Avrà poi il ruolo, al tempo delle leggi razziali, di ufficiale medico referente del quartiere popolare di San Lorenzo a fianco del collega Giorgio Piperno, ebreo. La difesa di questa amicizia lo portò all’essere depennato dall’albo dei medici, nonché sospeso di grado.
Nel maggio 1943, poco prima che gli alleati sbarcassero in Sicilia, è richiamato alle armi. Anche le fonti più accurate fanno fatica a sbrogliarne la biografia per trovare il momento preciso in cui nacque la contraddizione che fece di lui una medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza.
«Non sono nato per una vita facile, io. Amo l’imprevisto e nell’assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero… Vado verso l’ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto», riporta nel suo diario.
A inizio settembre del ’43 il rischio diventa l’inizio della rottura e Manlio si trova già dall’altra parte della barricata, partecipando attivamente alle sparatorie contro i tedeschi intorno alla stazione Termini.
Dopo un necessario giro di incontri con le bande partigiane che agivano nel viterbese, non passò troppo tempo prima di vederlo a capo delle formazioni partigiane che operavano tra il Soratte, il lago di Bracciano e il Cimino.
Arrestato due volte, la seconda fu letale: il 13 gennaio 1944 fu beccato tra piazza del Popolo e piazzale Flaminio, portato in via Tasso, dove nella cella numero 5 subì 76 giorni di torture che finirono con un colpo alla testa alle cave sull’Ardeatina. Fu tradito. Un tale Mario Pistolini, avvocato che in realtà si chiamava Alberto, una spia dei nazifascisti che abitava al Flaminio, denunciò molti partigiani adescandoli con alcune consulenze legali.
«Anche il mio fisico soffre molto. Il cibo è insufficiente e sono denutrito e stanco. Ho fame, sempre fame. Non ho quasi più la facoltà di pensare», via Tasso, febbraio 1944.