I campi di concentramento

"Il lavoro rende liberi"

Tra il 1933 e il 1945, la Germania Nazista e i loro alleati crearono più di 40.000 campi di concentramento e altre strutture carcerarie. Questi campi furono usati per diversi scopi, tra i quali i lavori forzati, la detenzione di chi era considerato nemico dello Stato, e l'eliminazione in massa dei prigionieri. Il numero complessivo di queste strutture continua a crescere grazie all'analisi dei dati lasciati dai Nazisti stessi.

Fin dal suo avvento al potere, avvenuto nel 1933, il regime Nazista aveva cominciato a realizzare una serie di strutture destinate a imprigionare e poi eliminare i cosiddetti “nemici dello Stato”. La maggior parte dei prigionieri, in quel primo periodo, era costituita da cittadini tedeschi: comunisti, socialisti, social-democratici, Rom (Zingari), Testimoni di Geova, omosessuali, e individui accusati di comportamenti ritenuti asociali o devianti. Queste strutture venivano chiamate “campi di concentramento” in quanto servivano a “concentrare” fisicamente i prigionieri in un unico luogo.

Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, nel marzo 1938, i Nazisti cominciarono ad arrestare gli Ebrei tedeschi ed austriaci e a imprigionarli nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen, in Germania. Dopo i violenti pogrom della Notte dei Cristalli (Kristallnacht) nel novembre del 1938, i Nazisti cominciarono ad arrestare in massa gli Ebrei adulti di sesso maschile, incarcerandoli poi nei campi per brevi periodi.

LE TERRIBILI IMMAGINI DELLE PIU' GRANDI "FABBRICHE DELLA MORTE"

Mauthausen. Un suicida

Mauthausen. Suicidi contro i reticolati

Interno del lager

LA DIVISA

IL PIGIAMA A RIGHE

LA STELLA DI DAVID

IL NUMERO

Tabella dei contrassegni diramata nel 1940 e nel 1941 a tutti i comandanti dei KL

Sistema di codifica dei contrassegni

Il sistema di codifica dei contrassegni serviva a classificare i prigionieri, generalmente in base a gruppi creati sulla base dei motivi dell'arresto. I simboli erano in stoffa, affibbiati sulla divisa, definita dai prigionieri Zebra a causa delle strisce chiare e scure alternate: sulla casacca, all'altezza del petto, sulla sinistra, e sui pantaloni, all'altezza della coscia destra. I criteri per l'identificazione degli internati variavano però a seconda dei luoghi di detenzione, e del trascorrere del tempo. L'assegnazione di un prigioniero a una categoria dipendeva in ogni caso dall'arbitrio della Gestapo; le suddivisioni si confusero e persero poi di valore con l'aumentare dei deportati da molti paesi, e con il progressivo sgretolamento del Terzo Reich.

AUSCHWITZ

Auschwitz fu il più grande dei vari complessi di campi di concentramento e svolse un ruolo fondamentale nell’attuazione della cosiddetta Soluzione Finale pianificata dai Nazisti. Auschwitz è ricordato come il più infame di tutti i campi di sterminio dell’Olocausto.

Il complesso di campi di concentramento di Auschwitz fu il più grande realizzato dal regime nazista. Esso comprendeva tre campi principali, tutti destinati inizialmente ai prigioneri selezionati per i lavori forzati. Uno di essi, però, funzionò anche come centro di sterminio per un periodo piuttosto lungo. I campi erano situati circa 45 chilometri ad ovest di Cracovia, vicino a quello che, prima della guerra, era il confine tra la Germania e la Polonia; quest'area si trovava in Alta Slesia, una regione che la Germania Nazista si era annessa nel 1939, dopo aver invaso e conquistato la Polonia. Le autorità delle SS crearono tre campi principali vicino alla città polacca di Oswiecim: Auschwitz I, nel maggio del 1940; Auschwitz II (anche chiamato Auschwitz-Birkenau) all'inizio del 1942; e Auschwitz III (o Auschwitz-Monowitz) nell'ottobre del 1942.

Auschwitz I - il campo principale - fu il primo a essere realizzato vicino a Oswiecim. La costruzione cominciò nel maggio del 1940 in una caserma abbandonata dell'artiglieria polacca, situata nei sobborghi della città. Per poter allargare i confini del campo, le autorità delle SS continuarono ad aumentare il numero di prigionieri da destinare ai lavori forzati. Durante il primo anno di esistenza di Auschwitz I, le SS e la polizia liberarono un'area di circa 40 chilometri quadrati e la decretarono "zona di sviluppo" ad esclusivo uso del campo. I primi prigionieri di Auschwitz inclusero sia Tedeschi trasferiti dal campo di concentramento di Sachsenhausen, in Germania, dove erano stati incarcerati come criminali recidivi, sia prigionieri politici Polacchi provenienti da Lodz e che erano già stati detenuti a Dachau e a Tarnow. Entrambi questi campi erano situati nel distretto di Cracovia, all'interno del Governatorato Generale, cioè quella parte di Polonia occupata dai Tedeschi ma non formalmente annessa alla Germania Nazista; questo territorio in parte era sotto l'amministrazione della Prussia Orientale, in parte era stato incorporato nella zona di Unione Sovietica a sua volta occupata dai Tedeschi.

Come la maggior parte dei campi di concentramento tedeschi, anche Auschwitz I era stato costruito con tre obiettivi: 1) incarcerare a tempo indeterminato nemici veri e presunti del regime nazista e delle autorità tedesche d'occupazione in Polonia; 2) avere rifornimento continuo di manodopera da destinare ai lavori forzati nelle imprese - per la maggior parte edili - di proprietà di membri delle SS (e più tardi negli impianti per la produzione di armamenti e di altri prodotti bellici); 3) eliminare fisicamente piccoli gruppi all'interno della popolazione, la cui morte veniva ritenuta essenziale da parte delle SS e delle autorità di polizia per la sicurezza della Germania Nazista. Come molti altri campi di concentramento, Auschwitz I aveva una camera a gas e un crematorio. Inizialmente, gli ingegneri delle SS costruirono un'improvvisata camera a gas, sotto al blocco dei prigionieri, il Blocco 11. Più tardi, una camera a gas più grande e permanente venne costruita come parte di quello che in origine era solo il crematorio, in un edificio separato e al di fuori della zona occupata dai prigionieri.

Nell'ospedale di Auschwitz I, nel Blocco (o Edificio) 10, i medici delle SS effettuarono esperimenti pseudo-scientifici su neonati, su gemelli, su pazienti affetti da nanismo, sottoponendo molti adulti alla sterilizzazione, alla castrazione e a prove di ipotermia. Tra i medici, il più tristemente famoso divenne il Capitano delle SS Josef Mengele.

Tra il crematorio e l'edificio destinato agli esperimenti si trovava il cosiddetto "Muro Nero" dove le guardie delle SS effettuarono le esecuzioni di migliaia di prigionieri.

IL CAMPO AUSCHWITZ I: 1944


C’ERANO BAMBINI NEI CAMPI?


Le biografie di coloro che, essendo arrivati nel campo molto giovani, sono sopravvissuti al sistema concentrazionario sono di certo molto interessanti, ma siamo spesso di fronte a preadolescenti, piuttosto che a bambini. Se si pensa di voler affrontare anche con allievi molto piccoli il tema dell’internamento e della vita nel campo, il caso di Liliana Segre, della quale sono disponibili in rete molti filmati di testimonianza e che ha scritto diversi libri adatti anche ad un giovane pubblico può essere un buon punto di partenza, che troviamo molto interessante accostare, nella presentazione, a quella di Bogdan Bartnikowski, autore del testo Infanzia dietro il filo spinato, che negli ultimi tre anni ha testimoniato la sua esperienza nel campo di Auschwitz alle scolaresche e alla cittadinanza di Novara.

Mentre Liliana arriva ad Auschwitz come deportata razziale e lavora come schiava al servizio del Reich, Bodgan e gli altri ragazzi polacchi di cui ci parla sono stati arrestati durante l’insurrezione di Varsavia e, pur vivendo nelle baracche sottoposti al caldo, al freddo e alla privazione del cibo, non sono costretti al lavoro coatto se non nell’ultima fase della prigionia.

LA MENZOGNA DI TEREZIN

Terezín (in tedesco Theresienstadt) è una piccola città nella regione di “Ústí nad Labem” nella Repubblica Ceca, a circa sessanta km a nord di Praga. Già famoso per essere stato il luogo di prigionia e morte di Gavrilo Princip, durante la seconda guerra mondiale fu sede di un campo di concentramento, ora museo dedicato tanto alla prigionia e al campi di concentramento in senso lato che alla sezione documentaristica di rilevante interesse storico.

Alla fine del XVIII secolo l’imperatore d’Austria Giuseppe II aveva voluto la progettazione di una città-fortezza al centro della Boemia, alla quale fu dato il nome di Theresienstadt, città di Teresa (Terezín, di Teresa in ceco), in onore di sua madre, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria.

La città fortezza fu realizzata con la supervisione di Clemente Pellegrini, architetto militare di Verona, dal 1780 al 1790.

Concepita come una città militare e costruita per proteggere Praga dai possibili attacchi prussiani provenienti da nord, Terezín venne eretta all’altezza della ramificazione del fiume Ohře (in tedesco Eger), un affluente dell’Elba. Nei pressi del ramo ad ovest venne costruita una fortezza più imponente (grande fortezza) e a est una fortezza più piccola (appunto piccola fortezza), distanti circa un chilometro tra loro.

Durante la Seconda Guerra Mondiale la Gestapo utilizzò Terezín come campo di concentramento in cui furono imprigionati circa 144.000 ebrei, dei quali 33.000 morirono in loco, soprattutto per le condizioni inumane, fame, stress, malattie e un’epidemia di tifo verso la fine della guerra. Circa 88.000 prigionieri furono deportati A Est, verso Auschwitz ed altri campi di sterminio.

A Terezín vennero condotti molti artisti, musicisti e intellettuali famosi che per i nazisti era problematico far scomparire di colpo. Vari pittori decisero di mettere le loro capacità al servizio della denuncia, quantomeno della memoria, di quanto accadeva a Terezín. Il gruppo di artisti clandestini più importante lavorava all’ombra della cosiddetta Sala progetti dell’Ufficio Tecnico, situata al primo piano della caserma Magdeburgo.

Infatti, la Sala progetti dipendeva dal Consiglio ebraico ed aveva il compito di elaborare carte e statistiche, illustrate da disegni precisi nei dettagli, quando le SS lo richiedevano. Da quella stanza uscirono i progetti di un nuovo sistema fognario, di un impianto idrico e del crematorio (costruito nel 1942).

Di sera però e ovviamente di nascosto, tuttavia, venivano dipinti numerosi quadri, oggi in mostra permanente presso la caserma Magdeburgo, che descrivono minuziosamente la vita quotidiana del ghetto: alloggi sovraffollati, carri funebri imposti dai nazisti come unico mezzo di trasporto per le persone e per il cibo all’interno della Grande Fortezza, le file interminabili per ottenere un po’ di cibo, per finire con le meste processioni di coloro che andavano alla stazione per essere deportati. Tra questi pittori disposti a trasformare la loro arte in strumento di resistenza ricordiamo Bediřch Fritta, Otto Ungar, Leo Haas e Ferdinand Bloch.

Le testimonianze storiche riportano che tra il ‘42 ed il ’45 a Terezin arrivarono 15.000 bambini, di questi sopravvisse solo un centinaio. Terezín diventò il ghetto dell’infanzia, una delle invenzioni più mostruose del nazismo,una incancellabile vergogna della storia.

I bambini erano ignari del processo storico di cui erano vittime e della macchina di distruzione nazista che li annientava ogni giorno. Una menzione particolare va a Helga Weissová, ebrea praghese che fu internata con la sua famiglia nel 1942, a dodici anni. Malgrado la tenera età fu capace di documentare in modo efficace tutto quello che vedeva,viveva e provava anche per via degli stimoli ricevuti da suo padre.

Tra i numerosi disegni, un posto di rilievo occupano i manifesti di concerti e serate musicali, scenografie per spettacoli teatrali o cabaret particolarmente sofisticati.

Piccoli gruppi di musicisti si esibivano di sera, nelle soffitte delle caserme adibite a dormitori. I nazisti richiedevano opere raffinate e complesse per le quali occorreva un’intera orchestra, finirono così per essere rappresentati vari balletti e opere liriche (La sposa venduta, Le nozze di Figaro, Carmen), mentre una band, The Ghetto Swingers, suonava musica jazz. I bambini misero in scena un’opera intitolata Brundibár, con musiche di Hans Krása, dirette da Rafael Schächter.

L’opera, composta a Praga nel 1938, fu rappresentata per la prima volta a Theresienstadt il 23 settembre 1943, con il contributo attivo di molti bambini del ghetto. Le repliche furono innumerevoli, nei luoghi più disparati del ghetto. Hans Krása (internato a Terezín il 10 agosto 1942) fu trasferito ad Auschwitz dove fu ucciso il 18 ottobre 1944. Si salvò invece il librettista di Brundibar, Adolf Hoffmeister, che trovò rifugio a Londra.

Tra gli altri sopravvissuti al campo, va ricordata la famiglia Krauders, poi Klíma, poiché Il cognome originale fu modificato dalla sua famiglia durante l’occupazione nazista della Cecoslovacchia. Durante la II guerra Ivan e Jan, i due bambini dei coniugi Klíma, che furono prigioniero nel campo di concentramento della città ghetto di Terezín per tre anni e mezzo sopravvissero divenendo i due unici testimoni ad essere rimasti (e sopravvissuti al campo) dal giorno del loro arrivo, fino alla liberazione sovietica. Ivan Klíma diventerà poi il famoso scrittore, tra i protagonisti assoluti della scena letteraria del Novecento ceco.

Voglio raccontare a questo punto una storia particolarmente intensa, inedita e forse del tutto sconosciuta in Italia. Una storia intrisa di tenerezza, che coinvolge anche le lettrici e i lettori più piccoli. Un racconto di vita e di morte che intendiamo condividere con tante e tanti che non hanno avuto la mia stessa “fortuna” di un contatto diretto con i protagonisti, un racconto di vita vissuta e strappata, ma anche il seme di una speranza che talvolta mitiga le atrocità dei ricordi dello sterminio più clamoroso e grande della Storia.

Si tratta della narrazione di un’esperienza vissuta a Terezín di cui sono venuta a conoscenza grazie proprio a Ivan Klíma, lo scrittore della Repubblica Ceca che studio ormai da anni e traduco in italiano e con il quale ho un importante rapporto personale, anche per via dei miei mai esaustivi tentativi di ricostruire e ritrovare pezzi di memoria, di dare un volto ai nomi, di dare un nome a tante vite mai vissute. Come ho già detto, Klíma è sopravvissuto assieme alla sua famiglia al campo di concentramento di Terezín.

A Terezín, nella Piccola Fortezza, come per miracolo riuscì a salvarsi il piccolo Tomáš, di appena quattro anni, figlio del pittore Bedřich Fritta e di Hansi, sua moglie. Ma ripercorriamo la loro storia.

Bedřich Fritta, pseudonimo di Fritz Taussig, era un celebre pittore, caricaturista e grafico ceco che giunse a Terezín con la sua famiglia il 4 dicembre del 1942 con uno dei primi trasporti. Nel ghetto lavorava nella sala progetti dell’ufficio tecnico, il luogo in cui di sera tardi e di notte in gran segreto si producevano disegni e quadri che documentavano la vita nel ghetto – l’arrivo e la partenza dei trasporti, la sofferenza quotidiana, la morte dei più anziani, le bare ammassate nell’obitorio – Alcune di queste opere furono scovate dalle SS durante le perquisizioni nel ghetto e Bedřich Fritta, Leo Haas, Otto Ungar e Fredinand Bloch furono fatti prigionieri (mi chiedo come si può essere prigionieri in un campo di prigionia) con l’accusa di “propaganda dell’orrore” e dopo essere stati interrogati furono deportati con le loro rispettive famiglie nella prigione della Gestapo nella Piccola Fortezza il 17 luglio del 1944.

La maggior parte di loro non sopravvisse alle sofferenze: B. Fritta era già malato e il 26 ottobre del 1944 assieme a Leo Haas fu deportato ad Auschwitz, dove morì poco dopo il suo arrivo. La moglie Hansi perì di tifo nella Piccola Fortezza il 13 febbraio del 1945. Il piccolo Tomáš invece sopravvisse grazie alle cure della moglie di Haas, Erna, con la quale rimase fino alla fine della guerra.

Leo Haas sopravvisse ai campi di concentramento di Auschwitz, Sachsenhausen, Mauthausen e Ebensee e fu l’unico tra gli artisti a resistere fino vedere la liberazione. Dopo la guerra Erna e Leo Haas adottarono il piccolo Tomáš e si trasferirono a Praga: Erna morì per via degli strascichi della prigionia nel 1945 (si sa, il corpo conserva sempre la memoria del dolore), Tomáš Fritta Haas crebbe a Praga ma dopo l’occupazione sovietica del 1968 si trasferì in Israele e un po’ prima della guerra del Kippur, nel 1973, andò a vivere nella Repubblica Federale Tedesca, ebbe quattro figli e ha vissuto tra Praga e Mannheim fino alla sua morte, avvenuta nel 2015.

Tomáš aveva ereditato dal suo papà un libricino di quadretti che Bedřich aveva dipinto per lui a Terezín come regalo per il suo terzo compleanno (22 gennaio 1944). Fritta nascose il libro nel ghetto di Terezín poco prima del suo arresto e Leo Haas lo ritrovò dopo la liberazione assieme ad altri disegni e li diede a Tomáš che ricordando il padre disse: L’unica cosa che mi rimane, che mi appartiene, che è stata fatta solo per me, è il mio libro, un libro regalato da mio padre. In questo libro sento lui, sento le sue lacrime, la sua speranza, la sua paura. I disegni contenuti nel libricino mostrano il mondo dall’altra parte delle mura di Terezín, un mondo approssimativamente simile a quello che avrebbe potuto essere il futuro dopo la guerra: treni in corsa verso la libertà, finestre sul mondo, un bimbo giocoso,situazioni familiari serene, oggetti e ambienti a colori, il sole, la luce. Nero, giallo e a volte un po’ di rosa, erano i colori utilizzati da Fritta, non per scelta stilistica ma per le necessità dettate dalle privazioni del ghetto. L’artista, nonostante avesse a disposizione qualche cartoncino e poco inchiostro riuscì a dare vita a una serie di opere sfuggite alla censura nazista e arrivate intatte fino ai giorni nostri. Le sue opere così come tutta l’arte creata a Terezín sono assimilabili a una forma di resistenza, di lotta, di speranza.

Nello stesso periodo di Tomáš Fritta a Terezín visse anche un altro ragazzino un po’ più grande che al ghetto era arrivato da Praga nel dicembre 1941. Anche lui viveva lì con i suoi genitori e il fratello Jan nella caserma Magdeburgo, in uno stanzino piccolissimo, proprio sopra il portone posteriore. Accanto, in un luogo simile, abitavano i pittori Fritta, Ungar e Haas con le loro famiglie. Il ragazzino più grande li osservava compiaciuto mentre lavoravano e voleva diventare un pittore anche lui.


Leo Haas dipinse un ritratto per lui, Fritta regalò al di lui fratellino per il compleanno un libricino simile a quello di Tomáš, anche se con meno disegni ma è andato perso, così come sono andati persi la maggior parte dei quadri e dei documenti di quel tempo. Un giorno sparirono anche i pittori Fritta, Ungar e Haas. Li portarono via chissà dove con le mogli e i bambini e sparì anche il piccolo e piagnucolone Tomáš ben protetto dalla signora Erna Haas.

Il ragazzino più grande alla fine non divenne un pittore e nel ghetto compì i suoi primi tentativi di componimenti letterari: dopo la fine della guerra scrisse tanti racconti meravigliosi e romanzi straordinari, fino a diventare uno dei migliori scrittori del Novecento, in corsa per il premio Nobel. Ricordando gli anni vissuti a Terezín ha scritto il racconto Miriam e vari altri racconti (noti in Italia grazie alle mie traduzioni) e quell’esperienza ha sempre segnato i suoi lavori letterari. Quel ragazzino, all’epoca undicenne, è Ivan Klíma. I due ex bambini di Terezín, Ivan e Tomáš, si incontrarono nuovamente solo molti anni dopo la fine della guerra quando Ivan Klíma scrisse i commenti e le riflessioni per il libricino a colori di Tomáš Fritta con il titolo evocativo Del ragazzino che non divenne un numero.

ALCUNE POESIE DEI BAMBINI DI TEREZIN


Voi, nuvole grigio acciaio

Voi, nuvole grigio acciaio, dal vento frustate,

che correte verso mete sconosciute

Voi, portatevi il quadro dell’azzurro cielo

Voi, portatevi il cinereo fumo

Voi, portatevi della lotta il risso spettro

Voi, difendeteci! Voi, che siete fatte solo di gas.

Veleggiate per i mondi, semplicemente, spazzate dai venti

come l’eterno viandante aspettando la morte

voglio una volta così come voi – i metri misurare

di lontananze future e non tornare più

Voi, cineree nuvole sull’orizzonte

Voi, siate speranza e sempiterno simbolo

Voi, che con il temporale il sole coprite

Vi incalza il tempo! E dietro a voi è il giorno!

Vedem, Hanu Hachenburg (1929 morto nel 1944)

Sono Ebreo

Sono ebreo ed ebreo resto

anche se dalla fame morirò

così al popolo non recherò sconfitta

sempre per il mio popolo sul mio onore combatterò

Orgoglioso del mio popolo sono

che onore ha questo popolo

sempre sarò appresso

sempre di nuovo vivrò

Franta Bass

Nostalgia della casa

E’ più di un anno che vivo al ghetto,

nella nera città di Terezin,

e quando penso alla mia casa

so bene di che si tratta.

O mia piccola casa, mia casetta,

perché m’hanno strappato da te,

perché m’hanno portato nella desolazione,

nell’abisso di un nulla senza ritorno?

Oh, come vorrei tornare

a casa mia, fiore di primavera!

Quando vivevo tra le sue mura

io non sapevo quanto l’amavo!

Ora ricordo quei tempi d’oro:

presto ritornerò, ecco, già corro.

Per le strade girano i reclusi

e in ogni volto che incontri

tu vedi che cos’è questo ghetto,

la paura e la miseria.

Squallore e fame, queste è la vita

che noi viviamo quaggiù,

ma nessuno si deve avvedere:

la terra gira e i tempi cambieranno.

Che arrivi dunque quel giorno

in cui ci rivedremo, mia piccola casa!

Ma intanto prezioso mi sei

perché mi posso sognare di te.

1943 Anonimo

Lacrime

E dopo di loro la rassegnazione giunge,

lacrime

senza le quali la vita non è,

lacrime

ispirazione alla tristezza

lacrime che scendono senza tregua

Alena Synkovà


Lettera a papà

Mammina ha detto, che oggi debbo scriverti

ma ho avuto tempo, nuovi bimbi sono arrivati

dagli ultimi trasporti e giocare volevo

non mi accorgevo come fugge l’istante.

Mi sono sistemato, dormo sul materasso

per terra, per non cadere.

Almeno non c’è bisogno di farsi il letto

ed al mattino dalla finestra vedo il cielo.

Ho un po’ tossito, ma non voglio ammalarmi

così sono felice quando corro in cortile.

Oggi da noi una veglia si terrà

proprio come in estate al campo degli scout.

Canteremo canzoni conosciute

la signorina suonerà la fisarmonica.

So che ti meravigli di come stiamo bene

e che sicuramente ti rallegreresti di stare qui con me.

Qualcos’altro, papà: vieni qui presto

e sia più lieto il tuo volto!

Quando sei triste, mammina allora si dispiace

e dei suoi occhi mi manca lo splendore.

E hai promesso di portarmi i libri

che veramente da leggere non ho nulla,

per favore vieni domani prima che sia buio

del mio grazie puoi essere sicuro.

Ormai debbo finire. Da parte della mamma ti saluto

con impazienza aspetto il suono dei tuoi passi

nel corridoio. Prima che di nuovo con noi sarai

ti saluta e ti bacia il tuo fedele ragazzo.

Hajn

E’ così

In quella che è chiamata la piazza di Terezin

è seduto un piccolo vecchio

come se fosse in un giardino.

Ha la barba e un berretto in testa.

Col suo ultimo dente

mastica un pezzo di pane duro.

Mio Dio, col suo ultimo dente:

invece d’una zuppa di lenticchie

povero superstite!

“Koleba”:

M. Kosck nato il 30.3.32 morto il 19.10.44 ad Auschwitz

H. Loewy nato il 29.6.31 morto il 4.10.44 ad Auschwitz

Bachner (dati anagrafici non accertati)

La stella di David

Dal 6 settembre del 1941, per gli Ebrei ci fu l’obbligo di indossare la Stella di David con soprascritta la parola “Jude – giudeo”. Spesso era di colore giallo, e inizialmente veniva utilizzata durante la shoah per identificare il popolo Ebraico, e venne chiamata la Stella Ebrea. La parola jude, scritta sopra alla stella, quasi sempre era tradotta in lingua locale. Nella Polonia occupata gli ebrei vennero costretti a portare una fascia sul braccio con una Stella di Davide sopra, come anche una pezza davanti e dietro i propri indumenti.

Successivamente, anche gli ebrei nei campi di concentramento vennero costretti a portare simili distintivi. Dovunque i nazionalsocialisti obbligavano gli ebrei ad indossare vestiti con cucita la stella di David per farsi riconoscere. L’obbligo era esteso a tutti gli ebrei sopra i sei anni, in tutte le aree occupate dalla Germania Nazista sotto il comando di Adolf Hitler.

La stella di David o meglio lo scudo di David o anche sigillo di Salomone, è la stella a sei punte che rappresenta la cultura e la religiosità ebraica.

Il numero

I numeri di matricola attribuiti ai prigionieri, Häftlingsnummer, che sostituivano il nominativo degli internati, erano affibbiati sulla divisa, scritti in nero su stoffa bianca, posti all'altezza del cuore e al centro della coscia destra, talvolta riportati su una placchetta di latta da portare al collo o al polso, oppure tatuati sull'avambraccio.