L'ESTRATTO
"Ho un ricordo nitido di quel giorno, so che ciò che è accaduto avrebbe dovuto, in qualche modo, aiutarmi a comprendere, avrebbe dovuto togliermi dalla testa quel film di cui non sono mai stata protagonista. Ma lo amavo. Ero scivolata dentro la scia salmastra del suo dopobarba, dentro le sue labbra umide e mute incollate alle mie, nelle sue unghie, nella sua testa.
E poi piangevo.
Perché sentivo che quell'amore balordo era solo mio, era sprofondato nella stessa, immutata desolazione della mia vita, come un veleno."
Cos’è la felicità e perché affannosamente tutti la vogliono? Ognuno prova a cercarla investendo e sperando in un futuro differente, perché perennemente insoddisfatto del proprio presente. Alcuni si incatenano a felicità pregresse inseguendole, rievocandole, rinunciando così a vivere. Altri sono zavorrati da un passato duro e ostile che ha condizionato scelte e imposto sbagli.
La giovane protagonista del romanzo, Nina, è alla ricerca della sua di felicità, spinta dal desiderio di riscattare e risanare una vita ancora giovane, ma già segnata da grandi traumi. Un padre violento, che abbandona la famiglia quando lei e sua sorella, Ornella, sono troppo piccole per capire. Crescono in una casa fatiscente, dove oltre al gelo dell’inverno, stemperato da una piccola stufa, c’è un altro tipo di gelo, che graffia l’anima, quello delle assenze di una madre ferita che incapace di reagire e poco strutturata come donna, si ritrova a dover crescere due figlie con scarsi mezzi e sceglie di rifugiarsi nel passato anestetizzando il dolore nell’alcool.
Necessità concrete fan sì che Nina inizi a lavorare in fabbrica, rinunciando agli studi e ai suoi sogni di diventare un’insegnante. Ma si sente spenta e non vede sbocco in quel lavoro. Allora, allettata da facili guadagni e nella speranza di un futuro migliore, decide di licenziarsi. Una scelta che la porterà a percorrere strade che cambieranno per sempre il suo destino.
Un libro intenso le cui pagine trasudano odori di donne che ci appartengono. Le parole scivolano nelle retine del lettore e passano nella mente creando un legame affettivo con la protagonista che si insinua nelle carni e ogni suo stato d’animo lo si avverte con sussulti empatici. L’autrice ci accoglie con una “prosa poeticata” efficacissima e a tratti sublime. Un lavoro introspettivo implacabile e spietato.
Molti i temi proposti: povertà, emarginazione sociale, dipendenze, violenza sulle donne, abbandoni affettivi, difficoltà nel crescere, disillusioni e profili di prostituzioni fisiche e psichiche non solo femminili, ma anche maschili. Uomini inconsistenti, fragili, immaturi, che rivendicano un diritto di possesso del corpo femminile nella disperata illusione di ritrovare un arcaico valore virile.
Ottimo esordio di Simonetta Mannino che promette di essere una delle più interessanti penne donna degli ultimi decenni nel panorama letterario italiano. Una scrittrice che sa fare cultura femminile oltre a possedere una prosa che rappresenta un’autentica novità stilistica.
Paola Tesorieri
Protagonista della storia è la giovanissima Nina che, in un momento particolarmente drammatico del suo presente, comincia a ripercorrere l’intimo sentiero dei propri ricordi. Non è un percorso facile: un ambiente familiare difficoltoso, il rapporto con la sorella fatto per lo più di incomprensioni e un vivere quotidiano intriso di profonda e disperata solitudine. L’intreccio è lento e il suo dispiegarsi non ha nulla a che vedere col tempo e col passare dei giorni, quanto più con il sentire di Nina, con il mondo che nei suoi occhi confluisce e si disperde in emozioni, come l’acqua del mare che si assottiglia dopo che la forza iniziale dell’onda si ritira in fretta.
Quella di Nina è una lotta alla ricerca di uno spazio per sé stessa nel mondo e negli affetti, lontano da un ambiente famigliare che nulla le ha insegnato in termini di amore. Tuttavia, l’indipendenza affettiva che cerca di ottenere andandosene è solo effimera: ballerina in un night club prima, ben presto prostituta, Nina vuole raccogliere denaro, tanto denaro da poter tornare dalla madre, totalmente chiusa nel proprio dolore, e offrirle in cambio una vita migliore, salvarla così da salvare, di riflesso, se stessa.
Mentre la neve continua a scendere e ad imbiancare tutto, Nina continua a riportare i suoi ricordi, ed è come una voce della coscienza, che viene da dentro, lieve come la neve stessa. Forse è proprio questa dolcezza nella narrazione che fa risaltare ancor più la durezza della vita, in netto contrasto con lo stile e la pacatezza delle parole.
Nonostante i temi forti, la lettura è resa estremamente godibile dalla grande forza espressiva e fluidità dello stile dell’autrice ed è un viaggio intenso, doloroso ma bellissimo, dove la felicità è solo un odore fugace …
A cura di Alice de Carli Enrico - www.meloleggo.it
Non mi hai ascoltata, nemmeno stavolta. Hai girovagato per casa con le ciabatte ai piedi, i capelli arruffati dopo un’altra notte senza sonno, senza un solo pensiero che potesse aiutarti a resistere, a non mollare. Hai acceso un’altra sigaretta, il fumo denso dentro al tuo corpo consumato dagli anni e dai pianti. Hai continuato a pensare al passato, è questo il veleno che ti ostini a bere.
La neve è scesa per giorni interi, erano anni che non nevicava così, la gente cammina per le strade inzuppate di neve e fango, mentre tu scivoli via, come una foglia d’autunno cadi, alzi le braccia per trovare un appiglio, gratti con le unghie su quel muro, forse fissi lo sguardo alla finestra, su quel vetro che spande attorno le ultime luci della sera, ascolti i rumori della gente. La gente è ignara di te, non sa di questo orrore. Tua figlia non arriva, non vedi la sua ombra attraverso la finestra, è immersa in quella quiete fatta di niente che adesso è la sua vita.
Forse hai provato a chiamarmi, un piccolo gemito ti è uscito dalle labbra, il cuore impazzito che si rimescola, si espande e si contrae a un ritmo forsennato. Forse hai pianto, non lo saprò mai. Che sapore ha la morte? La vita che ti abbandona?
Che io sia maledetta, per il resto dei miei giorni, che non me ne rimanga alcuno, nemmeno per potermi pentire.
Sono sola come sempre nel silenzio di casa mia, a pochi isolati da te.
Da quanti anni vivo qui l’ho scordato, so che è passato tanto tempo dal giorno in cui ho lasciato il mondo fuori e ho sbarrato la porta, solo il silenzio e la quiete sono miei amici, il buio mi fa compagnia, non mi spaventa. In questi pochi metri quadrati, ordinati e precisi, il caos del mondo non può raggiungermi. Sono al riparo dal caos da tanto tempo.
Avanzo nell’oscurità come un gatto fino al telefono, ne riconosco la sagoma tremolante rischiarata dalla debole luce d'una candela. Attendo di sentire un altro squillo, la voce di mia sorella rimbomba nell’orecchio.
“Nina, allora?”
Stavo preparando la cena, petto di pollo e insalata, ma non avevo fame. Rispondo pacata, quasi assente.
“Ciao, come stai?”
“Mamma non risponde al telefono, sono tre giorni che chiamo.”
Sono preoccupata? Non lo so. Non è la prima volta. Mi sfioro il viso con la mano, lo sento gelido e asciutto e mi torna in mente un fatto, accaduto circa un anno fa; in quella circostanza ero nervosa, il telefono continuava a suonare a vuoto. Avevo ancora la copia delle tue chiavi e un’angoscia che inchiodava le gambe e le mani, avevo paura di aprire, di trovarti come non avrei mai voluto. Ho picchiato con forza alla porta, sperando di sentire un rumore, un gemito, qualcosa che mi desse la forza di infilare la chiave e aprire. Poi, non so come, ho trovato il coraggio e mi sono intrufolata a casa tua come un ladro, ho chiuso la porta alle mie spalle, ti ho presa fra le braccia e ho scoperto la tua leggerezza, la tua fragilità, la tua paura.
Il vento ulula attraverso i vetri come un cane ferito, dovrei aprire le finestre, forse potrebbe spazzare via questa nebbia di fumo denso che brucia gli occhi.
Accendo un’altra sigaretta, spengo i fornelli, infilo la giacca. Lascio l’angolo nel quale sono rannicchiata da giorni come un profugo in esilio, coi fantasmi del passato a farmi compagnia, per riemergere di nuovo nel presente, nel caos. La mia vita è un esercizio di equilibrismo fra passato e presente, ma ormai non cado più.
Le strade sono intasate dalla neve e dal traffico, i vigili tarderanno ad arrivare, li ha chiamati Ornella, mia sorella sa sempre cosa fare, non perde mai le coordinate, non rimane, come me, con lo sguardo perso nel vuoto a fissare la neve.
Lascio la macchina nel piazzale di fronte all’edificio, lei è già lì, mi saluta con un cenno del viso trafiggendomi con uno sguardo che non riesco a decifrare. Non abbiamo più le chiavi, non ricordo perché, forse è meglio così, il destino, a volte, ha strani modi per proteggerci dal buio, è un buio che non voglio vedere quello che adesso si nasconde dietro quella porta, mamma.
Hai pensato ancora a lui, dopo tutti questi anni, ti avevo detto di non farlo, di non pensare al passato, di lasciarlo morire così come desideravi la sua, di morte. Ho imparato a odiare mio padre leggendo nei tuoi occhi il dolore, ho sempre voluto credere d’essere soltanto tua, nient’altro che questo. Ora immagino di vederti immobile davanti allo specchio, con quel vecchio maglione che ti cade addosso come un cencio, lì ti sei fermata, a frugare l’immagine riflessa e incrociando il tuo sguardo sei rimasta ferita, hai maledetto la tua vita e la sua.
“Non vi siete sentite in questi giorni, non l’hai chiamata?”
Guardo mia sorella, gli occhi scuri sprofondati nella pelle bianca, è molto diversa da me, è uguale a mio padre. Penso a quante volte, osservandola, devi aver provato un po’ di tutto quell’odio che provi per lui.
Per tutta la settimana ti ho avuta in mente, mi dicevo che dovevo chiamarti, passare da te, ma poi c’era sempre qualcosa che me lo impediva, il pensiero andava e veniva come questo vento che adesso mi schiaffeggia il viso e me lo fa bruciare. E non sono passata, non ti ho chiamata, e mentre facevo la spesa, passavo lo straccio sul pavimento, mentre mi pettinavo davanti allo specchio con lo stereo acceso tu scivolavi sempre più nella melma di questo assurdo destino.
“No, non l’ho sentita.”
Ero andata a parlare col fruttivendolo, quel vecchio imbroglione che ti riempiva le borse di veleno e te le portava a casa, perché erano pesanti e tu sei esile come un filo di lana, le appoggiava sul pavimento e sorrideva. Mi aveva fatto una promessa e ingenuamente gli avevo creduto, ma tu sei stata più convincente di me.
Un fiocco di neve mi entra negli occhi, freddo e pungente come una lama di ghiaccio, offusca la vista. Sta ricominciando a nevicare, le tende sono accostate, la luce è accesa, è pieno di luce là dentro, le gambe cedono perché so che non è normale, perché ami la penombra e tutte quelle luci non le accendi mai.
Ornella si sposta da una parte all’altra, sta guardando le finestre, scruta con quegli occhi neri come la notte. Io sono inchiodata a questo triangolo di neve, non voglio vedere cosa c’è acquattato in un angolo dentro casa tua, voglio pensare che non ci sei.
È un inverno gelido che sembra non finire mai, stasera il vento è arrabbiato col mondo, frusta le gambe avvolte nei vecchi fuseaux che mi hai dato tu.
“Portali a casa Nina, che ti possono servire.”
Adesso c’è una lacrima sospesa nei miei occhi sgomenti. So esattamente di cosa mi illudo, è già successo una volta e non l’ho più dimenticato. Le illusioni mi hanno sempre accompagnata, in un modo o nell’altro, mi hanno aiutata a reggermi in piedi, a non perdere la speranza che qualcosa potesse ancora cambiare, volevo regalarti un’altra esistenza, leggere nei tuoi occhi un po’ di sereno. Ora mi illudo che quelle stanze si adombrino della tua figura che cammina stanca verso la finestra, mi illudo di vedere il tuo viso attraverso i vetri e un cenno della tua mano che rimetta in moto questo tempo che si è fermato. E sei lì con me, a ricordarmi che ho sbagliato e sono già perdonata, perché ho lasciato che la mia innocenza oltrepassasse i confini che avevi segnato, e c’era sempre quella tristezza, quel guanto di fatica che mi avvolgeva, mentre gettavo a terra i miei vestiti e la mia vita, finché il male non mi è caduto addosso, finché non mi ha raggiunta l’onda nera della vergogna. Tu non sai cosa ho fatto, mamma, non sai dove ho volato e dove sono caduta.
Guardo verso le finestre, le luci accese nella notte, e sento scorrere nelle vene nient’altro che sabbia.
L'ESTRATTO
"Feci un viaggio incredibile quel giorno, ricordo soprattutto i muri della stanza che lasciavano scie di arcobaleno e sembravano di gomma, si espandevano e ritraevano come un grande cuore pulsante e il soffitto che tremava, una sensazione stranissima di terra e cielo che non hanno significato, che non hanno confini, il suono delle mie risate, la gola che bruciava e il tempo che non esisteva più e tutto sembrava enorme, soffice e lentissimo.
Pensai che in quel garage ci potevo morire, che poteva anche finire così e sarebbe stato fantastico."
Un sereno pomeriggio estivo, il sole illumina una dalia recisa posata sul tavolo in salotto, un tovagliolo spiegazzato, gli avanzi di un pranzo alla buona. Una bambina di sette anni, in camicetta e calzoncini corti, dorme distesa sul divano. È Martina, nata con l’inseminazione artificiale da donatore sconosciuto, che guarda il mondo con stupore innocente.
Nove anni dopo, ormai in piena adolescenza e anche in pieno conflitto con i genitori, Martina racconta l’orrore di quel pomeriggio d’estate, l’evento drammatico che le ha cambiato la vita, così profondamente radicato nella sua coscienza, mai dimenticato e mai sepolto. Attraverso la voce di Martina conosciamo i suoi affetti: una madre spesso fuori casa, un padre distratto che non è davvero suo padre, il cane Willy detestato oltre ogni razionalità, la nonna paterna, unico rifugio per Martina, che sembra capirla proprio perché non cerca di comprenderla. E in fondo, ad attenderla, lo spettro di un fratello segreto, che conduce una vita disfunzionale in maniera speculare a quella di Martina: vive in garage, è tatuatore autodidatta e dedito a droghe e alcol. I due sembrano completarsi nel loro uscire dagli schemi, anche se il loro è un amore malato che serve solo a estraniarsi dal mondo che li circonda, al pari dell’alcol e delle droghe di cui fanno uso. Ma è proprio il bisogno di lasciarsi alle spalle i mostri della sua infanzia che spinge Martina ad azioni spesso disconnesse, a oscillare tra realtà e finzione, innocenza e corruzione in cui entra perfetto il mistero del crescere, la scoperta del corpo, del sesso e di quanto sia difficile liberarsi dalle ombre del passato per vivere il presente.
Del sangue non mi importa è il racconto dolce amaro di un’adolescenza inquieta, di una catarsi in cui, seppur a fatica, emerge dirompente la forza per rinascere.
PROLOGO
Se guardo indietro, adesso che il diluvio è trascorso, vedo quell’altra me che si aggira incredula e smarrita in questa terra di nessuno, che passa indenne attraverso tutti quei chilometri di terra bruciata, di ponti saltati e malgrado tutto non cerca di fuggire.
Oggi sono ancora qui, la mia resistenza è fatta di passi piccoli, basta muoversi piano, senza fare rumore, così il male si dimentica di noi, ci scavalca.
Ora so che il mio posto è questo, sto seduta su una stuoia di bambù sulle rive del lago di Fimon, mentre bevo gin e succo d’arancia, vi racconto una storia.
Era secco come un chiodo, gambe lunghe e spalle sempre un po’ curve in avanti, come se si vergognasse di quell’altezza fuori misura, con una barba castana corta che lo faceva sembrare un tipo che sa il fatto suo. Vestiva piuttosto bene, pantaloni di marca e morbidi golf di cachemire. Al contrario di suo fratello usciva presto, spesso prima dell’alba, dal tabaccaio vicino alla chiesa comprava Marlboro rosse e quotidiani locali che leggeva su una panchina di ferro di fianco all’ufficio, lo sguardo lucido e un po’ sparuto nascosto dietro a grossi occhiali da sole con le lenti a specchio.
Prima di entrare al lavoro stava spesso appoggiato alla balaustra davanti al cancello, a fumare una sigaretta, a volte due, le mani in tasca, le spalle nel giubbotto. All’imbrunire risaliva il colle, a volte si fermava sul lago a guardare gli uccelli che galleggiavano sulla corrente. Quando arrivava a casa si toglieva le scarpe e imbastiva lunghe e pacate conversazioni con i genitori, sul lavoro, sulle battaglie contro l’abusivismo edilizio e le espropriazioni immobiliari.
Amava intensamente suo padre, quando mi raccontava di lui lo immaginavo sempre come lo ricordavo, seduto sulla poltrona di velluto verde vicino al caminetto, i piedi sul tavolino basso, un toscano appeso alle labbra, le macchie senili sparse sulla fronte come una stampa indelebile, nonna sempre accanto a lui, in mano un bicchiere di Stravecchio Branca, ossuta come suo figlio, d’estate quasi sempre vestita con uno di quei caftani che si usano per andare in spiaggia, l’odore di ammoniaca con cui puliva scale e pavimenti che ormai doveva esserle entrato nel sangue.
Dopo cena mio padre calzava berretto e guanti e usciva a controllare il semenzaio di fianco alla conigliera, a innaffiare l’orto traboccante di ortaggi di straordinaria bellezza, poi abbassava lo sguardo verso le luci della città, vibranti nel buio come capocchie di spilli infilati in una trama fitta e scura e rimaneva in silenzio, immobile come un giovane albero dalle radici profonde.
Mia madre è nata e cresciuta laggiù, ai piedi di quel colle, a una manciata di chilometri da casa sua, vicino alla Basilica Palladiana. Non le piaceva la campagna, quando lui la portava lì si rifugiava sempre in camera, non annaffiava l’orto, mangiava poche verdure, odiava la puzza di sterco e fieno che proveniva dalla stalla, si muoveva silenziosamente fra quelle mura, come una mosca prigioniera nel buio. Di notte la svegliavano gli scricchiolii dei mobili e cominciava a strillare, quando mio padre riusciva a zittirla non la smetteva di ridere. Dopo l’amore non parlavano mai, uno da una parte, uno dall’altra, anche adesso quando si incontrano si guardano negli occhi come due guerrieri trafitti e faticano a perdonarsi. A volte sembra che ci sia tra loro un salto generazionale, forse perché mamma è sempre vissuta qui, mentre mio padre è nato a Bronte, un piccolo paese in provincia di Catania, dove le cose sono diverse.
Svolgeva il suo lavoro con solerte rassegnazione, faceva praticantato presso uno studio notarile, da ragazzo avrebbe voluto seguire studi scientifici e dedicarsi alla stessa passione che aveva sua madre; la ricerca biomedica, ma aveva dovuto piegare la testa, come anni prima era toccato a mia nonna, e accettare di far parte di una casta che si perpetuava da generazioni.
Era preciso, puntuale, un po’ fissato con l’ordine, con un certo tipo di alimentazione. Mangiava quasi sempre solo, in cucina, cibi sani e senza sapore, davanti al tremolio azzurro del televisore. Quella sua aria mite e un po’ distaccata dal mondo non cambiò mai e anche per me fu sempre lo stesso, una figura indulgente ma nemica, che mi consentì di smarrirmi durante tutta l’adolescenza.
Mamma aveva appena terminato l’università. Era un tipetto asciutto, a modo, un po’ nervoso, con una grande massa di capelli rossi e le lentiggini sul viso. Di sera, d’estate, le piaceva andare in macchina fino al lago, certe volte si incontrava con le amiche, restava a chiacchierare per ore in uno dei bar di Arcugnano, a bere coca cola e a mangiare panini e dolci alla cannella, o semplicemente rimaneva da sola sdraiata sulla riva ad aspettare il tramonto. Fu proprio uno di quei magnifici tramonti che si specchiavano sul lago a farli incontrare.
Prima di trasferirsi qui, di queste zone papà aveva visto solo grandi fotografie di distese pianeggianti e di minuscoli paesini abbarbicati sulle colline dei monti Berici. Visse i suoi anni da scapolo su quelle colline, in una casa in pietra coi pavimenti in cotto e le travi sui soffitti, immersa in un bosco di carpine e querce. Dalle finestre della sua camera si vedevano la vallata e le montagne in lontananza, un vigneto di 400 piante, la stalla, lo stagno dietro al pollaio. Non pensò mai di poterci restare a lungo, di abbandonarsi a quel medioevo. Io l’amai subito, mi sentivo felice seduta sulla seggiola di legno sotto il portico, trascorrevo interi pomeriggi con mio zio, a pescare scardole sul lago, a giocare a campana, a incubare uova di tacchina in garage, a correre appresso a mia nonna. Quando c’era ancora la stalla la guardavo spazzare il letame ogni giorno, l’aiutavo a mungere le vacche, a riempire le mangiatoie di fieno, a smuovere il terreno nell’orto, a fare buchi per piantare cose. Lì mio padre e mia madre si sono amati per la prima volta, lì hanno provato a concepirmi per giorni e mesi senza riuscirci. Si sono sposati pensando a un miracolo, a una remota possibilità affidata all’inafferrabile, ma non credevano in Dio, non chiedevano grazie e non sono nata per quel miracolo. Se vado a messa mi segno con l’acqua santa, ma non ho mai imparato a pregare. Le nozze furono celebrate in chiesa solo perché mamma si era fissata con l’abito bianco, le damigelle che tenevano lo strascico, i paggetti che portavano gli anelli e tutte quelle stronzate. In realtà, della cerimonia religiosa e dell’infinito sermone che il vecchio prete sciorinò per gran parte del pomeriggio non fregava niente a nessuno.
Pioveva a dirotto quando tornarono a casa, un vento di tramontana frustava la terra inzuppata. Quell’autunno portò mesi di vento e pioggia, con brevi lampi di sole aspro e abbagliante che avvolgeva la città di un bianco spettrale. La villa sembrava disabitata. Porte e finestre serrate. Era stata ricavata dalla ristrutturazione di un antico casolare ai piedi delle colline, a cinque minuti dalle scalette di Monte Berico ed era come piaceva a mia madre; grandi spazi, stanze luminose, finiture in pietra, fotovoltaico, allarme, riscaldamento a pavimento. Il profumo di erba bagnata e delle ultime rose di settembre impregnava l’aria, l’odore pungente del cloro della piscina pizzicava il naso, dietro alla casa il giardino era straripante del fruscio e del subbuglio di piccole vite. L’avevano arredata in stile zen; mobili bassi, niente armadi ingombranti, letti rigorosamente rasoterra, materassi futon, pavimenti tatami e tutte quelle boiate. Pace, silenzio e amen. La confusione stava in un posto più remoto, più segreto.
Fu quando iniziai a gattonare che mio zio si trasferì da noi. Avevo sei mesi, i fiocchi nascita furono staccati dal cancello, mia madre perse il latte. Aveva appena iniziato il tirocinio e poco tempo da dedicare alla famiglia, come mio padre del resto, ma ero così preziosa che non volevano darmi a nessuno. Mi affidarono a lui, a quel ragazzone con la fissa delle uova di palmipedi. Nessuno ammise mai di essersi sbagliato. Papà me lo racconta sempre, lo strillo che ho fatto appena l’ho visto. Quando gli dissero di far su le sue cose e di preparare i bagagli fece una faccia grigia da zombie. Era così preoccupato di dover abbandonare la sua collezione di uova che a un certo punto cominciò a frantumarle e a scaricarle giù per il water a decine.
“Va a ghittari saungu ru cori!” Urlò a mia madre.
Lei lo guardò, il collo magro stretto dentro una rigida camicetta di taffetà. Ebbe paura per me, ma fu una paura di cui si scordò quasi subito, ed era troppo orgogliosa per cedere a quella paura. Lo fissò di sghembo, quel goffo ragazzo siciliano, reso ancora più mastodontico da un grosso impermeabile di cerata buttato sulle spalle. Seguirono mio padre in un lugubre silenzio e salirono in macchina, fu un tragitto breve, la pioggia un sottile velo lucido che brillava sull’asfalto. Zio Alberto avvicinò il faccione al seggiolino e io guardai quel volto stupito straripante di timida gioia, come se avessi atteso da sempre quel momento. Appoggiò il palmo della mano sulle mie gambe e ascoltò una voce che gli implorava di andarsene e di restare. Era la sua voce? O era la mia, che si era impossessata di lui attraverso il grido che spezzò il silenzio? Quel volto mi apparve subito furiosamente bello e familiare, per anni fummo inseparabili, occupò il vuoto lasciato dai miei genitori con straordinaria semplicità. Era solido, schietto, e molto presto non fu più un estraneo. Adoravo il modo in cui si stringeva addosso a me quando mi sentivo triste, quella strana luce che aveva negli occhi e le sue stramberie, negli anni, imparai ad amarle tutte. Mi piacevano le fotografie di uccelli appese al muro della sua camera, ce n’erano a colori e in bianco e nero, occupavano tutte le pareti, sembravano veri. Bisognava stare attenti quando si aprivano le finestre, ero sicura che avrebbero potuto spiccare il volo, ma non successe mai. Mi spiavano da quelle mura e si prendevano gioco di me, della mia innocenza. Un giorno però scomparvero davvero. Qualcosa annidato in questa casa ci ha portato sfortuna.