I nostri racconti

“Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano"

Perché è successo? Perché sono morte così tante persone? E perché nostri simili hanno scelto di uccidere? Queste sono alcune domande che fanno soffrire, ricordare, conoscere e riflettere. Domande alle quali è difficile dare risposte. Sono domande che ritornano. Ma la memoria, come la sofferenza, ci può ancora salvare. “Il racconto ha spesso una radice di verità storica. Ma perché la gente tradisce? perché altri scelgono di aiutare? sono eterne domande di difficili risposte, per questo è necessario non perdere la memoria, è fondamentale scrivere, ricordare, tramandare, dialogare, immaginare una paura mai realmente provata, trasmessaci da chi l’ha vissuta e l’ha sentita davvero”.

Benvenuti alla pagina di scrittura creativa degli alunni della 3E. Vi presentiamo dei brevi racconti che abbiamo scritto sul tema della Shoah, il nostro piccolo contributo alla memoria di quanto accadde agli ebrei.

UN INFERNO CHIAMATO AUSCHWITZ


Era la notte del 15 Ottobre 1944, erano circa le 4 del mattino quando in casa penetrarono i soldati tedeschi per privarci di tutti i nostri averi. Fecero uscire tutti noi per portarci alla stazione, dove ci aspettava il vagone di un treno, sporco, con solo della paglia e un secchio per fare i bisogni.

Eravamo in tantissimi, tutti ebrei, ammassati come bestie.

Mio padre mi spiegò che anche noi, in quanto ebrei, non eravamo apprezzati dal resto del mondo e che quindi dovevamo essere rinchiusi in una sorta di prigione chiamata Auschwitz; ero agitatissimo e allo stesso tempo non capivo cosa stesse succedendo, perché ci stavano facendo questo, non avevamo rapinato una banca, non avevamo commesso nessun reato, allora perché?

Arrivati a destinazione, dopo giorni di viaggio interminabili, stremati dalla fame, dalla sete e dalla stanchezza, ci divisero: maschi e femmine.

Io ero con mio padre e mia sorella con mia madre, era terribile perché ero molto legato a mia sorella e non sopportavo il fatto che ci avessero divisi.

Mio padre continuava a dirmi: "Piccolo, non ti preoccupare ce la faremo, ti proteggerò per sempre, fino alla fine”.

Io credevo in mio padre, così mi calmai.

Ci chiamavano per nome e ad ognuno tatuavano un numero diverso (ormai per i nazisti eravamo solo numeri), ci svestirono e ci diedero delle camicie a strisce nere e bianche, ci rasarono i capelli a zero e infine ci portarono in capannoni sporchi e gelidi con tanti letti, senza coperte. Mentre ci portavano ai dormitori notai dei camini fumare...chissà cosa facevano in quell’edificio?

La prima notte ad Auschwitz fu tremenda non riuscivo a smettere di piangere pensando a mamma e Liliana (mia sorella).

Ci affidarono dei lavori, alcuni erano semplici e altri meno.

Io e papà stavamo sempre vicini.

Dopo aver lavorato per una giornata intera eravamo stanchissimi e affamati, il nostro pasto era una brodaglia con qualche legume e un pezzo di pane vecchio e ammuffito.

I nostri letti erano duri e freddi, c’era solo un po’ di paglia che fungeva da cuscino, non avevamo niente, nemmeno una coperta per coprirci dal gelo, ma ci arrangiavamo con quello che avevamo a disposizione.

Ogni mattino ci svegliavano molto presto, non facevamo colazione e iniziavamo da subito a lavorare.

Mentre lavoravo sentivo spesso urla di dolore, strazianti, che mi entravano nel cervello, la gente veniva fucilata, frustata e ammazzata (la maggior parte delle volte ammazzata) però mio padre mi tranquillizzava sempre dicendo che noi saremmo presto andati via da quell’inferno. La cosa che mi frustrava di più era non avere nessuna notizia di mia sorella e di mia madre, mi chiedevo in continuazione "dove le avranno portate? staranno bene? saranno ancora vive?".

Ogni sera pregavo affinché mia sorella e mia madre sopravvivessero.

Passarono giorni, mesi ma niente, ormai non festeggiavo neanche più il compleanno, non sapevo più che giorno fosse.

Io e mio padre eravamo scheletri, si vedevano le ossa per quanto eravamo magri, ma continuammo per la nostra strada, non avendo rapporti con nessuno e lavorando duramente per non essere puniti o peggio, fucilati.

Durante questi mesi non avevo legato con nessuno, ero uno scudo impenetrabile, nessuno poteva consolarmi, aiutarmi… niente più era come prima, capii che, quelli che pensavo fossero camini erano invece “camere a gas”, luoghi dove venivano portati alcuni di noi troppo deboli, troppo vecchi o i bambini piccoli. Condotti lì con l’inganno, convinti di dover fare la doccia, venivano soffocati col gas ed infine ridotti in cenere.

Ero spaventato all’idea che io o mio padre potessimo fare la stessa fine, che non ce l’avremmo fatta a resistere e che, quindi ci avrebbero portato a “fare la doccia”.

Volevo tornare alla vita di prima, alle cene in famiglia, alla scuola, alle corse sul prato di casa nostra, a giocare con i miei amici, alle gite, a quando l’idea di questo orrore era lontanissima, mi mancava tutto!

Era il 1 maggio 1945, quando all’interno del campo erano tutti in subbuglio, i nazisti correvano, molti avevano abbandonato le divise e vestivano di stracci. I russi entrarono al campo e ci liberarono.

Non potevo crederci eravamo FINALMENTE LIBERI!!!!

Io e mio padre correvamo, come non avevamo mai corso in vita nostra, piangevo dalla gioia: il mio sogno si era avverato!

Usciti da lì la prima cosa che io e mio padre facemmo fu cercare la mamma e mia sorella (speravamo con tutto il cuore che fossero sopravvissute alle barbarie di quell’inferno), chiedevamo a tutte le persone che incontravamo notizie, se le avessero viste, se avessero scambiato qualche parola con loro. Le prime settimane non scoprimmo niente, non c’era traccia di loro.

Qualcuno che ebbe la fortuna di vederle poco prima della liberazione, ci disse che stavano bene ed erano ancora vive, ma il mio pensiero tornava sempre lì, alle camere a gas, alle fucilazioni improvvise, alle torture che portavano sempre alla morte.

Era passato ormai un mese, quando un giorno vennero nell’hotel in cui alloggiavamo due agenti di polizia e ci dissero che avevano trovato una bambina e una madre che corrispondevano alla loro descrizione e che cercavano proprio un uomo e un ragazzino di tredici anni...eravamo noi!

Eravamo riuniti, fantasmi di noi stessi, ma impazziti dalla felicità per esserci ritrovati e per essere sopravvissuti all’odio e al razzismo.

Non dimenticherò mai, fino a che vivrò, tutto ciò che Auschwitz mi ha tolto, tutto ciò che i nazisti hanno fatto a noi ebrei, tutto l’odio (non pensavo potesse essere possibile), l’orrore, le privazioni e gli abusi di questi anni, ma posso posso ancora raccontarlo e soprattutto ho ancora la mia famiglia.

Alessandro Calafato 3E

LA FABBRICA DELLA MORTE


Ciao sono Carla, ho 14 anni e sono ebrea. Vivo in una casa come tutti gli altri, ma sono giorni che mi nascondo insieme alla mia famiglia perché ci sono i tedeschi che vogliono portarci via, non so dove. Fino ad ora non mi hanno mai trovata, mi ritengo veramente fortunata, ma molti dei miei amici sono stati presi e di loro non sappiamo più nulla. La mamma diceva di stare attenta, che era meglio rimanere nascosti piuttosto che finire nelle mani degli uomini neri. Lei però ieri è stata rapita e non l'ho più rivista. Non vedo il papà e mia sorella da diversi giorni, credo che abbiano preso anche loro. Ora voglio uscire, non vedo la luce del sole da tanto tempo! Forse era meglio se restavo nel mio nascondiglio, al sicuro. Hanno preso anche me, è finita. In questo posto terribile e grigio vedo i miei amici tutti uguali, indossano un pigiama con delle righe bianche e blu, anche a me lo hanno fatto mettere. Adesso ho paura, sono terrorizzata, vorrei piangere ma so che non servirebbe a niente. Stamattina ci hanno fatto entrare in un posto stretto, buio e puzzolente, ci hanno fatto spogliare con la scusa di dover "cambiare la tuta". Sarebbe stato meglio non entrarci in quel posto, il mio corpo adesso è cenere. Io sono Carla, sono morta a 14 anni, bruciata in quella stanza buia e puzzolente, la mia stessa fine è toccata ad altri milioni di bambini e adulti.

Sara De Vivo 3E

LA FUGA

Mi chiamo Giovanni, sono un bambino di nove anni, sono nato nel 1932, in un periodo storico molto difficile per noi ebrei. Ogni giorno con la mia famiglia mi recavo a pregare nella Sinagoga. Un giorno, mentre tornavo a casa si avvicinarono a me due uomini con cattive intenzioni. Iniziai ad avere paura e mi misi a correre a grande velocità. Purtroppo mi presero, fui portato dentro un grandissimo edificio, faceva freddo e mi misi in un angolino terrorizzato. Qualche giorno dopo la mia nuova casa era una baracca, insieme a tante altre persone che non conoscevo. In un giorno di selezione vidi mia mamma e mio padre, andai da loro e li abbracciai ma una guardia prese mio padre, lo mise contro un muro e gli sparò. Io provai a scappare, sentivo mia madre urlare più forte delle sirene, approfittammo di quel momento di confusione e scappammo da un buco nel filo spinato. Ci nascondemmo per giorni e giorni dentro una casa abbandonata e distrutta, restammo lì senza cibo e al freddo. Quando uscimmo non c’era più nessuno, neanche quei grossi edifici. C’erano dei giornali, era il 1945 e scoprimmo che avevamo vissuto quella che tutti chiamavano SHOAH!

Alessandro Di Vaio 3E

LE CAMERE A GAS


Stavamo festeggiando il mio compleanno quando ad un certo punto ci fu nella casa il buio totale, quello che ricordo sono delle voci strane ed incomprensibili, uomini che urlavano e rumori di oggetti che si rompevano. Mi sono risvegliata su un camion insieme a moltissime persone, non capivo cosa stesse succedendo e in più non trovavo i miei genitori. Il camion si fermò, si aprirono le porte e due poliziotti iniziarono a parlare, non capivo cosa dicevano ma avevo capito da vari gesti che dovevamo entrare nell’edificio in cui eravamo arrivati. C’erano due cancelli enormi. Pian piano arrivarono tanti altri camion, forse venti, forse di più e iniziarono a scendere molte persone, ma dei miei genitori non c’era nessuna traccia. Entrati dentro l’edificio ci portarono in una stanza, intorno alle pareti c'erano dei ripiani di legno con delle tute bianche e azzurre. Una ragazza mi disse che dovevamo dormire lì, in quei ripiani, e compresi che si trattava di letti. Il giorno successivo ci svegliarono all'alba, ci tatuarono sulle braccia dei numeri, il mio era 174.517, il mio nuovo nome. Usciti dalla nostra baracca vidi un poliziotto uccidere con il fucile una persona che probabilmente aveva tentato di scappare, provai una paura che non conoscevo, all'inizio pensavo che volessero proteggerci ma quello che volevano era ucciderci. Il giorno successivo ci portarono in una camera molto piccola, ci dissero di spogliarci, ero confusa, tremavo, non sapevo a cosa sarei andata incontro, volevo solo rivedere la mia famiglia, poterla abbracciare, potermi sentire ancora protetta. Ci ordinarono di entrare nelle docce, in quel momento pensai che quella era la fine per me, le lacrime iniziarono a cadere sul mio volto, volevo tornare indietro, avevo solo 13 anni e dovevo ancora vivere, vedere il futuro, vedere i miei genitori. Ahimè da quella stanza non ne uscì più e tutti i miei sogni si spezzarono per sempre. Eravamo 43 bambini, adesso siamo 43 angeli.


Fiorella Nasti 3E

GLI ESPERIMENTI SUI BAMBINI


Ciao, mi chiamo Rosa Sommella, sono una ragazzina ebrea italiana che è stata deportata al campo di concentramento di Auschwitz. Avevo circa 12 anni, insieme a me c’erano tanti altri bambini anche più piccoli, ma mi sentivo sola. Il primo giorno, quando arrivammo al campo, ci portarono in una specie di “capanna” con delle cuccette e lì dovevamo dormire, ero spaventata, non sapevo dove fossi e neanche chi era quella signora che ci sgridava sempre, non capivo quello che diceva. Ci portarono da mangiare solo un pezzo di pane duro ed una specie di zuppa dal gusto orribile; avevamo tanta fame, ma non dicevamo niente, perché non ci capivano o facevano finta di non capirci. Qualche giorno dopo ci diedero dei vestiti a righe che dovevamo indossare tutti, io ero la più grande tra i bambini con cui stavo, poi ci fecero dei tatuaggi sul braccio con una specie di punteruolo e dell’inchiostro, ci scrissero un numero che sinceramente non sapevo a cosa servisse. Le notti le trascorrevo a piangere perché mi mancavano i miei genitori, non sapevo dove fossero, non sapevo se erano vivi o morti…

Un giorno nella nostra “capanna” venne un medico che parlava in italiano e ci chiese chi voleva andare dalla propria mamma, ma io non dissi nulla perché mi sembrava troppo strano che ci portasse dalle nostre madri; alcuni bambini accettarono e quest’uomo se li portò con sé, però nessuno li vide più tornare. Fino a quando scoprii cosa gli fecero, servirono per gli esperimenti dei nazisti, furono torturati, infine impiccati e i loro corpicini bruciati nei forni. Quell’assassino tornò ancora e prese tutti gli altri bambini, li portò via con la forza e se ne andò. Cercai di non farmi vedere da nessuno ed iniziai a correre il più veloce possibile, ma non fu sufficiente, mi presero e mi portarono nelle docce, però quelle a gas. L’ultima cosa che ricordo è che ero sola e pian piano la vista si annebbiava, non riuscivo a respirare. Non riaprii più gli occhi. Gettarono il mio corpo su un cumulo di ossa di altre persone innocenti.


Rosa Sommella 3E

27 GENNAIO 1945

Quando arrivai non avevo ancora capito cosa stesse accadendo, si sentivano urla di donne e pianti di bambini, alcuni uomini armati ci divisero in gruppi. Il mio gruppo fu portato in un capannone, dove ci tagliarono i capelli e ci marchiarono un numero a fuoco sulla pelle. Dopo entrammo in un magazzino freddo e buio, avevo fame, insieme a me c'era mio fratello, anche lui molto affamato come me. Con un viso disperato mi chiese dove fosse nostra madre, io non sapevo cosa rispondergli e scoppiai a piangere, ad ogni grido mi veniva la pelle d'oca. Completamente sfatto mi addormentai. La mattina seguente venne a trovarci un uomo simpatico, aveva un cappello pieno di bigliettini e disse che voleva farci fare un gioco. A turno iniziammo a pescare i foglietti dal cappello, sul mio c'era scritto "miniera" e in meno di dieci minuti mi ritrovai a lavorare in una miniera umida, buia e puzzolente, non vidi neanche quale posto era toccato a mio fratello. Passarono mesi, morirono molte persone, ma quella mattina non la dimenticherò mai. Mentre andavo in miniera vidi mio fratello correre e urlare "Mamma!". All'improvviso una canaglia gli sparò, piangevo e lavoravo, non riuscivo a stare in piedi dal dolore. Pensai che forse aveva visto nostra madre. Ogni giorno era uguale all'altro, ormai quando vedevo le persone morire davanti ai miei occhi non provavo più nulla, ci avevo fatto l'abitudine. Passò ancora molto tempo, eravamo rimasti in pochi e decisero di metterci insieme ai grandi. Mi sedetti vicino a un anziano, mi guardò e disse:" Sai giovanotto, sento che la guerra sta per finire e ci libereranno". Io non credetti alle sue parole, anzi pensai che fosse pazzo. Il giorno dopo sentì degli spari e una confusione tremenda, ci liberarono, era il 27 gennaio del 1945. Per la gioia corsi dall'uomo anziano ma lo trovai steso sul pavimento, era morto. e la cosa mi fece soffrire molto, avrei voluto chiedergli come faceva a sapere che ci avrebbero liberato. Una mano mi toccò la spalla, mi girai, era mia madre, fu una gioia immensa. Era finita, finalmente.

Fabrizio Di Matteo 3E

LA FAME


Era il 27 gennaio 1945, mi portarono in un furgone, con me c'erano altri bambini, mi chiesi dove mi stessero portando e ad un certo punto il furgone si fermò. Io avevo paura, mi mancava mia madre, mi chiesi dove era , se stava bene, mi spinsero per scendere dal furgone vidi persone piangere, dall’aspetto non stavano bene ….

Ci misero in fila indiana e ci portarono in una stanza , ci fecero mettere una maglia e un pantalone a righe, sulla maglia c’era una stella mi chiesi cosa significasse, subito dopo mi portarono in un'altra stanza con solo un letto. In quel momento mi sentii solo, angosciato, mi veniva da piangere, mi chiesi se sarei mai uscito dal quell’inferno, stavo morendo di fame ma mi diedero solo un pezzo di pane e niente altro. A volte ci facevano uscire in cortile ma io non uscivo mai perché vedere tutte quelle persone morire di fame, soffrire, mi faceva venire male allo stomaco. Tre settimane dopo, mentre stavo mangiando il mio pezzo di pane, senti un rumore forte, mi spaventai molto ma non ci pensai perché non avevo più niente in cui credere e non mi importava se sarei sopravvissuto o no. Dopo alcuni minuti venne un signore mi disse: “Su, svelto, corri, possiamo salvarci. Non ci potevo credere, quando uscii vidi tutte quelle persone che prima stavano male sorridere, ad un certo punto una signora mi prese la mano e quando mi girai vidi mia madre e fui la persona più felice al mondo.


Sabrina Marinelli 3E

SOPRAVVISSUTI


Ricordo ancora quando fui catturato dai Tedeschi.

Ero in cucina con la mamma e stavamo per cenare quando all’improvviso la porta di casa si aprì facendo tanto rumore. Mamma mi prese tra le braccia e sentivo battere il suo cuore fortissimo (lei già sapeva tutto). Io piangevo tanto, avevo solo 9 anni. entrarono in casa vestiti tutti uguali e mi strapparono dalle braccia di mamma e mi portarono in un campo di concentramento, io però non sapevo dove e perché. Lì c'erano tanti bambini come me ma non vidi i miei genitori e mi disperai.

Quando mi lasciarono con gli altri bambini vidi che intorno a me c'erano solo mura, quel posto era come un carcere e mi chiesi dove fossi, perché mi avessero portato lì.

La mattina mi portarono in una stanza enorme (era tipo una scuola) per farmi studiare e mi feci un amico che si chiamava Luca, con lui ridevo e cercavamo insieme di non farci sgridare da quelle brutte persone grandi che urlavano solo. Ogni tanto mangiavamo qualcosa in una specie di mensa, mentre il resto del tempo eravamo sempre chiusi nella nostra baracca.

Un giorno mentre stavamo mangiando vidi il mio papà che veniva sgridato e trattato male, quando si accorse di me mi sorrise e dal qual giorno non lo vidi più….solo dopo 2 anni capii che era morto proprio quel giorno (forse lottava per non morire).

Non sapevo ancora mamma dove fosse ma ricordo ancora bene il giorno che fui liberato dai russi. Vidi prima la mia mamma corrermi incontro e poi anche la mamma di Luca. Quello è stato il giorno più bello della mia vita, il 27 gennaio del 1945.

Christian Romano 3E

PER NON DIMENTICARE....


Era un’orrenda giornata, pioveva così forte che si allagò la città, c’era un vento che se ne cadevano le finestre.

Mentre Facevo i compiti bussarono alla porta, mia madre aprì la porta ed entrarono una dozzina di nazisti molto alti e robusti, entrarono aggressivamente con una spinta e fecero cadere mia madre. Mio padre cercò di respingerli ma venne picchiato e legato su una sedia, perquisirono tutta la casa, rovistarono tra le nostre cose, anche se non trovarono niente di prezioso da rubare.

Ci presero e ci caricarono su un furgoncino, avevo una paura che mi tremavano le gambe, mia mamma piangeva e mio padre era pieno di sangue e lividi.

Ci portarono in questo campo e ci fecero lavare per circa mezz’ora, dopo ci vestimmo, i vestiti che ci diedero assomigliavano a pigiami ed erano bianchi e neri. Infine ci tatuarono dei numeri sul braccio, quel dolore era così fastidioso da farti piangere, ed erano gli stessi numeri che avevamo sulla divisa.

Fummo divisi, donne e bambini e solo uomini, ci facevano lavorare molto ma non ci davano né da mangiare e né da bere, la notte era difficile addormentarsi e riscaldarsi, faceva un freddo incredibile. Ricordo che mia madre pregava più di venti volte al giorno, specialmente la notte.

La mattina seguente mio padre venne chiamato per un esperimento, come lui anche tanti altri, ma era una trappola. Lo portarono in una stanza e gli dissero che dovevano lavarsi, ma dopo poco morì. Avevamo ancora la speranza che tornasse, ma non accadde.

La paura era molta, non ricordo quanti canti intonavamo al giorno, quante preghiere, credevamo che saremmo morti tutti piano piano, alcuni pensavamo che qualcuno sarebbe venuto a salvarci, era l'unico pensiero che ci teneva in vita.

Dopo settimane arrivarono i russi a salvarci, c’erano aeroplani e carri armati, salvarono quei pochi rimasti, tra cui me e mia madre. Quell'incubo fortunatamente era finito. Ebbene sì, io sono uno dei pochi sopravvissuti e porto la mia testimonianza.

Mario Esposito 3E

UN'AIUTANTE CORAGGIOSA


Ciao io sono Allyson Durand ho 86 anni, sono nata a Berlino il 22 aprile 1934 ed oggi vi racconterò la mia esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz.


Io e mia sorella gemella di nome Abigail siamo state deportate insieme nel campo di Auschwitz, ma siamo state divise appena arrivate, invece i nostri genitori sono stati deportati in altro campo e da allora non li abbiamo più visti.

Siamo stati trovati dai nazisti il 15 giugno del 1943.

Il tragitto per il campo è stato lungo ed orribile perché non avevamo né cibo né acqua per sfamarci e dissetarci e anche perché eravamo tanti in un vagone per merci piccolo e stretto.

Durante il tragitto sentivo la mano di mia sorella stringere la mia, sempre più forte.

Durante quel viaggio, che a me sembrava non finire mai, avevo molta paura, tristezza, fame ma soprattutto angoscia. Nonostante questo cercai di incoraggiare mia sorella perché i suoi occhi mi facevano capire che aveva paura e si poteva comprendere che volesse una risposta a tutto questo, così le dissi: “Tranquilla Abby, andrà tutto bene, anche se questo viaggio sembra infinito, sappi che io sarò sempre al tuo fianco.”

Quando fu sera vedemmo tutti attorno a noi addormentarsi, ma noi no, improvvisamente sentii la voce di mia sorella cantare la canzone che ci cantava nostra madre quando non riuscivamo a dormire. Senza pensarci due volte iniziai a cantarla insieme a lei e dopo pochi minuti ci addormentammo. Quando mi svegliai non mi ritrovavo più nel vagone con Abby, ma in una stanza con altre dieci bambine. Ci fecero svestire lavare, in seguito ci fecero indossare un pigiama, ci rasarono i capelli, presero appunto dei nostri nomi e ci tatuarono una serie di numeri sul braccio. All'inizio non capii bene il significato, ma dopo un po’ lo appresi, cioè che ci avevano marchiato come animali e quel numero ci avrebbe accompagnato per sempre. Ci portarono in un laboratorio per degli esperimenti. Domandai cosa ci facevamo lì e quella signora che sembrava molto severa e antipatica ci disse che eravamo lì per giocare. La risposta non mi convinse, mi sembrava un laboratorio e compresi non ne sarei uscita viva. La donna capì che ero una ragazzina sveglia e che avevo un potenziale, infatti non mi usò più come cavia ma bensì come aiutante.

Dato che avevo capito che quegli esperimenti avrebbero portato alla morte delle altre bambine, quando la signora mi diceva di mettere una certa quantità di veleno o qualcos'altro nelle provette che usava, io ne mettevo sempre di meno; un giorno trovai dei coloranti, dato che quei veleni erano di vari colori, presi le siringhe dove c’erano i veleni, le svuotai e ci misi un po’ d’acqua con dentro il colorante. Passai un anno dentro quel laboratorio come aiutante, ogni giorno mi mancava sempre più Abby, mi mancava il suo sorriso, la sua spensieratezza. Pensai ”Chissà cosa starà passando Abby adesso, se starà facendo i lavori forzati o magari si troverà in qualche altro laboratorio come questo...no Allyson non pensare in negativo, magari sta bene e non si è accorta di nulla". Purtroppo dopo 6 mesi i miei tentativi di non far morire nessuno non andarono a buon fine, la signora scoprì cosa facevo per non far morire le mie compagne, perché gli esperimenti non ebbero nessun effetto. Così mi mandò ai lavori forzati ma prima le guardie mi picchiarono fino a quando non ebbi il corpo pieno di lividi. Non si accontentarono solo di picchiarmi, mi gettarono addosso delle sostanze chimiche che mi provocarono bolle su tutto il corpo. Dopo quel pestaggio finalmente mi accompagnarono ai lavori forzati. Lì dopo un anno e mezzo finalmente rividi mia sorella. Appena la vidi urlai il suo nome e subito dopo, non so con quale forza, le corsi incontro e le diedi un abbraccio così lungo che le guardie dovettero staccarci con la forza. Quando Abby m vide in quelle condizioni disse che aveva sognato quella scena la stessa notte in cui accade, io a questa rivelazione rimasi scioccata, perché non capivo e neanche ora capisco come sia possibile. La verità è che siamo sorelle, gemelle, quello che io sento, lei sente e sarà così per tutta la vita.


Orsola Manco e Sabrina Schiano 3E

LA SORELLA GEMELLA DELL'AIUTANTE CORAGGIOSA


Ciao mi chiamo Abigail Durand, attualmente ho 86 anni sono nata a Berlino nel 22 aprile del 1934, ho una sorella gemella di nome Allyson. Io e lei siamo state deportate nel campo di concentramento Auschwitz nel 1943. Era la mattina del 15 giugno quando tutto ebbe inizio, durante il tragitto avevo tanta fame. Tenevo stretta la mano di mia sorella, come se da un momento all’altro potessi perderla. Nel suo sguardo si poteva ben notare la paura, panico ed angoscia. Quello sguardo mi provocò timore ma le sue parole no, perché mi trasmettevano sicurezza infatti disse: “Tranquilla Abby, andrà tutto bene, anche se questo viaggio sembra infinito, sappi che io sarò sempre al tuo fianco". La sera, ancora nel vagone, tentavamo di addormentarci senza alcun risultato; vedevo tante persone ormai addormentate ma io non ci riuscivo. Mi venne in mente quando mia madre cantava a me mia sorella una canzone, specialmente quando eravamo impaurite per via dei temporali. Iniziai a cantarla sottovoce, dopo pochi secondi sentì la voce di mia sorella cantarla insieme a me, in pochi minuti ci addormentammo. La mattina dopo quando mi svegliai ero ancora nel vagone, mi guardai attorno cercando con lo sguardo Ally, ma non c'era. Mi alzai di scatto ma subito dopo caddi per la troppa debolezza, urtai contro la parete del vagone e vidi tutto nero fino a quando non svenni. Alcune ore dopo mi svegliai con un forte mal di testa in una stanza dalle pareti piuttosto malconce; in quella stanza c’ero io con altre ragazzine. Iniziarono a svestirci, in quel momento non sapendo che cosa fare rimasi immobile, ma ad un tratto sentì un rumore di forbici avvicinarsi sempre di più ai miei capelli rosso carota. Sentì le mani di una donna stringermi forte e bloccarmi le braccia per poi rasare tutti i miei capelli. La cosa più brutta fu il momento in cui ci tatuarono quel numero che ci macchiò per sempre. Dopo fummo portate in un posto alquanto inquietante, c’erano alberi secchi e spogli, il terreno era arido e c’era una fitta nebbia. Ci costrinsero da subito ai lavori forzati. Giorno dopo giorno sentivo la nostalgia di casa, dei miei genitori, ma soprattutto di mia sorella; lei per me era come una seconda mamma nonostante avessimo la stessa età, soprattutto perché la mamma passava la maggior parte delle giornate a lavorare in una lavanderia. Un giorno, mentre tornavo al cosiddetto dormitorio, incontrai due bambini, quando mi videro mi salutarono con le loro manine sorridendo, non capivo come nonostante tutto quello che stesse succedendo quei ragazzini riuscivano ancora a sorridere. Quasi non ricordavo cosa si provava nel farlo. Cercai di dimostrare loro un sorriso, ma forzato, e i bambini si avvicinarono a me. Il maschietto aveva una cicatrice sotto l’occhio che gli dava l’aria di una persona aggressiva, brusca, la bambina aveva gli occhi di un colore strano, quasi arancione, come, erano i miei capelli una volta. Da quel giorno diventammo migliori amici, inseparabili. Una sera feci un brutto bruttissimo sogno, un incubo, in quel sogno vidi mia sorella accarezzarmi dolcemente i capelli mentre cantava la nostra canzone. D'improvviso smise di cantare e rivolsi il mio sguardo verso di lei ma il suo volto era mal conciato, con lividi chiazze verdastre e le labbra talmente screpolate che sembravano sgretolarsi da un momento all’altro. Aveva le mani secche con bolle e calli dappertutto. Mi svegliai urlando e ricoperta dal mio sudore. Quel sogno fu come se qualcuno mi stesse dicendo che cosa stava succedendo ad Ally in quel momento. Ero preoccupata per lei, mi mancavano tanto le sue grida quando facevo qualcosa di stupido ed insensato, quando andavamo a scuola e la mattina preparavo la cartella insieme a lei, oppure quando giocavamo a fingere di essere due principesse in cerca del nostro principe azzurro. Un giorno, durante i lavori forzati, sentii una voce, quella voce avrei potuto riconoscerla fra mille, era quella di Allison che urlava il mio nome. Alzai lo sguardo per poi guardarmi intorno con tanta disperazione, sperando di non avere allucinazioni o di star sognando, quando puoi mi voltai verso la direzione opposta i miei occhi si posizionano finalmente sui suoi, e la vidi corrermi incontro a braccia aperte. Ad interrompere quel momento, che aspettavo da più di un anno e mezzo, fa una guardia. Quando ci staccarono la guardai attentamente, lei era proprio come nel mio sogno, l'avevano picchiata, torturata, le stesse cicatrici le portavo anche io nel cuore.


Orsola Manco e Sabrina Schiano 3E

IL LAVORO RENDE LIBERI

Ero seduto a tavola a mangiare con la mia famiglia quando i tedeschi irruppero in casa mia, ci misero delle buste sulla testa e ci portarono via. Ero spaventato, non sapevo dove mi stavano portando, non vedevo niente ma sentii un treno e la porta di un vagone aprirsi. Mi buttarono dentro al vagone, mi diedero calci e pugni, poi mi tolsero la busta dal viso e vidi che mi trovavo con mia madre e mio padre e altre persone che come noi erano state deportate. Arrivammo in un posto che era un campo di concentramento, sul cancello all'ingresso c'era una scritta "Il lavoro rende liberi" e poi ho letto Auschwitz. Chiesi a mia madre cosa significasse, dove mi trovavo e cosa ci facevamo lì, però non ebbi nessuna risposta. Ci portarono in una specie di capannone, le stanze erano piene di letti fatti di legno, c'erano solo delle piccole coperte senza cuscino e non c'era nemmeno cibo. All'improvviso delle donne ci portarono delle scodelle con dentro una specie di zuppa puzzolente e un bicchiere d'acqua a famiglia. Non ero l'unico bambino che si trovava lì, ce ne erano molti altri. Dopo aver finito di mangiare quel poco che ci diedero, ci trasportarono in una piccola casa dove ci chiesero nome e cognome e ci dissero di togliere i vestiti, le scarpe, e anche le fedi di mia madre e mio padre. Era calata la notte, sentivo urla pianti allora uscii dal capannone e vidi delle persone in fila una dietro l'altra che si avvicinavano a questa specie di forno e uno alla volta entravano e non uscivano più. Spaventato a morte da quella vista decisi di rientrare nel capannone, giusto in tempo per non vedere mio padre in quella fila. Giorno dopo giorno rimasi ad aspettarlo ma lui non tornò mai. Passarono mesi, anni, poi di colpo nella notte vidi tutte le guardie scappare via, svegliai mia madre per dirle cosa stesse succedendo e vidi anche degli edifici in fiamme, quindi io e mia madre scappammo e riuscimmo a tornare a casa grazie all'aiuto degli altri sopravvissuti. Questa è stata l'esperienza più brutta e tremenda di tutta la mia vita.

Silvio Guitto 3E

MORIRE AD AUSCHWITZ


La mamma urla di muovermi, devo andare a scuola, ma non ne ho voglia, ultimamente andare a scuola è strano, Ephraim, Noa io ed altri bambini dobbiamo utilizzare un'altra porta per entrare a scuola. L'insegnante ci guarda, con un’espressione che è un misto tra il ribrezzo e la pena, per non parlare del fatto che la maggior parte dei miei “ex” amici non mi rivolge più la parola, come se fossi invisibile. Quella mattina degli uomini portarono via mio padre, dopo mia madre, la sentì mentre mi diceva di correre, di non voltarmi più indietro, ma non riuscii a muovermi, il mio corpo era paralizzato, sapevo di dover dare retta a mia madre ma non feci altro che guardare come portavano via i miei genitori, senza fare niente. Quando presero mia sorella però riuscii a riprendere subito possesso del mio corpo, urlai, mi divincolai, ma non servì a niente perché fui presa anche io. Ci portarono su un treno, ci dissero che ci saremmo divertiti.

Arrivammo in un posto che trasmetteva tutto tranne che divertimento, ci incisero dei numeri sulla pelle, ci rasarono i capelli. Mia sorella piangeva, voleva i nostri genitori, come darle torto, ma io non avrei mai potuto piangere dinanzi a lei perché dovevo essere forte o quanto meno provarci; l’aria in quel posto era tesa, triste.

Nella stanza c’eravamo io, mia sorella ed altri bambini, era arrivata finalmente la notte, il mio momento preferito della giornata, così avrei potuto sfogarmi, svuotare tutto quello che mi tenevo dentro, misi la faccia sul cuscino e iniziai a piangere, era un pianto silenzioso, ma finalmente potevo lasciarmi andare.

Era passata ormai una settimana dal nostro arrivo, bambini morivano di continuo, non so perché ma io e i bambini della mia stanza eravamo gli unici a cui era concesso giocare, fare un pasto completo, non avevo idea del motivo di questo privilegio ma questa cosa non mi piaceva, non la trovavo giusta.

Mia sorella, passava tutte la sue giornate a disegnare, io preferivo scrivere, facevamo questo fino al tramonto, ci riportavano nella nostra stanza e così ricominciava la giornata.

Fui talmente sciocca da non accorgermi che il motivo per cui ci permettevano di non fare lavori forzati e di mangiare un pasto completo, era ben preciso e lo scoprimmo nel momento in cui nella nostra camera si presentò un uomo, che disse di essere un Dottore. Prese me e mia sorella, come fece con gli altri e ci convinse che, se lo avessimo seguito ci avrebbe riportati a casa, ed ingenuamente facemmo ciò che ci chiese: ci portò in un laboratorio, fu terribile e così i giorni a seguire.

Io e mia sorella avevamo un solo anno di differenza, tra poco io sarei diventata maggiorenne, sapevo che mi avrebbero portato ad Auschwitz e quel posto significava solo una cosa: morte.

Non volevo lasciare mia sorella da sola, con quel dottore, con quella gente, ma non potevo fare niente, potevo solo sottomettermi, non avevo scelta e soprattutto non volevo che mia sorella potesse vedere sotto i suoi occhi ciò a cui ero destinata, mi piaceva credere che in qualche modo il suo destino fosse diverso dal mio e che per lei ci fosse qualche speranza, così decisi di lasciarle una lettera sotto il cuscino.

“Cara Tiffy, se stai leggendo questa lettera saprai che il mio presentimento era giusto, credo che presto mi uccideranno ma tu devi essere forte e resistere. Volevo che tu sapessi che tra noi c’è sempre stato un legame profondo, tu sei tutto il mio mondo, sei stata la mia ancora di salvezza in questo schifo di posto, sei l’unica cosa bella che mi è rimasta. Non so perché questa gente ci odi tanto, ma promettimi che ce la farai anche senza di me, questa gente odia la diversità, ma tu devi andarne fiera, non permettere loro di cambiarti, se fossimo tutti uguali che razza di esistenza sarebbe?

Sei stata sempre con me, quando ne avevo bisogno, e te ne sono grata hai sempre fatto il possibile per impedirmi di soffrire.

Tiffy sei la persona più pura che io conosca, sei stata la mia sorella preferita, forse perché unica, spero di averti strappato una risata ( sei più bella quando ridi). Ti vorrò bene per sempre Sofy.”

La mattina seguente mi portarono in una grande camera, dopo poco uscì del gas, mi sentivo la testa pesante, le gambe molli, decisi di lasciarmi andare, sentivo la testa vuota, caddi a terra. Il pavimento era congelato, ma ormai non sentivo più niente, la morte stava per prendermi, chiusi gli occhi e in un istante fui altrove.


Sofia Esposito 3E

DACHAU

Mi chiamo Giacomo, ho undici anni e domani sarà il mio primo giorno di scuola media, almeno spero. Spero perché sono ebreo, perché ho la stella cucita su ogni indumento, perché non posso salire sul tram con mamma, perché non posso uscire dopo le sei, neanche fuori al giardino di casa mia. Una sera mentre ceniamo, io e i miei genitori sentiamo bussare alla porta, è la polizia ci dichiara tutti in arresto. Ci caricano su un camion e ci portano alla stazione. Lì dividono i maschi dalle femmine e mi mettono a sinistra con mio padre. I soldati dicono solo “destra” “sinistra” e non ci guardano neanche in faccia, ho paura. I cani abbaiano, la gente piange, i bambini gridano. In un attimo perdo di vista mia madre, non la rivedrò più. Mio padre mi tranquillizza, dicendomi di non aver paura e che tutto si risolverà, mi incammino con lui, ma un tedesco arriva e mi dice di andare a destra insieme agli altri bambini. Io grido e mi aggrappo alla gamba di mio padre e il soldato violentemente lo spinge a terra e mi strappa via, lanciandomi in mezzo agli altri bambini. Negli occhi di tutti c’è il terrore! Ci portano su un treno diretto a Dachau: dicono che è un lager…Ma che cos’è un lager? Tutti ce lo chiediamo… uno dei ragazzi più grandi ci dice che è un campo dove si va a lavorare, glielo hanno detto a scuola. Arrivati al campo ci sono tante persone con la stessa divisa a righe e tanti soldati che non fanno altro che urlare. Ci hanno rasato i capelli. Ci hanno tolto il nome e ci hanno dato un numero,77624 questo è il mio, lo devo imparare a memoria. Il tempo passa e siamo ancora qui, intorno al campo c’è il filo spinato e mangio solo un pezzetto di pane e dell’acqua. Oggi i soldati ci hanno detto che se carichiamo tanti giubbotti sui camion questa sera ci spetterà una buonissima zuppa calda. Mi ricordo quando la preparava la mia mamma, riesco a sentire l’odore. Io sono uno dei primi ad offrirmi per questo lavoro e così altri 15 dei miei compagni. Fuori c’è tanta neve e fa molto freddo, ma mentre affondo i miei piedi nella neve ghiacciata e sento il peso di quelle scatole, non faccio altro che pensare alla zuppa calda e cerco di non mollare. Ma sono stanco, mi mancano le forze e cado. Un soldato si avvicina e urla di alzarmi, ma non ce la faccio, allora mi punta una pistola alla testa e dice che se non mi alzo mi uccide! Ho tanta paura, ma non riesco ad alzarmi. Ecco che i miei compagni buttano giù le scatole e attaccano il soldato facendolo cadere a terra dopo mi aiutano ad alzarmi e scappiamo. Ci nascondiamo dietro alle balle di paglia, ma i soldati ci trovano e ci portano a fare la doccia… entriamo in una grande stanza, sotto al soffitto si vedono tante docce. Non vedo l’ora di farmi la doccia così dopo andrò a gustare la mia zuppa calda! I tedeschi ci ordinano di levarci i vestiti ed io lo faccio velocemente così finisco prima! Aspetto che l’acqua mi bagna, lo so che sarà fredda, ma non m’importa la zuppa sarà calda…Volevo solo mangiare la zuppa calda…

Simona Saggio 3E

UNA PAURA INCANCELLABILE

SONO UNA DONNA, HO 50 ANNI E SONO UNA SOPRAVVISSUTA AI CAMPI DI CONCENTRAMENTO.

È iniziato tutto quando arrivai ad Auschwitz, era il 1943, c’erano tante persone: ragazzi, bambini, anziani, mamme e papà. Il Campo di concentramento era diviso in tre parti, di cui una in particolare riservata allo sterminio di noi ebrei, ma non potevamo immaginarlo. Pensavamo di essere stati portati lì per lavorare e poi, man mano, ci siamo resi conto che le persone diventavano sempre di meno, scomparivano nel nulla. Lavorando ogni giorno insieme ad altri bambini, ne conobbi uno, il suo nome era Joshua, l’unico con il quale riuscivo ogni tanto a sorridere. Io e il mio amico eravamo molto spaventati e speravamo ogni giorno che non ci portassero alla morte, pregavamo, pregavamo tanto. I giorni passavano, vedevo persone morire davanti ai miei occhi, altre soffrire, altre ancora dire addio ai loro figli. Dopo qualche mese quello che ormai era diventato il mio migliore amico fu portato via insieme ad altre decine di persone e non lo rividi mai più. Fu un colpo tremendo, non avevo più alcuna speranza di ritornare a casa, tra i miei giochi e i miei cari, di poter passeggiare di nuovo stringendo la mano di mia madre. Tremavo al solo pensiero che prima o poi sarebbe arrivato il mio turno. Ma un giorno non venne nessuno a dirci di lavorare, nessuno a dividerci per gruppi, nessuno a portare via nessuno, eravamo smarriti, non sapevamo cosa stesse per accadere. Il silenzio fu la nostra libertà. La guerra era finita ed io ero salva.

ORA SONO UNA DONNA, HO 50 ANNI E SONO SOPRAVVISSUTA AI CAMPI DI CONCENTRAMENTO.


Giorgia Galeota 3E

RACCONTARE E' UN DOVERE


Quando sono venuti a prendermi non sapevo cosa pensare. Tutto ciò che ricordo sono le urla dei nazisti. Poi, quel lungo viaggio in treno fino al campo dove ho lavorato ogni giorno spaccandomi la schiena e senza neanche sapere il perché. Forse per costruire armi, dicevano. Ma a me non interessava, avevo semplicemente paura e vivevo alla giornata, sperando di vedere un nuovo giorno. Io però fui abbastanza fortunato, un giorno arrivarono gli alleati e liberarono il campo. Non scriverò le atrocità che ho subito né la mia disperazione, la condizione disumana in cui fui messo.

Oggi comprendo di essere stato fortunato, anche se lo stesso non si può dire degli altri che hanno conosciuto l’orrore delle camere a gas.

Ma io sono qui.

Ed è mio dovere raccontarlo….


Lorenzo Celestino 3E