È bene, prima di ogni cosa, precisare che la definizione “cripta” è errata. In realtà Sant’Ugo è una ecclesia a tutti gli effetti. La successiva edificazione della nuova chiesa dei SS.Filippo e Giacomo posizionata più a monte e il suo ampliamento hanno fatto sì che la chiesa fosse inglobata dalle mura del tempio superiore facendone, di fatto, il sotterraneo ma certamente non la cripta.
La datazione di Sant’Ugo è incerta. Sappiamo, dal Chronicon farfense che, nell’829, essa era una delle tre chiese di Montegranaro, insieme a San Pietro (non l’attuale ma costruita poco distante dall’attuale, con una posizione più a monte) e Santa Maria in Montaspice, l’attuale chiesa del SS.Crocifisso. È, quindi, ragionevolmente pensabile che la chiesa sia ben più antica ma non possiamo avere dati certi per datarla. Essa era parte di un monastero benedettino costruito a ridosso delle mura castellane, monastero successivamente trasformato in silvestrino proprio ad opera del Beato Ugo.
È molto particolare la struttura della chiesa: lunga e stretta, con la volta a botte. Le finestre sono piccole e strombate. Il finestrone frontale sul presbiterio rappresenta la «porta del cielo», mentre l’attuale ingresso, dove è incastonata una pietra in travertino riportante un’incisione latina, era forse un ingresso secondario riservato ai monaci. Il pavimento e l’altare attuali sono stati realizzati negli anni ’50 del XX secolo.
La chiesa di Sant’Ugo riveste grande importanza nel panorama della storia dell’arte italiana perché al suo interno possiamo ammirare diversi affreschi con datazioni differenti che ci danno l’opportunità di constatare, nel giro di pochi metri, l’evoluzione stilistica della pittura dal XIII al XVI secolo. In particolare il primo ciclo, databile al 1299 e attribuito ad un anonimo artista denominato Maestro di Sant’Ugo o Maestro di Montegranaro, è estremamente rilevante perché anticipa i temi stilistici poi trattati magistralmente da Giotto pochi anni dopo: diversi piani prospettici, la plasticità delle figure, la rappresentazione del sentimento e la narrazione temporale sono prerogative dell’arte giottesca che, in sant’Ugo, troviamo anticipata a dimostrazione che Giotto è l’apice di un’evoluzione stilistica già iniziata da tempo.
Notevoli le allegorie presenti in quasi tutti i dipinti. È bene ricordare che l’arte medievale aveva anche e soprattutto funzione di catechesi per i fedeli che, per la stragrande maggioranza, erano analfabeti. Da qui l’uso della narrazione figurativa e delle allegorie, il cui significato, oggi, non è più molto chiaro come poteva essere all’epoca in cui i dipinti vennero realizzati, come vedremo in seguito.
Partendo dalla parete destra i primi tre dipinti sono affreschi strappati dalla parete opposta durante il primo restauro eseguito, per ordine di don Dante Filomeni, allora priore di SS.Filippo e Giacomo, negli anni ’60 del XX secolo, e posti su un supporto sintetico per una loro migliore conservazione.
Il primo rappresenta San Paolo che conferisce con il committente dell’opera, ossia colui che incaricò il Maestro di Sant’Ugo di affrescare la chiesa. Dalle vesti si direbbe trattarsi dello stesso abate del monastero. La figura di San Paolo è riconoscibile dal capo calvo e dalla spada che, però, in questo caso è sguainata, contrariamente all’iconografia classica che la rappresenta solitamente nel fodero o infissa a terra. Il committente è rappresentato da una figura umana di piccole dimensioni che si erge al di sopra di un volto di un santo, di chiaro stile bizantino e, quindi, certamente anteriore, dipinto sicuramente salvato dall’artista e inglobato nella sua opera. Questo ci offre la possibilità di confrontare i due stili: in quello più antico la figura è statica, ieratica, lo sguardo è fisso; le figure umane ritratte dal Maestro di Sant’Ugo sono in movimento, gli sguardi sono mobili, traspaiono emozioni, tutto ciò in funzione della narrazione e della rappresentazione allegorica. In questa figura troviamo, in alto, la scritta che ci dà la datazione del ciclo di affreschi attribuito al Maestro di Sant’Ugo (MCCLXXXXVIIII).
Il secondo affresco rappresenta i due fondatori dell’Ordine Benedettino, San Benedetto e Santa Scolastica, in uno dei rari incontri tra i due gemelli dopo la fondazione dei rispettivi monasteri. È interessante notare lo sguardo dei due che si fissano e loro movimenti che risultano essenzialmente speculari. Notevoli anche le vesti e le loro decorazioni.
Il terzo dipinto strappato raffigura il Martirio di Santa Barbara per opera del suo stesso padre. Qui vediamo i diversi piani prospettici e la narrazione del fatto per figure: il Magistrato romano (a sinistra) che condanna a morte la Santa obbligando il padre Dioscoro (al centro, mentre già rimette la spada nel fodero) ad eseguire la sentenza e infine, più in basso, la Santa decapitata ma sorridente. Sopra il capo della Santa si legge la scritta “Barba..”.
Gli affreschi successivi, lungo la parete sinistra, ritraggono in sequenza: Sant’Amico, due Santi agostiniani e Sant’Ugo. Sono pitture risalenti al XIV secolo e sono opera di mani differenti. Lo stile è evidentemente gotico e lo si nota maggiormente nell’affresco centrale dove è stato realizzato una sorta di polittico in affresco. I due santi laterali rappresentano una sorta di simmetria per via del miracolo del lupo operato da entrambi.
Nell’affresco raffigurante il Miracolo del lupo di Sant’Amico (a destra), la figura dell’animale non è più visibile. Identifichiamo il santo per la presenza della roncola. La leggenda narrata è quella del Santo, abbate dell’abazia di Rambona, che intento a far legna viene aggredito da un lupo che uccide il suo somaro. Il santo ammansisce il lupo e gli carica la soma per fargliela portare al monastero. L’iconografia classica di Sant’Amico lo raffigura, appunto, con la roncola e con il lupo dotato di soma.
Nell’affresco raffigurante il Miracolo del lupo di Sant’Ugo (a sinistra), la figura del Beato è quasi completamente scomparsa e ne rimangono una parte dell’aureola e frammenti del saio. Si vede benissimo, invece, il lupo che tiene in bocca un ragazzino con un bosco sullo sfondo e, poco più avanti, una chiesa. Particolare lo stile utilizzato per realizzare il fogliame del bosco applicando una tecnica di rimozione del colore.
L’affresco successivo è una maestosa Crocifissione sull’Albero della Vita, anch’essa databile al XIV secolo. Il Cristo non è crocifisso in croce ma su questa figura teologica, riferibile a San Bonaventura, chiamata, appunto, Albero della Vita. L’albero e il Crocifisso si fondono in un'unica figura le cui ramificazioni raggiungono una moltitudine di personaggi dell’Antico Testamento, ognuno dei quali regge un cartiglio con su scritto il proprio nome e alcuni versi che lo identificano. Tutti hanno lo sguardo rivolto verso il Cristo tranne Daniele che, però, lo indica con la mano. Al vertice del dipinto troviamo l’allegoria del Pellicano che si strappa le penne dal petto e ne fa sgorgare il sangue col quale nutre i suoi pulcini, simboleggiando il sacrificio del Cristo. Leggermente sotto la particolare figura della Vergine incastonata nella Pisces o Mandorla, anch’essa allegoria della vita.
Raggiungiamo quindi il presbiterio dove ritroviamo l’opera del Maestro di Sant’Ugo in una sequenza di temi evangelici. Si parte con Il Battesimo di Gesù al Giordano dove possiamo ammirare un Gesù dal corpo estremamente definito nell’atto di essere battezzato dal un imponente San Giovanni Battista vestito di un mantello di montone (lo stesso che troveremo più avanti sul vello delle pecore della Natività). Gesù è immerso nelle acque del Giordano rappresentate da onde realizzate con pennellate bianche, in mezzo alle quali si notano, appena accennati, diversi pesci, anch’essi allegoria del Cristo.
Di seguito troviamo L’Adorazione dei Magi, in cui si notano i tre re orientali nell’atto di adorare la vicina Natività. Le tre figure rappresentano le tre età della vita: l’uomo anziano, quello maturo e il giovane. Vicino a loro ci sono le cavalcature, strani cammelli o dromedari realizzati ignorandone la reale forma ma attingendo a descrizioni dell’epoca. Particolare il fatto che le zampe dei cammelli sono sette anziché dodici e che la palma che si staglia sullo sfondo rappresenta una sortas di errore prospettico. Entrambe, invece, sono allegorie.
La Natività che troviamo in sequenza, anche se molto rovinata, lascia bene vedere, in alto, il coro degli Angeli sopra la mangiatoia contenente Gesù Bambino, il bue e l’asinello e la Madonna puerpera stesa su una sorta di triclinio, con un’inconsueta rappresentazione orientaleggiante. A sinistra San Giuseppe e a destra pecore (col vello simile al mantello del Battista) e un cane. Tra San Giuseppe e gli animali si taglia un tondo rappresentante Il Bagnetto di Gesù.
Girando l’angolo dell’abside possiamo vedere due dipinti rappresentanti l’inizio e la fine del Vangelo. Infatti in alto, alla destra della finestra, ammiriamo una bellissima Annunciazione con una Vergine stupenda e, sullo sfondo, elementi architettonici che fanno pensare alla Santa Casa e al Santuario di Loreto. Dall’altro lato della finestra probabilmente vi era l’Arcangelo Gabriele oggi completamente scomparso. In basso ci sono Le Tre Marie al Sepolcro e il sepolcro con due Angeli a farvi da guardia. Il complesso degli affreschi rappresenta una raffigurazione particolare della Porta del Cielo laddove la Porta stessa non è solo raffigurata ma fisica, rappresentata dalla monofora.
La volta sopra l’altare è completamente affrescata con uno cielo stellato blu scuro e stelle color oro di forma bizantina. Si riconoscono quattro tondi con, all’interno, i simboli dei quattro Evangelisti e ciò che rimane di un tondo centrale ormai quasi completamente illeggibile. L’affresco doveva correre lungo tutta la volta della chiesa ma ne è rimasta solo la porzione absidale.