La forza della memoria. Le storie dei Giusti per insegnare il coraggio



Cos'è l'Olocausto? Cosa significa Shoah? In occasione della Giornata della memoria è importante capire il fenomeno e cercare di contestualizzarlo. Quale modo migliore per farlo che leggere cosa hanno scritto le persone che l'hanno vissuta in prima persona o che hanno saputo raccontarla a partire da testimonianze reali?

Ecco allora una raccolta di poesie e testi sulla Shoah che può servirti per capire meglio cosa è stato l'Olocausto e cosa ha significato per chi l'ha vissuto. E, soprattutto, per non dimenticarlo.

Se questo è un uomo

di Primo Levi

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per un pezzo di pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.



POESIA ANONIMA

Da domani sarà triste, da domani.

Ma oggi sarò contento,

a che serve essere tristi, a che serve.

Perché soffia un vento cattivo.

Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.

Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.

Forse domani splenderà ancora il sole.

E non vi sarà ragione di tristezza.

Da domani sarà triste, da domani.

Ma oggi, oggi sarò contento,

e ad ogni amaro giorno dirò,

da domani, sarà triste,

Oggi no.

Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941


La paura

Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,

un male crudele che ne scaccia ogni altro.

La morte, demone folle, brandisce una gelida falce

che decapita intorno le sue vittime.

I cuori dei padri battono oggi di paura

e le madri nascondono il viso nel grembo.

La vipera del tifo strangola i bambini

e preleva le sue decime dal branco.

Oggi il mio sangue pulsa ancora,

ma i miei compagni mi muoiono accanto.

Piuttosto di vederli morire

vorrei io stesso trovare la morte.

Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!

Non vogliamo vuoti nelle nostre file.

Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.

Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!

Eva Picková


Joyce Lussu, scrittrice partigiana, ha scritto C'è un paio di scarpette rosse ricordando la morte dei bambini nei campi di concentramento nazisti. La Shoah è stata anche questo: la morte di tanti bambini e anziani, considerati entrambi inadatti al lavoro e, dunque, improduttivi per il regime nazista. Nella poesia si parte da un'immagine: un paio di scarpette rosse numero 24 poste in cima a una pila di oggetti appartenuti ai prigionieri e ormai svuotati di anima.


C’è un paio di scarpette rosse

numero ventiquattro

quasi nuove:

sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica

“Schulze Monaco”.

C’è un paio di scarpette rosse

in cima a un mucchio di scarpette infantili

a Buckenwald

erano di un bambino di tre anni e mezzo

chi sa di che colore erano gli occhi

bruciati nei forni

ma il suo pianto lo possiamo immaginare

si sa come piangono i bambini

anche i suoi piedini li possiamo immaginare

scarpa numero ventiquattro

per l’ eternità

perché i piedini dei bambini morti non crescono.

C’è un paio di scarpette rosse

a Buckenwald

quasi nuove

perché i piedini dei bambini morti

non consumano le suole.

Questa è la vera storia di Ela Pasternak e Marian Kaminski, ebrei polacchi che hanno vissuto la guerra da bambini e che oggi testimoniano la loro storia, insieme ad altre voci, nel libro "I bambini raccontano la Shoah"


Una storia semplice di Ela Pasternak

Caro Marian,

sono seduta accanto alla finestra della cucina, con il mio bicchiere di tè fumante e ti guardo lavorare in giardino. Lo strudel è in forno e mi godo questi ultimi momenti di tranquillità prima che la truppa di nipoti torni dalla spiaggia per la cena di Shabbat.

Ti scrivo, anche se sei qui accanto a me. Ti scrivo perché le lettere sopravvivono al tempo e aiutano la mia memoria, ogni giorno più fragile.

Oggi ho sfogliato il vecchio album di famiglia e mi sono passati davanti i nostri sessant’anni anni insieme: noi due felici sullo slittino a Wroclaw ai tempi dell’Università, il matrimonio, le nostre famiglie, l’addio alla Polonia e il viaggio pieno di incognite in Israele, con una bimba appena nata. Ad attenderci qui c’era solo una misera casupola, con la terra battuta per pavimento e ci siamo dovuti adattare. Oggi guardo soddisfatta la nostra bella casa, l’ospedale in cui ho lavorato tanti anni come biologa, le scuole delle nostre figlie e il primo grattacielo in centro a Tel Aviv in cui tu hai passato tante ore lavorando come ingegnere. È stata una vita bella e intensa.

Nell’album ho rivisto te, bambino, nel 1938, seduto al grande tavolo nella casetta di Deblin, insieme a mamma Elisa, papà Leon e i nonni Natan e Sarah che tu adoravi. Ancora oggi, quando ti vedo staccare di nascosto e con l’aria birichina il «bacio» della pagnotta, mi viene da sorridere nel pensare a quel nonno speciale che ti viziava con il pane caldo e croccante della sua panetteria. Eri un monello e nella scuoletta ebraica ti divertivi a correre dietro alle galline della moglie del rabbino e a pizzicare la barba folta del maestro quando si addormentava accanto alla stufa. La mia infanzia è stata diversa, perché noi eravamo davvero poveri, anche se non mi è mai mancato nulla. Mio papà Moishe era rimasto orfano a soli dieci anni e aveva dovuto imparare a cavarsela da solo in fretta. Moishe, calzolaio e convinto comunista, a vent’anni ha conosciuto Malka Rosa, la mia mamma, una bella ragazza, minuta e silenziosa che lavorava come sarta e ricamatrice.

L’anno 1939 ha cambiato radicalmente la vita degli ebrei; io ero una bambina di quattro anni, con i capelli biondi e gli occhi azzurro fiordaliso e sentivo dentro di me la grande angoscia della mamma, mentre tu eri un bimbo di sei anni che stava per finire nelle mani dei nazisti. La mamma, la nonna e io siamo fuggite a piedi per raggiungere papà, che da oltre un mese scavava trincee per l’esercito polacco sul confine con l’Unione Sovietica. Quando abbiamo raggiunto il confine, hanno bloccato i treni stipati di migliaia di ebrei e siamo rimasti fermi per ore sulle rotaie. Un giovane ha tentato la fuga ed è stato sbranato vivo dai cani delle SS sotto i miei occhi. Anche la nonna è sparita e ancor oggi non sappiamo quale sia stata la sua fine.

Nei giorni successivi la mamma e io siamo riuscite a trovare papà e tutti insieme siamo stati trasportati a Krasnojarsk in Siberia. Vivevamo in un caseggiato del Kolkhoz, in una stanzetta con i letti di ferro e i materassi di paglia e usavamo una cucina in comune con gli altri profughi. Papà lavorava nel campo delle costruzioni e la mamma nella cucina della cooperativa, mentre io andavo all’asilo e imparavo il russo. Quando i nazisti hanno invaso l’Unione Sovietica nel giugno 1941, siamo fuggiti a piedi e abbiamo camminato per 350 chilometri, in direzione di Mosca, attraverso boschi e strade in fiamme e sotto i bombardamenti dei tedeschi. Avevo solo sei anni e ho visto cose orrende.

Finalmente siamo arrivati a Mosca, ma di lì ci hanno mandati nella Repubblica dei Ciuvasci, a duecento chilometri da Stalingrado. Ci hanno sistemati in una enorme fattoria «autogestita». Stavamo in un tugurio di argilla, senza acqua corrente, con una stufa enorme e ricoperta di piastrelle, su cui la sera ci coricavamo tutti insieme per dormire. Io andavo a scuola e ancora oggi ringrazio i russi perché mi hanno permesso di studiare. Posso vantarmi un po’? Ero sempre la prima della classe.

La tua sorte caro Marian, è stata ben diversa. Quando i tedeschi sono arrivati a Deblin, siete stati trasferiti nella zona esterna della città, vicino all’aeroporto militare, dove avevano creato un ghetto chiuso da un recinto. Stavi fermo tutto il giorno seduto sopra le poche patate portate di nascosto da tuo padre e quando gli uomini tornavano dal lavoro, le tagliavi a rondelle sottili e le facevi abbrustolire sulla stufa. Ti chiamavano «dottor Patata». Oggi sorrido, ma per quanti anni ti sei svegliato di notte, madido di sudore, per i terribili sogni che ti tormentavano?


Eppure il peggio doveva ancora venire. Nell’estate del 1943, con le grandi offensive da parte dell’Armata Rossa, vi hanno portati al campo di concentramento della santa città di Czestochowa. Anche lì non ti sei mai perso d’animo, nonostante dormissi su quelle strutture di legno grezzo a più piani, che non possiamo certo chiamare letti e la notte fossi in balia di freddo, sporcizia e topi. Di giorno lavoravi in fabbrica con la mamma, raccoglievi le pallottole che balzavano dal nastro della macchina e ci giocavi come fossero state biglie. Fu il kapò a farti passare la voglia di giocare, a forza di botte.

Mentre io ero in Russia e andavo a scuola, tu sei stato deportato con papà al campo di Buchenwald. Accanto alla porta, ogni giorno vedevi i morti della notte accumulati all’entrata. Sei cresciuto in fretta e nella vita hai sempre dimostrato grande coraggio ed empatia per chi soffre. Quando gli americani hanno cominciato a bombardare la zona di Weimar, i tedeschi vi hanno radunati tutti, ordinati in file e vi hanno costretti a marciare. Solo anni dopo abbiamo letto nei libri il nome di queste operazioni terribili: le marce della morte. Molti erano stremati e cadevano lungo la via, proprio quando la libertà era ormai a portata di mano. Dopo circa dieci km i soldati e i guardiani vi hanno abbandonati, la Germania era sconfitta, ormai la guerra era finita e il campo era libero. Tuo padre, come altri sopravvissuti, aveva capito che bisognava tornare lì per aspettare gli alleati e avere almeno un tetto sulla testa. E così avete fatto. Gli americani erano attenti, vi cucinavano solo del semolino, per aiutare lo stomaco a riabituarsi al cibo, ma tu hai continuato la tua attività di ladruncolo e ogni volta che ti era possibile rubavi del cioccolato.

Dopo la liberazione sei diventato il «cicerone» di Buchenwald; non so come facessi, ma accompagnavi le autorità e gli americani a vedere ogni angolo del campo: le latrine, le baracche degli esperimenti medici e perfino il crematorio, come se quell’orrore non ti facesse alcun male. In realtà non era affatto così, ma volevi tornare il prima possibile alla tua vita di ragazzino, con i tuoi genitori, in una vera casa, per giocare con gli amici e andare a scuola. Tuo padre era felice e fiducioso perché qualcuno gli aveva detto che sua moglie era viva e lo aspettava non lontano da lì, nel campo femminile. Allora, come si racconta in famiglia, ha compiuto un’altra sua spavalderia e prima di lasciare per sempre il campo è entrato in uno dei magazzini e ha rubato una pelliccia per lei.

La guerra era finita, era tempo di tornare a casa, di riprendersi in mano la vita e di provare a sanare la ferita, in un modo o nell’altro. Quando ti ho visto per la prima volta, nei corridoi del liceo, ho pensato che fossi davvero un tipo da conoscere: bello, sorridente e sicuramente poco studioso, ma assai intraprendente. Continuavo a essere innamorata dello studio e solo quando ci siamo trasferiti a Wroclaw per seguire i corsi in università, mi sono innamorata di te.

E ora eccoci qui, a ripercorrere 60 anni di vita insieme, una vita simile a quella dei nostri amici ebrei polacchi: Janek e Ida, Katriel e Tzipora, Zenek e Danka.

Caro Marian, la mia lettera di oggi si conclude qui, perché devo togliere lo strudel dal forno e apparecchiare la tavola per la cena. Ti scriverò ancora, forse domani, forse tra una settimana. Ti scriverò ogni volta che i ricordi cominceranno a sbiadire e dal tuo sguardo capirò che hai letto e che insieme a me conservi e proteggi la memoria della nostra vita.

È davvero meraviglioso che io non abbia lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare. Eppure me li tengo stretti perché, malgrado tutto, credo ancora che la gente sia veramente buona di cuore. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l'avvicinarsi del rombo che ci ucciderà, partecipo al dolore di migliaia di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno la pace e la serenità.

Il diario di Anna Frank


C'ERANO UOMINI


C'erano uomini, donne e ragazzini

c'erano vecchi e mamme con bambini.

C'erano lacrime e ricordi di vite già lontane

c'erano dolori, miserie e violenze disumane.

C'erano punizioni, lavori forzati e soldati

c'erano silenzi, uomini sporchi e malati.

C'erano eserciti, fili spinati e fredde prigioni

c'erano divise, numeri incisi ed esecuzioni.

C'erano stenti, fame e malattie

c'erano ghetti, campi ed epidemie.

C'erano pensieri ed esistenze troppo corte

c'erano attese palpitanti in promesse di morte.

C'erano cuori spezzati da addii definitivi

c'erano visioni di tramonti per quelli ancora vivi.

C'erano vergogne appese a un intelletto violento

ma anche sogni e speranze fino all'ultimo lamento.

Maria Ruggi