Attualità

INFERMIERI IN CORSIA DURANTE LA PANDEMIA

Il racconto di Stefania Piscopo, professionista magentina

Come avete reagito lei e i suoi colleghi allo scoppio della pandemia?

“Noi infermieri ci siamo tutti molto preoccupati quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato la pandemia: una cosa che si studia a scuola o al corso di laurea, e credo che nessuno di noi avrebbe mai pensato di viverla. In quel momento abbiamo capito che qualcosa non stava funzionando, o per lo meno che il contagio si era molto ampliato a livello mondiale. Solitamente, a livello teorico, si dice che per uscire da una pandemia ci vogliono circa dai 3 ai 4 anni, il che a noi infermieri ci sembrava un tempo immenso, perchè eravamo convinti che, essendo nel 2020, con i mezzi innovativi a disposizione, saremmo riusciti ad arginare questa pandemia più velocemente. In realtà ci sbagliavamo: ancora oggi purtroppo non siamo riusciti a debellare completamente questo virus”.



Com'era la situazione in ospedale durante i mesi più critici?

“In ospedale, soprattutto nei primi mesi, faticavamo a capire cosa stesse succedendo perché avevamo davanti dei malati che non avevamo mai visto. Durante la prima ondate del 2020 è stato il caos totale perché eravamo impreparati, non sapevamo bene come organizzarci, ma soprattutto perché c’era stata una rivoluzione totale del Sistema Sanitario: tutto l’ospedale era stato convogliato a gestire i pazienti covid e quindi non era nulla di quello che era prima.

Questo periodo ci ha messo in ginocchio sia a livello fisico sia a livello professionale, perché, essendo una cosa che non sapevi come gestire, era frustrante non poter aiutare al meglio le persone”.



Quali sono state le scene che le sono rimaste più impresse nel cuore mentre lavorava in terapia intensiva?

"Mentre ero in terapia intensiva, ricordo le videochiamate che i pazienti facevano alle famiglie a casa. Molti di loro non potevano parlare perché avevano dei macchinari che li aiutavano a respirare. Ripensando a questi momenti mi vengono ancora la pelle d’oca e le lacrime agli occhi: certe videochiamate sono state sicuramente uno dei momenti che mi hanno più segnata”.



Com'è stato e com’è curare i pazienti più scettici?

“Indubbiamente è ancora presente uno zoccolo duro di persone che si ostinano a non riconoscere la pericolosità di un virus che continua a evolversi.

Dopo due anni di pandemia avere a che fare con persone ancora molto scettiche o addirittura che negano l’evidenza, perchè un conto è lo scetticismo che, con l’aiuto di un professionista, può essere abbattuto, ma un altro è il negazionismo, cioè la totale negazione dell’evidenza, è davvero molto difficile”.



Nei mesi più difficoltosi è rimasta in contatto (fisicamente) con la famiglia o ha preferito isolarsi per paura di contagiare i suoi cari?

“Mio marito è infermiere quindi ci siamo auto isolati ma siamo stati da marzo del 2020 a Natale 2020 senza vedere il resto della mia famiglia, per me vedere non significa in videochiamata o dalla finestra, ma proprio abbracciare e stare insieme fisicamente a delle persone. Abbiamo scelto di isolarci per proteggere naturalmente la famiglia e anche nei mesi in cui la situazione rallentava abbiamo visto solamente alcuni amici all’aperto mentre verso ottobre 2020 siamo tornati totalmente isolati”.



Questa situazione l’avrà sicuramente segnata, come ha affrontato psicologicamente tutto ciò?

“Molti colleghi si sono rifiutati di chiedere un aiuto esterno, nonostante quasi tutti, me compresa, abbiano avuto dei traumi che tuttora li segnano, come ad esempio non frequentare tuttora posti al chiuso. Io facevo già psicoterapia, altri hanno iniziato. Molti hanno cambiato o lavoro o reparto e nella vita di tutti i giorni è cambiato il punto di vista dei rapporti, delle priorità; molti hanno avuto la paura di essere bruciati a livello professionale e motivazionale. In sette ci siamo licenziati perché arrivati al limite.”


di Barbara Breno, Matilde Cozzi e Asia Pagani


La guerra spiegata a modo nostro

Il 24 febbraio scorso, il presidente russo Vladimir Vladimiroviĉ Putin ha dichiarato ufficialmente guerra all’Ucraina. I bombardamenti sono cominciati dalle 6:04 e sono stati sempre più numerosi, colpendo numerose città e costringendo moltissimi cittadini ucraini a rifugiarsi nei bunker o a scappare. Anche la centrale nucleare di Chernobyl è stata conquistata dai russi. La città di Mariupol, dopo un lungo assedio e la devastazione , è caduta, oltre alla regione del Donbass. Nonostante gli appelli internazionali e le sanzioni economiche inflitte alla Russia (e a tutti gli oligarchi che operano in Europa e negli Usa), Putin non ha dichiarato il cessate il fuoco. Da più parti si denunciano crimini di guerra, mentre sono tantissimi gli sfollati che hanno trovato rifugio nei Paesi confinanti con l’Ucraina e non solo. Anche l’Italia sta giocando un ruolo importante nell’accoglienza.

In questi mesi sono state avviate diverse trattative di pace per creare i cosiddetti “corridoi umanitari” ovvero dei momenti di tregua per lasciare il tempo ai civili di scappare. Non sempre gli accordi sono andati a buon fine. Tante le denunce di stragi di civili e le accuse e controaccuse di propaganda. Al momento una soluzione pacifica del conflitto appare lontana.

Nei giorni scorsi sono arrivati molti carichi di provviste, vestiti, medicine e beni di prima necessità ma soprattutto molti convogli di armi inviati dalla NATO.

I civili si sono rifugiati nelle metropolitane delle città e molte famiglie adesso vivono in un vagone della metro. Accampati con qualche scatolone che funge da tavolo, senza un bagno privato dove svolgere con calma le proprie mansioni igienico sanitarie e soprattutto dormono per terra con dei sacchi a pelo e non in un bel letto comodo.



di Daniele Gambaro