Il DECAMERONE

va in città

Novelle liberamente ispirate dall'opera di Boccaccio scritte e raccontate dagli studenti e studentesse della 3Cs liceo scientifico dell'IIS SavoiaBenincasa di Ancona.

Ispirandosi alle narrazioni immaginifiche di Boccaccio, i ragazzi e le ragazze hanno elaborato tre novelle da inserire all'interno della cornice del Decamerone: il contesto temporale è però quello del Risorgimento e quello spaziale corrisponde ai principali monumenti della Ancona Ottocentesca !!! Buona Lettura a Tutti!

GERVASONI ALLA RISCOSSA

Era agosto del 1839, il sole incombeva sulle teste dei soldati austriaci e anconetani che stavano faticosamente allestendo gli accampamenti. Il Forte Altavilla, luogo dell'accampamento anconetano, stagliava minaccioso alle spalle dell'uomo che stava incitando i suoi uomini all'imminente battaglia, il generale austriaco Wolf Swaghen. Nel contempo, nella sua tenda all'accampamento la figlia Alpina Swaghen stava tessendo un maglioncino di lana. Lei era costretta a rimanere segregata in quell'accampamento a causa dell'estrema gelosia e possessione del padre, che non voleva lei fosse vista da occhio maschile al di fuori del suo. Quella stessa sera, la ragazza decise di disobbedire al padre, uscendo di nascosto per sentirsi finalmente libera dalla morsa opprimente che l'aveva accompagnata fin dall'infanzia. Quindi, con l'aiuto delle tenebre, eluse il controllo delle guardie e si diresse verso l'aperta campagna in direzione del Forte Altavilla. Nel tragitto si imbatté in una figura imponente che le sbarrava la strada. Questa persona era un soldato anconetano: Giovanni Gervasoni, un giovane da poco arruolato che si era offerto volontario per una ronda notturna nella campagna circostante al Forte. Grazie alla torcia, la ragazza si accorse subito dello stemma italiano affisso sulla giubba dell'uomo e capì che era un suo nemico, ma vedendosi in volto l'ostilità che li vedeva contrapposti divenne irrilevante. I due passarono un'ora d'amore insieme, poi entrambi, promettendo di vedersi la notte successiva, tornarono ai propri accampamenti. Lei, una volta rientrata nella tenda, fu accolta dal padre furibondo che le inveì contro terribili insulti. Alpina senza esitazione controbatté ad ogni sua parola finendo per raccontargli ciò che aveva fatto quella sera per ripicca. Il padre, infuriato, decise di rivolgersi al soldato infiltrato nelle file anconetane che conosceva bene Gervasoni, essendosene finto amico.

Con l'aiuto di questa spia, il generale riuscì a far credere al giovane amante della figlia che l'amore di lei era, in realtà, rivolto ad un nobile austriaco e quella sera era stata solo uno svago. Giovanni, prendendo per vere le parole del suo fidato amico, rimase distrutto da questa notizia e capì che non aveva più una ragione per vivere, ma soltanto una per lottare e morire con onore. Il pomeriggio successivo, le truppe austriache si mossero alla conquista del Forte, gli stivali che affondavano nel fango, mentre la torrida pioggia estiva inzuppava le loro uniformi. Il cuore di Giovanni era stato dilaniato dalle presunte azioni di lei, come i lampi stavano squarciando il cielo, presagi dei tuoni della battaglia. Le due fazioni si fronteggiano, l'una dall'alto del Forte, ma in svantaggio numerico, mentre gli altri lottavano dalle colline circostanti, ma molto più numerosi. Caddero così tanti austriaci che le acque del fossato si tinsero di rosso, ma nonostante questo la battaglia stava volgendo a sfavore degli anconetani. Allora, Gervasoni si mise a cavallo con una sciabola in una mano e una pistola nell'altra; si fece aprire il portone del Forte Altavilla e si lanciò alla carica. Nella sua folle corsa suicida travolse, trafisse e decapitò numerosi nemici finché davanti a lui si stagliò il generale Wolf Swaghen. L'austriaco gli sparò un colpo che si conficcò nel petto del giovane, disarcionandolo dal cavallo. Il sacrificio di Gervasoni cambiò però le sorti della battaglia, risollevando gli animi degli anconetani e fomentando il loro desiderio di lottare per la patria, forti di un comune sentimento di appartenenza alla nazione italiana.

Caterina Carota, Andrea Gatti, Diletta Mariotti, Giacomo Menditto, Albjon Sopjani


LA RAGIONE PER CUI...
Un clima di tensione aleggiava imminente al di sopra dei tetti delle case italiane, il cielo era grigio tanto quanto gli umori e sembrava non esserci nulla che potesse risollevare gli animi rassegnati delle persone che si abbandonavano al destino che li aspettava. Era il 1839 e l'unità nazionale era il tema clou delle chiacchiere cittadine: la borghesia iniziava ad accettare l'idea di un'unificazione del territorio dal punto di vista politico ed espansionistico. Anita, una donna di origine brasiliana che abitava in un piccolo paesino sotto l'autorità papale, si sentiva in dovere di dare un contributo concreto all'affermazione dei personaggi di spicco del suo tempo. Cercava spesso di immergersi nei discorsi patriottici che sentiva in giro ed era solita frequentare caffè, continuando imperterrita a portare avanti la sua idea senza mai farsi sopraffare dal giudizio degli uomini o della società estremamente patriarcale. Non dedicava tempo allo svago, alle passeggiate per il parco, ai tè con le amiche, nella sua vita non c'era spazio per l'amore, per un marito o figli, nonostante gli innumerevoli uomini che le facevano la corte. Tra i tanti ce n'era uno in particolare, Josef, un austriaco, tanto persuasivo quanto ricco, che era solito aspettarla fuori dalla porta, regalarle vestiti delle migliori stoffe, pagare pranzi o banchetti, cesti di frutta e dolci solo nella speranza che, corteggiandola, l'avrebbe un giorno conquistata. Anita, ostinata com'era, non voleva rinunciare alla sua indipendenza, né tantomeno abbandonarsi alla passione o alle tentazioni che avrebbero segnato indelebilmente la sua vita spirituale, alla quale teneva particolarmente. L'uomo la corteggiava insistentemente, quasi ossessionatamente: i suoi amici, avendo ormai capito che i suoi tentativi erano vani, lo invitarono a porre freno alla sua testardaggine e a lasciar perdere, facendolo trasferire lontano dalla sua stessa città natale al fine di non vederla, in quanto si sa: occhio non vede, cuore non duole. Josef, che non era ancora pronto a lasciarsi alle spalle quel rapporto unilaterale, decise che, per togliersi la donna definitivamente dalla testa, l'avrebbe invitata a teatro. Anita lo considerava un intralcio, e stremata da tanta insistenza decise perciò di vederlo un'ultima volta. L'uomo, astutamente, aveva deciso di portarla a vedere una tragedia, sperando con tutto sé stesso di farle cambiare idea: la protagonista dell'opera in scena era una donna che aveva rifiutato l'amore per tutta la vita e per questo avrebbe scontato pene infernali terrificanti. Anita rimase impressionata e, temendo di rimanere vittima dello stesso destino, decise di cedere alle avance dell'uomo. Il tempo passava, ma l'amore non aveva intenzione di sbocciare: la donna era rinchiusa in un rapporto che non la soddisfava, ma la paura dell'inferno la divorava. L'uomo, essendosi reso conto del poco amore che la donna provava verso di lui, temeva che lo avrebbe tradito, decidendo di verificare la fedeltà della donna. La prima cosa che la donna doveva fare per lui era rubare una delle piume delle ali dell'arcangelo Gabriele, una reliquia antica e di valore inestimabile. La richiesta era futile tanto quanto impensabile, ma Anita era astuta e intelligente: era consapevole che al frate che possedeva quel cimelio interessava il tornaconto più che l'oggetto in sé. Così, all'alba, mentre il marito era ancora divorato da un sonno profondo, sgattaiolò fuori casa e giungendo in miniera rubò due pezzi di brace; la mattina stessa, sul tardi, raggiunse la locanda in cui pernottava il frate e gli chiese di effettuare uno scambio.

Riuscì a convincerlo dicendogli che avrebbe potuto spacciare la brace per i carboni ardenti di Gesù; così Anita tornò tranquillamente a casa e mostrò con soddisfazione le piume al marito, senza soffermarsi sul modo in cui le avesse reperite. La seconda prova a cui la donna era sottoposta consisteva nel restituire al marito tutto quello che lui le aveva donato nel corso del tempo: ancora una volta, acuta com'era, decise di regalargli un teschio d'asino, che poteva ipoteticamente racchiudere tutto ciò di cui l'uomo aveva bisogno e restituire le presunte sensazioni che la donna provava quando era con lui: sarebbe potuto essere un'arma se avesse dovuto difendersi, bicchiere se fosse stato assetato, sgabello se avesse avuto bisogno di riposarsi, ascoltatore se si fosse sentito solo. Di nuovo, Josef, convinto dalle azioni e risposte esaurienti della donna, decise di aver tastato il terreno abbastanza, e contento, la lasciò finalmente in pace; quello che non sapeva è che, per la prima volta in vita sua, Anita si stava innamorando di un altro uomo, Giuseppe, che condivideva i suoi stessi interessi, che amava la politica, che aveva tutta l'aria di essere un leader: era una persona brillante, di poche parole, ma che diceva tanto solo con uno sguardo, era basso e magrolino, si vestiva con capi larghi, colorati, vecchi e consumati, ma aveva qualcosa in più degli altri. Vedersi di nascosto, ben presto, divenne abitudine e gli incontri a casa erano sempre più frequenti: Gabriele sapeva di avere il via libera grazie alla direzione in cui era posto il famoso teschio d'asino, ora sistemato all'apice di un palo, fuori casa. Il brivido, l'emozione, la paura di essere scoperti non facevano che alimentare la loro passione: Anita stava scoprendo emozioni che non aveva mai provato! Ma, ahimè, come sempre accade, la felicità viene spesso interrotta da qualcosa di più

grande, che come un'onda si infrange su quello che attorno e porta ogni briciola di gioia via con sé. Un giorno infatti il vento spostò il teschio e Giuseppe si recò in casa loro, soprendedo i due coniugi a cena, insieme. Ben presto la verità venne fuori e il marito, che dopo le innumerevoli prove non avrebbe mai pensato di doverlo fare, decise di andarsene, con una rabbia che a lungo lo logorò dentro: fece i bagagli e, tra le lacrime, senza troppi giri di parole, si trasferì senza pensarci due volte da un suo amico di infanzia, addirittura in Austria, tanto era forte il suo dolore. Anita, affranta da una parte e felice dall'altra, in cuor suo non aspettava altro, ma era più preoccupata di quanto si aspettasse: nonostante non fosse innamorata del marito aveva imparato a convivere con lui e la rottura di una routine, come tutti sappiamo, è sempre un trauma. Ancora pallida corse da Giuseppe, poiché aveva assolutamente bisogno del suo sostegno, e, tornata lucida, decisero di sposarsi. Il 26 marzo del 1842, Anita assunse formalmente, finalmente, il cognome del nuovo marito: Garibaldi, nella fortezza in Ancona che poi prenderà il loro nome, nel quartiere di Pietralacroce. La rabbia repressa dell'uomo tradito si manifestò in qualcosa di più grande di una semplice arrabbiatura: nel 1859, 17 anni dopo, l'Austria, capeggiata dal generale Josef Radetzky attaccò l'Italia.

Elena Bruglia, Gabriele Franchini, Radin Khameneh, Lima Kyrielle Nahbila, Greta Maiolatesi, Giole Rinaldi,


L'OBELISCO SENZA NOME

Da qualche giorno a questa parte, erano apparsi sui giornali degli inviti alla piazza che sorgeva sulla cima della città, per dare un nome al monumento lì costruito anni addietro, finora celato nell’anonimato.

Giovanni Gervasoni stava sorseggiando il suo solito bicchiere di vino mattutino, assaporandolo ai tavoli del suo panettiere preferito, Cisti il fornaio, quando lesse l’inserzione restandone basito: a chi mai sarebbe potuta interessare una simile sciocchezza? Al giorno d’oggi c’erano ben altre problematiche da affrontare.

Dovette però ricredersi quando il giorno stesso, passeggiando di lì per caso, non poté non notare la piazza gremita di gente.

Impettito si fece largo tra la folla, pronto a inveire contro tutto quell’inutile baccano; non riuscì a raggiungere la prima fila dei ranghi tanto erano serrati, che un uomo dalla voce tuonante e vigorosa prese inaspettatamente la parola.

“Cari concittadini, io Guido Camillo Cavalcanti di Cavour, ho il cuore colmo di gioia nel vedervi così numerosi in risposta all’appello sulla la questione che accomuna noi popolo anconetano. Come ben sapete, ormai da diversi anni giace anonimo nella nostra piazza quest’obelisco; nell’attesa che qualcuno ne riconosca il valore e gli doni una parvenza d’identità e vitalità, ora dunque chi tra voi vuole diventarne il custode, conferendogli il proprio nome?”.

Un brusio si levò crescente dalla calca e un uomo ne venne violentemente espulso, dopo essersi steso le pieghe della veste, ed aver ricomposto la capigliatura in disordine, salì sul palco, si schiarì la voce e contro il suo tremore imbarazzante iniziò a parlare.

“Non so se mi abbiate mai visto o meno, in tal caso mi presento: sono Gru Cuciniere, ma il mio signore Giuseppe Mazzini, per deridere la mia vocina cinguettante, mi chiama Chichibio. Sono qui in rappresentanza dei piccoli lavoratori della nostra città, che pur non avendo un’ingerenza politica rilevante, meritano di avere voce in capitolo.

Ora, venite dietro al mio ragionamento: non è forse vero che ogni uomo, ricco o povero che sia, è stato partorito da una donna? E che per questo noi viviamo in una vera e propria patria discendente dallo stesso padre fondatore? Dunque, avendo noi tutti lo stesso sangue, non è forse vero che voi borghesi vivete nell’agio e nel vizio, grazie alla nostra fatica? Ecco perché l’obelisco deve avere il nome di uno di noi popolani, veri motori dell’esistenza della città”.

Nonostante il lungo discorso appena pronunciato, Gervasoni non si lasciò abbindolare: conosceva bene Chichibio ed era al corrente dell’arroganza e presunzione che spiccavano come doti innate nell’animo suo e ormai incuriosito decise di restare, interrogandosi su chi sarebbe stato il prossimo ad aprire bocca per dire la propria.

Ad annunciare l'arrivo del prete fu la campana della chiesa adiacente di cui Don Rustico era parroco da una decina di anni.

“Carissimi fedeli, non nego che quanto abbia detto il nostro compare Chichibio colga una panoramica attuale della realtà, ma non bisogna dimenticare che le vere fondamenta del nostro popolo risiedono nelle mani di Dio padre. Per questo, o fedeli, vi propongo di rendergli onore donandogli quest'obelisco e consacrandolo al santo che ci è più vicino, San Ciriaco”.

L’affermazione del sacerdote esplose nella folla in un vero e proprio tumulto: la plebe arrivò ad alzare le mani contro coloro i quali ostentavano il crocifisso al collo, le massaie iniziarono a prendersi a male parole con le suore, tirandole talvolta per il velo che pendeva loro dal capo e, presi dal panico, Chichibio e Don Rustico tentarono in principio di placare gli animi rissosi, ma non riuscendo nel loro intento decisero di sostenere con ancora più foga le loro rispettive fazioni.

Stanco del baccano e scosso dalla ferocia della ressa, Gervasoni cercò di allontanarsi il più possibile fuggendo via a gambe levate, ma un colpo d’arma da fuoco arrestò la sua corsa verso la salvezza. Si voltò di scatto e notò subito il volto fumante di Cavalcanti che innalzava indignato il braccio teso, con la canna della pistola rivolta imperiosa verso l’alto.

Per lo spavento, le file nelle quali erano disposti i compaesani si dissolsero subito e tutti si allontanarono verso l’esterno creando un grande cerchio ponendo al centro il valoroso Gervasoni, che per questo venne chiamato sul palco da Cavalcanti.

“È inaccettabile che al giorno d’oggi non si riesca a tenere una discussione così banale con una parvenza di civiltà! Sono estremamente nauseato da questa pletora di confusione e mi sfugge come, per la miseria, non si possa trovare un semplicissimo nome a questo obelisco”.

Cavalcanti, ferito nell’orgoglio, prese a provocarlo:

“E allora, sentiamo un po’, tu che soluzione proporresti?”.

“Ma io che vuoi che ne sappia e che me ne importi, non ho mica da perder tempo dietro certe faccende così futili… ho affari molto più importanti da sbrigare e se tardassi anche di un solo minuto, mia moglie Lisabetta sarebbe in grado di trasformarsi in un’arpia!”.

Il pubblico scosso addentro, dopo un attimo di esitazione, scoppiò in un grande applauso intimando il popolano a rivelare la propria identità. “Se vi interessa così tanto, il mio nome è Giovanni Gervasoni e ora vogliate scusarmi, ma devo proprio andare”.

Cavalcanti, in preda all’euforia, alzò la voce e con potenza esplose un “EUREKA! Ecco finalmente la soluzione! Miei amati cittadini, con grande orgoglio, ho il piacere di presentarvi l’obelisco… Gervasoni”.

Acclamato dalla calca, Gervasoni intraprese la via di casa, mosso dal suo solito passo dinoccolato, con il pensiero fisso sulla pasta al pomodoro e basilico che lo attendeva calda in cucina, varcata la soglia.


Francesco Fiardi, Sofia Margotta, Valerio Paolucci Bedini, Manuele Preziuso, Rachele Silvestrelli