazione Kodaly e si scopre che per l’allievo di conservatorio è generalmente più difficile leggere una semplice melodia pentafonica in notazione alfabetica che pronunciare una settimina di crome su quattro quarti: potere dell’addestramento solfeggistico. Se poi andiamo a vedere tutte le innovazioni che sono state proposte nel corso degli ultimi due secoli scopriamo una quantità di proposte semplicemente strabiliante. Qualche esempio. Il sistema dell’equiton proposto, verso il 1958, da E. Karkoschka:i dodici suoni contenuti all’interno di un’ottava si dispongono all’interno di due sole linee alternando note bianche e nere. Il sistema della shape notation detta anche Fasola (Inghilterra e America secoli XVII e XVIII) è stato utilizzato in numerose raccolte di inni sacri pubblicate nelle regioni meridionali degli U.S.A. nella prima metà del 1800. In pratica si usano solo quattro nomi: FA, SOL, LA, MI. La “testa” della nota, shape (= forma), è una bandierina per il fa, rotonda per il sol, quadrata per il la, romboidale per il mi. Dato che la scala maggiore è formata da due tetracordi identici dal punto di vista intervallare (do, re, mi, fa e sol, la, si, do) ecco che con quattro soli nomi e simboli è possibile rappresentare facilmente tutti gli otto suoni di una scala.

Infine la rappresentazione, spesso usata nei programmi musicali per il computer, su di un piano cartesiano dove sull’asse delle ascisse scorre il tempo e sull’asse delle ordinate troviamo le varie altezze. Un sistema di scrittura in tutto e per tutto simile a quello usato per il rullo o per il cilindro degli organi meccanici altrimenti detti “a manovella” o organetti e dei carillon a scheda.

La settimana dopo sono entrato in classe e ho suonato un pezzo a memoria. Poi ho chiesto «Questa è musica?» Risposte degli allievi: «Si». L’ho risuonato leggendo lo spartito e rifatto la stessa domanda. Risposte: «Si». Ho riproposto la stessa domanda mostrando agli allievi la partitura (Silvano Bussotti, Piano Piece for David Tudor 3) risposte: «Non so. Non mi sembra. Se lo risuoni uguale forse si, altrimenti no.» Chi vuole iscriversi con me all’associazione di cui sopra?

PAROLE CHIAVE: ABBELLIMENTI (II°)

AUTORE: francesco bellomi

(per MusicaDomani n° 115)

Quando uno studente non sa come realizzare un abbellimento propongo sempre, prima di andare a vedere le possibili realizzazioni, di provare ad inventare la soluzione. Non è un esercizio inutile: gli studenti inventano quasi sempre delle soluzioni molto sensate e credibili. Qualche volta propongo di inventare degli abbellimenti volutamente assurdi, sbagliati, stravaganti, fuori stile, certamente non corretti filologicamente. Questi abbellimenti “di invenzione” costituiscono un piccolo tesoro di soluzioni che mi hanno permesso di suonare talvolta la musica di Bach come se fosse stata scritta da qualche eccentrico compositore vivente. E' chiaro che suonando in questo modo si viene buttati fuori alla prima eliminatoria di qualsiasi concorso e che nessuno si azzarderebbe a mettere in commercio un disco contenente queste curiose esecuzioni. Ma quando suono questi pezzi in pubblico finisce sempre che qualcuno viene a chiedermi di chi era quello strano pezzo. Poter rispondere - J. S. Bach - e osservare la reazione è un'esperienza piuttosto interessante. Del resto, se ci si volta indietro, si trovano innumerevoli testimonianze su musicisti che eseguono abbellimenti fuori luogo. A cominciare da quanto scrive Hector Berlioz nelle sue monumentali e gustosissime Memorie, dove racconta che durante le prove di un suo brano un flautista tedesco infarcisce la parte di abbellimenti non scritti. Berlioz chiede allora di suonare la parte così come è scritta, senza aggiungere niente. Il flautista obbedisce durante le prove ma al momento dell'esecuzione in pubblico piazza un perfido trillo su una nota lunga mandando così in bestia il compositore-direttore. Una bella testimonianza sulla persistenza di certe abitudini a ottocento inoltrato.

Un altro abbellimento che è anche una abitudine straordinariamente diffusa ancora oggi è quello che consiste nell'attaccare una altezza con la voce facendola precedere da un piccolo glissando (generalmente ascendente). Qualsiasi direttore di coro e maestro di canto censura questo comportamento come una scorrettezza inammissibile oltre che come indice di “cattivo gusto”. Eppure questo abbellimento è così spontaneo, naturale, e diffuso un una quantità di culture musicali diverse, che forse vale la pena di osservarlo un po' più da vicino. Anche quando ciascuno di noi parla o legge in pubblico realizza lo stesso “abbellimento”: non inizia subito da un certo tono di voce ma lo raggiunge quasi subito dopo un piccolo glissando iniziale. È facilissimo sentire questo glissando registrando la propria voce al computer e poi riascoltandola a rovescio: il glissando iniziale si trova così alla fine della parola, in un luogo dove non siamo abituati a sentirlo, e quindi lo percepiamo con maggiore chiarezza.

Questo abbellimento non era rifiutato dai musicisti dei secoli passati che addirittura lo adattavano per poterlo eseguire con gli strumenti. Ad esempio Girolamo Diruta, nel celeberrimo Transilavano (1593 e 1610) lo chiama Clamation ed è un breve e veloce frammento di scala che parte una terza sotto rispetto alla nota scritta. Nell'esempio che Diruta offre della canzone L'Albergona di Antonio Mortaro con gli abbellimenti scritti ed indicati esplicitamente, questo abbellimento precede proprio l'attacco del primo suono.

Ma in tutta la musica detta per convenzione “antica” bisogna aggiungere abbellimenti improvvisati? Praticamente si, ma ci sono alcuni casi che vale la pena di considerare. All'epoca di Frescobaldi esistevano due modi per stampare la musica: la stampa con lastre (di rame) e la stampa con caratteri mobili. Il sistema più raffinato e costoso era quello delle lastre. Era necessario inciderle manualmente a rovescio e poi inchiostrare e stampare la pagina. Se c'era un errore si doveva buttare l'intera lastra. Nell'altro metodo, più rapido ed economico, si componeva la pagina con caratteri mobili. Fatta una stampa di prova era possibile correggere la maggior parte degli errori. Ora, mentre nel sistema con le lastre si poteva avere una grande raffinatezza grafica e scrivere praticamente tutto quello che si voleva, nel sistema con i caratteri mobili lo spazio occupato da un carattere mobile di una durata brevissima era lo stesso necessario per qualsiasi altro carattere. Ecco allora che con i caratteri mobili scrivere per esteso un trillo o una veloce tirata poteva portare via anche una intera riga. Risultato: i due libri delle Toccate di Frescobaldi, che sono stati stampati con le lastre, sono ricchissimi di abbellimenti scritti per esteso e sembra che ci sia ben poco da aggiungere, mentre il Primo libro dei Capricci utilizza i caratteri mobili ed è straordinariamente “pulito”, è quindi sensato pensare che ci sia molto da aggiungere durante l'esecuzione.

I jazzisti i loro abbellimenti gli chiamano patterns e, come i musicisti di un tempo, sanno utilizzarli senza bisogno che qualcuno li scriva sulla pagina. E, come un tempo esistevano i “tremoletti di Claudio Merulo” o il “mordente brevissimo” (Di due note suonate insieme si terrà soltanto la più acuta, lasciando immediatamente quella inferiore) di Ph. E. Bach oggi esistono i patterns di Charlie Parker o quelli di Oscar Peterson.

Ma se togliamo tutti gli abbellimenti scritti o i patterns ad un brano, che cosa rimane? E' quello che scopriremo alla prossima puntata.

Parole chiave: abbellimenti (II°)

Autore: francesco bellomi

Uno dei procedimenti fondamentali della musica è quello della variazione. Procedimento che si insinua sottilmente anche nei brani più semplici o apparentemente ripetitivi: il Bolero di M. Ravel è un tema con variazioni (prevalentemente timbriche). Quando un compositore scrive un tema con variazioni l’intenzione di usare procedimenti di variazione è esplicita e, fra gli innumerevoli procedimenti di variazione, quello della “fioritura”, ovvero della variazione ornamentale, è uno dei più comuni e semplici. Si tratta in sostanza di aggiungere abbellimenti alla linea melodica del tema. In molti casi si parte da un tema relativamente semplice, magari di origine popolare, e nelle prime variazioni si incontrano delle pagine via via sempre più fitte di abbellimenti. Douglas R. Hofstadter in Concetti fluidi e analogie creative (Adelphi) ci racconta cose interessanti sulle variazioni partendo dalle serie di numeri. Si consideri la seguente serie di numeri molto banale: 1 2 2 3 3 4 4 5 5 6… (I tre puntini finali indicano la possibilità di continuare con la stessa logica). Si tratta della trasformazione in numeri della melodia iniziale del preludio op. 28 n° 12 in sol diesis minore di F. Chopin: in pratica una scala cromatica ascendente in cui ogni nota, tranne la prima, viene ribattuta. Hofstadter propone due diversi criteri di segmentazione:

A 1 (2 2) (3 3) (4 4) (5 5) (6…

B (1 2) (2 3) (3 4) (4 5) (5 6) (6…

E si diverte poi a fare delle variazioni come le seguenti:

A1 1 (2 2 2) (3 3 3) (4 4 4) (5 5 5) …

A2 (1 1) (2 2 2) (3 3 3) (4 4 4) (5 5 5) …

B1 (1 2 3) (2 3 4) (3 4 5) (4 5 6) …

B2 (1 2 3) (3 4 5) (3 6 7 ) (7 8 9) …

B3 (2 1) (3 2) (4 3) (5 4) (6 5) …

An (1) (2 2) (3 3 3) (4 4 4 4) (5 5 5 5 5) (6 6 6 6 6 6) (7 7 7 7 7 7 7)…

Quale sarebbe piaciuta di più a Chopin? Quale vi sembra quella più “fiorita”?

Se provate a trascrivere numericamente i temi e le variazioni ornamentali di autori classici scoprirete che nella maggioranza dei casi vi è un progressivo infittirsi degli abbellimenti: una proliferazione di note “in superficie“ che “rivestono” progressivamente il tema di disegni sempre più elaborati. Igor Stravinsky ha fatto esattamente il contrario nel Concerto per due pianoforti (1931-35). In questo caso si parte dalle variazioni più lontane e degli abbellimenti più complicati per togliere progressivamente qualcosa ad ogni variazione ed avere alla fine il semplice tema. Uno strip tease sonoro in piena regola. Ma se una volta arrivati al tema proviamo a togliere ancora, cosa resta?

Gran parte delle analisi “riduzioniste” operano esattamente in questo modo: si tolgono tutti quelli che sono considerati elementi di ridondanza e quindi non essenziali. Si può arrivare in questo modo ad avere dei grafici dove con tre o quattro suoni o numeri sono sintetizzate lunghe composizioni. Con i numeri si tratterebbe di individuare qual è il procedimento che sta alla base di una serie di numeri. Ad esempio la celebre successione di Fibonacci: 1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,89,144,233,377,610,987,…dove ogni numero è la somma dei due precedenti può essere ridotta alla seguente espressione:

Fn = Fn-1 + Fn-2

Così come la successione I° V° I° può essere l’estrema riduzione, nella metodologia schenkeriana, del I° movimento della terza sinfonia di Beethoven oppure, per Allen Forte, l’insieme di altezze 7-32: [7,8,10,11,1,3,4] (il celebre accordo della Saga della primavera di Stravinsky) assieme al suo complementare 5-32: [11,2,4,7,8] (l’accordo all’inizio di battuta 57 dello stesso pezzo) possono sintetizzare il materiale intervallare utilizzato da Stravinsky nel corso dell’intero brano.

Un altro caso nel quale la tecnica della “fioritura” cioè dell’aggiunta di abbellimenti è fondamentale è quello che si presenta ai contrappuntisti che utilizzano il “quadrato magico”. Athanasius Kircher lo racconta nella Musurgia Universalis (Roma 1650). In estrema sintesi: è possibile predisporre degli “scheletri contrappuntistici” dove vengono collocate particolari altezze. Ad esempio:

Dove: 1 = tonica, 3 = modale, 4 = sottodominante, 5 = dominante, 6 = sopradominante

Questo “scheletro” opportunamente “rivestito” di abbellimenti può diventare una complessa e articolata cadenza plagale in contrappunto triplo.

Fra tutte le migliaia di abbellimenti che si conoscono ce n’è uno che, per la sua apparente semplicità mi ha sempre colpito, si ottiene, ad esempio, sul clavicordo producendo gradualmente e poi togliendo gradualmente una pressione eccessiva sul tasto dopo l’inizio del suono così che il suono sia prima via via più crescente e poi ritorni in tono. Charles. Burney racconta così l’effetto di tale abbellimento nelle mani di Ph. E. Bach: “…nei movimenti patetici e lenti, quando vi era da eseguire una nota lunga, egli costringeva il suo strumento a produrre un lamento, come un pianto, di cui soltanto il clavicordo e soltanto Bach erano capaci.

Compito per casa: inventare l’abbellimento di un abbellimento.

Parole chiave: trascrizione

Autore: francesco bellomi

(per n° 117 di MusicaDomani)

Chi ha avuto la fortuna di avere qualche nonno o qualche vecchia zia, appassionati di musica, si sarà inevitabilmente incontrato con certi vecchi libri, dalla carta giallina e pelosetta, un po’ consumati vicino all’angolo della voltata di pagina, nei quali sinfonie, opere liriche, quartetti, concerti, quadriglie e valzer viennesi, aspettano pazientemente il momento di risuonare sotto le mani di un improvvisato duo pianistico. Si, sono le famose trascrizioni per pianoforte a quattro mani: all’apice della gloria un secolo fa, cadute nel dimenticatoio quarant’anni fa, ristampate in prestigiose edizioni di grande tiratura da qualche tempo a questa parte. Chi ha avuto la fortuna di avvicinarsi alle grandi opere musicali del passato attraverso queste trascrizioni ha, di solito provato, emozioni indelebili e ha imparato sulla propria pelle in modo altrettanto indelebile la meravigliosa architettura delle musiche suonate. Erano spesso umili trascrizioni, opera di sconosciuti musicisti, che non chiedevano l’esecuzione pubblica ma che regalavano immense gioie ai lettori. Chi poi, per scelta o per caso, si è trovato a dover trascrivere musica, ha capito che trascrivere è un mezzo straordinario per imparare. Lo dovevano di certo sapere gli ammanuensi medievali che trascrivevano e trascrivevano per mestiere, ma lo sapeva bene anche Arnold Schoemberg quando consigliava ai giovani compositori di imparare l’armonia, il senso della forma, l’orchestrazione e quant’altro, semplicemente trascrivendo per pianoforte (a due o quattro mani) i grandi lavori orchestrali del passato.

Del resto, ancora oggi come cento anni fa, gli studenti di composizione imparano ad orchestrare trascrivendo: si prende un pezzo pianistico o un quartetto o un pezzo cameristico, e lo si trascrive per orchestra. Qualche volta, se si sceglie bene, a lavoro finito si può confrontare la propria orchestrazione con quella di un grande musicista che ha già fatto questo lavoro prima di noi, e non c’è niente di più istruttivo che vedere come si possono risolvere in altro modo gli stessi problemi. Esistono poi quelle che potremmo chiamare le trascrizioni d’arte, quelle trascrizioni cioè che sono delle vere e proprie reinvenzioni del testo base. J.S. Bach che trascrive Vivaldi è spesso un vero e proprio co-autore: tante e tali sono le sue varianti, le sue aggiunte e le trasformazioni ornamentali e contrappuntistiche che mette in atto. Ci deve essere qualcosa di predestinato nella vita dei trascrittori visto che proprio Bach, il grande trascrittore di se stesso e di altri, è fino a oggi uno degli autori più trascritti della storia della musica. Trascrivere la musica di un altro musicista è per un compositore una sorta di antropofagia rituale: si ama talmente quella musica da volerla quasi mangiare, attraverso la trascrizione, per possederne lo spirito e le qualità. Quasi tutte le trascrizioni d’arte sono però delle trascrizioni che moltiplicano le difficoltà esecutive dell’originale: Liszt che trascrive Schubert ad esempio, o Busoni che trascrive Bach. Non poteva mancare, in questa sede, una tappa sulla trascrizione che va nella direzione opposta, quella facile, per il diletto dei principianti oppure ad uso didattico. Guardata con aria di sufficienza e superiorità dagli acrobati della tecnica, la trascrizione facile è una delle cose più difficili da fare. Già, perché per facilitare bisogna lavorare di lima e di bisturi, e certi tagli possono essere molto dolorosi. E’ facile scrivere e trascrivere musica difficile, è difficile scrivere (buona) musica facile e ancora più difficile fare buone trascrizioni facili. Forse proprio per questo molti grandi autori hanno evitato di avventurarsi nella trascrizione facile, lasciando campo aperto ad ogni sorta di trascrittori della mutua. Trascrittori che hanno usato la didattica come un comodo paravento capace di nascondere le più abominevoli operazioni. Al contrario il caso di Bela Bartok è forse l’esempio più alto di uno straordinario rispetto e di una meravigliosa attenzione nel lavoro di trascrizione funzionale che egli compie come etnomusicologo sulle melodie popolari e al tempo stesso di una genialità creativa e di una ineffabile poesia quando trascrive le stesse melodie in arrangiamenti facili per due violini o per pianoforte. Si può chiedere di più? Ma Bartok, come sappiamo, era ben poco incline ai compromessi commerciali.

Forse anche Strawinsky aveva fiutato la cosa quando gli era arrivato da Hollywood il seguente telegramma: «Esecuzione in anteprima dei Four Norwegian Moods ottenuto grande successo stop Successo sarebbe straordinario se acconsentisse far orchestrare pezzo ai nostri arrangiatori stop» Risposta di Strawinsky: «Mi accontento di grande successo stop»

Parole Chiave: cantabile

Autore: francesco bellomi

Qualche mese fa ho chiesto a Virgilio Savona: «Cosa si potrebbe fare per far venire la voglia di cantare ai ragazzi di oggi, visto che si canta sempre meno?»

La risposta mi ha spiazzato: «Non è assolutamente vero! Ai concerti dei cantanti tutto il pubblico canta spessissimo all’unisono con il proprio cantante preferito. Renato Zero, ad esempio, in certi casi lascia cantare il pubblico da solo per lunghi tratti, e certe sue melodie non sono per niente facili! Quarant’anni fa, quando facevamo i concerti con il Quartetto Cetra, nessuno nel pubblico osava fiatare. Oggi si canta molto più di allora!»

Francamente non me l’aspettavo. Il didatta aggiornato sa di avere oggi di fronte tutta una serie di problemi vocali: voci mono toniche, respirazioni scorrette, estensioni striminzite, ecc. Com’è possibile che Savona non se ne sia accorto? Poi, tornando a casa, ho ripensato uno a uno a tutti i concerti di musica leggera che ho sentito negli ultimi anni e, per la miseria, era proprio vero, ad ogni concerto si cantava. Poi ho pensato ai concerti di musica classica, … non si cantava mai. In tutte le regole c’è sempre almeno un’eccezione e infatti, ad un concerto del cantautore Franco Battiato è successo che il pubblico cantava e allora Battiato a detto dentro il microfono: «Mi fa piacere che conosciate così bene le mie canzoni, ma cercate di essere un po’ più intonati. Più di qualcuno fra di voi è così stonato!» Risultato: il pubblico ha smesso di cantare. E, su di un altro terreno, quando assisto a quelle rappresentazioni operistiche "per ragazzi" dove il pubblico, opportunamente preparato, canta all’unisono con Papageno con Don Chisciotte, o con Falstaff ,mi viene da pensare che non tutte le speranze sono morte e che per i ragazzi di oggi è cantabile perfino l’opera, il genere che gli fa più schifo in assoluto, se li si convince che ne vale la pena.

Se guardiamo a tutti i trattati dei secoli passati, non ne troviamo uno che ometta di sottolineare l’importanza della cantabilità anche quando si compone o si suona con gli strumenti. Molti consigliano esplicitamente di ascoltare attentamente la voce dei bravi cantanti per imparare come si fraseggia, come si rende espressivo un passaggio, ecc.

Gli stili sono cambiati, gli strumenti si sono modificati, ma l’idea di cantabilità riappare come se niente fosse all’interno del brano di Webern come in quello di Scelsi, nelle improvvisazioni di Demetrio Stratos come in quelle di Cecil Taylor. Quando Zarlino scriveva: «Le parti della cantilena siano cantabili: cioè che cantino bene» e i compositori della scuola organistica tedesca del sud nel tardo ‘600 (Pachelbel, Frogerger, Muffat, Kerll, ecc.) affermavano che la cantabilità dovesse essere uno dei fondamenti della composizione in realtà facevano un discorso non stilistico ma qualitativo. Si perché cantabile in realtà non voleva e non vuol dire facile da cantare ma bello da cantare. E allora anche un pezzo per sole percussioni ad altezza indeterminata può essere splendidamente e meravigliosamente cantabile. E infatti, i bravi percussionisti, “cantano” le musiche di Nono e di Cage.

Uno dei giochi che faccio agli esami di ammissione, che tutti gli anni si svolgono nella mia scuola per chi non “sa” ancora la musica, consiste nel cantare un brevissimo frammento melodico e chiedere poi di ripeterlo subito per imitazione. Qualcuno ci riesce, molti non ci riescono. Se chiedo a quelli che non ci riescono di ripeterlo cantando più intonato mi rispondono, giustamente, che non ne sono capaci. Ma se invece chiedo loro di fare attenzione alle sfumature espressive e al carattere (allegro, sereno, lugubre, concitato, teso, “arrabbiato”, ecc.) con cui lo canto e di sforzarsi di rendere “quel” carattere, allora, come per incanto, anche l’intonazione delle altezze migliora. Ed è ovvio: per essere più cantabili bisogna essere più espressivi, più scorrevoli, più sciolti, più “musicali”, piuttosto che preoccuparsi solo di intonare l’altezza corretta.

Ma dato che la corretta intonazione è la spada di Damocle che pende sopra la testa di ogni allievo fin dalla prima lezione va a finire che non si canta se non a seguito di esplicita e perentoria richiesta e con una paura maledetta di sbagliare. Il risultato è quello che un arguto collega ha definito come il “coro dei laringotomizzati”.

Una paura che sicuramente non aveva Arnold Schoenberg quando dava istruzioni alla cantante per l’incisione del Pierrot lunaire op. 21 diretto da Robert Craft. Tutti ricordano che l’autore, durante le prove, intonava altezze completamente diverse da quelle scritte almeno quarant’anni prima, ma che faceva questi esempi perché era preoccupatissimo che l’esecuzione avesse il giusto carattere espressivo, la giusta tensione, insomma la giusta cantabilità.

PAROLE CHIAVE: timbro

AUTORE: francesco bellomi

Un gioco molto conosciuto da fare in classe consiste nel bendare un alunno e nel chiedergli di riconoscere i compagni dalla loro voce. Questi ultimi fanno sempre i furbi, non visti, cambiano posto e poi non sprecano certo le corde vocali, pronunciano parole brevissime, monosillabi.

Giuseppe crede di essere più furbo di tutti e fa anche la vocina “da donna” per non essere riconosciuto. Nonostante tutto il suo compagno lo becca ugualmente. Cosa c’è di mezzo? Il differente timbro delle varie voci e una abilità pazzesca, che ciascuno di noi possiede, di riconoscere e memorizzare diversi timbri. La riflessione non è nuova: Boulez scrive che, se esistono poche persone in possesso per un orecchio assoluto per le altezze, la maggioranza di noi, musicisti e non, ha uno splendido orecchio assoluto per i timbri. L’esperienza è così comune che quelle rare volte che commettiamo degli errori ci rimaniamo male e chiediamo scusa se confondiamo, al telefono, la voce del figlio per quella del padre. Sembra che anche Camille Saint Saëns si sia arrabbiato molto, con se stesso, alla prima esecuzione del Sacre du Printemps, e se ne sia andato subito da teatro sbattendo la porta del palchetto. Il motivo? Non aveva saputo riconoscere il fagotto nel celebre assolo iniziale. Guardando la cosa da un altro punto di vista si potrebbe dire che Stravinsky è un Giuseppe che ha saputo inventare una vocina talmente ben camuffata da fregare anche il suo compagno Camille. Si, perché esistono e sono esistiti musicisti che sono stati geniali “inventori” di timbri, che hanno esplorato le più remote possibilità dei singoli strumenti, che hanno creato nuovi impasti timbrico-orchestrali, che anno dedicato al parametro timbro una attenzione nuova e straordinaria. Il caso del terzo pezzo dei Fünf Orchesterstücke op. 16 di Arnold Schönberg è esemplare: il brano inizialmente era stato intitolato Farben (Colori) ed è costituito da vere e proprie “melodie di timbri”, in pratica l’intero brano è costruito su di un unico accordo dall’inizio alla fine, sulle note dell’accordo i vari strumenti su alternano conferendo alla sonorità complessiva una timbrica continuamente cangiante, pur nella immobilità delle altezze. La storia della musica del novecento è in sostanza la storia della scoperta della dimensione timbrica, da Russolo a Cage. Ma il settore dove, in qualche il timbro diventa l’elemento centrale, è quello della musica elettronica e della produzione “sintetica” del suono. E’ proprio la tecnologia che ha permesso di scoprire alcuni aspetti del timbro che prima venivano semplicemente ignorati. Ad esempio l’importanza dei transitori d’attacco per il corretto riconoscimento timbrico. Una esperienza ormai preistorica della musica “elettronica” consiste nel prendere la registrazione su nastro di un “don” di campana dalla lunga risonanza, tagliare il pezzetto iniziale del nastro oppure semplicemente farlo scorrere a rovescio e nessuno riconoscerà più il timbro della campana. Ma ognuno di noi, anche senza l’aiuto di raffinate tecnologie, può sperimentare su di se, con il proprio corpo la straordinaria varietà timbrica che ognuno è in grado di mettere in atto. Anche adoperando solo la bocca abbiamo una varietà straordinaria di timbri: cominciamo dalle vocali. La vibrazione che produce il suono delle varie vocali è unica, è sempre la stessa, è quella delle nostre corde vocali. Quello che cambia nel passaggio dalla a alla e alla i alla o e alla u, è la forma della principale “cassa di risonanza” costituita dalla bocca e quindi delle formanti del suono. Inoltre, essendo queste cinque vocali dei particolari timbri in un continuum è possibile, e di fatto avviene, che lingue diverse dall’italiano o dialetti privilegino dei timbri diversi. L’Accademia Imperiale di S. Pietroburgo organizzò nel 1779 un famoso concorso: ai concorrenti si chiedeva di spiegare quale fosse la natura dei suoni vocali e di costruire una macchina che fosse in grado di riprodurli. Il concorso fu vinto da un certo Christian Gottlieb Kratzenstein con una serie di risuonatori acustici (delle specie di canne d’organo) sagomati in modo tale da generare un suono simile alle vocali. Il Barone Wolfgang von Kemplelen costruì pochi anni dopo (1791) a Vienna la prima macchina parlante di cui si abbia documentazione. Al posto dei tubi di risonanza rigidi di Kratzenstein, Kelempelen, con una geniale idea, utilizzava un unico risuonatore in cuoio che poteva essere sagomato a mano. Dopo un anno di allenamento l’operatore che manovrava la macchina poteva farle dire in modo perfettamente intellegibile molte parole fra le quali mamma, papà, opera, astronomy, Costantinopolis, Romanorum Imperator semper Augustus, exploitation (in inglese e in francese) ecc. Chissà se il Barone von Klempelen ha mai incontrato, nel mondo dei trapassati, un certo Demetrio Stratos.

PAROLE CHIAVE: APPLAUSO

Autore: francesco bellomi

L’applausometro: questa meravigliosa invenzione della moderna tecnologia, ospite fisso di quiz e sfide varie trasmesse dal buco di vetro (per gli amici: la tv). Un’invenzione per masochisti del quoziente di intelligenza. Del resto è noto, il teleutente è mediamente un deficiente e la tivvù non perde un colpo nel ricordargli quanto sia imbecille. Non c’è nemmeno da sperare che l’aggeggio sia finto. E’ inesorabilmente vero. Le risate preregistrate, l’auricolare di Ambra, gli applausi a comando da tabellone luminoso sono un degno corollario, ma l’applausometro resta il Re della boiata perché lui, è scientifico!, misura con assoluta e imparziale precisione l’intensità di un applauso. E’ uno strumento di democrazia televisiva! Strano che non l’abbiano ancora usato per stabilire chi, fra i direttori del concerto viennese di capodanno è stato il migliore del secolo o chi sarà il prossimo presidente della repubblica.

L’applauso più memorabile della mia vita lo sentii provenire, verso le due di notte, dalle aule adiacenti alla mia, in una ex scuola elementare. Subito non capii chi cavolo stessero applaudendo gli altri candidati. Quando anch’io smisi di scrivere le mie variazioni per il diploma di composizione e mi sdraiai sulla branda, capii: centinaia e centinaia zanzare assetate di sangue erano entrate dalle finestre e attendevano solo, attaccate sul soffitto - nere e assassine - che spegnessi la luce. Anch’io cominciai a battere le mani come gli altri. Uno degli applausi più lunghi e cruenti della mia vita.

Forse, misurare un applauso è così irritante perché il vero applauso, come ci racconta l’etimologia della parola (da Plodere = esplodere) è qualcosa che ti scoppia dentro, che non puoi programmare. Questa idea dell’esplosione la doveva conoscere bene Debussy, che detestava gli applausi dopo la musica. Pensava in sostanza che chi applaude dopo una esperienza musicale sublime lo fa solo per dire «ci sono anch’io». Per Debussy la vera bellezza annienta l’applauso, lo paralizza, lo rende inutile. Debussy che amava il silenzio come tutti i musicisti e forse più di qualsiasi altro musicista, doveva sentire l’applauso come un bombardamento di artiglieria pesante sull’esilissima trama di silenzi delle sua musiche.

Un’altra storia racconta che dopo la prima esecuzione del Sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schoenberg, il pubblico era così profondamente emozionato e scosso che nessuno applaudì e rimase in aria un lungo silenzio immobile, più eloquente di qualsiasi applauso. Solo dopo una seconda esecuzione dell’intero brano gli ascoltatori ebbero “il coraggio” di applaudire.

Eppure le mani, «la parte visibile del cervello» come la chiamava Kant, sanno essere, anche nella semplice operazione di sbattere una contro l’altra, di una straordinaria varietà e ricchezza di sfumature sonore ed espressive. Se pensiamo all’uso delle mani nel flamenco,nella musica popolare bavarese, a brani come Clapping Music di Steve Reich, non possiamo non pensare che anche le nude mani possono essere un magnifico strumento musicale.

Oggi si applaude tutto e tutti, la buona educazione trionfa e c’è solo qualche imbarazzo ai concerti di musica contemporanea quando non si capisce se il pezzo è finito o no. Ma se l’esecutore chiude lo spartito l’applauso parte fra mille sospiri di sollievo. Non è sempre stato così: i Greci esprimevano la loro approvazione agli spettacoli gridando e battendo le mani. I Romani battevano le mani, schioccavano le dita, facevano ondeggiare le estremità della toga e sventolavano fasce speciali appositamente distribuite agli spettatori. Nel milleseicento, fischiare, pestare i piedi, battere le mani, tossire, soffiarsi il naso, chiaccherare, erano il tipico applauso di approvazione. L’applauso che sembra un gesto spontaneo nel bambini e nel comportamento degli scimpanzé, può essere anche un lavoro: Nerone pagava circa cinquemila giovani plausores per applaudirlo quando cantava nel circo. L’imbrex cioè il battere a mani piegate, e la testa cioè il battere con le mani tenute piatte, venivano provati in anticipo.

Ecco il tariffario del più famoso capo claquer operante a Roma alla fine dell’ottocento nel mondo del cafè-chantant, Fortunato Mattiozzi:

Applauso di sortita: ai maschi L. 25, sconto alle Signore: L. 15

Voci efficacissime di “Bene!” e “Bravo!”. Da pagarsi a pronti, L. 5 (cadauno componente della claque)

Applauso cordiale: L:10

Applauso insistente e caloroso: L. 15

Bis quasi spontanea: L. 25

Bis a qualunque costo: L. 50

Chiamate alla ribalta (cadauna): L. 5

Chiamate con nome: L. 1,50

Fanatismo: prezzi da convenirsi.

Ai concerti accade a volte che il pubblico batta le mani durante l’esecuzione sottolineando la pulsazione. Sulla marcia Radetzky- Marsch nessuno ha problemi. Ma ai concerti jazz metà pubblico batte sul battere e l’altra metà sul levare. Compito per casa: scoprire chi ha ragione.

PAROLE CHIAVE: diteggiatura

AUTORE: francesco bellomi

Un triangolo per il mignolo, un mezzo cerchio per l’anulare, una X per il medio, una I per l’indice, un asterisco per il pollice. I questo modo il copista ufficiale di Alessandro Scarlatti diteggia la prima toccata contenuta nel Primo e Secondo libro di Toccate del Sig. Cavaglre Alessandro Scarlatti (manoscritto 34.6.31) che si trova ora nella biblioteca del Conservatorio di Napoli. Anche J.S.Bach, Chopin, Liszt, Brahms, Messiaen, Stravinsky, hanno talvolta indicato la diteggiatura sulle loro composizioni: tanto per citare solo alcuni dei più famosi. Perché? La motivazione è spesso di tipo didattico. Soprattutto nei trattati le diteggiature hanno lo scopo di illustrare le abitudini tecniche ed esecutive in voga al momento. Oggi, per gli strumenti a tastiera si usano i numeri per indicare le dita: da uno a cinque = dal pollice all’indice. Confrontare i vari modi di usare le dita che si sono succeduti nel tempo offre delle informazioni non solo sulla prassi esecutiva ma anche sulle maniere con cui i musicisti hanno usato il proprio corpo. E’ noto che le diteggiature per tastiera più antiche (barocco compreso) usano raramente il passaggio del pollice sotto la altre dita. Le scale ascendenti alla mano destra erano generalmente diteggiate: 1,2,3,4,3,4,3,4, ecc. ottenendo così senza sforzo il tipico fraseggio a due a due che ritroviamo nel modo di tirare l’arco nel violino o nel modo di pronunciare dentro al flauto (lere, lere, ecc.). C’è però una differenza più profonda. Se per il pianista romantico uno degli obiettivi dell’addestramento tecnico giornaliero è quello di ottenere la più perfetta eguaglianza di intensità sonora fra tutte le cinque dita della mano, viceversa per il virtuoso di clavicordo era importante usare le dita muscolarmente più forti dove occorre più forza e quelle più deboli dove ne occorre meno. «Dita buone su note buone e dita cattive su note cattive» dove le note “buone” sono quelle consonanti poste generalmente sul battere e quelle cattive sono quelle dissonanti. A seconda delle scuole c’erano variazioni nel modo di identificare le dita buone. Nel Transilvano di Diruta (1593 – 1610) le dita “cattive” sono 1,3 e 5 e quelle buone 2 e 4. Per Purcell nelle sue Twelve Lessons (1689) è l’esatto inverso. Dal 1800 in poi ci rimangono diversi casi documentati di problemi muscolari, o di altro tipo, legati all’uso delle dita: Schumann è probabilmente l’esempio più famoso. Forse questo si spiega con l’enorme sviluppo di certe abilità muscolari necessarie per eseguire il repertorio romantico. O è stato invece lo sviluppo della tecnica a spingere i compositori a scrivere musiche di difficoltà tecnica trascendentale? Ancora oggi numerosi insegnanti o revisori di musiche altrui dedicano molte ore a prescrivere “corrette” diteggiature. Un esperimento raccontato da J. Slovoda sembrerebbe mettere seri dubbi sull’utilità didattica di questa prassi: J. W Reitmeyer (1972) chiedeva ad alcuni musicisti di esercitarsi in una prassi negativa: alcuni soggetti si esercitavano su una diteggiatura sbagliata pur essendo consapevoli della diteggiatura corretta, altri si esercitavano normalmente con la sola diteggiatura corretta. Si chiedeva poi ai due gruppi di eseguire i brani in modo giusto, e si quantificavano gli eventuali errori. I risultati mostrarono che non si verificava nessuna differenza significativa nell’efficacia di queste due tecniche. E’ chiaro però che esiste una sorta di memoria muscolare che permette ai musicisti un grande risparmio di fatica quando si trovano ad affrontare movimenti che sono stereotipi presenti in un vastissimo repertorio, come le scale e gli arpeggi. Per questi stereotipi si studiano oggi delle diteggiature “fisse” proposte da libri musicalmente non proprio entusiasmanti. In molto repertorio contemporaneo, dove questi stereotipi motori sono assenti, l’esecuzione e la diteggiatura è in genere più difficile e richiede abilità più raffinate o semplicemente diverse. Un caso particolare diteggiatura è quello usato dai “compositori del ditino” così come li chiamava, con un certo disprezzo, Schoenberg. Cioè dei compositori di musica leggera che compongono ad orecchio e che, non sapendo suonare, eseguono le loro melodie sulla tastiera con un solo dito. Sarà un caso ma questa idea del ditino gira molto anche nella musica classica: suonare una melodia barocca con un solo dito consente di dare la giusta articolazione di staccato secondo Ton Koopman. Riuscire ad esguire l’intera Eroica di Beethoven suonandola “con un dito” dimostrerebbe una enorme capacità di sintesi.

Mi è talvolta capitato di vedere dei cantati che mentre leggevano la musica o la improvvisavano muovevano le dita nell’aria come se stessero suonando uno strumento immaginario. La stessa cosa quando si chiede a qualche allievo di identificare un intervallo. Vuoi vedere che usare la diteggiatura anche dove apparentemente non serve fa -risparmiare un sacco di fatica al cervello?

PAROLE CHIAVE: ACCOMPAGNAMENTO

AUTORE: francesco bellomi

In termini di teoria della Gestalt le cose sono apparentemente molto semplici: se la melodia è la figura l’accompagnamento è lo sfondo. Quando fischiettiamo l’inizio della sinfonia K. 550 di Mozart tutti noi fischiettiamo la parte dei violini che fanno la melodia e non quella delle viole o dei violoncelli e contrabbassi, che realizzano l’accompagnamento. Eppure le sentiamo entrambe e, addirittura, la parte delle viole e dei bassi la sentiamo per prima e da sola per alcune pulsazioni, mentre la parte dei violini inizia dopo e non si sente mai da sola. L’ascoltatore compie questa scelta così ovvia perché la melodia attira la sua attenzione molto di più di quanto non faccia l’accompagnamento. In che modo? Soprattutto attraverso una netta differenza nei flussi di informazioni. L’accompagnamento è molto povero di “unità di informazione” e quindi molto prevedibile. L’ascoltatore, dopo qualche pulsazione sa già come più o meno la cosa andrà avanti e per questo motivo il suo livello di attenzione per questo aspetto cala velocemente (abituazione dicono con una brutta parola gli esperti). La melodia invece è molto più ricca di unità di informazione, è “più imprevedibile”, attira pertanto tutta la nostra attenzione, e quindi è quella che poi ricordiamo e fischiettiamo. Come si fa a realizzare qualcosa di “povero” di informazione? Semplice: si usano pochi elementi e una dose massiccia di ripetizioni. La variazione viene usata con parsimonia, i contrasti sono assai rari e spesso totalmente assenti. Un singolo suono tenuto (bordone) o ripetuto (ostinato) è uno dei modi più semplici e diffusi di fare un accompagnamento. Spiegare come fare una “buona” melodia è molto più complicato ma forse si può affermare che occorre un equilibrio fra i procedimenti di ripetizione, variazione e contrasto, che porti l’ascoltatore ad azzeccare alcune previsioni su quello che sta per ascoltare ma che non sia in grado di prevedere tutto e che ci siano delle soluzioni inaspettate ed imprevedibili che lo sorprendono. Non troppe però, altrimenti non sarà più in grado di orientarsi nel tessuto sonoro e la sua attenzione cadrà a picco come quella di chi ascolta il discorso di un uomo politico in una lingua che non conosce. (Spesso anche in una lingua che si conosce benissimo, ma, in tal caso, ci sono altri motivi). Perché certe melodie rimangono attaccate alle orecchie e, una volta ascoltate, non si dimenticano più per tutta la vita e altre, come si dice, «entrano da un’orecchia ed escono dall’altra». Tutti noi siamo abilissimi nel riconoscere le facce delle persone che conosciamo e anche quelle di persone che abbiamo incontrato poche volte. Ma questa abilità decade velocemente se ci trasferiamo improvvisamente in un continente nel quale le fisionomie sono sensibilmente diverse da quella bianca occidentale che ci circonda tutti i giorni: «I giapponesi sembrano tutti uguali» si dice con un luogo comune. Dopo qualche tempo di permanenza in Giappone la nostra abilità nel riconoscere le facce migliora sensibilmente: abbiamo imparato una sorta di “grammatica” delle fisionomie facciali giapponesi. Probabilmente quando una melodia «entra da un’orecchia ed esce dall’altra» succede che ascoltatore e compositore usano differenti “grammatiche” oppure che uno dei due, o entrambi, non sono troppo abili nell’uso di una grammatica condivisa. Zum-pa, zum-pa, è un modo molto telegrafico e sintetico di raccontare certi tipi di accompagnamento semplice in uso in certi repertori: musica per banda, opera lirica italiana del primo ottocento, ecc. L’accompagnamento per i motivi visti sopra è una cosa relativamente semplice da inventare: Beethoven annotava le sue sonate con la sola linea melodica e solo in fase di stesura definitiva aggiungeva quell’accompagnamento che per lui doveva essere ovvia conseguenza della melodia. Nell’epoca del basso continuo l’accompagnamento era annotato con una sorta di stenografia a base di numeri. Ma ci sono anche musiche dove una netta divisione fra melodia e accompagnamento non c’è:

a) dove tutte le parti melodiche hanno la stessa importanza: polifonia classica, contrappunto barocco, musica seriale, ecc.

b) dove tutto è accompagnamento come in molte musiche minimaliste, certi brani di Bach per tastiera dove l’uso ripetitivo di certe figurazioni “nasconde” la melodia.

c) dove non c’è proprio accompagnamento: gregoriano di Solesmes, ecc.

Uno dei primi successi di pubblico Stravinsky lo colse da bambino quando cantò, di fronte ai propri famigliari, una melodia popolare accompagnandosi con il suono prodotto mettendo una mano sotto un ascella e agitando fortemente il braccio. Accompagnare bene è un arte e Stravinsky la conosceva benissimo fin da bambino.

Esercizio per aprire le orecchie: ascoltare il meraviglioso accompagnamento che il pubblico esegue durante l’ascolto di 4’33’’ di John Cage.

Parole chiave: Tema

Autore: francesco bellomi

Per farla breve si potrebbe dire che il tema è quella melodia che continui a canticchiare o a fischiettare dopo che il concerto è finito e dopo che ti sei dimenticato quasi tutto il resto. Un buon tema non te lo dimentichi facilmente e lo riconosci se per caso viene usato in un altro brano. Quello che è interessante è cercare di capire perché il tema si stampa così bene nella tua memoria. Si potrebbe pensare che un tema viene presentato all’inizio del brano e che quindi lo ricordiamo meglio, così come ricordiamo meglio l’inizio delle poesie che abbiamo letto piuttosto che la parte centrale o la conclusione. Ma non è sempre così e anche quando il tema arriva dopo una introduzione più o meno lunga non abbiamo problemi a riconoscerlo come tema ed a memorizzarlo. Insomma, il tema è una sorta di personaggio ben caratterizzato e riconoscibile all’interno del “racconto” sonoro. Cos’è che rende una qualsiasi melodia un buon tema? Difficile da spiegare, ma forse si tratta di una sorta di equilibrio, concentrato in poche battute, fra elementi prevedibili per l’ascoltatore ed elementi non prevedibili o di sorpresa. Se tutto è prevedibile il tema tende ad essere anonimo, banale e poco “personaggio”. Se invece tutto è imprevedibile la memorizzazione ed il riconoscimento diventano molto faticosi. E’ più facile capire come fabbricare un buon tema andando ad ascoltare come sono fatti quelle melodie di “transizione” che non sono temi e che servono solo a far dimenticare parzialmente quello che si è appena ascoltato per introdurre poi con naturalezza un elemento nuovo. In un articolo di A. DRATWICKI A. (2000), intitolato «Une typoloie des “Passages” dans le concerto pour piano romantique (1800-1849): l’exemple de Johann Nepomuk Hummel (1778-1837)», Musurgia, VII/2, 25-40 si prendono i “passaggi” cioè gli episodi di transizione nella scrittura pianistica del concerto per piano e orchestra, in Hummel in particolare, e si verifica che gli ingredienti più usati in questi episodi sono scale, arpeggi e progressioni: cioè tre stereotipi o luoghi comuni del linguaggio compositivo. Sono in pratica comportamenti musicali che, una volta innescati, rendono il seguito facilmente prevedibile per l’ascoltatore. Se però prendiamo questa successione di altezze: do,si,la,sol,fa,mi,re,do, pensiamo subito che si tratti di una banale scala discendente. E invece no, è un bellissimo tema di Cajkowskij. Invece: do,re,mi,mi,fa,sol,sol,la,si,do, è una specie di scala e anche il tema di una fuga di J.S. Bach. Infine: do,sol,do,sol,do,sol,do,mi,sol, è un arpeggio e un arcinoto frammento tematico di Mozart. In altri casi la presenza di questi stereotipi non è così esplicita ed è necessario ricercare la presenza di sotto la superficie delle note. A scuola va forte la pratica del tema “dato”: date alcune battute di un tema lo studente deve completare il brano proseguendo in modo coerente. Arnold Schoenberg, nei suoi manuali, fornisce invece allo studente gli strumenti per fabbricarsi autonomamente i propri materiali, bassi o temi che siano. E’ molto interessante vedere negli appunti di certi compositori come l'elaborazione di un tema comporti talvolta numerosi ripensamenti e correzioni. L’articolo di K.D. HOLOMANN, (1999), «Berlioz au travail», su Musurgia vol VI n.1, 7-32 ci offre splendidi esempi tratti dai manoscritti di Berlioz ed è a tutti noto che Beethoven scrisse quasi cento varianti del tema della nona sinfonia prima di arrivare alla stesura definitiva. Secondo la testimonianza di Stendhal , Rossini annotava i suoi temi migliori su dei pezzetti di carta, senza usare il clavicembalo, verso le due o le tre di notte, prima di andare a dormire. Poi, la mattina dopo, gli istrumentava attorniato dagli amici e chiacchierando con loro, come svolgendo un lavoro di assoluta routine. In ogni biblioteca musicale c’è un buon numero di cataloghi tematici, di libri cioè che mettono in fila tutti i temi scritti da un certo autore permettendo al ricercatore di trovare velocemente l’indicazione esatta di un brano del quale si ricorda il tema. Il più strano di questi cataloghi l’ha scritto un certo Denis Persons e si intitola The directory of tune. I temi di migliaia e migliaia di brani scritti da centinaia di musicisti sono catalogati secondo la direzione degli intervalli melodici dei primi 17 suoni. I simboli usati sono:

x = suono di partenza

R = repeat (ripetizione del suono precedente)

U = up (suono più alto rispetto al precedente)

D = down (suono più basso rispetto al precedente)

God save the Qeen è così classificata

Non essendo specificato né il ritmo né l’ampiezza dei singoli intervalli non è possibile ricavare da questo schema la precisa articolazione di un tema. L’unica cosa che si può fare è, se si ha presente il tema, trovare lo schema che gli può corrispondere. La domanda inquietante che mi rivolgo è: “Riuscirò’ mai a capire a cosa serve questo libro?”

Parole chiave: diapason

Autore: francesco bellomi

(per n° 124 di Musica Domani)

Il nome di John Shore solitamente non dice niente ai musicisti e anche se si aggiunge che nel 1711 inventò una tunning fork c’è il rischio di non capire di che cosa si tratta e si pensa a qualche raffinato metodo di impiccagione per gli antichi sudditi di sua maestà britannica. Ma se diciamo che oggi questa “forchetta per intonare” è fabbricata in modo da produrre esattamente 440 vibrazioni al secondo (per gli amici: 440 Hertz) allora tutti capiamo che si tratta del banale diapason a forchetta. Proprio quel diapason che qualche vecchio maestro dell’accordatura si ostina ancora ad usare in spregio dei più raffinati e tecnologici diapason elettronici e che è obbligatorio usare nelle prove di direzione corale dei pubblici concorsi a cattedra, se mai ve ne saranno ancora. Tutti sanno che, queste 440 vibrazioni al secondo corrispondono ogni alla nota LA e che esiste una legge dello stato italiano che obbliga(!?) le orchestre a prendere questo la come nota di riferimento. Inutile dire che siamo quasi tutti fuorilegge musicali. Ma per capire perché occorre fare qualche passo indietro. Come sempre, i cinesi sono arrivati ad una soluzione qualche migliaio di anni prima di noi occidentali. Ling-luen, ministro dell’imperatore Huang-ti (2697-2697 a.C.), avrebbe trovato sui monti Kunlun, l’altezza assoluta di un suono-campione fondamentale, lo hoang-čong, tagliando una canna a sezione uniforme tra i due nodi e soffiandovi dentro. Anche in Cina però l’altezza assoluta di questo suono campione fluttuò con il passare del tempo. In occidente nel periodo barocco c’erano diversi diapason a seconda delle tradizioni locali e dei generi musicali. Le bande municipali e militari (i cui musicisti erano funzionari pubblici e si dovevano chiedere speciali permessi per farli suonare al di fuori delle loro funzioni) usavano un diapason detto Cornetton che, all’epoca di Praetorius (Syntagma II°, 1619), era circa una quarta sopra al la di 440 Hz. Un diapason così alto aveva lo scopo ottenere sonorità molto più brillanti e penetranti. Ok, erano militari, giusto? Ci siamo capiti. Il chorton era invece il diapason per la musica sacra. Tono de capilla lo chiamavano gli spagnoli. E qui la situazione era molto frammentaria con una specie di contrapposizione fra organari, che per risparmiare materiali e spazio tendevano a costruire organi con un diapason il più alto possibile, e maestri di cappella che chiedevano dei diapason “umani” per non far esplodere la laringe ai propri coristi. Non mancano le polemiche fra le due fazioni con gli organari che sbeffeggiavano i musicisti dicendo: “Non ce la fate? Dite al vostro signor organista che impari a trasportare decentemente e canterete tutto più basso senza bisogno di cambiare il diapason!” Fatto sta che, a seconda del luogo e dell’epoca, questo chorton fluttua di parecchio: da un tono sotto ai 440 Hz nel ton de chapelle francese ad un tono sopra nel church pitch inglese del sec. XVI. Quanto al Kammerton, ovvero il diapason per la musica da camera, le fluttuazioni sono state ancora più ampie: fino ad una terza minore sotto per J.J. Quantz (1752) e per i languorosi e mollicci suonatori di legni provenienti dalla scuola francese. J.S. Bach si vide costretto a trasportare più volte alcune parti in certe sue cantate per adattarle ai mutevoli diapason degli strumentisti nelle diverse sedi dove lavorava. Dopo il 1820 inizia la corsa generale al rialzo: Torino 445 Hz, Parigi 449, Milano 451, Berlino 452, Londra 453. Nel 1880 la ditta Steinway accodava i propri pianoforti a 457 Hz. La trazione esercitata dalle corde sull’arpa dello strumento era così equivalente a svariate tonnellate di peso. Come suonare con un TIR appoggiato sullo strumento, rimorchio compreso. Alla fine si decide con una convenzione mondiale tenuta a Londra nel 1939 che il la è a 440 Hz alla temperatura di 20 °C. Oggi le orchestre sinfoniche prendono la di 442 Hz e oltre, quelle barocche di 415 Hz circa, il Tu-Tu del mio telefono, che dovrebbe essere a 440 Hz, è sempre malinconicamente calante e anche se un orchestra decide di rispettare la legge prendendo il diapason “legale” succede che, durante l’esecuzione, il diapason si alza lentamente ma inesorabilmente.

Un giorno, a scuola, un bambino ha visto il mio diapason a forchetta e mi ha detto: «Ah si, quello che ti fa vedere le onde sonore.» «Sentire!» ho corretto subito. Ma lui è uscito ed è tornato con un bicchiere pieno di acqua minerale gassata, ha percosso il diapason e, mentre vibrava, ha immerso la forchetta nell’acqua. La superficie dell’acqua si è subito increspata e anch’io ho visto le onde sonore. Le bollicine salivano impazzite alla superficie. «Inoltre» ha aggiunto «la minerale sgasata mi piace di più» e se l’è bevuta soddisfatto.

PAROLE CHIAVE: PAUSA

AUTORE: francesco bellomi

Quando ho scritto per la prima volta il titolo di questa breve chiacchierata sulla pausa, anziché scrivere pausa ho scritto paura. Alberto Savinio avrebbe sicuramente osservato che la voce degli dei parla attraverso questi lapsus di battitura e credo che, alla luce delle riflessioni che seguono, sarebbe difficile dargli torto.

Gian Francesco Malipiero intitolò alcuni suoi brani Pause del silenzio (1917-1926). Sapeva bene che le pause non sono silenzi e che esse sono necessarie alla musica come l'aria è necessaria a molti esseri viventi. Se PAUSA = ARIA allora SILENZIO = VUOTO? Forse, ma dovremmo elaborare il concetto di silenzio per assurdo e quindi in modo totalmente astratto rispetto ai meccanismi percettivi. Gli udenti immaginano erroneamente che i non udenti vivano in un mondo di silenzio: niente di più sbagliato. A questo proposito così si esprime Oliver Sacks (Vedere Voci, Adelphi,1990, pag. 28): «Il sordo congenito non ha esperienza del “silenzio” né di questo si lamenta, così come il cieco non ha esperienza né si lamenta del “buio”. Queste sono nostre proiezioni, o metafore, della loro condizione.»

La pausa ha avuto nella musica una evoluzione curiosamente simile a quella che ha avuto, nei numeri, lo zero. Come per lo zero, anche la pausa ha avuto tardi l'onore di una scrittura. E anche i primi segni che indicano inequivocabilmente delle pause nelle scritture musicali più antiche sono piccolissimi, è facile confonderli con piccole macchie della scrittura o della stampa. Come fanno ancora i bambini di oggi quando inventano scritture sonore, i nostri antenati avevano una certa riluttanza ad elaborare segni specifici e ben visibili per indicare i silenzi. Un pezzo di storia dello zero ce la racconta invece Georges Ifrah (Storia universale dei numeri, Mondadori, 1989, pag.288):«Quando lo zero fece la propria comparsa in occidente (cosa che avvenne, ricordiamolo, nel XII secolo), gli furono attribuite diverse denominazioni, tutte trascrizioni più o meno latinizzate del termine Sifr (il vuoto) dato dagli arabi al Sùnya di origine indiana. Nel suo Liber Abaci, Leonardo da Pisa (verso il 1170-1250) gli diede il nome di Zephirum, di cui ci si sarebbe serviti fino al XV secolo; con qualche modifica, esso sfociò quindi nell'italiano zefiro, (il nome di un vento) alla cui fine derivò, a partire dal 1491, l'attuale zero." Due ipotesi per giocare con le parole:

1) se PAUSA=SILENZIO, SILENZIO=NULLA, NULLA=MORTE; allora PAUSA = PAURA DELLA MORTE.

2) se PAUSA=ZERO, ZERO=ARIA, ARIA=RESPIRO, RESPIRO=VITA; allora PAUSA = RESPIRO DELLA VITA.

R. Murray Schafer (Il paesaggio sonoro, Ricordi, 1985, pag. 353) dice: «L'uomo ama produrre dei suoni per ricordarsi che non è solo. L'uomo rifiuta il silenzio totale. Ha paura della mancanza di suoni, così come ha paura della mancanza di vita. Poiché il silenzio definitivo è quello della morte, è nelle cerimonie commemorative che il silenzio raggiunge la sua dignità più alta. [....] Per chi possiede un ascolto limpido, il silenzio è - in realtà - un'informazione. Per poter riuscire a migliorare il design acustico del mondo, dovremmo prima ritrovare una concezione del silenzio come condizione positiva della vita.»

Nel periodo barocco e classico i segni di alcune pause entrano nella scrittura con dignità pari a quella dei suoni. Ma i respiri , i silenzi d'articolazione sono lasciati al gusto, alla tecnica e alla bravura dell'esecutore. Solo Dom Bedos de Celles (in L'ART DU FACTEUR D'ORGUES, Parigi, 1766/1768, fac-simile 1936, Kassel) li annota con precisione millimetrica quando deve far vedere come incidere il cilindro di un organo meccanico. Problemi analoghi di precisione si hanno oggi nelle scritture computerizzate dove i piccoli silenzi di articolazione che un musicista eseguirebbe a istinto vanno invece indicati con rigorosa precisione.

Ricordo ancora la paura che mi attanagliava lo stomaco nel 1979, durante la mia prima ora di lezione, nella mia prima supplenza di Educazione Musicale, di fronte ad una bellissima classe di bambini di prima media. L’insegnante titolare mi aveva telefonato e mi aveva detto: «Ho appena spiegato loro le figure delle durate, lei illustri i segni delle pause corrispondenti.» Entrai in classe, salutai, ma credo che non guardai veramente nessuno negli occhi, andai come un folle alla lavagna e sciorinai, ad una velocità semplicemente pazzesca, la tabella completa delle durate delle pause, dalla maxima alla fusa. Quando mi voltai tutti mi fissavano, immobili, in un silenzio semplicemente irreale. Poi il bambino del primo banco, con uno sguardo da angelo del paradiso, mi chiese, un po’ esitante: «Ma allora, che cos’è la menopausa?»

PAROLE CHIAVE: studio

AUTORE: francesco bellomi

«Mi piace insegnare in questa città perché altrove, se dico ad un allievo: ripeti questo studio venti volte, lui me lo ripete venti volte. Qui invece, se io dico: ripetilo venti volte, lui me lo ripete cinquanta volte».

Questa frase, ascoltata nel corso di un collegio decenti di diversi anni fa, racconta molto bene che cosa un musicista intende per studio, ma dice anche una cosa più sottile: dice quanta motivazione e quanta tenacia siano necessari per “digerire” una massa notevole di attività ripetitive considerate indispensabili per il raggiungimento di un certo standard tecnico. Questa della ripetizione è una delle strategie più usate, e (devo ammetterlo) più efficaci, di apprendimento motorio per il musicista ma non solo per lui. Questa cosa degli esercizi ripetitivi la conoscono molto bene quelli che vivono o lavorano vicino ai musicisti. In un grande conservatorio italiano, qualche anno fa fu necessario sospendere le lezioni di strumento, in determinati orari, nelle aule le cui finestre si affacciavano su di una stretta via laterale. Gli inquilini dei palazzi di fronte avevano presentato denuncia per il “rumore” che erano costretti a sorbirsi quotidianamente. Uno degli aspetti fortemente sottolineati nella denuncia era proprio l’aspetto ossessivamente ripetitivo di tale “rumore”. Ascoltare i musicisti che studiano di solito non è molto piacevole ma qualcuno ha provato a farlo intenzionalmente. S.G. Nielsen racconta in un articolo pubblicato sul British Journal of Music Education, (1999) 16/3, pagg. 275-291, di come abbia videoregistrato ed analizzato le sedute di studio di due allievi organisti alle prese con un brano di difficile esecuzione. Le conclusioni dell’articolo si basano sia sulle informazioni raccolte attraverso verbali, anche osservativi, redatti durante e dopo le sessioni di studio sia sull’analisi dei filmati. I risultati dimostrano in modo inoppugnabile che i due studenti utilizzano delle strategie di tipo analitico in vari aspetti dell’attività di studio, ad esempio nella modificazione della struttura ritmica funzionale allo studio e anche nella segmentazione dei frammenti da ripetere durante lo studio. L’analisi, come strategia integrata ad altre da utilizzarsi nello studio strumentale, è implicita e si dimostra presente anche nella dimensione più libera e “intuitiva” del lavoro di studio dei musicisti, quella che ha a che fare con “cosa ripetere”. Molti didatti hanno poi pensato bene di scrivere tutto un repertorio di brani denominati appunto studi o esercizi. La caratteristica fondamentale di uno studio o di un “essercizio” (come lo chiamava Domenico Scarlatti) è proprio la dose massiccia di ripetizioni. Ripetizioni che riguardano, nella maggioranza dei casi, delle particolari configurazioni melodico-ritmiche e quindi motorie. Non solo i musicisti affrontano studi ripetitivi di questo tipo: ballerini, attori, atleti ecc. operano analogamente nei rispettivi settori. Perfino i pittori fanno i loro studi preparatori prima di affrontare un soggetto impegnativo. Si racconta che Pablo Picasso passasse a volte intere giornate a copiare ripetitivamente particolari decorazioni di vasi attici o frammenti di arte africana. Il suo scopo non era lontano da quello dei musicisti: esercitare l’occhio e la mano anziché l’orecchio e la mano o il labbro o la voce ecc. Ma esiste anche un’altra dimensione dello studio, inteso sia come brano musicale che come prassi di apprendimento, quella che affronta problemi non di tipo meccanico o tecnico ma espressivo. In questo caso l’aspetto ripetitivo dello studio perde importanza a favore delle esplorazione di un certo clima o andamento. Si tratta allora di quello che si potrebbe chiamare uno studio di carattere. Forse gli scrittori e i poeti sono quelli che fanno meno studi meccanici e più studi “di carattere” in assoluto; gli studi meccanici gli avranno fatti quando hanno imparato a leggere e a scrivere. Ma talvolta, quando un autore rivela di aver riletto decine e decine di volte certi testi, non sarà anche questo uno studio esattamente come quello dei musicisti? Effettivamente chi ha provato a rileggere molte volte un libro (o a guardare molte volte un film come faceva Caetano Veloso con i film di Fellini imparandoli alla fine a memoria) dice di scoprire sempre cose nuove ad ogni lettura. Questo è quello che dovrebbe succedere anche ai musicisti man mano che gli schemi motori ed espressivi si strutturano e si perfezionano. Tuttavia questo non sempre succede e talvolta (nella maggioranza dei casi dice qualcuno) la noia dell’esercizio ripetitivo produce una forte demotivazione.

Per fortuna Bach, Chopin, Debussy, Messiaen, Cage, Ligeti e altri geniali musicisti ci hanno lasciato degli studi così belli che nessuno pensa più alle ripetizioni.

NB. L’insegnante di qui sopra, quello delle cinquanta ripetizioni, adesso insegna in un’altra città, una da venti ripetizioni, se va bene.

Parole chiave: maestro.

Di: francesco bellomi

“Nessuno nasce maestro” è un modo di dire che illustra molto bene un pensiero piuttosto condiviso: per diventare molto abili in una certa disciplina o arte o scienza o mestiere, al punto da riuscire ad insegnarlo ad altri, è necessario raggiungere alti livelli di abilità e competenza. “Per insegnare 10 cose è necessario saperne almeno mille” è un'altra frase ricorrente. Ma “nessuno nasce maestro” può voler dire anche un altra cosa: per insegnare occorrono delle abilità (relazionali, comunicative, didattiche, teatrali? ecc.) che non tutti possiedono come patrimonio genetico dato, e che quindi si devono acquisire con lo studio e con l'esperienza. Ne consegue che è possibile “imparare ad insegnare” e che saper insegnare non coincide in tutto e per tutto con l'imparare a suonare, a comporre, ecc. Per chi si occupa di didattica e di pedagogia è una constatazione lapalissiana. Essere un grande Maestro (nel senso di virtuoso della propria pratica professionale) non vuol dire necessariamente essere anche un grande maestro (nel senso di insegnante) di questa stessa pratica professionale. Peccato che questa constatazione ovvia e scontata non sia affatto condivisa a livello generale e quindi anche fra i musicisti. Altrimenti come si spiegherebbe la presenza di innumerevoli occasioni di formazione dove la presenza di Maestri (nel primo significato) richiama frotte di studenti che in diversi casi non trovano Maestri (nel secondo significato) corrispondenti alle aspettative? A leggere le testimonianze e i documenti storici si rimane sbalorditi dalla frequenza di questo equivoco.

In qualche caso i maestri del tipo A sono consapevoli di non essere anche maestri del tipo B e lo dichiarano. In occasione dell'ultimo concerto tenuto alla Scala da Vladimir Horowitz, apparve una intervista su un notissimo giornale nazionale. L'intervistatore chiedeva se Horowitz avesse degli allievi. Nella risposta Horowitz spiegò di non sentirsi adatto all'attività di insegnante, di preferire il concertismo. Sottolineò anche il fatto che per fare l'insegnante occorrono abilità assai diverse da quelle necessarie al concertista puro. Le persone sagge conoscono e riconoscono i propri limiti. Questa è una componente loro saggezza. Peccato che l'apparato di reclutamento di molti insegnanti abbiano ignorato (e in certi casi ignorino ancora oggi) questo dato di fatto. Nelle accademie di pittura degli anni trenta i titolari della cattedra di pittura erano talvolta notissimi e valentissimi pittori. La scuola metteva a loro disposizione modelli e stanze per allestire i loro studi personali. Studi nei quali questi Maestri (A) dipingevano parte delle loro opere. Sporadicamente uscivano dallo studio, entravano nella classe di pittura, facevano un giro per i cavalletti pronunciando qualche rara parola di apprezzamento o di critica. Quindi ritornavano al proprio studio a lavorare per conto proprio. Rari eletti avevano accesso allo studio del maestro (B). Questa prassi, come modello didattico, sembra l'applicazione della teoria darwiniana della selezione naturale: o sei capace, come allievo, di cavartela con le tue sole forze, o soccombi e sparisci. Molte cose, non tutte, sono cambiate nel frattempo. Molti insegnanti, non tutti, sono oggi meno afasici di questi vecchi maestri e in molti casi parlano e spiegano. Anche Stravinsky non amava insegnare la composizione: “Sono molto poco dotato per l'insegnamento e non ho alcuna inclinazione al riguardo: sono propenso a pensare che gli unici allievi che valga la pena di avere diverrebbero compositori sia col, sia senza il mio aiuto […] Quando un compositore mi sottopone un suo lavoro per una critica, tutto ciò che gli posso dire è che io l'avrei scritto in modo del tutto diverso […] Mi dolgo della mia incapacità comunque e sono pieno di venerazione per Hindemith, Kéenek, Session, Messiaen e per quei pochi altri compositori che posseggono il dono dell'insegnamento.” (in Craft-Stravinsky,1977, Colloqui con Stravinsky, Einaudi, p.176).

Al lato opposto troviamo Arnold Schoenberg, che insegnò per tutta la vita e che scrisse nella prefazione del suo Manuale di Armonia: “Questo libro l'ho imparato dai miei allievi.” Quando si legge questa frase si intuisce di colpo che il Maestro (di tipo B), anche quando è contemporaneamente un Maestro (di tipo A), è uno che insegna con le orecchie spalancate, è "in ascolto", è un insegnante che impara continuamente dai suoi studenti e non ha nessun "trucco" da nascondere perché quello che sa non è "suo" ma è qualcosa che esiste e vale solo quando viene condiviso fino in fondo con qualcuno.

Uno dei più grandi maestri (di tipo B e A) che ho avuto la fortuna di incontrare, un giorno mi ha regalato un prezioso e voluminoso libro. Poi se n'è andato verso la stazione con la sua borsa sempre troppo piena. E' strano, mi sembrava che la borsa, senza quel libro, fosse diventata ancora più pesante.

Parole Chiave: accordo

Autore: francesco bellomi

Paul McCartney racconta di aver attraversato, quando era un ragazzotto alle prime armi con la musica, tutta la città di Londra per andare a casa di un chitarrista che sapeva suonare un accordo fantastico e bellissimo: l'accordo di do 7°, do settima diminuito, nel gergo. A leggere questa storiella viene un po' da ridere ai musicisti classici, che chiamano questo stesso accordo "accordo di quinta specie" o settima di sensibile, o settima diminuita su do, e se lo trovano accuratamente classificato etichettato e descritto anche nel più banale manuale di Armonia (la scienza degli accordi). Ma la storiella in realtà dice un'altra cosa: che i musicisti non classici si innamorano degli accordi per averli sentiti, qualche volta non sanno nemmeno come si chiamano ma li usano; quelli classici invece li devono studiare sulla carta dei libri e solo in qualche raro e felice caso li riconoscono quando li sentono con le orecchie. Accordo è, per definizione, l'esecuzione contemporanea di più suoni. Una definizione apparentemente chiara e semplice, in realtà problematica come un nido di vespe. Il fatto è che potrei dire: a) il rumore del traffico che entra in questo momento dalla finestra è fatto dalle sovrapposizione di più suoni: motori, clacson, frenate, sgommate, urla di tassisti nevrotici, radio con la techno a tutta manetta, una sirena di ambulanza, ecc. E' un accordo. b) chiuso nel silenzio di una stanza isolata acusticamente emetto un unico piccolo suono con la voce, dato che, a voler essere precisi, in questo suono sono presenti suoni diversi detti armonici, anche questo è un accordo. c) Tutti gli strumenti di un'orchestra gigantesca producono contemporaneamente lo stesso suono: è un accordo si o no?

Ad andare per il sottile dal punto di vista acustico le cose si complicano maledettamente, inoltre molti serissimi e posati musicisti giurano che il rumore del traffico non è un accordo, e allora? Come sempre bisogna fare i conti con chi hai davanti, cioè con il contesto culturale. Il concetto stesso di accordo (musicale) ha probabilmente una data di nascita e una storia tutt'altro che lineare. Per il musicista rinascimentale, ascoltare i tre suoni che compongono l'accordo di re minore, sapere che questi suoni hanno fra loro dei rapporti matematici precisi, verificare che la sonorità complessiva è qualcosa di bello e gradevole per l'udito, era probabilmente la dimostrazione inequivocabile che esisteva l'armonia delle sfere, che l'intero universo era governato da rapporti matematici e armoniosi, che Pitagora aveva stramaledettamente ragione nelle sue teorie. Oggi la triade di re minore è un costrutto culturale in mezzo a tanti altri, qualcuno usa ancora costrutti di questo tipo, altri non più. Quindi esistono musiche dove gli accordi ci sono e sono importanti e accuratamente selezionati e costruiti e altre dove gli accordi, pur essendoci, sono meno importanti e non sono il fattore cruciale. L'intera storia della musica occidentale recente può essere vista, e di fatto è stata vista spesso, come una progressiva conquista di costrutti accordali sempre più ricchi e complessi. Molti musicisti hanno addirittura elaborato un sistema di accordi personale (Hindemith) o hanno trovato accordi "personali" ai quali erano particolarmente affezionati (l'accordo mistico di Scriabine, la "dominante di Gershwin"). Altri hanno scritto intere opere musicali elaborando un singolo, meraviglioso accordo (La Sagra di Stravinsky). Quanto il sistema armonico tonale non ce l'ha più fatta a raccontare con i propri schemi quello che stava succedendo agli accordi sono nati nuovi approcci descrittivi e classificatori degli accordi o, come qualcuno preferisce chiamarli, degli "agglomerati o insiemi di suoni" Ad esempio la Pitch Set Theory di Allen Forte e altri. Una applicazione della teoria degli insiemi di Kantor all'analisi e teoria musicale.

Come ho già detto, la parte della teoria musicale che si occupa degli accordi si chiama armonia. I manuali di armonia che sono stati scritti e pubblicati negli ultimi secoli, sono diverse migliaia. Quindi un argomento che, nel gergo editoriale, "tira". Dicono quasi tutti le stesse cose, e in più di qualche caso, sia antico che moderno, gli autori si scopiazzano fra loro. Quando qualcuno mi chiede da cosa è meglio cominciare lo studio dell'armonia io propongo un esercizio un po’ brutale, assente da tutti i manuali che conosco: «Prendi uno strumento che possa produrre più suoni contemporaneamente, prova delle combinazioni e sovrapposizioni di suoni a caso, se ne incontri qualcuna che ti piace, fermati e annotala sul quaderno. Continua così fino a quando non hai riempito almeno un paio di quaderni.» Di solito, lo studente che usa le orecchie, arrivato alla quarta pagina ha già le idee chiare su cosa vuole dal punto di vista degli accordi. Poi si comincia a studiare tutta la storia, ma la fede cieca (e sorda) nel manuale di armonia è un pericolo scongiurato per sempre.

PAROLE CHIAVE: ARPEGGIO

Autore: FRANCESCO BELLOMI

Il verbo arpeggiare può suggerire l'idea che sia qualcosa di strettamente legato a uno strumento ben noto a tutti: l'arpa. E questa è la prima definizione che di solito fornisce il vocabolario: «Arpeggiare, suonare l'arpa e, per estensione, altri strumenti a corda. Fare Arpeggi.» Solo a qualche pignolo verrebbe in mente di scavare nell'altra, più antica, definizione: «moversi di animali affetti da arpeggio.» Questa malattia misteriosa che si chiama arpeggio è definita come: «grave difetto di andatura dei quadrupedi, consistente in una esagerata flessione dell'arto con brusco appoggio del piede.» Lasciamo dormire per il momento questo secondo significato e andiamo a vedere cos'è un arpeggio per i musicisti: «Arpeggio, eseguire le note di un accordo una dopo l'altra anziché tutte insieme.» Tutti gli strumentisti sanno che eseguire in maniera eccellente scale e arpeggi è una delle abilità fondamentali per poter suonare senza fatica molti repertori. Ma qualunque successione di suoni eseguiti in successione è un arpeggio? No, solo se questi suoni compongono un qualche accordo. Altrimenti si ha una scala o una melodia o una semplice successione di suoni priva di qualsiasi denominazione specifica. Proprio il fatto che un determinato comportamento (arpeggiare) possieda una specifica etichetta verbale ci fa capire che questo comportamento ha delle caratteristiche sue proprie che lo distinguono dagli altri. Esattamente come avviene quando, ad esempio, una determinata figura geometrica porta una precisa etichetta verbale (quadrato, cerchio, triangolo rettangolo, ecc.) che la distingue da tutte le altre infinite forme. Proprio la geometria e gli studi sulla percezione delle figure geometriche ci forniscono uno strumento utile anche per i suoni. E. L. J. Leewenberg, in un suo saggio intitolato: Metrical aspects of patterns and structural information theory; 1978, ha cercato di mettere a punto un sistema formalizzato per la misurazione della salienza percettiva di figure disegnate in base alla caratteristiche strutturali rilevate. I criteri da lui adottati consentono di descrivere una figura in modo formalizzato, sulla base delle regolarità presenti nel pattern considerato. Si ipotizza l'esistenza di «ordinatori» percettivi (parallellismo, perpendicolarità, equidistanza dal centro, simmetria, ecc.) la cui presenza riduce drasticamente le unità di informazione necessarie per definire e percepire o riconoscere la figura geometrica in questione. «L'insieme di tutti i punti equidistanti da un punto detto centro»: questa definizione, estremamente economica ma completa della figura del cerchio è, da questo punto di vista, esemplare. Provate a descrivere compiutamente, con lo stesso numero di parole, la figura geometrica infinitamente più complessa di una ragnatela stramba fabbricata da un ragno fatto ubriacare in laboratorio. Un libro intero forse non basterebbe. A pensarci bene l'arpeggio è un vero e proprio ordinatore percettivo. E' in sostanza la ripetizione di una medesima gestualità su altezze diverse ma facilmente prevedibili perché appartenenti ad uno stesso accordo. Forse non è un caso che grandi quantità di arpeggi siano adoperati dai musicisti del passato in quei momenti di passaggio fra un episodio e l'altro di certi brani. In un articolo di A. Dratwicki intitolato: Une typoloie des «Passages» dans le concerto pour piano romantique (1800-1849): l’exemple de Johann Nepomuk Hummel (1778-1837) e pubblicato sulla rivista di analisi musicale Musurgia nel 2000, si analizzano proprio i «passaggi» cioè gli episodi di transizione nella scrittura pianistica del concerto per piano e orchestra, in Hummel in particolare. Una volta fatto partire un arpeggio, l'ascoltatore sa spesso fare delle previsioni attendibili su come continuerà e questo è tipico delle situazioni povere di unità di informazione. Dal punto di vista motorio e sonoro, l'arpeggio consiste, su molti strumenti, in uno spostamento graduale e prevedibile sulle corde o sui tasti o sulle chiavi. Quasi una specie di scivolamento secondo precisi schemi motori. L'etimologia della parola arpa confonde spesso la radice germanica harpa con quella di origine sannita herpex (dalla quale l'italiano erpice: un attrezzo dentato che scivola sul terreno rivoltando le zolle) e con quella latina herpes che deriva a sua volta dal greco hèrpein (= strisciare) e che è il nome di una infezione della cute così chiamata perché è una malattia che striscia sulla pelle.

Siamo partiti da una lontana malattia dei quadrupedi e siamo arrivati a un'altra strisciante malattia. Se poi qualche quadrupede arpeggiante, con il suo brusco appoggio del piede, perde il controllo e scivola, la frittata è fatta, come sanno bene i musicisti che quando «scivolano» su un arpeggio, sbagliando qualcosa, sono beccati senza pietà anche dall'ascoltatore più inesperto.

Parole Chiave: Aria

Autore: francesco bellomi

«Darsi delle arie» è un modo di dire che tutti conoscono. Magari oggi è surclassato da «spararsi le pose» ma «darsi delle arie» rende ancora molto bene l'idea. Prima del XVI° secolo il termine aria o aere conservava il significato di «portamento, atteggiamento, gesti» e in questo senso era adoperato, ad esempio, nei trattati di danza. Ancora oggi si dice «avere l'aria di un cane bastonato» dove aria è intesa come modo di comportarsi o atteggiarsi. Per i musicisti aria significa anche una certa melodia. Le Partite sopra l'aria di Fiorenza o quelle sopra l'aria di follia di Girolamo Frescobaldi sono delle variazioni su di una melodia molto in voga nella Firenze del tempo o sulla celeberrima follia: un'aria sulla quale innumerevoli musicisti hanno scritto delle variazioni. Proprio il fatto che il termine aria indicasse una melodia particolarmente orecchiabile e cantabile ha forse giocato un ruolo decisivo nel mondo dell'opera lirica e, prima ancora, nelle composizioni rinascimentali a voce sola con accompagnamento strumentale. Come è noto, per secoli, nelle opere liriche si sono cantate delle arie e degli ariosi. Tanto che il termine aria ha finito per essere associato definitivamente e indissolubilmente a determinate forme vocali e strumentali in uso nell'opera. Aria col da capo, aria strofica, aria bipartita, aria tripartita, arietta, ecc. e poi le derivazioni successive come arioso, cabaletta, cavatina, romanza ecc. indicano precisi comportamenti formali e compositivi o precise situazioni drammaturgiche. In buona compagnia con i termini più seri e asettici si trovano altre dizioni più curiose. Ad esempio aria di baule che nel XVIII° secolo era quell'aria che il cantante si tirava dietro da un'opera all'altra inserendola e cantandola, con minimi aggiustamenti del testo, in qualsiasi rappresentazione di qualsiasi ambientazione e di qualsiasi autore. Oppure l'aria di furore come quella famosissima cantata dalla Regina della Notte nel Flauto Magico mozartiano.

Forse non è estranea a questa lunga simbiosi fra il mondo del canto e il termine aria il fatto che per cantare si usa il fiato, ovvero dell'aria pompata dal diaframma utilizzando i polmoni come mantici. Un meccanismo comune anche a moti strumenti musicali detti, per questo motivo, aerofoni: dal flauto di pan alla fisarmonica, dall'heckelphon all'organo. Ma anche strumenti più rari e curiosi come ad esempio l'arpa eolia usata da Jan Garbareck in un suo disco. In questo caso una normale arpa è stata esposta agli impetuosi venti del nord presenti in qualche fiordo norvegese. Alcuni microfoni fissati sullo strumento hanno registrato le vibrazioni delle corde, sempre nuove e imprevedibili a seconda della direzione e della velocità del vento. Infine un'arpista ha lavorato, durante la registrazione, con i pedali per variare l'intonazione delle corde. Il nastro con la registrazione di questi suoni è stato usato poi dal celebre sassofonista come base per le sue improvvisazioni. Più lontano nel tempo ma non meno curioso è quello che fece nel 1785 un certo Gattoni che aveva ideato un tipo molto grande di arpa eolia, che chiamò Armonica Meteorologica o Arpa Gigantesca, per la rilevazione di dati meteorologici; egli tese, tra la sua casa di Como e una torre, 15 fili di spessore vario; il vento, facendoli risuonare e mutando il risultato sonoro, dava a Gattoni la possibilità di rilevare le variazioni atmosferiche. Infine, uno strumento "arioso" merita in particolare l'oscar della curiosità: è l'anémocorde ideato nel 1789 da J. J. Schnell. Lo strumento aveva una tastiera, tre ordini di corde e un'estensione di cinque ottave. L'aria veniva pompata con un meccanismo simile a quello dell'armonium e, quando si abbassava un tasto, si apriva una valvola che permetteva all'aria di essere sparata verso una corda che, in questo modo, si metteva a vibrare. L'attacco del suono era molto lento e graduale e quindi si potevano suonare solo brani molto lenti. Uno strumento simile, il piano éolien, fu ideato da Isouard nel 1837 e realizzato a Parigi da H. Herz nel 1851. Anche Pleyel costruì strumenti analoghi. Un gruppo di musicisti di strada che si chiama Jan Gavronsky Brothers usa, in uno dei suoi esilaranti numeri, una normale clavietta, simile a quelle che si usano a scuola, collegata però a una pompa di bicicletta. L'esecuzione di un repertorio che va dalla marcia trionfale dell'Aida di Verdi a Satisfaction dei Rolling Stones con questo aerofono anomalo e altri strumenti non meno curiosi (bottiglie di plastica vuote, una scala, un carrello da supermercato, microfoni e chitarre giocattolo, una enorme marimba suonata a sei mani, ecc.) offre, oltre a un divertimento garantito, la possibilità di vedere quanta musica si può fare con gli oggetti più comuni. Compito per casa: costruire una macchina del vento, come quella che usano i percussionisti in teatro, con materiali di recupero.

Parole chiave: Dissonanza

Autore: francesco bellomi

Negli Studi per pianoforte di Johann Baptist Cramer (1771-1858), si trova una curiosa annotazione di Hans von Bülow (1830-1894),: “Questo studio [il n° 38 in do minore], il più difficile nel suo genere di tutta la raccolta, dev'essere suonato in principio con la massima forza. Una attenzione specialissima richiedono i passaggi per quarte nelle battute 11-14 e in altre. Durante lo studio separato di queste, il Maestro potrà suonare le seste nella parte inferiore, per evitare allo scolaro l'ingrato effetto che ne deriva, in quanto che anche nei puri esercizi meccanici si deve dare importanza alla eufonia. Serviranno in tali casi a meraviglia le così dette tastiere mute che noi caldamente raccomandiamo. […]”

Dunque, piuttosto di ascoltare, nello studio a mani separate, la sgradevolissima e dissonante sonorità della quarta giusta, il maestro aggiunge qualcosa per addolcire; tuttavia, non potendo essere sempre presente, meglio usare una tastiera muta. Viene da pensare che, durante il secolo XIX, ascoltare una dissonanza di quarta doveva essere qualcosa da far sanguinare le orecchie. Noi sappiamo che nei primi esempi di polifonia la quarta era considerata, al contrario, uno degli intervalli armonici più consonanti. E in molta musica del novecento le quarte sono all'ordine del giorno: Hindemith ad esempio è pieno di quarte e per certo jazz si è coniato addirittura il termine di quartismo. In Debussy le quarte vuote sono utilizzate spesso per dolci sonorità lunari.

Allora? Le quarte sono dissonanze o no? In un giornale italiano del 1903, nella recensione di un concerto, ho trovato la seguente frase: “Sicché resta che quella di ier sera la si può registrare come una nuova festa dell'arte, dove con somma gioia si risolve praticamente perfino la questione se la 4a sia consonante […]”

Inutile dire che, a livello teorico non si è arrivati a nessuna soluzione fino a quando l'attenzione non si è spostata dal dato fisico alla sensazione. La quarta è più o meno sempre la stessa con minime varianti dovute alle differenti accordature e ai timbri utilizzati. La sensazione di che cosa sia una quarta cambia enormemente a seconda delle epoche e delle zone geografiche, cioè del contesto. Quindi, tutte le teorie su cosa sia una dissonanza che partono dalla misurazione del dato fisico (semplicità del rapporto matematico, presenza di armonici in comune ecc.) sono destinate ad infrangersi davanti a imbarazzanti eccezioni e a comportamenti tanto anomali quanto umani.

Nei confronti della sensazione di dissonanza c'è, nella tradizione occidentale, uno strano atteggiamento: un misto di curiosità e rifiuto. Qualcuno ha rimproverato a straordinari musicisti (Bach, Mozart ecc.) di usare un po' troppe dissonanze ma altre persone o in epoche successive si è apprezzata proprio questa presenza che conferisce una grande energia al risultato sonoro. Come il Manuale di Armonia di Arnold Schönberg che riporta una impressionante progressione armonica contenuta nella sinfonia n° 40 di W.A.Mozart. In effetti quando ascoltiamo una musica povera di dissonanze, troppo eufonica, la sensazione è quella di una certa fiacchezza e prevedibilità. Talvolta è proprio noia. “Non c'è sangue” diceva il mio maestro.

In alcuni trattati settecenteschi di basso continuo si trovano indicazioni su come aggiungere dissonanze gradevoli ad accordi altrimenti consonanti. Oggi questi suoni vengono chiamati oggi seconde aggiunte, seste aggiunte, quarte aggiunte e fanno parte del normale vocabolario armonico della musica del novecento. Sembrerebbe di vedere un percorso storico lineare che ha portato gradualmente la dissonanza ad emanciparci. Ma la realtà è probabilmente molto più complessa. Charles Rosen, sei suoi meravigliosi libri, parla di “dissonanza strutturale” nelle musiche del periodo classico. Una dissonanza che non riguarda il livello superficiale delle singole note ma che si instaura ad un livello più profondo nell'accostamento brusco di aree tonali contrastanti. Haydn era un maestro in questi giochetti che non tutti i musicisti sanno cogliere.

Tutti gli esecutori che hanno dovuto fare i conti con qualche pezzo molto dissonante raccontano che, dopo un momento iniziale di fatica e dominato dalla sensazione di asprezza delle sonorità, si passa gradualmente ad una situazione dove ogni dissonanza assume un suo significato, diventa logica e armoniosa, si finisce per innamorarsene.

Robert Schumann scrisse della sonata op. 35 di Chopin: “Così comincia, e così finisce: con dissonanze, attraverso dissonante, nelle dissonanze. Eppure quanta bellezza nasconde anche questo pezzo!”

Una volta suonai ad un matrimonio un piccolo brano di un autore vivente. Un brano molto tranquillo, diatonico e melodico, ma un po' più dissonante della implacabile Ave Maria. Un parente degli sposi venne a dirmi dopo la cerimonia: “Ai matrimoni non si suona musica dodecafonica!” Era, con tutta probabilità, un tipico caso di allergia da dissonanza.

Parole chiave: tonalità

Autore: francesco bellomi

“…i miei colori sono ciascuno parte di un vero e proprio accordo, e quando io prendo un colore dalla mia tavolozza, è assolutamente chiaro nella mia mente cosa deriverà da questo colore e come posso dargli vita. … Molto, anzi, tutto dipende dalla mia sensibilità per la infinita varietà di toni della stessa famiglia.” Questo frammento, tratto dalla quattrocentodiciottesima lettera di Vincent van Gogh al fratello Theo, illustra molto bene come, anche nel mondo della pittura, esista il concetto di tonalità. A scuola impariamo che gli accostamenti tonali sono quelli che prevedono la vicinanza di colori tutti appartenenti a una stessa famiglia (la famiglia dei gialli, quella dei verdi, dei rossi, ecc.) mentre gli accostamenti timbrici sono quelli che vedono la vicinanza di colori appartenenti a famiglie diverse (un blu vicino a un rosso, ecc.). I quadri di Giorgio Morandi sono degli inni ai grigi e ai violetti per la sua ininterrotta predilezione per questi accostamenti tonali. I musicisti usano gli stessi termini con significati simili in profondità ma con dei significati di superficie, o specifici, assai diversi. Esiste un significato ristretto di tonalità in musica che è in relazione alla musica colta occidentale che va, grosso modo, dalla fine del 1600 alla fine del 1800 circa. E' il concetto di tonalità che conosciamo meglio perché è quello che imperversa sulla maggior parte dei libri di teoria musicale e di armonia. Al di fuori di questi limiti geografici e storici quel concetto non funziona più così bene e siamo obbligati a cercare definizioni più astratte e generali. J.J. Nattiez ci racconta che negli anni '50 “si riteneva così confuso il concetto di tonalità che nel VII Congresso internazionale di musicologia venne appositamente costituita una commissione di studio”. Quasi tutte le definizioni convergono su un aspetto: qualunque sia l'insieme di altezze prese in considerazione, si ha tonalità quando esiste una qualche relazione gerarchica fra queste altezze, cioè quando una o alcune di esse hanno, in un qualsiasi modo, un ruolo prevalente rispetto ad altre. E' possibile rilevare queste gerarchie attraverso semplici rilievi statistici sulla percentuale di presenza dei suoni, come fanno gli etnomusicologi quando ricavano il gamut o scala ponderata. Il famoso giro del blues è costruito, nella sua forma più semplice, su sole tre altezze all'interno di un insieme assai più ampio.

I musicisti usano un sacco di strategie diverse per far capire all'ascoltatore quali sono le note importanti di una certo insieme di altezze. Una delle più semplici si chiama pedale: in pratica fai sentire una certa altezza in maniera ininterrotta dall'inizio alla fine del brano o del frammento. Quella è la nota centrale, la tonica. Si chiama pedale per il semplice motivo che sugli organi antichi questa nota lunga era spesso prodotta azionando un tasto non con le mani ma con i piedi, questi tasti da azionare con i piedi sono detti appunto pedali. K. Jarrett è un vero mago nell'uso raffinato di questo elementare procedimento.

La tonalità nel senso ristretto è un sotto insieme assai piccolo compreso nel grande insieme della tonalità in senso non ristretto, che i musicisti preferiscono chiamare modalità. Questo caso particolare è però per noi di importanza strategica: gli abbiamo dedicato migliaia di volumi, ricerche, studi, che vanno dalla teoria musicale alla psicologia della musica. Uno sforzo immane che però in qualche caso ha finito per lasciare in ombra altri aspetti non meno importanti. I monumenti teorici e artistici della tonalità sono il trattato di armonia di Rameau e il Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach, entrambi scritti intorno al 1722.

Muoversi all'interno di una certa tonalità è certamente rassicurante per l'ascoltatore, ma alla lunga può diventare noioso come andare a spasso facendo sempre lo stesso percorso. Esistono quindi molti modi per contraddire le aspettative dell'ascoltatore e rendere l'ascolto più avventuroso e appagante. Ad esempio cambiare tonalità, modificare parzialmente la tonalità di partenza, variare la densità degli eventi tonali, ecc.

Chopin è stato un genio dell'armonia tonale per la sua capacità di usare tutte le infinite sfumature dei rapporti tonali. Forse non è un caso che nel celebre episodio del film Dreams, Akira Kurosawa usi un suo preludio in una tragica passeggiata dentro ai paesaggi di Van Gogh.

In La mer di Debussy c'è un procedimento geniale che gioca sulle aspettative del nostro orecchio tonale: per tutto un episodio viene usato un certo insieme di altezze ben noto a tutti ma una di queste altezze non viene mai toccata. Sarà la prima nota toccata nell'episodio successivo. Quando questa nota arriva è come se noi l'avessimo desiderata, senza saperlo, fin dalla notte dei tempi, e ti si scioglie qualcosa dentro.

Compito per le vacanze: trovare, in La città vecchia di De Andrè, quel cambio brusco di tonalità che ti “attorciglia le budella”.

PAROLE CHIAVE: variazione

AUTORE: francesco bellomi

Il Bolero di Ravel è un tema con variazioni. Il fatto strano, e geniale, è che viene variato prevalentemente solo un particolare aspetto del discorso musicale, non la melodia, non il ritmo, non l'armonia, ma l'orchestrazione cioè il timbro. Per noi occidentali è una cosa piuttosto rara che le variazioni più rilevanti si concentrino solo su questo aspetto. Tanto è vero che non ci viene per niente spontaneo pensare al Bolero di Ravel come a un tema con variazioni. Il principio della variazione attraversa tutta la musica e si è sviluppato in una tale varietà di modi e forme che non basterebbe un'enciclopedia a dare conto di questo immenso repertorio di pratiche musicali. La letteratura sull'argomento è poi semplicemente sterminata. Se, fra i tre procedimenti costruttivi fondamentali (ripetizione, variazione, contrasto). la variazione risulta quella di gran lunga più praticata si può ben pensare che dietro questa onnipresenza ci sia una esigenza assolutamente umana e cioè quella di elaborare manufatti sonori che assecondino i nostri meccanismi mentali. Ascoltare qualcosa che si ripete costantemente nel tempo senza alcuna variazione non è sempre una cosa che ci interessa. La settimana scorsa alla biglietteria della stazione uno degli altoparlanti interni emetteva un sonoro fischio di altezza e intensità costanti. Gli addetti agli sportelli, visibilmente irritati, facevano commenti sarcastici sul fatto che da due ore aspettavano il tecnico per isolare il maledetto speaker. Alla fine uno di loro tornò con un martello mettendo fine al suono e alla vita dell'altoparlante. Applausi dei colleghi e del pubblico in coda. In altri contesti la ricerca di un suono povero di variazioni può forse favorire la concentrazione, la meditazione, l'introspezione. In realtà, più si dispone di strumenti di analisi del suono raffinati e più si scopre che anche "dentro" a un suono apparentemente sempre uguale ci sono moltissime variazioni dello spettro sonoro, e che quindi anche un suono apparentemente banale racconta una storia tutt'altro che semplice. Se ne sono accorti per primi i tecnici che cercavano di imitare i timbri degli strumenti acustici con i rudimentali strumenti elettrofoni degli anni '60. Un elemento costante di tutta la tradizione musicale è che le variazioni si svolgano e si sviluppino a partire da un materiale di partenza (una cellula melodica, una melodia popolare, un ostinato armonico) di solito piuttosto semplice e facilmente memorizzabile. Quello che succede invece nelle variazioni op. 25 di Anton Webern (e in molta altra musica seriale del novecento) è che non c'è il tema. E' il principio stesso della «variazione continua» a costituire il "tema" cioè l'argomento di quello che si sta ascoltando. Non è un caso che gran parte del repertorio della seconda scuola di Vienna e dei relativi epigoni sia ancora così lontano dai gusti e dal consumo del grande pubblico: non tutti sono disposti a imbarcarsi in un viaggio del quale non si conosce il punto di partenza e quello di arrivo: i viaggi senza ritorno non sono per niente rassicuranti.

Se ci spostiamo nel mondo del minimalismo ci troviamo di fronte a procedimenti di variazione talmente lenti e parziali che è difficile persino avvertire il senso di variazione e prevale la sensazione della ripetizione. Se ad esempio scrivo: Minimalismo, inimalismoM, nimalismoMi, imalismoMin, malismoMini, alismoMinim, lismoMinima, ismoMinimal, smoMinimali, moMinimalis, oMinimalism, Minimalismo. Tutti individuano perfettamente alla prima lettura qual è il criterio di variazione adoperato. E' lo stesso che viene adoperato in una delle due parti dell'arcinoto Clapping Music di Steve Reich. Questa tecnica di variazione così lineare non è una novità in musica ed è possibile trovare qualcosa di assai simile anche nei secoli passati. Ad esempio nel Credo della Missa Prolationum di Ockeghem così ben analizzato da Diether del la Motte nel suo magnifico libro sul contrappunto. Infine tutti conoscono innumerevoli brani di J. S. Bach caratterizzati da una struttura ritmica pressoché invariata dall'inizio alla fine. In questi casi la variazione è giocata tutta su elementi armonici e melodici. Ma Bach sulle tecniche di variazione ne sapeva veramente una più del diavolo ed è impressionante, per noi, vedere come lui sembri conoscere perfettamente la matematica dei frattali (la cui teoria è stata elaborata da B.B Mandelbrot solo nel 1975) quando scrive il tema della fuga BWV 542. Un tema che contiene, nell'articolazione dei suoi segmenti, tutta la struttura fondamentale della fuga, e cioè: soggetto, risposta, divertimento, soggetto al relativo maggiore, divertimento, soggetto alla tonica. Il fatto che questo tema sia probabilmente di Mattheson il quale a sua volta si rifà a una melodia popolare olandese fa apprezzare ancora di più le minime varianti che Bach introduce per rendere esplicita questa struttura molto più latente nelle precedenti varianti.

PAROLE CHIAVE : ATONALITA’

AUTORE: francesco bellomi

(per il n.134 di musica domani)

La domanda da centomila rupie è: la tonalità (vedi parole chiave su Musica Domani n° 132) è una legge di natura (cioè è in qualche modo scritta nel nostro DNA) o è una strategia comunicativa esclusivamente culturale? Nella mia vita ho conosciuto una sola persona che, come ascoltatore, aveva un orecchio assolutamente atonale: non era in grado cioè di percepire nessuna differenza qualitativa tra un Fra’ Martino accompagnato con gli accordi giusti e la stessa melodia accompagnata con accordi tutti sbagliati, cioè di altre tonalità o scelti a caso (cluster ecc.). Gli piacevano entrambi allo steso modo, come succede talvolta ai bambini molto piccoli. Ad un concerto d’organo, dove venivano suonate solo musiche atonali e dissonantissime di Ligeti, Messiaen, ecc. e dove il pubblico se la filava alla chetichella a piccoli gruppetti alla fine di ogni brano (lasciando come ultimi spettatori solo gli incrollabili affezionati del genere) questa persona singolare provava un piacere di ascolto, nei confronti dei terribili cluster di Volumina, perfettamente assimilabile a quello che noi proviamo a gustare le meravigliose settime secondarie dei Tre Corali di Cesar Franck. E’ un vero peccato che questa persona non praticasse la musica (era un pittore) per vedere se sarebbe stato in grado di intonare melodie tremendamente atonali a base di settime maggiori, quarte eccedenti, ecc. con la stessa facilità e disinvoltura con la quale noi cantiamo seconde, terze ecc. mollemente adagiati su triadi e settime consonanti. L’altra possibilità è che questa persona non fosse semplicemente in grado di riconoscere e riprodurre qualsiasi intervallo. Sospetto che diventò più forte quando gli proposi una conclusione volutamente sospesa di una melodia tonale e lui trovò che concludeva benissimo come la versione corretta.

La maggior parte di noi ha invece un orecchio fortemente tonale e il musicista che ha avuto forse l’orecchio tonale più forte e raffinato di tutti è stato forse Arnold Schoenberg, si, proprio il “padre” dell’atonalità. Titolo che lui, a ragione, rifiutò sempre arrabbiandosi furiosamente con chi glielo appioppava. Di più: i brani che dimostrano più di tutti la raffinatezza del suo orecchio tonale sono proprio quelli atonali (op. 13, op. 19, Pierrot Lunaire, ecc. e dodecafonici). Lui aveva tutta una sua teoria sulle cosiddette dissonanze: per lui erano anche quelle delle normali consonanze dotate però di un grado di affinità più lontano perché per trovare degli armonici in comune fra due suoni dissonanti (secondo la classificazione tradizionale) bisogna fare un bel po’ di strada in più nella gamma degli armonici. Tenendo poi conto che gli armonici cambiano anche a seconda del timbro, le cose si complicano un po’ per la teoria, ma si risolvono quasi sempre splendidamente nella pratica compositiva dove tutti i musicisti (tutti, credetemi) si fidano prima di tutto del proprio orecchio e delle proprie intuizioni. Durante uno storico (per me) esame al DAMS di trent’anni fa, Rossana Dalmonte si arrabbiò furiosamente con uno studente che portava il brano Epifanie di Luciano Berio, e che ammise beatamente, davanti alla gigantesca partitura formato lenzuolo, di non averlo mai ascoltato. «Non capirà mai niente di questa musica se non la ascolta a lungo, più e più volte! Solo così educherà il suo orecchio a percepirne tutta la bellezza e raffinatezza!» Diciamo che l’insegnante consigliava allo studente di fare la stessa cosa che Schoenberg, Webern, Berio, ecc. avevano fatto prima con il loro orecchio. Solo se ti capita di lavorare a lungo in una fabbrica di colori arrivi a distinguere benissimo, alla prima occhiata, il verde 153 dal verde 155, che al profano sembrano assolutamente identici. Per favore, cominciamo ad educare il nostro orecchio tonale a colpi di Boulez e Stockahusen: di metodi che ti parcheggiano a vita nella scala pentafonica cominciamo a sentire la stanchezza.

C’è un’altra provocazione da non lasciar dormire: è noto che Schoenberg non si accorse, ad una prova del Pierrot Lunaire, che il clarinettista usava il clarinetto in la invece di quello in si bemolle. Innumerevoli episodi simili sono raccontati, ridendo, da strumentisti ai quali è toccato suonare musica contemporanea alla presenza dell’autore. Da didatta non posso che dire una cosa: finalmente! Finalmente abbiamo una musica dove non siamo più schiavi delle altezze assolute e anche se suoniamo la stessa melodia due toni sopra o sotto, o sbagliamo qualche intervallo, va bene lo stesso. E' forse la prima volta, nella storia della musica occidentale, che ci liberiamo dal dominio totale del parametro dell’altezza. Dal punto di vista didattico ci sono delle possibilità straordinarie di utilizzo per musiche che funzionano qualsiasi altezza venga utilizzata. Uno dei compositori più tradizionalmente e artigianalmente preparati che conosca mi ha detto un giorno: «In musica, la scelta delle altezze è l’ultimo dei problemi».

PAROLE CHIAVE: stecca

Autore: francesco bellomi

Nel linguaggio comune, stecca vuol dire stonatura, errore evidente e clamoroso di esecuzione. Steccare è una cosa che capita prima o poi a tutti. Qualche anno fa una famosa stecca di Pavarotti alla Scala finì sulle prime pagine dei giornali lasciando stupidamente in ombra tutto il resto dell’opera.

Che sia un principiante a steccare è considerata una cosa comprensibile. Se succede invece in un qualsiasi concorso e vi ritroverete fuori gara prima che si spenga la risonanza del suono incriminato: oggi un professionista non stecca.

Questo terrore della stecca è una cosa nuova nella storia dell’esecuzione musicale, probabilmente collegata all’invenzione delle tecniche di registrazione e alla produzione industriale dei dischi. Se sbagli, incidendo un brano, ripeti la registrazione, o ti affidi a delle correzioni manuali fino a quando tutto fila liscio. Così la maggior parte delle musiche registrate che ascoltiamo non contiene stecche, è pulita e ineccepibile dal punto di vista dell’aderenza alle altezze scritte dall’esecutore. La situazione non è sempre stata questa e ci sono innumerevoli testimonianze storiche di esecuzioni contenenti stecche clamorose. Una delle fonti più ricche e appassionanti (davvero più intrigante e ben scritto di un romanzo) sono le Memorie di Hector Berlioz. In questo libro, trascinante e irresistibile per la sua tecnica narrativa, troviamo moltissime informazioni sulla prassi esecutiva dell’epoca. Ad esempio la descrizione dell’esecuzione pubblica della sua cantata L’ultima notte di Sardanapalo si conclude con queste parole: «Cinquecentomila maledizioni sui musicisti che non contano le pause!!! Una parte di corno nella mia partitura dava l’attacco ai timpani, i timpani lo davano ai piatti, questi alla grancassa, e il primo colpo di grancassa portava all’esplosione finale. Il mio dannato corno non suona la sua nota, i timpani, non sentendolo, non prestano attenzione al momento al momento in cui devono attaccare, e, di conseguenza, piatti e gran cassa se ne stanno zitti; non attacca nessuno! Nessuno!!! […] Si trattò di un’altra catastrofe musicale, la più crudele di quelle ch’io avevo provato in precedenza… Almeno fosse stata per me l’ultima!»

Altrove racconta dell’abitudine che avevano i direttori d’orchestra dell’epoca di gridare, quando ormai l’orchestra era alla deriva in modo irrimediabile, le parole «Ultimo accordo!», al che tutti i suonatori saltavano a piè pari tutto il brano per suonare solo l’ultimo accordo.

Ancora, durante la prima esecuzione del suo Requiem succede che: « …insomma in quell’unica battuta nella quale l’azione del direttore d’orchestra è assolutamente indispensabile, Habeneck [il direttore che eseguì la prima del Requiem] abbassa la bacchetta, tira fuori con tutta tranquillità la sua tabacchiera e si mette a sniffare una presa di tabacco». Si trova anche un ragionamento sulla stonatura assai interessante: «…se è scioccante cantare falso rispetto al diapason, non lo è di meno cantare falso rispetto all’espressione; che se una nota troppo acuta o troppo grave ferisce l’orecchio, un passaggio reso forte quando dovrebbe essere invece dolce, o debole quando dovrebbe essere invece energico, o pomposo quando dovrebbe essere semplice, esaspera ben più dolorosamente la sensibilità degli ascoltatori intelligenti.».

Verso la fine delle sue Memorie, quando racconta cioè gli ultimi anni della sua prestigiosa carriera di direttore d’orchestra, Berlioz annota: «Oltre tutto, quel giorno ero in una forma così straordinaria che dirigendo ebbi la fortuna di non fare neanche un errore, cosa che allora mi succedeva assai di rado.» Possiamo ben immaginare allora qual era lo standard medio delle esecuzioni dove i direttori spesso non erano musicisti delle capacità di Berlioz.

Saltando indietro di un secolo c’è un’altra constatazione interessante: le parti dei brani del ‘700, conservate ancora negli archivi, contengono spessissimo errori di trascrizione da parte del copista: battute mancanti, pause sbagliate, ecc. In certi casi siamo sicuri che quelle sono effettivamente le parti che realmente furono utilizzate nell’esecuzione del brano in questione. Conoscendo la prassi antica, che spesso prevedeva l’esecuzione leggendo a prima vista o al massimo dopo una prova frettolosa, si può ben pensare che le stecche e gli errori fossero piuttosto abbondanti e, leggendo i resoconti dell’esecuzione, ben tollerati.

L’orrore della stecca ci porta spesso a investire enormi energie nella ricerca di una correttezza esecutiva che forse potrebbero essere meglio impiegate per costruire una lettura personale e originale dell’opera. Compito per giocare: prendere un brano famoso e suonarlo steccando volutamente. Erik Satie ha fatto qualcosa di simile con la Sonatina Burocratica e se è vero quello che racconta John Sloboda sullo «studio negativo» è probabile che una nostra successiva esecuzione corretta migliorerà grazie a questo singolare esercizio.

Parole chiave: solfeggio

Autore: francesco bellomi

Sarebbe fin troppo facile tirare i cinquemila caratteri di questa rubrica a colpi di sarcasmi e narrazioni delle follie solfeggistiche ancora ampiamente praticate nel nostro paese. Forse l’unico al mondo dove c’è stata la necessità di fondare la AASP (Associazione per l’Abolizione del Solfeggio Parlato). Francamente, dato che c’eravamo, avrei fatto un passo un po’ più lungo e avrei tolto l’ultima parola dal titolo, così l’associazione sarebbe stata probabilmente messa al bando su tutto il territorio nazionale e se riceverò lettere o diffide da insegnanti di solfeggio vorrà dire che questa rubrica non la leggono solo i redattori. Innanzitutto vorrei spezzare una lancia in favore dei due libri di solfeggio (parlato) nettamente più venduti sull’italico suolo: il Bona e il Pozzoli. Gli ho usati anch’io, prima come studente e poi come insegnante, solo che, a partire dall’età della ragione, non li ho usati secondo la posologia e le istruzioni allegate: il Bona si presta magnificamente a essere ballato, mimato, teatralizzato. Il teatro dell’assurdo gli è congeniale come l'evasione fiscale al libero professionista. Ho ancora davanti agli occhi il più scatenato dei ragazzini di una incredibile classe che sapeva fare delle vere acrobazie coreutiche a partire dai deliri in chiave di sol, facendoci piangere dal ridere: mai il Bona ha avuto dei fan così sfegatati. Un altro gioco che faccio, quando posso infrangere impunemente la legge, è eseguire, e poi far eseguire, un solfeggio parlato difficile del Pozzoli. Solo alla fine della mia performance a base di «do -o- o -re,mi - i - i - i» ecc. metto giù il libro e i miei studenti si accorgono che avevo in mano solo la copertina (l'unica cosa che mi è rimasta, il resto del libro devo averlo perso in qualche trasloco): quindi, dato che la mia memoria è peggio delle deposizioni di Previti, improvviso. Così tutti scoprono improvvisamente di saper improvvisare a getto continuo splendidi solfeggi parlati; alla lunga non è divertente come saper improvvisare con lo strumento ma è già un buon passo in quella direzione. L'idea non è mia: il copyright ce l'ha un mio vecchio insegnante di lettura della partitura che, sprofondato in poltrona, si addormentava quasi sempre durante la lezione. Se finivo il pezzo e mi fermavo si svegliava subito, irritato, con un leggero mal di testa e la lingua impastata. Così ho cominciato ad "allungare" un pochino le arie del Parisotti, i mottetti dello Schinelli ecc. e alla fine allungavo così tanto il brodo che arrivavo alle ultime battute negli ultimi trenta secondi di lezione. Funzionava a meraviglia e costui mi insegnava l'improvvisazione, senza saperlo, col metodo onirico.

Devo una gratitudine infinita a tutti quelli insegnanti del "vecchio" solfeggio che sono oggi uno zoo umano e sonoro della mia memoria: talvolta mi hanno insegnato cose che non centrano niente con la musica ma sono le storie senza le quali non potrei vivere (noi umani siamo tutti consumatori abituali e recidivi di storie, di qualunque tipo esse siano.)

Dal giovane supplente che insegnava il solfeggio facendoci cantare a prima vista frottole e villanelle a tre voci. Non riuscivamo quasi mai ad andare oltre le prime tre note ma se non avessi passato un anno in questo modo non avrei mai accumulato così tanta curiosità da reggere altri tre anni di solfeggio normale e grigio, impartito da un docente di ruolo.

Diventando docente, lo ammetto, mi sono divertito di meno. Ancora oggi, ripenso al collega che chiedeva a tutti i suoi giovani allievi: «Qual è il significato della sensibile?» Nessuno sapeva mai rispondere, nemmeno io.

In particolare il momento del dettato melodico è quello più altamente rituale che io conosca. A cominciare dal mitico Aldo Clementi che, ai suoi studenti del DAMS dei tempi eroici delle cantine e dei topi, improvvisava le prime due battute del suo dettato per i centoventi candidati all'esame di teoria. Dopo due secondi un perfido candidato chiedeva: «Può ripetere per favore?» e il sublime Aldo suonava subito due battute di una melodia completamente diversa: non si ricordava più la melodia di prima. Finiva sempre che l'assistente o qualche studente coraggioso prendevano in mano la situazione fornendo a tutti la versione corretta delle prime due battute, così la pace e l'armonia, la vera armonia, erano ristabilite. La proposta è questa: sostituiamo il solfeggio cantato con il canto per lettura (con parole) della musica vocale e (senza parole o, al limite, con parole di propria invenzione) della musica strumentale. Nel cartone I tre moschettieri della Pixar-Dysney si sono divertiti parecchio su quest'ultima opzione. Collochiamo definitivamente il solfeggio parlato nel museo del sado-masochismo e delle perversioni didattiche aprendogli un fulgido futuro nel teatro dell'assurdo.

E la teoria? Alla prossima puntata.