Versante Palestina.
“Gli ultimi sono stati i giorni peggiori che abbiamo vissuto da quando sono iniziati il genocidio e l’esodo forzato. Tralasciando le terrificanti esplosioni che continuano a distruggere ciò che resta di Gaza o gli umilianti ordini di evacuazione, non posso che parlare della carestia: la fame è diventata l’arma più letale usata contro di noi. Per mesi abbiamo cercato di resisterle, ma ora siamo denutriti e deboli e con il peggiorare della situazione non siamo più nella condizione di sopportare giorni interi senza mangiare. Quando cammini per strada è impossibile non vedere quanto tutti siano affaticati ed esausti. Gli effetti della carestia si vedono nei nostri volti e nei corpi consumati”.
Questa di Kholoud Jarada, medico palestinese residente a Gaza, è solo una delle tante testimonianze sempre più agghiaccianti che arrivano dalla Palestina e che i giornali pubblicano ormai sistematicamente. Il quotidiano inglese Daily Express ha pubblicato il 23 luglio la foto di un bambino scheletrico, fra le braccia della madre, con un sacco nero della spazzatura come pannolino e la bocca spalancata a chiedere aiuto. Nessuno potrà dire di non sapere.
Se avessimo un’opposizione ad governo degna di questo appellativo, di fronte ad una situazione così sconvolgente e rivoltante organizzerebbe una mobilitazione mai vista, lancerebbe un appello incessante, pressante, al governo perché rompa tutti i legami politici, economici, diplomatici con Israele. Invece balbetta in modo ambiguo, appellandosi ad una Unione Europea che è co-responsabile del genocidio e chiedendo che l’aumento delle spese militari venga messo sotto la sua tutela!
Versante Italia.
La Giunta Regionale del Piemonte ha varato un aumento dell’IRPEF dai 33 ai 106 euro l’anno per far fronte ai “tagli” di tasse varati dal governo. Dopo la propaganda demagogica arriva la realtà della “regionalizzazione”.
Se avessimo un’opposizione al governo degna di questo appellativo, essa non tarderebbe un istante a mostrare a tutto il Paese questo vero e proprio “gioco delle tre carte”, a svergognare Meloni-Salvini Calderoli di fronte a tutti i cittadini e a riprendere subito la mobilitazione dopo l’annuncio dei giorni scorsi che “la Lombardia è pronta a firmare le prime intese per avere più autonomia sulla sanità e su tre materie per cui non è prevista la definizione dei livelli minimi essenziali” - ossia la protezione civile, le professioni e la previdenza integrativa - notizia correlata all’intenzione di Veneto, Liguria e Piemonte di procedere sulla stessa strada per “chiudere” entro settembre (Il Giornale).
Se avessimo un’opposizione degna di questo appellativo, spiegherebbe ai cittadini che l’aumento delle spese militari al 5% del bilancio costerà circa 5.200 euro all’anno a famiglia. Spiegherebbe che il governo taglia posti di insegnanti e di personale ATA, cioè per le pulizie, la sorveglianza, il funzionamento delle scuole…
Al momento, questa opposizione non c’è, né, specialmente, si propone con un programma veramente alternativo.
Ma se non c’è in Parlamento dove anzi, spesso, costituisce un ostacolo alle lotte, essa c’è però, potenzialmente, nel Paese: la realtà della Palestina, dell’Ucraina, della politica della Meloni di alleanza con Trump e nello stesso tempo con l’Ue, le conseguenze concrete di questi tre anni di governo sono ormai sotto gli occhi di tutti. Milioni sono pronti a mobilitarsi, come hanno dimostrato le manifestazioni di giugno contro il riarmo e per la pace (benché su parole d’ordine ambigue da parte di PD-M5S-AVS), e per un altro verso anche i 14 milioni che sono andati a votare al referendum.
Se questi milioni, non c’è dubbio, non dispongono al momento di partiti di massa che guidino la mobilitazione e aprano una prospettiva, essi dispongono però ancora dei loro sindacati, organizzazioni di milioni di lavoratori, a partire dalla più grande e storica, la CGIL.
Fin d’ora e specialmente a settembre, tutto si giocherà attorno al punto che solleviamo a pagina 2 e 3: è il momento di passare all’azione per dare risposte concrete ai lavoratori.
Non si può accettare di “vivacchiare” con critiche più o meno forti al governo Meloni, con denunce anche più che giuste, come quella contro la “riforma” della giustizia (sulla quale torneremo a settembre con un’analisi più precisa), ma chiuse nel Palazzo, con dibattiti interni… “Vivacchiare” vuol dire lasciar fare.
Costruire l’unità per un’immensa mobilitazione, per costringere il governo a rompere con Israele, ad abbandonare qualunque Autonomia differenziata, a concedere veri aumenti salariali per recuperare il potere d’acquisto perso, a dirottare le spese militari su … di questo abbiamo bisogno.
Lorenzo Varaldo
L ’aggressione di Israele e degli Stati Uniti all’Iran dimostra ancora una volta - se ce ne fosse bisogno - a quale punto il capitalismo e l’imperialismo siano disponibili a spingere l’umanità alla distruzione.
Il segretario generale della NATO Rutte, già leader olandese, ha detto le seguenti parole al vertice dell’AIA rivolgendosi a Trump: “Congratulazioni e grazie per la tua azione fondamentale in Iran. È stata una cosa straordinaria, una cosa che nessun altro avrebbe mai osato fare e che ci rende tutti più sicuri. E questo si aggiunge ad un altro grande successo all’AIA: non è stato facile, ma tutti quanti hanno firmato l’impegno per aumentare le spese militari al 5% del PIL. Donald, tu hai condotto noi, veramente, veramente, in un grande momento per l’Europa, per l’America, per il mondo; hai ottenuto qualcosa che nessuno, in decenni, ha saputo ottenere, e l’Europa pagherà molto, come dovrebbe, e sarà la tua vittoria”.
Sorvoliamo (a fatica) sul livello di servilismo dell’UE nei confronti dell’amministrazione USA; sorvoliamo sulla violenza di queste parole e veniamo al concreto. In che cosa ci rendono “più sicuri” Trump e i governi UE? Il 5% de PIL significa per l’Italia circa 100 miliardi all’anno di spesa militare, cioè 70 in più di oggi. Dal punto di vista del bilancio dello Stato ciò significa circa un sesto di tutta la spesa sociale e circa un terzo di ciò che si spende per sanità, scuola, università, servizi pubblici.
Con questo “impegno” si prepara dunque un bagno di sangue per i lavoratori e la popolazione. I conti sono semplici: 70 miliardi significano circa 1.400 euro a persona all’anno! Per una famiglia media significano 5.200 euro che verranno prelevati sotto forma di salari, pensioni, aumento delle tasse, tagli a sanità e servizi, inflazione…
Per contro, questi 100 miliardi (per la sola Italia) andranno ad ingrassare i profitti dell’industria delle armi, in primis quella statunitense. Ma, infine, le armi servono e serviranno sempre di più per la guerra: per il genocidio a Gaza, per la guerra in Ucraina, per il conflitto Pakistan-India, per la guerra in Congo, per tutte le guerre delle quali il capitale, prima di tutto quello statunitense, ha bisogno per conquistare e controllare terre da sfruttare, popolazioni da sottomettere.
Le nostre generazioni, cioè quelle che non hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale, non hanno forse mai nemmeno immaginato ciò che vediamo e temiamo oggi. E anche chi è ancora in vita tra coloro che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale, sì, certo, ha visto Hiroshima e Nagasaki, ma ha poi passato ottant’anni pensando che ciò non si sarebbe più potuto verificare. Ebbene: oggi anche queste persone assistono allibite ad un quadro nel quale Hiroshima e Nagasaki potrebbero essere “superate” di molto. D’altra parte, le stime di quei due disastri parlano di un numero tra 100.000 e 200.000 morti nei primi mesi dopo lo sgancio delle bombe: nella sola Gaza, già oggi siamo a 70.000 morti circa, riconosciuti, dall’inizio dell’attacco israeliano.
Ed è proprio a Gaza che si concentra la situazione mondiale.
Prima di tutto per la portata del genocidio; poi perché i governi di tutto il mondo, di destra e di “sinistra”, coprono e alimentano questo genocidio; ma infine anche per la resistenza che il popolo palestinese, in condizioni impossibili e incredibili, continua ad offrire.
Negli USA, in Europa, dappertutto, le mobilitazioni crescono, nonostante la manipolazione e la repressione.
Anche in Italia è così. A pagina 3 riferiamo della manifestazione di Torino del 5 giugno; due giorni dopo centinaia di migliaia hanno manifestato a Roma, cosa che si è ripetuta il 21.
Certo, il PD, il M5S, AVS che hanno convocato la manifestazione del 7 giugno sono gli stessi che continuano a votare i finanziamenti alla guerra in Ucraina e l’aumento delle spese militari. Su di loro incombe l’enorme responsabilità di questa ambiguità che copre la guerra. Ma le centinaia di migliaia che sono scese in piazza avevano, consciamente o inconsciamente, la stessa posizione che nella manifestazione di Torino si è espressa in modo chiaro: rottura di ogni relazione diplomatica, politica, economica, commerciale con Israele.
Mentre chiudiamo questo numero si è appena concluso un Incontro Internazionale d’urgenza online dei firmatari dell’Appello internazionale “Bisogna isolare lo Stato genocida” (pag. 4). Questo incontro ha approvato la proposta di organizzare in tutti i Paesi, in occasione dell’80° anniversario di Hiroshima e Nagasaki, iniziative pubbliche per esigere dai governi di rompere ogni legame con Israele e dalle forze di “sinistra” di battersi su questa linea.
Alle barbarie sicure - queste sì - che il capitalismo prepara, noi contrapponiamo l’unità e la mobilitazione dei lavoratori di tutto il mondo, sulla linea espressa molto bene dalle donne di Woman-Life[1]Freedom, che dal carcere in Iran hanno lanciato il loro appello: “Non sarà con le bombe di Israele e degli Usa che si libereranno l’Iran e i popoli, ma solo con la lotta delle masse”.
Lorenzo Varaldo
Nel momento in cui chiudiamo questo numero l’opposizione parlamentare PD[1]M5S-AVS ha convocato una manifestazione nazionale “pro Palestina” per il 7 giugno, a Roma. I leader dei tre partiti hanno dichiarato: “Basta ambiguità”.
Che cosa significa?
Certamente, denunciare il governo che, a parte qualche parola qua e là, copre completamente il massacro. Certamente chiedere che l’attacco di Israele cessi immediatamente. Ma a parte queste parole, concretamente?
Come scriviamo nella dichiarazione che abbiamo inviato ai nostri lettori (pag. 3), le mobilitazioni hanno un senso se sono convocate su parole d’ordine e rivendicazioni concrete, che aprano una prospettiva. Vale per Gaza, vale per tutte le lotte.
In questo caso, indignarsi, parlare, denunciare non vale nulla se non si dice chiaramente “Rottura di tutte le relazioni - politiche, diplomatiche, economiche - con il governo israeliano, con tutti i legami con gli assassini”.
Perché questa parola d’ordine è così centrale?
Semplice: Natanyahu e il suo governo non potrebbero continuare un solo istante la loro “politica” se non avessero il sostegno economico e politico del resto del mondo.
I primi responsabili, certo, sono gli Stati Uniti, perché senza i soldi americani Israele non potrebbe nemmeno muovere un dito contro i palestinesi. Ma a seguire abbiamo tutti i governi che finanziano direttamente o indirettamente la guerra.
Viceversa, il blocco delle relazioni provocherebbe probabilmente l’esplosione di ciò che internamente a Israele cresce ogni giorno, e cioè l’opposizione a questo genocidio e al governo Netanyahu.
I sondaggi dicono che il 75% degli israeliani vorrebbe la cacciata di questo governo, mentre si moltiplicano le voci di ebrei, in tutto il mondo, che si schierano contro l’aggressione.
Il politologo ebreo Ahron Bregman, docente al King’s College di Londra, a fronte dell’attentato che ha ucciso due diplomatici israeliani a Washington, ha dichiarato: “Netanyahu mette a rischio tutti noi ebrei, lo si è visto, il killer era ossessionato dalla guerra”.
Sia chiaro, noi condanniamo questo attentato. La soluzione non arriverà certo dalle armi, né da persone ossessionate e fanatiche né da Hamas. Ma questo politologo esprime in molto semplice, sentendolo sulla sua pelle, ciò che noi diciamo da due anni e mezzo: la politica di Israele è una minaccia per gli ebrei stessi.
Alcuni promotori della manifestazione di Roma precisano: “Purché non sia una manifestazione antisemita”. Ma quale “antisemita”? Oggi, è antisemita chi è per il genocidio!
A meno che si voglia, ipocritamente, astoricamente e provocatoriamente associare, come si è fatto in questi due anni e mezzo, antisemitismo e antisionismo.
Su terreni certamente diversi, ma pur sempre importanti, la questione delle parole d’ordine è posta quotidianamente.
Innanzitutto, più in generale, sulla questione delle armi. Una lettrice di origini rumene ci segnala che le giungono notizie di migliaia di soldati, in particolare francesi, con decine e decine di carri armati pronti ad intervenire in Ucraina.
In Romania si annuncia in queste ore una possibile chiamata alle armi di giovani e addirittura residenti all’estero. Le donne sono alla testa di un movimento che si oppone e scende nelle piazze. Questa lettrice aggiunge giustamente: “Se scatta l’intervento, allora siamo tutti toccati”. Nello stesso tempo il nuovo capo del governo tedesco annuncia la possibile consegna di missili all’Ucraina.
Non possono più esserci ambiguità e ipocrisie, né per Gaza, né per l’Ucraina, né per tutti i provvedimenti interni al nostro Paese, più o meno collegati con la guerra. Solo le parole d’ordine chiare dello stop agli armamenti, del dirottamento di tutte le spese militari su servizi, scuola , sanità, stipendi, della fine di ogni sovvenzione ai capitalisti (proprio in questi giorni la Meloni ne ha annunciati altri per compensare i dazi e il costo dell’energia, tutti soldi che verranno sottratti ai lavoratori), del ritiro immediato del gravissimo disegno di legge sulla “partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese” (vedere pag. 2), del ritiro di qualunque licenziamento annunciato possono aprire una prospettiva.
La vittoria del SÌ ai referendum dell’8 e 9 giugno sarebbe un segnale forte, per il quale ci battiamo (pag. 3), e porterebbe un colpo al governo. Ma è urgente che a questa battaglia immediata si unisca la prospettiva della mobilitazione di piazza, che riparta dallo sciopero generale del 29 novembre, non sulla base di parole e ambiguità, ma di rivendicazioni e azioni concrete.
Lorenzo Varaldo
Non è solo una questione legata alla morte del papa.
Certo, ormai da dieci giorni i giornali, le televisioni, i social ufficiali sono letteralmente occupati dalle notizie legate a questo evento; dopo il lutto nazionale di ben cinque giorni - cosa mai vista - e i funerali, si è passati adesso alle proiezioni sul conclave e sul prossimo pontificato. Vedremo per quanto tempo durerà questa vera e propria occupazione di spazio pubblico che copre ogni altra notizia, ogni altra ricerca su ciò che, per esempio, prepara e fa il governo.
Ma prima del papa c’era stato il viaggio della Meloni negli USA, con tutto il conseguente battage di propaganda sulla presunta “missione” per conto dell’Europa, sul ruolo centrale della “grande statista” (!!), sulle relazioni dirette con il taycoon… Abbiamo poi visto, proprio al funerale del papa, come la “grande amicizia” tra Trump e la Presidente del Consiglio si sia dissolta in un puff, con la Meloni che rincorre il Presidente americano per non fare completamente la figura della comparsa. Ma a parte questa scenetta ridicola, la realtà è che negli USA la Meloni è andata a fornire garanzie a Trump di asservimento totale e di attacco ai lavoratori italiani (pag. 2). Detto ciò, anche questo viaggio è servito ad offuscare completamente ciò che succede e si prepara in Italia.
Poi c’è la guerra in Ucraina. Questione gravissima, giustamente oggetto di attenzioni giornalistiche, ma che - è un fatto - sta producendo parole, parole, parole, senza che ci sia mai un momento decisivo, con sullo sfondo la sola realtà della discussione su quanti centimetri in più o in meno si spartiranno Trump e Putin per saccheggiare il Paese, lasciando o non lasciando Zelensky ad un potere ucraino che sarà del tutto fantoccio. Ma intanto anche questa guerra occupa pagine e pagine di pareri di presunti esperti.
E così, di ciò che fa il governo in Italia non si parla.
Succede per esempio che il governo decida di cominciare a vendere i porti, che ancora sono sotto una gestione statale (l’Autorità di sistema portuali). Secondo Intesa SanPaolo il valore economico in ballo sarebbe di oro miliardi. Evidentemente, come ogni vendita e/o ristrutturazione (l’ipotesi è che lo Stato rimanga proprietario con il 53%, ma con quotazione in Borsa, dunque soggetta alle regole del mercato) tutto ciò porterà a licenziamenti, riduzione di personale, automazione al posto di lavoratori…
Succede per esempio che, avendo stanziato la cifra record di 32 miliardi per le spese militari del 2025 (solo nove anni fa, nel 2016, la cifra era 19 miliardi, mentre nel 2021 era 24), il governo sia impegnato a trovare questi soldi tagliando nei servizi, nella scuola, nella sanità.
Succede che decine di fabbriche nel Paese siano o siano state in sciopero, per il contratto o contro le chiusure/ licenziamenti (pag. 2).
Succede che venga varato il Decreto Sicurezza che limita di molto le libertà e in particolare pone ostacoli a quella di manifestare.
Succede che il ministro Calderoli, incurante della sentenza della Corte Costituzionale di dicembre, prepari sottobanco un nuovo decreto per applicare l’Autonomia differenziata (pag. 3).
Succede che sempre più famiglie si trovino attorno o sotto la soglia di povertà.
Succede che si moltiplichino le provocazioni contro militanti, organizzazioni, gruppi legati al movimento operaio e alla sua storia.
Ma succede anche che le manifestazioni per il 25 aprile - nonostante il tentativo del governo di metterle sotto silenziatore - del 1° maggio, delle tante fabbriche in lotta, quelle dei metalmeccanici e dei chimici, la presenza massiccia alla manifestazione contro il riarmo del 5 aprile (nonostante fosse convocata da chi, in passato, ha votato tutti i riarmi…) ci dicano che il movimento che si era messo in moto il 29 novembre scorso con lo sciopero generale CGIL-UIL non è per nulla cancellato.
Esiste nel Paese, dal basso, l’aspirazione ad una politica davvero diversa: stop alle spese militari, dirottamento di tutti i soldi su salari, pensioni, servizi, scuola, sanità, fine delle privatizzazioni… Addirittura, in un settore - quello chimico[1]farmaceutico - i lavoratori ottengono un aumento contrattuale di 294 euro al mese!
Evidentemente, ciò di cui si sente sempre più la mancanza è un vero partito dei lavoratori indipendente che rappresenti questa volontà. Ma le lotte, quelle sì, possono unirsi, rompere il silenzio dei media e costringere il governo e i capitalisti a fermarsi ed anche a concedere ciò che non vorrebbero, come per esempio veri aumenti salariali.
Più che mai, abbiamo bisogno che i dirigenti sindacali le uniscano: noi ci batteremo dappertutto su questa strada.
Lorenzo Varaldo
Leggiamo su La Stampa: “Secondo l’UE, lo scenario di una guerra non è più soltanto teorico e quindi la parola d’ordine è preparazione. Bisogna preparare le istituzioni, le imprese, le infrastrutture, ma soprattuto bisogna preparare la società”. In questo senso, l’UE ha proposto “linee guida per garantire ai cittadini un’autosufficienza di almeno 72 ore e informarli sulla disponibilità di rifugi (…) per garantire, in caso di necessità, l’accesso a tutte le risorse critiche, come farmaci, batterie di ricarica, ma anche prodotti agroalimentari e acqua”.
La guerra si prepara, è un fatto.
“L’UE proporrà una giornata annuale della preparazione, chiederà agli Stati di includere questo tema nei programmi scolastici e nella formazione del personale docente. Serve, insomma, “una nuova mentalità”.
Non è fantascienza: come per ogni guerra, bisogna prima preparare il terreno, piegare le coscienze.
Quella che a noi - dall’ “occidente” - può sembrare sempre una possibilità un po’ lontana, che riguarda altri, che ci fa dire che “in Ucraina c’è comunque una situazione particolare …, oppure che sì, la guerra è ai confini del Mediterraneo, in Palestina, ma è legata a problemi storici, ad Israele, addirittura all’antichità… ebbene, l’UE ci dice apertamente: non dormite sonni tranquilli, preparatevi, adeguatevi.
È la faccia più brutale di un’istituzione che è nata per distruggere le conquiste, i diritti, le condizioni di vita della “vecchia Europa”.
Il disordine mondiale che esisteva già prima dell’avvento di Trump-Musk, preparato dalle politiche di tutti governi - compreso quello dei Democratici negli USA - è scoppiato ora in piena luce, e nessuno può dire dove possano arrivare le conseguenze.
Qualcuno si spinge più in là, qualcuno si tiene apparentemente più in qua.
Macron e Starmer sono per esempio alla testa di un intervento immediato, diretto. Il governo italiano guidato dalla Meloni per il momento non si dice disponibile, ma aggiunge che “nel quadro dell’ONU” darebbe la sua adesione. Quindi, di fatto prepara il terreno. Intanto decreta l’aumento vertiginoso delle spese militari. Mentre prepara la guerra all’esterno, porta avanti quella all’interno.
E il PD? Solita posizione da pseudo “opposizione”: il piano di aumento delle spese militari proposto dal governo non va bene perché… le spese vengono fatte Stato per Stato, mentre ci vorrebbe un unico “investimento” dell’UE!
É in questo quadro ben preciso che si è tenuta la manifestazione del 15 marzo a Roma, a seguito dell’appello lanciato da Michele Serra. Molti sono accorsi, qualcuno per sostenere apertamente le spese militari, altri con i propri distinguo.
PD a parte, che è appunto pro-spese militari se gestite dall’UE, cioè pro guerra, magari nel quadro ONU, la CGIL è tra quanti hanno partecipato sostenendo l’UE, ma dicendo di essere contro le spese militari. Come si può distinguere? L’UE non è forse all’origine di questa guerra, ieri a fianco degli USA, oggi semplicemente impegnandosi a fare il cane da guardia della spartizione dell’Ucraina per conto di Trump? L’UE non è forse l’artefice, per conto dei capitalisti europei, di tutti i piani distruttivi delle conquiste dei lavoratori degli ultimi trenta e più anni?
Tuttavia, il 15 marzo a Roma non c’era solo la piazza pro-UE di Michele Serra & company.
Certo, prepariamoci a vedere capitolazioni spettacolari di gente che si accoda all’appello “alle armi!”. Ma nello stesso tempo, nello stesso 15 marzo, si è svolta una contro-manifestazione di 10.000 persone, sempre a Roma, per la pace, contro gli aumenti delle spese militari, contro ogni intervento, con la sinistra della CGIL che ha preso le distanze da Landini e si è rifiutata di essere nella piazza pro-UE, come l’ARCI, come moltissime sezioni ANPI.
Pochi giorni dopo, a Parigi, si è tenuta la Conferenza Internazionale contro la guerra imperialista globale, alla quale ha partecipato una delegazione del nostro giornale. Nell’introduzione ai lavori, il militante del Partito dei Lavoratori francese che ha ospitato l’evento ha detto: “Tutto si giocherà sulla mobilitazione e dunque sull’indipendenza delle organizzazioni dei lavoratori contro la guerra”.
La Conferenza e l’azione di quanti sono raggruppati attorno a Tribuna Libera si concentra proprio in questo: aiutare il movimento contro la guerra e contro tutti gli attacchi che fin d’ora comporta (tagli per far fronte alle spese militari), a conquistare e preservare la propria indipendenza, affinché essa guidi la massa dei lavoratori a resistere, a fermare il massacro che si prepara.
Raggruppiamoci attorno a questa battaglia vitale. Venite alla riunione di resoconto della Conferenza Internazionale anche per discutere come farlo.
Lorenzo Varaldo
Il mondo sembra capovolgersi di colpo e in modo eclatante. Trump che insulta Zelensky e stabilisce la pace in Ucraina? Trump che impone una tregua in Palestina? L’Unione Europea contro gli USA, messa da parte e umiliata da Trump?
Vediamo la realtà.
Pistola puntata alle tempie, Trump cerca e sigla un accordo con l’Ucraina per poter aver mano libera allo sfruttamento del Paese, che diventerebbe una pura e semplice colonia USA. Nello stesso tempo, propone un accordo a Putin, per potersi “dedicare” alla Cina. Putin conserverebbe tutte le terre conquistate e sarebbe al sicuro dalla NATO. In cambio offre alle multinazionali USA un accesso allo sfruttamento del territorio russo.
Da parte loro, gli Stati europei, disorientati e messi da parte, cercano le briciole e un minimo di garanzie da parte di Trump. Dopo che la Meloni si era recata due volte, piattino alla mano, da Trump, senza peraltro ottenere altro che “lisciatine di pelo” e zero concessioni/ favoritismi per l’Italia, Macron parte in tutta fretta, dopo aver riunito i capi di Stato, alla volta del “nuovo sceriffo” americano (*) per supplicare almeno garanzie che un domani, se per caso Putin attaccasse altri Paesi del vecchio continente, gli USA interverrebbero. Non se ne parla nemmeno, risponde Trump.
Tutto si chiarisce brutalmente, e in modo allarmante.
Da una parte Trump vuol fare valere il suo “America first” a tutti i costi, sopra la testa di qualunque altra istituzione, ai danni degli altri capitalisti e senza cercare alcun accordo con essi. L’Europa rappresenta un primo bersaglio (dazi), ma sullo sfondo c’è soprattuto la guerra con la Cina, per ora commerciale ed economica, ma da preparare anche sul piano militare. “Allontanare Putin dalla Cina” per aver campo libero nell’attaccarla, commenta un esperto su Radio1 (Radio anch’io, 25/2). Inoltre, è anche necessario concentrare le spese militari per questa guerra che si prepara, tanto più in un contesto nel quale l’impegno militare a sostegno di Israele e più in generale in Medio Oriente continua a livelli mai visti.
Dall’altra parte ci sono gli interessi degli imperialismi europei, che messi di fronte alla politica di Trump fanno emergere la realtà che si è cercato di tenere nascosta per decenni: ognuno vuole il suo spazio, ognuno è, in fondo, in concorrenza con gli altri, tanto più ora che si tratta di spartirsi le briciole. Al di là delle parole retoriche, sono pronti a piegarsi agli accordi “Trump-Putin” (**), ma dicono grosso modo: ci prendiamo anche carico di garantire questi accordi con i nostri eserciti, ma che almeno ci si impegni a proteggerci. Risposta di Trump: me ne frego, di voi e dei vostri capitalisti.
America first.
Da parte loro, i governi europei devono comunque preparasi ai peggiori scenari che questa situazione può portare, e dunque concludono: armarsi, armarsi, armarsi. Sulla pelle dei lavoratori e dei loro popoli, dei servizi sociali, degli stipendi, dei contratti. E se i governi di Francia e Inghilterra spingono subito per l’invio di ben 30.000 soldati in Ucraina, Meloni aumenta le spese militari.
Caos e disordine mondiale avanzano, minacciando tutti.
Da tre anni, da queste colonne e con le nostre iniziative nazionali e internazionali affermiamo che la guerra in Ucraina è una guerra tra imperialismi, con il solo fine di determinare quale brigante avrebbe sfruttato di più questo Paese. Destra e “sinistra”, in Italia e nel resto d’Europa, che hanno votato decine di volte i finanziamenti alla guerra in nome di un presunto “diritto dei popoli”, hanno o non hanno da rendere conto delle loro azioni, per le quali più di un milione di morti hanno pagato, per vedere ora esattamente lo scenario che avevamo previsto?
In Europa, questi stessi governi e queste stesse “opposizioni” (comprese quelle di estrema destra, come in Germania, che si riempiono la bocca di “cambiamento”) vorrebbero farci ora digerire una ulteriore escalation di spese militari, in nome del “mantenimento dell’ordine”.
Conosciamo il loro “ordine”: osano ancora brandirlo!
No, la pace, la sovranità dei popoli, la fine della crisi economica non arriveranno da alcuno di questi soggetti. Potranno arrivare solo dalle mobilitazioni indipendenti dei lavoratori, contro ogni intervento e spesa militare, per la confisca dei miliardi da destinare invece a scuola, sanità, servizi, salari, pensioni, ricostruzione. Né Trump, né l’UE, nè Putin.
È in questa prospettiva che il 21 e il 22 marzo prossimi una nostra delegazione da Torino, Enna e Caltanissetta parteciperà all’Incontro Internazionale contro la guerra imperialista mondiale, a Parigi. Sostenete la delegazione, inviateci i vostri contributi.
Lorenzo Varaldo (*) Dichiarazione di Vance, vice presidente Usa, al vertice UE convocato da Macron
(**) Lo testimonia il ministro Pichetto-Frattin, che dichiara: “Con la fine della guerra siamo pronti a riprendere i contratti di gas con Putin”.
Le immagini impressionanti dei migranti incatenati come deportati ed espulsi esprimono drammaticamente ciò che l’insediamento di Trump segna: un nuovo inizio di una politica brutale contro i lavoratori di tutto il mondo.
Negli Usa, i primi attacchi si sono immediatamente avviati, appunto contro i migranti, ma anche contro il diritto all’aborto. Nello stesso tempo, la logica dell’ “America first”, già presente con Biden, ma ora portata alle estreme conseguenze, implica che gli interessi del capitalismo americano debbano avere la meglio, subito e ad ogni costo, su tutte le economie rivali, quelle delle altre potenze capitaliste, per esempio in Europa, come quella, su un altro piano, della Cina.
Dall’Italia, la Meloni è subito corsa, per ben due volte nel giro di pochi giorni, a cercare di raccogliere le briciole che Trump vorrà (o non vorrà) lasciare al resto del mondo e in particolare ai Paesi europei.
Meloni sa bene come il capitalismo italiano si trovi in posizione molto debole - storicamente - rispetto a Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, per certi versi addirittura Portogallo, Olanda, Belgio… Anche lei teme che la crisi che rischia di travolgere l’Europa per far posto all’ “America first” sollevi la reazione della classe operaia italiana, certamente colpita duramente negli anni, senza rappresentazione politica, in difficoltà, ma per nulla sconfitta storicamente, come dimostra lo sciopero generale del 29 novembre scorso e le tantissime mobilitazioni che scoppiano continuamente.
La vicenda della negazione, da parte della Corte Costituzionale, del referendum abrogativo della Legge Calderoli di applicazione dell’Autonomia differenziata ci dice innanzitutto che, quali che siano state le pressioni più o meno forti sulla Corte (e pressioni ce ne sono state, se non altro per le dichiarazioni degli esponenti del governo), il governo è stato per ora salvato da una possibile/probabile sconfitta che avrebbe messo in causa tutta la sua politica (pag. 3). Ma il sentimento e la volontà di battersi, alle quali per il momento si sono tarpate le ali, restano.
In questa situazione, una prospettiva può arrivare da una pseudo resistenza a Trump da parte dell’UE, come vorrebbe farci credere il PD?
Illusione mortale.
Se la Meloni non esita a rimettere in causa gli equilibri in Europa, presentandosi da sola con il piattino in mano alla corte di Trump, dall’altra concorda pienamente con Von Der Leyen e con tutta l’UE - con in testa il “suo” commissario, Fitto - nell’andare a fondo dei piani distruttivi. Sì, perché che si tratti di Meloni più o meno da sola o di una UE più o meno “unita”, tutti i capitalisti hanno solo una strada per cercare di resistere a Trump: abbassare il costo del lavoro per restare competitivi, tanto più se ci saranno dazi o altri ostacoli ai loro affari. E abbassare il costo del lavoro significa tagliare i salari, sostituire uomini con macchine, privatizzare, ridurre le spese nella scuola e nella sanità… Se poi ci aggiungiamo le spese militari, gli attacchi che l’UE prospetta diventano ancora più micidiali nel prossimo periodo.
Più o meno divisi dietro a Trump, Meloni e l’UE sono perfettamente uniti per portare questi colpi.
Da parte sua, il governo italiano si prepara allo scontro con i lavoratori riducendo gli spazi democratici e con misure repressive. Logico, si dirà, è un governo di destra e fascistizzante. Certo, ma se fa questo è perché teme di non poter controllare la classe operaia e i lavoratori con metodi più tradizionali.
Il milione e 300 mila firme per il referendum, la lotta dei metalmeccanici, le mobilitazioni contro le guerre e contro la repressione, le decine e decine di lotte nei più diversi settori sono nella coscienza di tutti e nutrono giorno dopo giorno il rigetto di questo governo, come in tutti i Paesi. Nulla è giocato, a livello mondiale come a livello italiano.
Più che mai, la questione è quella delle lotte, della loro organizzazione, delle parole d’ordine corrette, della politica dei dirigenti, in particolare quelli sindacali, che saranno sempre più posti di fronte all’alternativa se andare fino in fondo nelle mobilitazioni o se finire per accettare, pur con qualche lotta di rappresentanza, le misure. Non meno importante è la questione di chi può e potrà rappresentare politicamente queste lotte e le aspirazioni dei lavoratori.
L’unità che si era realizzata attorno al referendum contro l’Autonomia differenziata e che certamente ha intimorito il governo è la strada da seguire: Tribuna Libera si è battuta e si batterà per aiutare a costruire e ricostruire dappertutto questa strada per fermare il governo Meloni e aprire un’altra prospettiva.
Lorenzo Varaldo
In tutta Europa i lavoratori si sollevano contro i piani di austerità, i licenziamenti, le chiusure, i tagli, le privatizzazioni.
In Germania, i dipendenti Volkswagen entrano in sciopero a tempo indeterminato contro il piano che prevede la chiusura di ben tre stabilimenti e il licenziamento di migliaia di operai e impiegati. Incapace di governare questa situazione e più in generale la crisi che attraversa la “locomotiva d’Europa”, il governo si dimette.
In Francia, gli scioperi contro la proposta di legge di bilancio che prevede drastici tagli al settore dei servizi pubblici, lo sciopero dei lavoratori di Arcelor-Mittal, quello dei trasporti e degli agricoltori e quelli di decine di fabbriche sono lo sfondo attuale di una crisi che nessuno può più considerare solo politica, ma istituzionale, con la seconda caduta del governo in pochi mesi, in un Paese dove le istituzioni sono state create apposta per evitare ciò. Non è un caso che La Stampa commenti questa caduta con le seguenti parole: “Il fallimento delle istituzioni di De Gaulle”.
In Spagna, solo poche settimane fa, a seguito dell’alluvione tragica di Valencia, la popolazione si è scagliata non solo contro il governatore della regione, del Partito Popolare, sostenuto da quello di estrema destra, Vox, ma anche contro il governo centrale presieduto dal “socialista” Sanchez e contro il re, Filippo VI.
In Italia, dopo lo sciopero generale del 29 novembre che ha visto l’adesione di milioni di lavoratori e 500.000 persone nelle piazze a manifestare contro la manovra del governo, un’ondata di altri scioperi di fabbriche in crisi attraversa il Paese, mentre il governo comincia a temere che il referendum sull’Autonomia differenziata possa davvero metterlo in crisi, nonostante la pochezza dell’ “opposizione”.
La Volkswagen che licenzia raggiunge nel 2024, insieme a BMW e Daimler, tra i 50 e i 55 miliardi di profitti. Ma per i capitalisti che la detengono non sono sufficienti, perché temono che “i mercati” possano indirizzarsi verso altre multinazionali che hanno profitti ancora maggiori.
Da parte sua Stellantis, mentre annuncia la crisi e i licenziamenti, ha realizzato 23 miliardi di utili, anche grazie alle delocalizzazioni. Il tutto è avvenuto mentre la società ha ottenuto ingenti aiuti di Stato e continua a pretendere sovvenzioni pubbliche per non licenziare. Secondo l’Indipendente, “più che alla produzione, Stellantis si è dedicata alla speculazione finanziaria, mentre il suo primo azionista, Exor (società finanziaria olandese di John Elkann, presidente esecutivo di Stellantis), ha cercato fortuna in altri ambiti, tra cui quello sanitario e farmaceutico”.
Nei giorni successivi allo sciopero generale del 29 novembre, Landini ha dichiarato che vuole “rivoltare il Paese come un calzino”, aggiungendo che “è arrivata l’ora di una vera rivolta sociale, perché senza rivolta non c’è libertà”.
Una cosa è certa: qualunque rivendicazione sul terreno dei lavoratori si scontra e si scontrerà con la logica del profitto e più precisamente con il ricatto che aumenti di salari, miglioramenti contrattuali, ritiro dei licenziamenti o delle casse integrazione, dirottamento della spesa militare verso quella sociale o qualunque altra misura a favore dei lavoratori possa far “perdere fiducia ai mercati” e generare un movimento di fuga dagli investimenti.
Certo, che “i mercati” non possano accettare una riduzione dei loro mirabolanti profitti è nell’ordine delle cose. Che ricattino, anche. Ma se ci si deve piegare a questa logica, allora non resta che attendere di essere condotti tutti al disastro, alla povertà, alla guerra.
Viceversa, la storia dimostra che “i mercati” possono anche essere costretti, proprio dalla forza dei lavoratori che non cedono al ricatto, ad una prova di “realismo” e dunque a cedere in qualche parte più o meno grossa, per il timore che la rivolta faccia perdere loro molto di più, se non tutto.
Se uno solo dei movimenti che si vedono in Europa costringesse i mercati (e quindi i governi di tutti i colori politici che li rappresentano) ad indietreggiare, non c’è dubbio che tutti gli altri riceverebbero una spinta a fare altrettanto, con onde che arriverebbero in tutto il mondo.
“Rivoltare il Paese come un calzino” è dunque urgente, se l’obiettivo è strappare davvero delle conquiste e dei passi indietro del governo.
Ma per farlo è necessario non cedere di un millimetro al ricatto dei “mercati”.
Il primo segnale in questo senso non dovrebbe essere denunciare la legge antisciopero, votata dal centrosinistra e accettata dai sindacati negli anni ’90, che frena tutte le lotte e permette a Meloni Salvini di spingersi oltre nella rimessa in causa del diritto di sciopero?
Lorenzo Varaldo
Il 29 novembre i lavoratori di tutto il Paese sono scesi in sciopero in massa contro la Legge di Bilancio e più in generale contro la politica del governo Meloni-Salvini. Nelle piazze, centinaia di migliaia di donne, uomini, giovani, pensionati hanno ancora una volta dimostrato di essere pronti alla mobilitazione, di esistere come classe attorno ai propri sindacati e di aspirare all’unità per farla finita con una politica di guerra e sfruttamento che prosegue da decenni e che si accentua ogni giorno di più.
“Cambiare la Legge di bilancio” era la parola d’ordine della CGIL e della UIL, che hanno convocato lo sciopero. E con essa, “aumentare salari e pensioni, finanziare sanità, istruzione e servizi pubblici, investire nelle politiche industriali”.
Queste rivendicazioni inducono ad alcune riflessioni. Non si può che condividere che l’aumento di pensioni e salari e il contestuale finanziamento della sanità, dell’istruzione e dei servizi pubblici rappresenterebbero un passo importante verso un cambiamento della politica dei governi alla quale assistiamo da più di trent’anni e che con questo esecutivo si sta approfondendo.
Non c’è alcun dubbio che per realizzare questi obiettivi sia necessario andare a prendere i soldi là dove ci sono, e cioè ai capitalisti, alle banche, agli speculatori. Troviamo effettivamente questa indicazione tra gli obiettivi di CGIL e UIL: andare a prendere i soldi negli “extraprofitti, profitti, rendite, grandi ricchezze, evasione fiscale e contributiva”.
Noi aggiungiamo: non un euro per le armi e per la guerra, fine delle spese militari, dirottamento dei finanziamenti su salari, pensioni, sanità, scuola”. Una cosa è certa: i capitalisti, e dunque il governo che li rappresenta, non resteranno a guardare; non possono accettare che una parte dei loro enormi profitti venga dirottata sui lavoratori e sulla popolazione.
Da questo punto di vista, l’elezione di Trump negli USA tende ad accentuare tutti i processi di attacco alle conquiste e ai diritti dei lavoratori. Da un lato, perché Trump, cercando in tutti i modi di attaccare i lavoratori e la classe operaia del suo Paese per abbassare il costo del lavoro ed aumentare così i profitti e permettere nello stesso tempo alle merci statunitensi di invadere ancor più di oggi i mercati di tutto il mondo, indurrà i capitalisti degli altri Paesi a fare altrettanto per “restare sul mercato”. Dall’altro, perché la possibile istituzione/ aumento dei dazi verso i Paesi UE e la Cina non potrà che creare nuova crisi.
Intendiamoci: come si legge nella dichiarazione del CORQI (pag. 4) a seguito delle elezioni, il fondo della politica statunitense è lo stesso, con Trump o con la Harris. Ma le modalità per applicare questa politica (di guerra all’esterno e all’interno) sono in parte diverse e possono segnare un’accelerazione o meno di alcuni processi contro i lavoratori. Trump e la parte di capitalisti che l’ha sostenuto a suon di milioni di dollari credono di poter passare sulla classe operaia del loro Paese facilmente, confidando anche sul colpo che hanno subìto i dirigenti sindacali che hanno sostenuto la Harris. Vedremo se fanno bene o male i loro conti; certamente, anche negli USA una classe operaia strutturata e organizzata non resterà a guardare.
Ciò che è sicuro è che da noi, in Europa e in Italia, le classi operaie e i lavoratori, per quanto in difficoltà, hanno dimostrato di essere vive e pronte a battersi. É stato più volte il caso della Francia, lo è della Germania, della Spagna… e in questo contesto lo sciopero del 29 novembre ci dice che lo è anche per l’Italia.
Lo scontro che si annuncia necessita dunque di chiarezza e di volontà di andare fino in fondo nelle rivendicazioni (quelle giuste, vedere nota) da parte dei dirigenti sindacali. Chiarezza, nel dire che non esistono “interessi comuni” tra capitalisti e lavoratori e che, alla fine, o vincono gli uni o vincono gli altri. Volontà di andare fino in fondo, facendo in modo che lo sciopero del 29 novembre non sia l’ennesimo senza conseguenze concrete, isolato, lasciato poi cadere mentre il governo tira dritto per la sua strada.
Sullo sfondo, una questione, più o meno cosciente, attraversa i milioni che hanno scioperato: non è forse urgente costruire una forza politica che possa davvero costituire un’alternativa a questo governo e a tutte le politiche dei governi degli ultimi trent’anni?
Lorenzo Varaldo
Un tale senatore Valdegamberi, alludendo ad una possibile vittoria del SI’ al referendum sull’Autonomia differenziata, ha dichiarato in Parlamento: “I veneti sono pronti a rompere l’ordine costituzionale se la legge (sull’Autonomia differenziata) dovesse essere annullata”.
La portata di queste affermazioni non può essere sottostimata. Per la prima volta in modo esplicito viene detto: o lo Stato e le altre Regioni accettano di sottomettersi ai “veneti” oppure apriremo scenari balcanici.
“Si è fatto prendere la mano”, scrive Il Mattino di Padova commentando le dichiarazioni di Valdegamberi. Anche Il Mattino coglie la gravità e cerca di sminuirla. Ma la gravità resta.
Nelle settimane scorse, Calderoli ha più volte dichiarato: “Chi promuove il referendum promuove la divisione del Paese”. Lungi dall’essere una boutade paradossale perché detta da un uomo che, con il suo partito, cerca da trent’anni la divisione del Paese, è in realtà un avvertimento appena più sottile e velato di quello di Valdegamberi: state attenti ad abrogare la legge - sembra dirci il leghista - perché davvero vi scateneremmo la guerra.
A forza di aizzare - e la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna hanno cominciato a farlo nel 2017 - non si sa dove si finisce.
L’Assemblea-convegno di domenica 27 ottobre, a Roma, per l’abrogazione della Legge Calderoli (vedere interno) ha posto una questione decisiva: si può fermare questa pericolosa forza? Come è emerso in particolare da due interventi e poi nelle conclusioni, benché il processo in atto sia davvero eversivo e pericoloso è ancora possibile fermarlo.
Chi può farlo? Solo la mobilitazione delle masse, con la classe operaia in testa, con tutti i lavoratori del nord e del sud uniti, dapprima affinché il referendum abbia luogo (cioè per pesare sul giudizio della Corte Costituzionale), poi per vincerlo.
La raccolta firme di quest’estate ci dice che è possibile.
Ma l’assemblea-convegno di Roma ha messo in evidenza anche un altro punto: tra il dire (la mobilitazione necessaria che tutti a parole auspicano) e il fare (mobilitarsi davvero senza ambiguità, reticenze e freni) c’è di mezzo… l’ “opposizione” parlamentare del PD, del M5S e di SI-Verdi.
Già, perché i senatori di questi partiti, intervenuti a Roma, hanno detto che sì, certo, l’AD di Calderoli va male, va combattuta, il referendum ci deve essere, ci si deve mobilitare…, ma nel frattempo loro - che quando erano al governo con Conte I, II e Draghi avevano promosso leggi praticamente identiche alla Calderoli - continuano a sostenere anche un altro referendum, quello dei cosiddetti “quesiti parziali”, che invece di prevedere l’abrogazione della legge intera ne preconizzano l’eliminazione di una parte così piccola e insignificante da poter tranquillamente dire che l’AD passerebbe al 99%.
Non solo: non hanno speso una parola di condanna per il presidente della Campania, De Luca, del centro-sinistra, che ha presentato una proposta per emendare la legge Calderoli e quindi applicarla. Chi tace, acconsente…
Domanda: tutto ciò non ha forse a che fare in qualche modo con la percentuale dei votanti alle elezioni Regionali della Liguria, che non fa che accentuare la tendenza al non voto sempre crescente? Non ha forse a che fare con l’ennesima “vittoria” della destre?
Sì, il collegamento è diretto, qui come per mille altri temi: i lavoratori, i cittadini, la classe operaia colgono perfettamente le ambiguità, le falsità, le coperture del centro-sinistra. Stretti tra due forze che alla fine applicano la stessa politica, non vanno più a votare.
Che cosa direbbe un partito veramente dei lavoratori in questa situazione? Certamente si batterebbe perché l’ “unità” professata da PD, M5S e SI-Verdi si trasformi in una vera unità senza virgolette, e cioè perché questi partiti ritirino i loro referendum parziali, le loro proposte di emendamenti alla legge Calderoli e si gettino realmente nella mobilitazione per la sua abrogazione completa.
Nello stesso tempo si batterebbe per il ritiro di tutti i tagli e le misure contro i lavoratori della Legge di bilancio (pag. 2), spiegando in modo chiaro che queste misure non sono altro che l’applicazione della politica di guerra dell’UE e della NATO e che quindi una via d’uscita non potrà che comportare la rottura con queste istituzioni, il dirottamento di tutte le spese militari in servizi pubblici, salari, sanità, scuola, pensioni.
Tribuna Libera non si autoproclama questo partito, ma, come dice una lavoratrice intervenuta all’incontro dibattito organizzato dalla redazione in Sicilia il 5 ottobre (vedere pag. 3), “il problema del partito è posto”. Più che mai, è il momento di aggregarci per allargare questa discussione.
Lorenzo Varaldo
ll Decreto sicurezza approvato dal governo (vedere pag. 2) è prima di tutto un atto preventivo. Certo, già ora colpisce le tante lotte che ci sono nel Paese e che vengono perlopiù taciute dai media e, cosa più grave, dalla cosiddetta opposizione.
Ma il treno di misure che si prepara con la Legge di Bilancio, abbinato a quello delle crisi industriali in atto e in gestazione, combinati a loro volta con l’escalation delle spese militari e della guerra sulla quale necessariamente sfociano, rende il governo perfettamente consapevole del fatto che le mobilitazioni possono da un momento all’altro esplodere, tendere ad unificarsi, metterlo in discussione.
L’estate ci ha consegnato in questo senso la lezione della campagna referendaria contro l’Autonomia differenziata.
Oggi, a raccolta firme appena conclusa, questa lezione appare ancora più forte e chiara: 1.291.488 firme in due mesi non sono semplicemente il risultato (già significativo) di una campagna specifica su questo tema, ma un segnale evidente che l’avversione a questo governo (e per chi l’ha votato la delusione) cresce tra la gente. Forte in Parlamento, il governo è sempre più debole nel Paese.
E un governo debole ha due strade davanti a sé: quella che porta alle dimissioni o quella della repressione.
La guerra intanto incombe. Una guerra all’esterno, che prende contorni sempre più inquietanti sia in Ucraina sia in Palestina, entrambe accumunate dalla retorica del “diritto a difendersi” e dalle “proposte di pace” che sfociano sistematicamente sull’estensione dei massacri.
Ma la guerra è anche all’interno. Che cos’è quella che liquida l’industria dell’auto, se non una guerra contro decine di migliaia di lavoratori con le loro famiglie? Che cos’è quella che si prepara ad attaccare nuovamente la sanità pubblica, i contratti, i servizi con la Legge di bilancio, se non una guerra contro tutti i cittadini? E che cos’è, se non una guerra al futuro dei giovani, quella che immette miliardi nella scuola pubblica per dislocare completamente l’insegnamento attraverso i piani PNRR, costringendo le scuole a privatizzare ed appaltare all’esterno migliaia e migliaia di ore, con il fine di eliminare le discipline, il sapere, la cultura, sostituendola con una generica animazione vagamente sociale, dispersiva e vuota, che lascia dietro di sé una marmellata del nulla nella testa dei ragazzi?
Un’economista critica osserva: “Mantenerci precari, dipendenti dal mercato ed estremamente ignorante, tutti fattori che concorrono a cancellare l’idea di un’altra società”. Il Piano Draghi presentato all’Unione Europea, che cominciamo ad analizzare all’interno, rappresenta la perfetta congiunzione tra questa guerra all’esterno (l’economia degli armamenti come “sviluppo”) e quella all’interno.
D’altra parte, il signor Draghi è una garanzia per simili piani… Non meno “garanti” sono Meloni, Salvini, Calderoli, Giorgetti, che mentre agitano le bandiere della demagogia più o meno “contro” l’UE, da sempre, con tutti i governi che hanno diretto e più che mai con questo, ne applicano perfettamente le direttive. Il voto sui crediti di guerra ne è l’esempio più clamoroso di oggi (vedere Corsivo), non meno della risposta alle esigenze UE (cioè dei capitalisti) con la Legge di bilancio o alla nomina di Fitto membro della Commissione.
Il problema è che “non meno garanti” lo sono state anche le opposizioni, PD, Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana: che oggi votino a favore o contro i vari provvedimenti, che si dividano o meno, quando sono state al governo hanno interpretato la stessa politica. Ma il governo lo sa: non esistono solo i suoi piani, non esiste solo Draghi o la Von der Leyen, non esiste solo un’opposizione che balbetta e reclama “più Europa”.
In basso, esistono i problemi concreti delle persone, la rabbia che cresce, che cerca uno sbocco. In basso, lo sciopero generale Stellantis ci dice che qualcosa si muove.
Lo sappiamo, manca e ci manca un vero partito dei lavoratori, indipendente, che stia davvero dalla parte di questa rabbia ed apra una prospettiva. Che cosa farebbe oggi un tale partito, piccolo o grande che sia? Non c’è dubbio: si batterebbe in ogni luogo di lavoro, in ogni assemblea, in ogni istanza sindacale, in ogni lotta, per l’unità, per un’unica mobilitazione, immediata, di massa, per il ritiro dei provvedimenti presi e di quelli in preparazione. Subito, non solo in attesa del referendum o dei referendum.
Tribuna Libera, con le sue forze, vuole essere esattamente questo: abbonatevi, raggruppiamoci, confrontiamoci su come aiutare questa lotta urgente.
Lorenzo Varaldo
Due forze si oppongono più che mai nel Paese.
Da una parte quella di tutti coloro che sostengono gli interessi del capitale. A rappresentare questa forza c’è in questo momento il governo Meloni, che per perseguire i suoi scopi con una certa celerità non esita a rimettere in causa ciò che resta della democrazia (con il cosiddetto “Premierato forte”), l’unità della Repubblica (Autonomia differenziata), una certa (seppur limitata) indipendenza del sistema giudiziario.
Nello specifico dei suoi provvedimenti immediati, in ossequio all’UE, questo governo ha annunciato in questi giorni una manovra da 25 miliardi, con relativi e ormai consueti tagli ai servizi pubblici, ai contratti, aumenti delle tariffe…, e per finanziare la guerra.
Dall’altra parte, la “novità” di questa estate ci viene dai primi risultati della campagna referendaria per l’abrogazione della Legge Calderoli di applicazione dell’Autonomia differenziata.
Come si può vedere a pagina 3, in pochi giorni questa campagna ha raggiunto e superato largamente le 500.000 firme necessarie, ma specialmente ha dimostrato che i lavoratori, i giovani, i cittadini non sono per nulla passivi, per nulla rassegnati, per nulla indisponibili alla lotta. In realtà questa campagna non rappresenta una vera “novità”. Essa non fa altro che confermare - se ancora ce ne fosse bisogno - quello che in trent’anni di attacchi portati avanti da tutti i governi, di tutti i colori politici, è sistematicamente emerso: la stragrande maggioranza della popolazione si appropria di qualunque strumento disponibile per tentare di resistere e lottare.
Che sia sul terreno diretto della lotta di classe (scioperi e manifestazioni), su quello elettorale (anche attraverso l’enorme astensione sempre crescente) o adesso su quello referendario, non c’è provvedimento, legge, decreto, licenziamento, privatizzazione che non abbia sollevato la reazione e la mobilitazione.
La campagna referendaria di oggi è particolarmente significativa perché il tema (AD) è rimasto praticamente nell’ombra per anni, non trovando una pubblicità (né negativa né positiva) che potesse far comprendere ai cittadini di che cosa si trattasse, almeno “a spanne”.
Eppure, sotto sotto, i lavoratori, la popolazione, si sono informati, hanno cominciato a comprendere l’inganno, hanno capito che se l’AD arriva da questo governo non c’è nulla di buono da aspettarsi. Ora un problema si pone, più che mai.
Se la prima forza, quella del capitale, può contare sui partiti di governo di oggi (e in passato su praticamente tutti i partiti presenti in Parlamento), su che cosa può contare la seconda forza, quella che si oppone, che cerca con testardaggine di fermare i piani distruttivi del capitale, guerra compresa? Parliamo dei partiti dell’ “opposizione”.
A pagina 3 spieghiamo il problema che si è venuto a creare con l’ambiguità del PD, del M5S e di Sinistra Italiana, che da un lato promuovono (insieme a CGIL, UIL e tante forze associative) il referendum abrogativo della legge Calderoli, dall’altro, contemporaneamente, ne promuovono un altro, parallelo, che si può tranquillamente definire “confermativo” della stessa legge. E ancora: diversi esponenti del PD moltiplicano le dichiarazioni in direzione di un “aggiustamento” della legge che confermi l’Autonomia differenziata, “diluendola” appena, leggermente.
Molto più chiara appare invece la posizione di CGIL e UIL, che promuovono un solo referendum abrogativo; anche se, al momento, tacciono sull’altro. Del tutto chiara, infine, è la posizione delle associazioni, che in questa calda estate si sono gettate nella campagna con un solo intento: fermare tutta la legge e ogni AD.
Da qui tutto il nostro impegno perché si realizzi e poi si vinca un solo referendum, totalmente abrogativo della legge Calderoli.
Può darsi che attorno a questo referendum - se sarà accettato dalla Corte Costituzionale - si concentreranno tutte le avversioni al governo che finora non hanno trovato sbocco, anche per la mancanza di una vera alternativa politica.
Se così sarà, bene.
Ma si può attendere il voto a giugno 2025, a fronte del treno di misure contro i lavoratori che il governo annuncia? A fronte delle centinaia di migliaia di casse integrazioni e dei 65.000 licenziamenti (dati CGIL)?
Si può accettare che, forse, uno sciopero venga poi proclamato a dicembre, a “babbo morto” e Legge di Bilancio approvata?
È ora, subito, che i dirigenti sindacali devono mobilitare, per il no a qualunque taglio, per veri aumenti di stipendio, per lo stop alle chiusure e ai licenziamenti, per un solo referendum abrogativo. La campagna referendaria ci dice che la popolazione è pronta.
Lorenzo Varaldo
I nostri lettori riceveranno questo numero quando le elezioni francesi si saranno già svolte. Quale che sia il risultato, la loro convocazione in tutta urgenza da parte di Macron segnala una crisi istituzionale il cui significato va molto al di là della Francia.
Le istituzioni francesi non sono quelle italiane, benché i problemi che questa crisi esprime non siano così lontani. Esse si fondano su un colpo di Stato che nel 1958 porta al potere De Gaulle, il quale, appena insediatosi, scioglie la IV Repubblica e promuove la V (attuale), che mira ad esautorare la dialettica parlamentare, che egli stesso definiva la "dittatura parlamentare”, prevedendo un’enorme concentrazione di poteri nella mani del Presidente della Repubblica.
Era la risposta del capitale all’instabilità che, attorno alla guerra d’Algeria, rendeva sempre più difficile una politica contro i lavoratori.
Questo accentramento che mira ad impedire la caduta dei governi e che consegna al presidente un potere enorme, tanto da permettergli di far passare le leggi ed i decreti senza nemmeno il voto del Parlamento, è alla base di tutta una serie di provvedimenti adottati nonostante mobilitazioni immense, come quella che per mesi aveva paralizzato il Paese nell’inverno-primavera del 2023, contro la “riforma” delle pensioni. Già in quell’occasione Macron, oggi considerato l’uomo più odiato di Francia, aveva vacillato. Lo avevano salvato, certo, le istituzioni della V Repubblica, cioè il suo “potere forte”, ma specialmente il rifiuto delle organizzazioni sindacali di convocare uno sciopero unito, a tempo indeterminato, fino al ritiro della “riforma”. (Detto en passant, alla fine i lavoratori francesi fecero probabilmente molte più giornate di scioperi divisi, in date diverse, infine perdenti, di quanti non ne avrebbero fatte se i dirigenti sindacali e politici avessero chiamato subito allo sciopero a tempo indeterminato.)
Ma le mobilitazioni di mesi e di anni, la forza della classe operaia, la rabbia, non spariscono solo perché le istituzioni consegnano ad un “uomo forte” il potere di passare sopra ogni rispetto della maggioranza. Procedono ad onde, si esprimono, rifluiscono, vengono contenute, riesplodono…
E così il 9 giugno la quantità si è cominciata a trasformare in qualità: un vero terremoto ha infine messo in crisi anche un governo che, sulla carta dei “numeri”, avrebbe potuto continuare la sua strada senza problemi, proprio a causa delle istituzioni sulle quali si regge. Per questo la crisi non è solo politica, ma più che mai istituzionale: la V Repubblica, pur con i suoi poteri forti, con il suo voto plebiscitario per il presidente, con un Parlamento fantoccio, non è più in grado di fare il suo “dovere” per conto dei capitalisti.
Al centro del voto contro Macron c’è il rigetto della guerra e dell’uomo che in Europa si è spinto più in là per sostenerla e ampliarla.
Di fronte a questo voto, due scenari si sono aperti. Da una parte, quello della destra estrema, del Rassemblement National. Dall’altra, quello dei milioni che immediatamente sono scesi nelle piazze per dire No a questa destra razzista, fascista, antioperaia, ma anche No a Macron. Alla testa di questi milioni si sono messi i dirigenti di quasi tutti i partiti di sinistra, che però hanno assicurato fin d’ora (compresa La France Insoumise) che garantiranno i finanziamenti per la guerra in Ucraina (è nel loro programma). Che cosa uscirà dalle urne?
Le istituzioni francesi, proprio per la loro natura, mal sopportano le combinazioni parlamentari come le conosciamo noi.
Eppure, a causa dell’enorme crisi che vivono, dovranno forse permettere soluzioni e “coabitazioni” più impensabili fino a ieri.
Quali? Concretamente, lo vedremo. Una cosa è certa: per i capitalisti di tutto il mondo, per la NATO, gli USA, l’UE, il FMI, l’instabilità è il pericolo più grande. E l’instabilità della Francia, nel cuore dell’Europa, con una classe operaia forte benché duramente attaccata, è un problema enorme. Il dilemma del capitale è semplice: come cercare la “stabilità”? Azzardare - a fianco di Macron, per il momento - la destra estrema per schiacciare con la forza la resistenza, oppure utilizzare la “sinistra” per calmare i lavoratori?
Chi la pensa nel primo modo (probabilmente al momento una minoranza, benché nutrita, dei capitalisti francesi) e chi nell’altro, su una cosa sono d’accordo: la guerra deve continuare (troppi interessi in gioco) e i lavoratori devono essere schiacciati. Nel primo caso (destra estrema), il “pericolo” per il capitale è che la classe operaia, con la forza che ha espresso ancora nelle ultime settimane, si rivolti verso una rivoluzione; nel secondo, che sull’onda della vittoria dei partiti di sinistra, la stessa classe pretenda misure a suo favore e tenda ad imporle, anche con un movimento rivoluzionario.
Passiamo le Alpi, veniamo da noi. Certo, le nostre istituzioni sono molto diverse da quelle francesi. Certo, al momento il governo sembra stabile, benché il voto non l’abbia premiato, come invece la propaganda vuole farci credere (analisi a pag. 2). Certo, uno scenario come quello francese sembra al momento lontano…
Ma se guardiamo più da vicino, vediamo che la “riforma” del premierato appena varata in prima lettura al Senato non è altro che un tentativo di dare “poteri forti” e stabilità anche al governo italiano, quale che sia. È da trentacinque anni che si tentano e si attuano “riforme” costituzionali ed elettorali per assicurare questa stabilità in grado di liquidare definitivamente le conquiste e i diritti dei lavoratori, ma nessuna ci è riuscita pienamente, a causa della permeabilità delle istituzioni italiane alla lotta di classe. D’altra parte, su un piano apparentemente diverso ma complementare, l’Autonomia differenziata appena varata (pag. 3) è il tentativo di garantirsi la stabilità attraverso la divisione della classe operaia e dei lavoratori, cioè attraverso lo smembramento della loro forza. Non c’è da stupirsi, dunque, se l’AD è stata ed è ancora appoggiata e promossa anche dalla “sinistra”, sempre fedele al capitale, contro la sua origine storica.
Che sia la Francia, che sia l’Italia, che sia la Germania o altri Paesi, alcune prime conclusioni riguardano tutti.
Innanzitutto, i lavoratori, per quanto attaccati e colpiti duramente, non sono schiacciati e costringono i capitalisti a crisi enormi (Francia) o a misure per cercare di prevenirle (Italia). In secondo luogo, senza il contributo dei partiti di sinistra e dei dirigenti dei sindacati è impossibile arrivare a schiacciare i lavoratori.
Da dove arriverà allora la via d’uscita?
Essa non uscirà né in Francia né in Italia, né altrove, da strane combinazioni elettorali o “coabitazioni” (e in Italia di combinazioni e di “coabitazioni” ne abbiamo viste…) che accettano i diktat dell’UE, della NATO, del FMI, degli USA, ma da un governo che abbia il coraggio di rompere davvero con il capitalismo e con le sue politiche di guerra e di attacco ai lavoratori, appoggiandosi sulla massa di chi rifiuta queste politiche (anche attraverso l’astensione) e proteggendosi così dalla reazione fascista.
La posta in gioco, in Francia prima di tutto, ma anche altrove, è alta: da una parte c’è la democrazia, la riconquista dei diritti persi, l’abrogazione di tutte le controriforme varate; dall’altra, una deriva autoritaria, benché in forme magari inedite.
Lorenzo Varaldo
A poco a poco i governi occidentali cercano di farci percepire come “normale” la guerra e quindi la sua possibile estensione.
Il conflitto in Ucraina ha già fatto quasi un milione di vittime tra i due popoli, moltissimi dei quali civili, mentre l’ultimo massacro a Rafah porta a 36.000 le vittime di Gaza dal 7 ottobre, con 80.000 feriti e un territorio completamente distrutto. Cifre ed atti paurosi, inaccettabili fino a qualche tempo fa, sono oggi la quotidianità che viene passata sotto i nostri occhi.
Un deputato della maggioranza interviene a Radio Uno: “Abbiamo vissuto in pace e dunque abbiamo pensato che la pace fosse la condizione normale. Ma non è così. La pace non è altro che un periodo tra due guerre, e dobbiamo abituarci all’idea che la guerra può arrivare”.
È la banalizzazione delle barbarie e, nello stesso tempo, la preparazione premeditata di un coinvolgimento più diretto delle popolazioni che per ora sono rimaste “spettatrici”.
La Nato ha votato a maggioranza, nell’ultimo vertice di Sofia, il sostegno all’utilizzo da parte dell’Ucraina di armi per colpire in territorio russo. Il segretario Stoltenberg pressa affinché tutti i Paesi si allineino, segno evidente che la guerra chiama la guerra, in un’escalation che ha come unico “risultato” quello di alimentare i giganteschi profitti dell’industria delle armi.
Il governo italiano non ha votato la dichiarazione NATO e condanna a parole il massacro di Rafah. Salvini ripete che nessun soldato italiano parteciperà ad operazioni di guerra. Ma intanto, tutti insieme - e con l’ “opposizione” - votano a Bruxelles a a Roma tutti i finanziamenti alla guerra in Ucraina e Israele; in questo secondo caso, oltretutto, violando una decisione che aveva interdetto per il nostro Paese la vendita di armi al governo di Netanyahu. Il Manifesto riporta che “tra dicembre 2023 e gennaio 2024, l'Italia ha esportato verso Israele armi e munizioni da guerra per un valore complessivo di oltre due milioni di euro”.
D’altra parte, dietro gli slogan del “cambiare l’Europa”, Meloni, Salvini, Tajani hanno accettato, votato e votano tutti i piani dell’UE.
Evidentemente si tratta di propaganda e in periodo elettorale essa può spingersi anche a dire un timido no alla NATO, ben sapendo che ciò che l’Alleanza e i governi più “arditi” cercano non è tanto un coinvolgimento immediato più forte e con uomini, ma cominciare a far penetrare l’idea, farla masticare, per poi farla digerire.
Non si tratta d’altra parte solo di far digerire la guerra, ma tutto ciò che porta con sé, in primis i tagli alla spesa sociale che si rendono “necessari” per finanziarla.
Salvini e Calderoli, accaniti promotori dell’Autonomia differenziata che sta per essere votata alla Camera, non hanno alcun problema a votare i tagli di finanziamenti ai Comuni, strangolando proprio quel poco di servizi ai cittadini che è rimasto dopo anni di attacchi e privatizzazioni.
Da parte sua, la Meloni (naturalmente con tutto il governo) si appresta a far votare il “premierato” (vedere articolo interno).
Tutto ciò è in stretta relazione con un fatto: la popolazione italiana non vuole la guerra, non vuole i tagli, non vuole la distruzione della sanità, della scuola pubblica. Intorpidita dalla propaganda, tenuta all’oscuro in merito alle conseguenze dell’Autonomia differenziata e del premierato, la popolazione solidarizza istintivamente con la Palestina e ha capito perfettamente che il sostegno a Zelensky non ha nulla a che vedere con il portare la pace.
Meglio dunque, per il momento, a pochi giorni dalle elezioni, mettere in scena una finta “opposizione” all’Ue e persino alle decisioni NATO, sempre garantendone naturalmente l’attuazione sul piano pratico. E nel frattempo prepararsi il terreno per poter procedere domani, speditamente, grazie al premierato e all’AD, ad entrare in guerra se la NATO lo chiederà e ad applicare comunque, subito, tutte le politiche distruttive dell’UE sancite dal “nuovo” Patto di Stabilità europeo, naturalmente approvato anche dalle forze di governo.
Vedremo in quanti andranno a votare, ma certamente il rigetto verso i provvedimenti concreti del governo si esprimerà sul terreno concreto delle lotte in tutti i settori, le fabbriche, i luoghi di lavoro che verranno colpiti.
Questo rigetto, questi sentimenti non hanno certamente trovato nell’opposizione parlamentare una resistenza forte e credibile.
E sul piano sindacale, dove pure le manifestazioni non sono mancate, l’organizzazione della mobilitazione è stata all’altezza, per esempio per fermare l’Autonomia differenziata?
Quale che sia il risultato delle elezioni, solo la costruzione di una mobilitazione veramente “all’altezza” potrà salvarci dalle nubi che si addensano dietro il fumo del voto.
Lorenzo Varaldo
A che cosa corrisponde esattamente l’astensione del 51% degli elettori alle elezioni regionali in Basilicata, che viene poco dopo le stesse cifre per Abruzzo e Sardegna?
12.000 lavoratori Fiat che scioperano e manifestano a Torino il 12 aprile; mozioni contro il sostegno ad Israele in molte università italiane; manifestazioni per il cessate il fuoco e la fine della politica di colonizzazione, tra le quali quella di Palermo (30 marzo), con la gente che si affaccia alle finestre per applaudire (pag. 3); sciopero dei giornalisti RAI contro il bavaglio che viene loro imposto dal governo; denunce incessanti dei medici e del personale sanitario per la politica di distruzione della sanità pubblica; appello per la Conferenza Nazionale per la riconquista di una scuola che istruisce (pag. 3) che vede la risposta di centinaia di docenti di tutta Italia; decine e decine di prese di posizione di intellettuali, economisti, associazioni per fermare l’Autonomia differenziata, dopo le tante manifestazioni di piazza culminate in quella di Napoli del 15 marzo scorso.
Si potrebbe allungare di molto questo elenco, il cui significato è però chiaro: esiste nel Paese un rigetto di questo governo - e più in generale delle politiche portate avanti da tutti i governi degli ultimi trent’anni - che sarebbe in grado di fermarlo, a condizione di riunire le lotte in un unico movimento con parole d’ordine chiare e nette.
“Vincere” le elezioni con il 49% di partecipazione al voto significa che la Giunta regionale della Basilicata governerà con il 25% circa dei consensi della popolazione: una piccola minoranza. Fratelli d’Italia prende l’8,5% dei voti reali, la Lega addirittura il 4%. Nulla.
Ma porre questi problemi significa porre contemporaneamente la questione del perché, dunque, il governo riesca a proseguire per la sua strada.
La vicenda dell’Autonomia differenziata è emblematica. Contro di essa si sono espressi non solo i Comitati dei quali anche noi facciamo parte, insieme al Tavolo Nazionale NO-AD; non solo economisti, intellettuali, editorialisti, ma addirittura la Chiesa e l’Ufficio Bilancio del Parlamento.
Le audizioni in Commissione della Camera, prima che il DDL approdasse in Aula, hanno visto praticamente solo opinioni contrarie. Eppure il governo ha deciso di tirare dritto e portare alla discussione della Camera il DDL, per il voto finale, il 29 aprile.
Ne ha la forza?
In Parlamento, per i numeri e per l’ “opposizione” del PD e di Sinistra Italiana, i numeri ci sono, certamente. Ma nel Paese no, chi potrebbe sostenere il contrario?
Per fermare il DDL bisognerebbe dunque far emergere la volontà del Paese, quella dei milioni che non vanno più a votare, che rifiutano tutti i partiti, che vorrebbero un altro partito e intanto sono pronti a scendere in piazza, a battersi.
L’ingresso del DDL Calderoli alla Camera per il 29 aprile era annunciato da più di un mese: c’era tutto il tempo per organizzare una mobilitazione di piazza, anche davanti al Parlamento, per imporre lo stop, tanto più a fronte delle esitazioni che nella stessa maggioranza esistono.
Nulla di tutto ciò si è visto.
La CGIL, attraverso il cartello di associazioni riunito attorno a La via maestra, ha convocato una manifestazione per il… 25 maggio! Potrebbe essere “a babbo morto”…
In piazza, il 25 aprile, una dirigente sindacale regionale ribadisce l’opposizione sua e del suo sindacato all’AD. Non c’è dubbio che i militanti, i responsabili sindacali intermedi, gli attivisti sono contrari e si mobilitano: ma in alto, ai vertici, questa volontà e questa posizione ufficiale rimangono dichiarazione spuntate, senza forza.
Da parte loro, PD, M5S e Sinistra Italiana partecipano - non sempre - alle iniziative del Tavolo Nazionale NO-AD, ma non organizzano nulla in proprio, non lanciano appelli, non ritirano la pre-Intesa siglata a suo tempo in Emilia-Romagna da Bonaccini… Non dovrebbero invece, quanto meno, abbandonare l’Aula, boicottare davvero il governo, lanciare un appello al presidente della Repubblica - che ha il potere di non firmare il DDL - in questo grave momento per la Repubblica?
Questa, sì, sarebbe una vera “opposizione”!
Da parte nostra, facciamo parte del movimento che cresce nel Paese, che rigetta questo governo con le sue politiche, prima tra tutte la politica di guerra che ormai si è trasformata in una vera e propria economia di guerra. È un movimento vivo, composito e in parte anche confuso, ma che certamente, consciamente o inconsciamente, aspira a trovare una strada per unificarsi e affermare davvero un’altra politica.
Sostenete Tribuna Libera per aiutare questo processo a farsi strada, a trovare la via per aprire davvero una prospettiva.
Lorenzo Varaldo
Chi un po’ di più (Macron in Francia, che ha chiesto di inviare subito soldati in Ucraina) chi un po’ di meno, tutti si orientano verso la guerra.
Prima di tutto con il continuo aumento degli stanziamenti per armi per il sostegno a Zelenski; poi con le dichiarazioni della Von Der Leyen, “Servono più armi, la guerra non è impossibile”; infine, con un’economia che effettivamente diventa sempre più “di guerra” (pag. 2).
A Radio1, Aldo Ferrari, professore all'Università Ca' Foscari di Venezia, responsabile dell’Osservatorio Russia, Caucaso e Asia Centrale, di fronte all’avanzata russa, dichiara: “Se l’Ucraina dovesse collassare - cosa possibile in assenza di ulteriori forti forniture occidentali e di personale - allora la Russia potrebbe trovarsi di fronte alla tentazione di andare oltre, fino a Kiev o ancor più verso Odessa. A quel punto una qualche forma di intervento occidentale sarebbe probabile” (Giù la maschera, 19/3).
È uno degli scenari drammatici che si potrebbero delineare. Nulla è escluso.
Proprio mentre chiudiamo questo numero i Paesi Baltici chiedono di ripristinare la leva obbligatoria, con Polonia e addirittura Germania che “aprono il dibattito” (La Stampa, 27/3). L’ammiraglio Dragone, capo di Stato maggiore italiano, dichiara: “Servono più mezzi, l’Italia non sta al passo”.
Nello stesso momento Giorgetti, ministro dell’Economia, annuncia che il deficit dello Stato è esploso a causa del superbonus edilizio. Di conseguenza, bisognerà trovare i soldi tagliando ancora salari, sanità, scuola, pensioni… Ma certamente non le spese militari!
Un fatto è certo: mentre si sostiene la guerra all’esterno, con le prospettive descritte, la si conduce all’interno contro i lavoratori e la popolazione, in Italia come in tutti i Paesi.
In questa situazione diverse mobilitazioni sindacali sono in programma.
A inizio aprile è previsto lo sciopero generale Fiat-Stellantis, il primo unitario dopo moltissimi anni (pag. 2). Il 12 ci sarà quello di tutto il settore privato, proclamato da CGIL e UIL. Il 20 aprile, pochi giorni dopo, ci sarà una manifestazione nazionale, promossa sempre da CGIL e UIL, per la salute e la sicurezza, mentre il 25 maggio ci sarà quella contro l’Autonomia differenziata e contro il progetto di “premierato forte”, organizzata dal cartello “La via maestra” (*).
Ma con quali obiettivi e quali prospettive si chiama alla mobilitazione? Tra le parole d’ordine delle iniziative promosse dalla CGIL e dalla UIL troviamo la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, una giusta riforma fiscale, il contrasto alla precarietà, il rinnovo dei contratti nazionali, la tutela dei salari. La CGIL promuove inoltre quattro referendum in materia di licenziamenti, reintroduzione delle causali nei contratti a termine, responsabilità dei committenti degli appalti negli infortuni di lavoro.
Premesso che sui referendum si pone a priori il problema di uno strumento che non è quasi mai riuscito a raggiungere il quorum, e che quindi ha un grandissimo rischio di fallimento, su tutto il resto si pone una questione: non c’è una sola parola d’ordine concreta, immediata.
Non c’è la rivendicazione del recupero integrale del potere d’acquisto perso, con cifre precise; non c’è il ritiro immediato del DDL Calderoli, né delle pre-Intese già firmate (anche da Bonaccini per l’Emilia-Romagna); non c’è il ritiro delle privatizzazioni in corso; non c’è il mantenimento di tutti i posti di lavoro, a partire da quelli rimessi in causa a Stellantis.
Senza queste parole d’ordine, senza l’unificazione di un solo movimento che le adotti e le porti avanti, non c’è forse il rischio che la mobilitazione risulti alla fine, ancora una volta, spuntata e senza risultati concreti, magari tutta orientata a referendum fallimentari?
Addirittura, tra le parole d’ordine c’è “un nuovo modello di fare impresa”: si manifesta dunque per “convertire” i capitalisti?
No, è di una mobilitazione su rivendicazioni immediate, concrete, da condurre fino alla loro soddisfazione, che abbiamo bisogno.
Sopra a tutte, una: immediata sospensione dei finanziamenti per le guerre, trasferimento di questi miliardi alla sanità pubblica, alla scuola, ai salari, alle pensioni.
Ciò che fino a ieri poteva essere una “semplice” questione di difesa dei diritti e delle conquiste, del tenore di vita, della democrazia, diventa oggi, ormai, una questione di sopravvivenza: non solo per la povertà crescente, non solo per le guerre drammatiche che già sono in atto, ma per le prospettive di guerra generalizzata, che il capitalismo ormai non nasconde neppure più.
Lorenzo Varaldo
Tribuna libera, editoriale, febbraio 2024
L’intervento del Presidente della Repubblica di stigmatizzazione delle manganellate contro gli studenti a Pisa e Firenze ha un significato preciso: salvare il governo. Esattamente il contrario di quanto non si possa pensare a prima vista.
Certo, l’intervento è stato appunto di condanna, o quantomeno di denuncia. Ma se il Presidente della Repubblica interviene così prontamente, prendendo le distanze dalle forze dell’ordine, è perché si rende conto che un fatto simile può veramente destabilizzare il governo, e dunque le istituzioni stesse.
Istituzioni e governo che non sono certo “stabili” già in sé. Basti vedere il risultato delle elezioni in Sardegna, con l’ennesima astensione che è arrivata al 48%, un punto in più rispetto al 2019. Come per tutte le altre elezioni, anche in questo caso la lezione è semplice: nessun governo, nazionale o regionale che sia, gode in realtà di un minimo consenso.
Tutti - e più di tutti la Meloni - governano sul nulla, su una manciata di voti.
Nello stesso tempo il voto in Sardegna ci dice anche che quel minimo di consenso del quale poteva godere il centro-destra si sta sfaldando, come conseguenza di una politica che investe miliardi e miliardi per la guerra, mentre li taglia a servizi, salari, contratti, che attacca la scuola pubblica (anche “investendo” miliardi per disarticolarla e privatizzarla con i fondi PNRR), che privatizza la sanità, che non fa nulla per salvare i posti di lavoro.
È evidente come ogni giorno che passa i sostenitori (di destra e di “sinistra”) della guerra in Ucraina e, forse ancora di più, del genocidio dei Palestinesi provocano nei cittadini l’indignazione, la rivolta morale, la rabbia e la preoccupazione.
Una preoccupazione che la proposta di Macron di inviare soldati ed esperti direttamente sul campo della guerra in Ucraina non può che alimentare. Certo, al momento non esistono le condizioni per obbligare gli Stati membri della NATO ad intervenire direttamente, ma nulla impedisce che questo intervento invece si attui “volontariamente”. E le condizioni politiche? Anche quelle, al momento, non sembrano esserci. Ma Macron sa bene che “gettare il sasso” significa aprire una discussione, provocare risposte che oggi possono essere di un tipo, domani possono cambiare.
Ciò che è certo è la risposta di Putin: se un Paese della NATO interverrà sarà guerra totale.
Ecco allora che a poco a poco (e nemmeno tanto “a poco a poco”), nel giro di due anni la “guerra mondiale” che spuntò sui giornali e sulle bocche degli “esperti” all’indomani dell’attacco di Putin all’Ucraina, impressionando miliardi di persone nel mondo, diventa qualcosa di ipotizzato davvero, temuto, possibile.
È d’altronde questa la strategia di chiunque voglia portare alla guerra: insinuarla nelle coscienze a poco a poco, nominarla come possibile, far convivere i cittadini con concetti fino a quel punto inaccettabili per prepararne il terreno.
Torniamo a Pisa, a Firenze, alle manifestazioni per la Palestina (vedere foto), alla Conferenza Nazionale per il NO all’Autonomia differenziata, agli scioperi spontanei a Mirafiori, alle manifestazioni degli agricoltori, allo stesso significato del voto: esiste un’enorme forza potenziale in grado di fermare questa politica distruttiva, di morte.
Tutto indica che ci sarebbe la forza per costringere la Meloni ad andarsene ed per imporre un altro governo, che prenda le misure urgenti di cui c’è bisogno: stop a qualunque sostegno alla guerra, stop alle privatizzazioni, dirottamento di tutti i miliardi stanziati per le armi in servizi, sanità, riduzione degli alunni nelle classi, aumenti salariali e delle pensioni e quindi rilancio della produzione e dei consumi, nazionalizzazione delle industrie che licenziano. A Mirafiori - ci racconta un operaio - si mette in cassa integrazione non solo come conseguenza della fusione con Stellantis, ma prima di tutto perché non si vendono auto!
Non possiamo negarci che il problema di fondo rimane: manca un partito veramente indipendente, che raggruppi questa forza e apra la prospettiva di questo governo. Non c’è dubbio che lavorare per aprire una prospettiva vuol dire porre il problema di questo partito, raggrupparsi tra coloro che lo vogliono, lo cercano, sanno che è necessario.
Ma nel frattempo la mobilitazione può imporre quantomeno lo stop alle misure micidiali che questo governo continua ad adottare, a cominciare dall’Autonomia differenziata. Dalla Conferenza NO-AD di Milano è sorta una questione: non è forse il momento, di fronte alla sordità del governo, di uno sciopero generale veramente unito?
La questione investe direttamente le responsabilità dei dirigenti sindacali, prima che sia troppo tardi.
Lorenzo Varaldo
Quasi due anni fa l’attacco di Putin all’Ucraina faceva scattare la reazione dell’Occidente in nome del pericolo che ciò rappresentava per tutto il mondo e in particolare per l’Unione Europea e per gli Stati Uniti. Quattro mesi fa è stata la volta della reazione di Israele agli attentati di Hamas, con il pretesto di colpire il terrorismo e sempre dichiarando che bisognava evitare che il conflitto si generalizzasse. Oggi siamo agli scontri nel Mar Rosso, ma anche a quelli pericolosi tra Iran e Pakistan. Intanto, all’orizzonte, si moltiplicano scontri e provocazioni alle porte della Cina. Il minimo che si possa dire è che la risposta delle armi conduce al contrario di ciò che tutti i governanti dichiarano di voler perseguire: essa porta in realtà ad un’escalation paurosa che può trascinare l’Occidente e l’intera umanità nel baratro.
Il ministro della difesa italiano, Crosetto, dichiara apertamente e “candidamente”: “Il mondo è cambiato, l’Italia si prepari, se c’è pericolo servono i riservisti”.
“Si prepari” con i soldati, le navi, gli aerei, le spese in aumento per armamenti; ma si prepari anche a sopportare l’aumento dei prezzi, l’inflazione che mangia i salari, i tagli…
Per contro, qualcuno si arricchisce, e non poco. Come cominciamo a documentare a pag. 2, quella che potrebbe sembrare una politica di armamenti come conseguenza della guerra si sta trasformando sempre di più in una politica di armamenti che genera la guerra, della quale il capitale ha bisogno per i profitti giganteschi che può portare con sé.
A questa situazione preoccupante sul piano internazionale si somma ciò che sta succedendo all’interno del nostro Paese.
La maggioranza ha appena approvato in prima lettura, al Senato, il DDL di applicazione dell’Autonomia differenziata (pag. 2 e 3). Nel frattempo, lo stesso governo si prepara a rimettere in causa il ruolo del Parlamento attraverso il “premierato forte”.
Intanto, sul piano sociale, questo governo continua la stessa linea di attacchi degli esecutivi precedenti alla scuola e alla sanità pubbliche, ai servizi (la Meloni si vanta di prevedere 20 miliardi di introiti dalle privatizzazioni dei prossimi tre anni), ai contratti, mentre colossi come l’ILVA o ex colossi come la Fiat crollano e lasciano dietro di loro disastri sociali, nel silenzio di molti e nella demagogia della “riqualificazione” di altri.
Certo, oggi è il governo di destra il protagonista di tutto ciò. Ma potrebbe fare ciò che fa senza la collaborazione, diretta o di copertura, di ciò che resta dei partiti che un tempo rappresentavano i lavoratori?
Autonomia differenziata? Calderoli dichiara in Parlamento al momento del voto: “Non capisco la sinistra. Io non faccio che applicare ciò che ha votato nel 2001 e voluto, con Bonaccini, anche per l’Emilia-Romagna. Anzi, io non avrei mai incluso l’istruzione, sono loro ad averlo voluto”. Vero.
E ciò non vale solo per l’AD: dal disastro della scuola (torneremo nei prossimi numeri sui piani distruttivi che passano attraverso i PNRR), alla regionalizzazione della sanità, ai tagli di bilancio, alle privatizzazioni, fino ad arrivare alle “riforme” istituzionali per garantire la “stabilità”, tutto arriva o comunque è stato appoggiato dai resti della “sinistra”.
Il problema però non è solo che cosa sia stato appoggiato in passato, ma come oggi lo si continui ad appoggiare o coprire.
Prendiamo l’AD. Schlein e Conte vanno in piazza per manifestare contro (semplicemente aggregandosi al presidio dei Comitati NO-AD). Prendono la parola, cercano di rifarsi una verginità, arrivano a dichiarare che la pre-Intesa di Bonaccini è acqua passata… Ma poi? Un’opposizione che si rispetti organizzerebbe la mobilitazione di massa, ritirerebbe davvero questa pre Intesa, boicotterebbe il voto in Parlamento, chiederebbe l’intervento di Mattarella… E invece? Qualche intervento in Parlamento, l’annuncio di un referendum che da un lato sembra impossibile da proporre sul piano costituzionale, dall’altro dovrebbe poi avere il quorum del 50% come premessa per una difficile vittoria, e poi stop, nulla di più mentre la legge passa.
Idem per le armi, per la Legge di bilancio, per le fabbriche in crisi. E non parliamo di scuola.
Sul piano sindacale si pongono gli stessi problemi. Certo, le parole di condanna al governo non mancano, ma non saranno le parole - o i referendum - a fermare l’AD, la corsa alla guerra, l’inflazione, a salvare il lavoro, la scuola, la sanità. Solo una mobilitazione di massa, che raccolga il malcontento e l’indignazione che cominciano a crescere dopo quindici mesi di Meloni-Salvini-Calderoli, potrà fermare questo treno lanciato verso il disastro.
La disponibilità dimostrata dai lavoratori nelle manifestazioni e negli scioperi dei mesi scorsi dimostra che la forza c’è.
Raggruppiamoci per aiutare a fare in modo che, dal basso, questa volontà si imponga “in alto”.
Lorenzo Varaldo
Tribuna libera, editoriale, dicembre 2023
L’accordo sul nuovo Patto di Stabilità europeo siglato il 20 dicembre dal governo italiano conferma il modo di operare di questo esecutivo e più in generale della destra: gridare ai quattro venti contro i diktat dell’UE, per poi accomodarsi ad applicare tutte le politiche distruttive imposte da Bruxelles.
È lo stesso metodo utilizzato all’interno del Paese: proclami contro i femminicidi e contemporaneo indebolimento delle misure che potrebbero davvero prevenirli e proteggere le donne; proclami per il ruolo “centrale” della sanità accompagnati nei fatti da tagli e privatizzazioni; proclami sul valore della scuola e provvedimenti che la sviliscono, la svuotano, la consegnano ai “progetti” dei privati; proclami contro il degrado delle periferie e la delinquenza e contemporaneo indebolimento delle misure di sicurezza; proclami contro l’immigrazione clandestina da “prevenire”, con l’unico risultato di vederla aumentare, mentre si moltiplicano i morti in mare e per terra.
L’accordo sul nuovo Patto di Stabilità non sfugge a questa logica. Con esso vengono confermati i parametri di Maastricht e tutte le politiche di “libera concorrenza non falsata” che sono all’origine di più di trent’anni di attacchi alle conquiste e ai diritti. Dopo aver sbraitato, Meloni e Salvini si accodano come docili cagnolini agli interessi del capitale. Non solo: nei giorni successivi si vantano persino che lo spread sia sceso e che la Borsa salga.
Elementare, Watson!, anzi, banale: gli speculatori ringraziano il governo italiano di impegnarsi a pagare il debito, a privatizzare, ad attaccare nuovamente le conquiste. Cioè a far lievitare ancora quei profitti enormi che dall’inizio della pandemia e poi delle guerre (Ucraina e Palestina) toccano picchi vertiginosi. Certo, certo, il giorno dopo la sigla del Patto, Salvini ha “imposto” di non firmare il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità)… Subito, un altro bla bla bla si è scatenato sui media per il presunto anti-europeismo della Lega…
I fatti: dal 1994 ad oggi, quando è stata al governo (centrale, regionale, provinciale e comunale) la Lega ha diligentemente applicato tutte le direttive UE e tutti i peggiori colpi contro i lavoratori. Fare l’elenco dei provvedimenti prenderebbe troppo spazio; ricordiamo solo i tagli paurosi alla sanità, le Leggi di Bilancio di privatizzazioni e tagli ai servizi, le “riforme” Biagi, Moratti, Gelmini, il sostegno al governo Draghi che ha liquidato il divieto di licenziare e ripreso in mano i tagli leggermente accantonati da Conte…
I fatti di domani ci diranno certamente che, presto o tardi, il MES verrà siglato. Ma per il momento, un po’ di teatro fa comodo a tutti: a Salvini, alla Meloni, all’ “opposizione” guidata dal PD, all’UE e specialmente al capitale, tutti uniti dietro la foglia di fico della non sigla del MES per nascondere ciò che invece è passato.
Il motivo è semplice: ciò che è passato è devastante. Di fatto, si torna alle politiche di tagli e attacchi del pre-Covid, con l’aggravante che le centinaia di miliardi dei vari PNRR dovranno essere restituiti. Centinaia di miliardi che sono stati utilizzati come volano per i profitti e per privatizzare o attaccare i servizi (come nella scuola) e non certo per ciò di cui avremmo bisogno. E con la seconda aggravante che nel pre-Covid non c’era la guerra da finanziare (su quella, si sa, i tagli non arrivano mai).
Questa realtà, dietro le quinte del teatrino Meloni-Salvini-“sinistra”, preoccupa chi ci governa e chi si “oppone”. Per un semplice motivo: che il Paese reale è quello che ha visto i medici e gli infermieri scioperare all’85% per due volte, milioni di lavoratori e cittadini in sciopero al nord e al sud, quelli dei trasporti cercare di resistere alle misure antisciopero di Salvini, quelli di decine di fabbriche in crisi ribellarsi.
Non c’è alcun dubbio: quando il nuovo Patto di Stabilità UE sarà applicato, qualunque governo ci sia, la mobilitazione potrà diventare esplosiva. Ed è per dividerla, frantumarla, aggirarla che il 15 gennaio prossimo l’Autonomia differenziata entrerà in Parlamento per i passaggi finali. Il capitale e chi lo serve fedelmente (sbraitando o no) ne hanno assoluto bisogno.
I lavoratori, la stragrande maggioranza della popolazione hanno invece l’interesse esattamente opposto: che i loro dirigenti sindacali raccolgano l’enorme movimento che questo autunno ci consegna e lo uniscano in un’unica mobilitazione, forte, fino al ritiro di tutte le misure varate e in preparazione. È questo movimento che potrà aprirsi la strada per un altro governo, per una vera politica a favore dei lavoratori, che rompa con quelle imposte dal capitale attraverso l’UE.
Lorenzo Varaldo
Tribuna libera, editoriale, novembre 2023
L’attacco al diritto di sciopero, la presentazione di un disegno di legge costituzionale per il “premierato forte” (analisi a pag. 2), l’accelerazione sull’Autonomia differenziata, ma anche l’accordo con l’Albania per la “gestione” dei migranti sono tutti segnali inquietanti di dove ci porti questo governo dal punto di vista delle conquiste democratiche. Se li mettiamo insieme alla Legge di Bilancio e quindi agli attacchi ai diritti e alle conquiste dei lavoratori, il quadro comincia a farsi chiaro, non solo per noi, ma per la maggioranza dei lavoratori e più largamente dei cittadini. E infatti, gli scioperi proclamati da CGIL e UIL hanno avuto un’adesione molto alta.
Scrive La Stampa a proposito dello sciopero dell’industria del nord del 24 novembre: “Piazze piene - 10.000 persone solo a Torino, la metà secondo le forze dell’ordine, ma numeri che non si vedevano da un paio di decenni nelle province, da Cuneo a Novi Ligure a Brescia - e adesioni altissime nelle fabbriche: in media il 75%, con punte del 100% alla Parmalat, alle Conserve Italia di Ravenna, alla Perla di Bologna e alla Owen Illinois di Treviso, e poi 84% alla Pirelli di Settimo Torinese, 75% alla Michelin di Alessandria e alla Lavazza di Torino, 95% alla Marcegaglia di Mantova, 89 alla Bauli di Verona, 94 alla Zignano Vetro di Vicenza e alla Bonfignoli di Forlì…”.
Sempre La Stampa aggiunge: “La precettazione di una settimana fa (sciopero del Pubblico Impiego, precettazione nei trasporti, ndr) e la convocazione partita da Palazzo Chigi proprio nel giorno dello sciopero e poi posticipata a martedì hanno lasciato il segno. E alzato il livello dello scontro”. Detto in altre parole: ancora una volta, come decine di altre negli ultimi trent’anni, i lavoratori reagiscono, sono pronti alla lotta, non accettano la rimessa in causa delle conquiste, dei diritti, degli elementi di democrazia che ancora sussistono. In passato, grossi problemi e ostacoli si sono presentati davanti a loro.
Prendiamo l’attacco al diritto di sciopero. Se Salvini può oggi accentuarlo con prospettive preoccupanti non è forse anche perché i sindacati e i partiti di sinistra accettarono la legge 146 del 1990, che per la prima volta lo limitava, per esempio costringendo gli scioperi ad una, massimo due giornate, e garantendo tutta una serie di “servizi minimi” per depotenziare a monte le lotte? Consideriamo gli attacchi alle pensioni, con il tentativo di trasformare il metodo di calcolo in “contributivo”, eliminando ogni traccia del “retributivo” che garantisce ancora, per chi lascia il lavoro oggi, una somma decente, benché sempre decisamente inferiore a quella che si percepiva fino a qualche anno fa.
Ma chi accettò e firmò un accordo per il varo del sistema contributivo? Fu un governo sostenuto dal PDS (Dini, 1995) a varare questa “riforma”, voluta da Berlusconi e dallo stesso Dini (suo ministro, poi passato appunto a “sinistra”), che non passò con il governo di destra a causa delle mobilitazione di piazza che rovesciò l’esecutivo. Ma non fu sufficiente il sostegno del PD: ci volle quello sindacale, con la firma su un accordo nel maggio dello stesso anno. E ricordiamoci ancora le sole tre ore di sciopero, nel 2012, per la “riforma” Fornero, che rappresentarono un chiaro segnale di via libera dei dirigenti sindacali.
E oggi, qual è la prospettiva che si apre? Il 28 novembre il governo ha convocato i sindacati e fatto loro alcune proposte “correttive”. Giustamente, Landini e Bombardieri hanno denunciato la pochezza/inganno delle “correzioni”; quindi hanno confermato lo sciopero proclamato al sud per il 1° dicembre. Ma chi può credere che sarà questo sciopero di una sola parte del Paese, per un solo giorno, a far cambiare strada al governo, che non l’ha cambiata con gli scioperi potenti, ma divisi precedenti? Una lavoratrice in piazza il 17 novembre a Torino si rammarica che in questa sola città ci fossero ben cinque manifestazioni. È la divisione di un movimento che invece cresce, cerca una strada, aspira all’unità su parole d’ordine chiare, per battersi fino al loro raggiungimento: aumento generale degli stipendi e delle pensioni, rinnovo dei contratti, stop alle spese militari e a tutti i licenziamenti, ritiro dell’Autonomia differenziata e del “premierato forte”.
Meloni e Salvini si fermeranno solo di fronte alla potenza di un solo movimento unito, di tutte le categorie, dal nord al sud del Paese, in un vero sciopero generale, che implica la rimessa in causa delle limitazioni accettate nel 1990. E che su questa base saprà porre la questione di un altro governo, che soddisfi le rivendicazioni. Non si può aspettare quattro anni, è adesso che si deve aprire questa prospettiva.
Lorenzo Varaldo
Tribuna libera, editoriale, ottobre 2023
Centinaia di migliaia di lavoratori, giovani, cittadini continuano a manifestare in tutto il mondo per il cessate il fuoco immediato a Gaza, per la fine dei bombardamenti israeliani, per la fine del massacro. Dall’altra parte, i governi occidentali Macron, Sunak, Scholz, Meloni, Von der Leyen, Trudeau…, si schierano come bravi soldatini dietro al governo USA nel sostenere il massacro.
Peraltro, il PD non va molto oltre, con la Schlein che dichiara che bisogna cercare la via diplomatica “come sta facendo il governo” (La7, 13 ottobre). Beh, certo, sono tutti uniti nel chiedere “aiuti umanitari”. Aiuti umanitari? In quindici giorni ci sono stati cinquanta camion di aiuti, là dove ce ne vorrebbero, secondo lONU, cento al giorno!
E questo mentre Israele impedisce l’arrivo di carburante. “Senza carburante, niente ospedali che funzionino, niente forni per fare il pane, niente acqua”, dichiara il capo dell’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati. Certo, perché Gaza, questa striscia di terra lunga 41 km e larga tra i 5 e i 12, popolata da 2,3 milioni di abitanti, di cui 1,7 rifugiati (o discendenti) cacciati dalla loro terra nel 1947 (vedere pag. 2), ha una sola centrale elettrica che dipende da Israele, con l’80% della popolazione che vive solo grazie agli aiuti umanitari.
Non c’è nulla di “umanitario” nei governi occidentali, come nelle posizioni della sinistra parlamentare italiana. Nel momento in cui chiudiamo questo numero ci sono già più di 5.000 vittime civili - in larga parte bambini - 1.500 in una sola notte. Come si può non chiamare genocidio questa distruzione sistematica di una popolazione che non può alimentarsi né accedere alle cure più elementari? E invece i massacri proseguono.
Non c’è dubbio, quello perpetuato con i civili da Hamas il 7 ottobre è da condannare.
Ma in che cosa il massacro contro Gaza scatenato dagli israeliani può aprire una prospettiva di pace?
Tribuna Libera pubblica a pagina 3 ampi stralci della dichiarazione del CORQI (*) sulla situazione in Palestina. La dichiarazione si esprime nel solco di una tradizione che arriva dal 1947: non ci sarà mai pace in Palestina nella prospettiva dei due Stati, perché perpetua la spartizione del territorio che è all’origine di tutte le tragedie.
Al contrario, la dichiarazione si esprime per un solo Stato laico, democratico, nella convivenza di tutte le componenti che abitano la Palestina. La redazione ha cominciato a discutere questa posizione storica della IV internazionale, e su di essa apre il dibattito.
Un fatto è ormai storia: la “soluzione” dei due Stati ha portato solo alla situazione di oggi. Un altro fatto è sotto i nostri occhi: questa guerra che si annuncia a lungo termine e che rischia di estendersi a tutta la regione, fino all’Iran, arriva dopo la devastazione da parte dell’occidente di intere regioni dell'Africa e del Medio Oriente, dopo la guerra in Ucraina, e mentre l'imperialismo statunitense non nasconde più i suoi preparativi di guerra contro la Cina.
I popoli vengono massacrati, i capitalisti si arricchiscono a mani basse con l’industria delle armi e con le speculazioni della “crisi” energetica legata alla guerra. È un sistema che si nutre di guerra e di distruzione in tutti i settori e in tutti i Paesi, per cercare di superare la sua crisi. Gli stessi governanti che oggi appoggiano il massacro a Gaza sono quelli impegnati ( a destra e a “sinistra”) negli attacchi più feroci contro i lavoratori, per esempio con la Legge di bilancio (che i soldi per la guerra li trova, eccome!) o con l’Autonomia differenziata.
È una logica che si alimenta a spirale: distruggere le condizioni di vita e le conquiste della gente per cercare di strappare profitti sempre più grandi, per poi volgersi ai mercati distruttivi quando quel profitto non si può ottenere con la vendita di beni normali, perché la gente non ha più i soldi per comprarli.
Da 75 anni, cacciato dalle sue terre, attaccato, frantumato, massacrato, il popolo palestinese si batte e resiste. Al suo fianco di schierano, nonostante la propaganda, a milioni in tutto il mondo. Sono gli stessi milioni che si battono nei loro Paesi contro i piani distruttivi e che cercano di superare gli ostacoli posti dai dirigenti delle loro organizzazioni storiche.
Quali che siano le opinioni in merito alla dichiarazione del CORQI, Tribuna Libera non può che condividerne le conclusioni: è solo attraverso la lotta dei lavoratori e dei popoli, nella realizzazione della loro unità contro il capitalismo, che si può aprire una via d'uscita per l'intera umanità.
Per tutti quelli che vogliono davvero la pace, oggi questo significa battersi subito per l’unità, per la fine dei bombardamenti, per il no all’intervento terrestre!
Lorenzo Varaldo
Tribuna libera chiama tutti a scendere in piazza il 7 ottobre, a Roma, nella manifestazione convocata dalla CGIL con molte associazioni e comitati. Da come si annuncia, sarà una grande manifestazione, in un certo senso una prova di forza della CGIL e dei lavoratori che vi parteciperanno. È però necessario aprire la discussione sulle parole d’ordine di questa manifestazione.
Voluta da molti (in primis i Comitati NO-AD) come una manifestazione contro l’Autonomia differenziata, fin dal suo primo appello la manifestazione è stata centrata su un altro slogan: “Insieme per la Costituzione”. Poi, via via, il tema dell’Autonomia differenziata è passato sullo sfondo, per lasciare spazio a quella che la CGIL indica come “La via Maestra”: lavoro, fisco, giovani, stato sociale, pensioni, politiche industriali, pace. Il tutto per “applicare i principi e i valori della Costituzione”. Ora, indubbiamente, la Costituzione italiana contiene numerosi diritti, come l’uguaglianza di tutti i cittadini, il diritto al lavoro, il ripudio della guerra, la progressività del fisco, la tutela della salute, l’istruzione…
Ma nella stessa Costituzione troviamo la tutela dell’iniziativa economica privata, l’adesione ai trattati internazionali come quelli dell’UE, l’obbligo di pareggio del bilancio. Troviamo poi l’unità della Repubblica, ma anche l’adeguamento dei principi costituzionali alle esigenze dell’autonomia, ed è in nome di questo punto che nel 2001 è stata inserita l’Autonomia differenziata.
Come si può vedere, nella Costituzione italiana c’è un po’ tutto e il contrario di tutto. Basti pensare che decreta una Repubblica parlamentare, ma poi prevede di poter legiferare con i decreti, scavalcando il Parlamento, cosa che ormai ha reso Camera e Senato vuoti luoghi di ratifica di leggi scritte altrove.
Quando in una legge si trova tutto e il contrario di tutto, evidentemente quella legge diventa lo strumento del più forte. Se i più forti sono il governo (o meglio, i governi che applicano fedelmente le leggi della libera concorrenza e del profitto, sotto il controllo dell’UE) e i capitalisti, le leggi dell’ “iniziativa economica privata” prendono il sopravvento: attacco ai contratti nazionali, precarietà, privatizzazioni, distruzione della sanità, della scuola e delle pensioni, regionalizzazione…
Se invece i più forti sono i lavoratori con le loro organizzazioni, allora si può imporre lo stop a questi attacchi e magari anche, successivamente, passare alla controffensiva.
Da parte loro, capitalisti e governo (governi) non hanno programmi astratti e fumosi, ma contenuti concreti per imporre i loro interessi: le norme che sono passate quantomeno negli ultimi trent’anni e quelle che sono in preparazione. E dall’altra parte, cioè da quella della classe operaia e dei lavoratori? Che cosa esprimono i dirigenti che dovrebbero rappresentarli?
Se rivendicano l’attuazione della Costituzione, restano su un terreno ambiguo: l’Autonomia differenziata è nella Costituzione; per un fisco progressivo bastano tre scaglioni; il lavoro può anche essere precario; i tagli sono previsti e addirittura, per la pace, l’articolo che “ripudia la guerra” poi nei fatti “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. In altri termini, permette la guerra se avviene in nome della NATO o dell’ONU.
Se si vuole invece essere davvero “più forti” degli interessi del capitale, allora bisogna formulare parole d’ordine concrete e chiare e perseguirle fino ad imporle: ritiro dell’Autonomia differenziata con abrogazione dell’articolo della Costituzione che la prevede; abrogazione di tutte le leggi sulla precarietà a partire dalla Treu e dalla Biagi; abrogazione di tutte le “riforme” delle pensioni, ritorno al Sistema Sanitario Nazionale, ripristino di tutti i posti tagliati nella scuola e abrogazione delle “riforme” degli ultimi venticinque anni, esproprio delle industrie che ristrutturano o licenziano…
Solo così la prova di forza che probabilmente darà, almeno in parte, la manifestazione del 7 ottobre non sarà il semplice abbaiare, magari forte, di un cane che non morde, ma potrà aprire la porta all’imporre con la forza la prospettiva di un’altra politica.
Se c’è una lezione che ci giunge in questo momento dagli Stati Uniti, dove milioni di lavoratori si sono messi in sciopero con rivendicazioni molto concrete, è proprio questa: nulla è stato mai regalato ai lavoratori, tutto è stato strappato con la lotta, a condizione che sia una lotta con obiettivi chiari, di rottura con il capitale, contro i presunti “interessi comuni” a lavoratori e capitalisti.
È per aiutare ad imporre questa strada che saremo in piazza a Roma il 7 ottobre.
Lorenzo Varaldo
Chiudiamo questo numero estivo di Tribuna Libera mentre i media annunciano che la prossima Legge di Bilancio dovrà essere di almeno 30 miliardi di tagli. È il riflesso - nella logica dell’UE - di un deficit in salita, dei tassi in crescita, del “conto” che viene richiesto dopo le spese per il Covid e il post-Covid. Ma è anche il frutto di una “riforma” fiscale che riduce a tre le aliquote IRPEF, abroga ciò che resta dell’IRAP (che finanzia la sanità pubblica), istituisce vantaggi per gli imprenditori e penalizza i dipendenti, “allarga le maglie per chi in Italia non vuole pagare le tasse” (La Stampa, 5/8). Sempre secondo il giornale torinese, per “finanziare” questa legge ci vogliono 10 miliardi.
Il governo precisa: non la finanzieremo in deficit. In altri termini: altri dieci miliardi di tagli. Intanto, le centinaia di miliardi elargiti per il PNRR, destinati in molti casi a distruggere conquiste e diritti, andranno rimborsati e peseranno dunque, nei prossimi anni, ancora di più su lavoratori e cittadini. La conseguenza è immediata: “Scure su scuola e sanità”, drastico taglio ai treni, aumenti delle tariffe (sempre da La Stampa).
È interessante notare che il PD della Schlein si “oppone” al governo e contesta per esempio la “riforma” fiscale perché è “iniqua”. Perfetto. Peccato che Italia Viva e Azione abbiano votato la legge delega perché “di fatto è la stessa impostata da Draghi”. Al di là del teatrino della sinistra che contesta la destra quando la destra governa, dopo aver proposto le stesse misure quando governava con Draghi, rileviamo qui come la Meloni si stia muovendo senza sbavature nel solco del suo predecessore e dell’Unione Europea. Di più: ormai perfettamente a suo agio con Bruxelles, che tanto aveva “contestato”, a fine luglio il Presidente del Consiglio è andata a riverire e apprezzare il Presidente USA Biden, apparentemente di diverso indirizzo politico (Partito Democratico), ma con il quale c’è stata identità di vedute su tutto.
In Italia, mentre la Meloni volava negli USA, un lavoratore su tre non ha avuto i sodi per fare un minimo di ferie, mentre il settore del turismo denuncia un crollo di prenotazioni rispetto al previsto, anche del 40%. In effetti, i rincari, rispetto all’anno scorso, sono proprio attorno a questa percentuale. “Vacanze impossibili”, scrivono i media. Intanto il numero dei poveri aumenta ogni giorno, la produzione è in calo, i prezzi alle stelle, nonostante il costo dell’energia sia diminuito. In breve: a dieci mesi dal suo insediamento il bilancio del governo è fallimentare. O meglio: il bilancio della popolazione è fallimentare, perché invece, dal punto di vista del capitale che la Meloni serve, c’è perfetta continuità con il passato. Certo, qualche colpo più o meno “spettacolare” - come quello della tassazione delle banche (vedere analisi all’interno) - cerca di salvare l’immagine dell’esecutivo, ma è evidente che la grande maggioranza della popolazione si rende conto che la situazione peggiora e nessuna prospettiva si apre con la destra al potere.
Di fronte a questa situazione la CGIL ha convocato per il 7 ottobre una grande manifestazione nazionale a Roma, per i diritti, per il welfare, la scuola pubblica, la sanità pubblica, contro l’Autonomia differenziata e il presidenzialismo.
Ma il solco della manifestazione è “la difesa e l’attuazione della Costituzione”. Ora, l’Autonomia differenziata è proprio inserita nella Costituzione, mentre tutte le misure prese dal governo sono adottate in nome dell’art. 81 della Costituzione (obbligo di pareggio di bilancio) e dei trattati UE, a loro volta varati in nome della Carta costituzionale. Per non parlare della partecipazione alla guerra (per ora con soldi e supporti logistici, poi si vedrà…), che in qualche modo l’art. 8 della Costituzione permette. In questo senso, la Meloni “attua” la Costituzione. Non si tratta di un problema di poco conto.
Landini, nel denunciare i provvedimenti del governo, ha dichiarato che è disponibile ad andare “fino allo sciopero generale”. Non è poco. Ma è sufficiente? Quanti scioperi generali senza parole d’ordine precise abbiamo visto? Quanti scioperi generali fatti e poi abbandonati nel nulla ci hanno visto partecipare?
La questione fondamentale è la seguente: si vuole manifestare ed eventualmente scioperare per “dimostrare” di essere contrari ad una certa politica oppure per fermarla davvero? Si vuole manifestare “contro” l’Autonomia differenziata, per esempio, o per il suo ritiro? Fare chiarezza sulle parole d’ordine è più che mai fondamentale. E allora sarà possibile dire: mobilitazione con tutti i mezzi fino alla realizzazione di queste parole d’ordine. Raggruppiamoci per aiutare ad aprire questa prospettiva.
Lorenzo Varaldo
Il 27 maggio scorso la CGIL ha riunito un’assemblea nazionale alla quale aveva invitato decine di associazioni per lanciare due grandi manifestazioni nazionali, una in difesa della sanità e una contro l’Autonomia differenziata, rispettivamente il 24 giugno e il 30 settembre.
Non c’è dubbio: manifestare in difesa della sanità pubblica e contro l’Autonomia differenziata, con in testa la CGIL, è un passo importante. Ma l’appello per le due manifestazioni si intitola “Insieme per la Costituzione Difendiamo la Costituzione che va attuata e non stravolta”. Qualche problema si pone.
Per esempio, rispetto alla sanità la Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Se la prima parte di questa frase può essere un buon indirizzo, la seconda apre la porta al pagamento della sanità da parte di tutti i “non indigenti”, cioè per esempio… i lavoratori! “Attuare dunque la Costituzione” non esclude i ticket, l’intervento dei privati, il pagamento diretto delle cure.
D’altra parte, l’Autonomia differenziata viene messa avanti dal governo proprio in applicazione dell’art. 116 della Costituzione, così come “riformato” nel 2001 dal centro-sinistra. Nell’appello per manifestare il 30 settembre si denunciano giustamente le privatizzazioni, l’attacco a scuola e sanità, le politiche sociali. Ma esse discendono direttamente dall’applicazione per esempio dell’art. 81 della Costituzione che, in nome del pagamento del debito e dei criteri di Maastricht, impone il pareggio di bilancio.
Inoltre la Costituzione prevede l’adesione ai trattati internazionali come quello UE, cioè proprio la politica di privatizzazioni e attacco ai diritti e alle conquiste che l’AD intende portare fino in fondo.
Sempre nell’appello per le due manifestazioni si chiede una “riforma fiscale basata sui principi di equità, generalità e progressività che sono oggi negati tanto da interventi regressivi – come, ad esempio, la flat tax – quanto da una evasione fiscale sempre più insostenibile”. Questa rivendicazione stride con la richiesta della CGIL di “ridurre il cuneo fiscale”, perché la riduzione delle tasse per lavoratori e capitalisti porta ad un taglio del bilancio dello Stato e quindi, direttamente, a tagli per sanità, scuola, servizi… E anche se la riduzione del cuneo venisse fatta solo per i lavoratori, senza un cospicuo aumento di tasse per i capitalisti si avrebbe un risultato simile.
Il 24 giugno si è svolta la prima di queste due manifestazioni. Migliaia e migliaia di lavoratori, cittadini, pensionati vi hanno partecipato per difendere la sanità pubblica e per denunciare le politiche di tutti i governi che l’hanno ampiamente rimessa in causa, conducendola sull’orlo del disastro totale. Landini ha giustamente denunciato: “In quattro anni, tagliati 40 miliardi alla sanità”. Sarebbe interessante - e cercheremo di farlo nei prossimi numeri - quantificare i tagli degli ultimi venti/trent’anni, ma già per gli ultimi quattro la cifra è enorme. La parola d’ordine che ne consegue non dovrebbe essere “Restituzione immediata dei 40 miliardi tagliati negli ultimi quattro anni!”? Dove trovarli? La Stampa del 26 giugno titola: “Sanità, un affare privato. Business da 63 miliardi all’anno mentre gli ospedali affondano”. Da questo scandalo discenderebbe una sola parola d’ordine: “Confisca immediata di questi miliardi, chiusura delle strutture private e loro trasformazione in strutture pubbliche!”. L’articolo precisa tra le altre cose che “i cittadini compartecipano alla spesa sanitaria per 37,16 miliardi all’anno”; cifra scandalosa…, ma perfettamente in linea con “le cure gratuite per gli indigenti” della Costituzione.
Dopo le manifestazioni di Torino del 27 maggio (sempre in difesa della sanità pubblica) e quella di Roma del 24 giugno, è evidente che centinaia di migliaia di lavoratori, giovani, pensionati, cittadini sono pronti a mobilitarsi per fermare le politiche distruttive che questo governo prosegue sulla scia di tutti quelli che lo hanno preceduto. Noi siamo pienamente parte di questo movimento e fin d’ora costruiamo, con i Comitati NO-AD, la manifestazione contro l’Autonomia differenziata del 30 settembre prossimo. Il suo successo è fondamentale, ma altrettanto fondamentale è aprire la discussione per fare chiarezza sulle parole d’ordine: per il ritiro del DDL Calderoli e di ogni AD, per la restituzione immediata dei miliardi tagliati alla sanità, per veri aumenti salariali che recuperino totalmente l’inflazione, per il ritiro dei tagli e dei provvedimenti nella scuola.
Lorenzo Varaldo
Almeno 12 000 lavoratori, cittadini, giovani, pensionati, con alla testa medici, infermieri e personale ASL, hanno manifestato a Torino, il 27 maggio, per la difesa della sanità pubblica, contro i tagli, contro le privatizzazioni. Manifestazioni simili si sono avute nell’ultimo periodo a Bari e in Sicilia. Nello stesso tempo, decine di migliaia di lavoratori hanno manifestato su appello di CGIL, CISL e UIL, a Milano, Bologna e Napoli, contro la politica del governo. Contemporaneamente, i partiti del governo “vincono” le elezioni comunali, anche in città storiche della sinistra, come Ancona, Massa, Pisa, Siena.
Come si conciliano le due cose, manifestazioni di massa contro il governo e risultati elettorali?
In realtà si conciliano perfettamente attorno ad una questione: alle elezioni va a votare un numero sempre più ridotto di cittadini e anche nei Comuni (dove di solito l’astensione è meno alta), ha votato al primo turno meno del 60%. Se va bene, le forze di governo sono state votate dal 30% del 60%, cioè dal 18% degli elettori. Una piccola minoranza. Disorientati dalla sinistra e dalla sua incapacità di prospettare una via d’uscita (dopo che quando era al governo aveva promosso tutti i peggiori piani distruttivi), i lavoratori e la maggioranza della popolazione non vanno per nulla a destra. Semplicemente non votano. Ma poiché non possono nemmeno stare a guardare la continuazione da destra degli attacchi, cercano di appropriarsi di ogni occasione sul terreno della lotta diretta, della mobilitazione di piazza, per reagire e difendersi dal disastro che il governo Meloni prepara su tutti i fronti.
Ripetere come un disco rotto che “gli elettori vanno a destra” serve certamente alla destra per autocelebrare un consenso che non c’è. Ma serva anche molto, e forse di più, alla “sinistra” per giustificare e coprire le sue responsabilità, di ieri e di oggi. Serve a scaricare sui lavoratori le responsabilità dei dirigenti dei loro partiti storici. Un fatto è certo: emerge in tutta chiarezza, che si parli di lotte o di voto, la necessità di una nuova rappresentazione politica dei lavoratori.
Torniamo alle decine e decine di migliaia che hanno manifestato nelle ultime settimane. Questi lavoratori, questi cittadini ci dicono che c’è una forza enorme nel Paese che può mettersi in moto e che è pronta a rispondere all’appello delle organizzazioni sindacali, le ultime organizzazioni rimaste nelle quali i lavoratori sono ancora classe e non individui isolati e dispersi. Questa forza può fermare il governo. Può fermare l’Autonomia differenziata, il presidenzialismo, i tagli alla scuola e alla sanità, può imporre il rinnovo dei contratti al posto di una riduzione del cuneo fiscale che infine si rivolta contro i lavoratori stessi. E può fermare la deriva antidemocratica che un passo dopo l’altro si insinua sotto la guida della Meloni.
Era sufficiente essere alla manifestazione di Torino, ma immaginiamo anche alle altre, per capire che la classe operaia e il movimento dei lavoratori sono tutt’altro che morti. C’erano gli operai e i delegati della FIOM, della FILTCEM, gli impiegati della Funzione Pubblica, gli insegnanti, i pensionati, con le associazioni dei medici ospedalieri, degli infermieri, dei medici base…: in breve, una classe con una coscienza ben viva di ciò che si è perso, di ciò che va difeso, di ciò che va riconquistato. “Quando tutto sarà privato, saremo privati di tutto” c’era scritto sul volantino di convocazione della manifestazione e in molti cartelli. Trent’anni di propaganda di “sinistra” e di destra pro-privatizzazioni spazzata via da uno slogan.
La gente è pronta, la forza c’è. L’85% che si astiene o vota ancora contro la destra è pronto. La responsabilità è allora più che mai nelle mani dei dirigenti, sindacali in primis. Mentre chiudiamo questo numero, comincia a circolare un appello lanciato dalla CGIL e da molte associazioni per due grandi manifestazioni nazionali a Roma, a fine giugno per la sanità pubblica, a settembre contro l’Autonomia differenziata e il presidenzialismo. Bene, ma la questione delle parole d’ordine è centrale. Entrambe le manifestazioni sembrano situarsi sul terreno dell’ “attuazione della Costituzione”. Ma la nostra Costituzione, a fianco di conquiste e diritti, prevede proprio l’Autonomia differenziata, le privatizzazioni, i vincoli di bilancio, le “missioni di pace”.
Manifestare per che cosa, dunque? Per esempio il PD dice che ci sarà e nello stesso tempo che è disponibile a discutere delle “riforme” con la Meloni. Noi anche ci saremo, ma su tutt’altra strada, quella che cominciano ad indicare le piazze: ritiro del DDL Calderoli, NO a qualunque Autonomia differenziata e a qualunque accentramento di poteri, tutti i miliardi della guerra e del PNRR devono andare subito a sanità, scuola, salari, pensioni, lavori stabili.
Lorenzo Varaldo
Tra il 25 aprile e il 1° maggio il governo ha organizzato alcune provocazioni che mirano
certamente ad offuscare le menti delle persone, confondere, intorbidare i fatti per piegarli ai
propri fini (vedere Corsivo). Meloni, La Russa, Valditara sanno benissimo che insinuare il
falso, fare due passi avanti e nessuno o falsi passi indietro (considerato anche che La Russa si
scusa “con chi si è offeso”, di fatto scaricando la colpa su “chi si offende”), significa mettersi sulla
strada delle mille bugie ripetute che alla fine diventano verità per molti.
Intendiamoci. É vero che oggi non esiste in Italia un pericolo immediato di fascismo, se con esso
intendiamo una dittatura vera e propria, l’abolizione delle libertà di organizzazione e di espressione,
la rimessa in causa della libera cultura e della libertà d’insegnamento…
La storia tende a riprodurre schemi, tendenze, spinte, tragedie, come anche, al contrario, rivoluzioni,
movimenti libertari e progressisti, conquiste. Ma non in modo meccanico.
Ciò che però certamente la storia ripete è la lotta tra i capitalisti e la classe operaia e i lavoratori,
semplicemente perché il capitale è alla costante ricerca di aumentare i suoi profitti, e in questa
ricerca si scontra con l’unica classe alla quale può estorcere questo denaro, questo profitto: i
lavoratori.
Tutti i commentatori riportano che il governo Meloni, al di là degli strilli propagandistici, sta
proseguendo perfettamente la strada di Draghi. É più che logico: dietro la “riduzione delle tasse”, il
“pagamento del debito”, gli attacchi alla scuola e alla sanità… non c’è altro che la volontà-necessità
di estorcere una parte di reddito al lavoratore per portarla nelle tasche dei capitalisti.
Prendiamo il caso della riduzione del cuneo fiscale, “bandiera” della propaganda che porta il
governo a riunirsi il 1° maggio (seconda “genialata”, dopo quella di Cutro!). A parte il fatto che
questa riduzione porterà nelle tasche dei lavoratori circa 15 euro lordi al mese (!!), questi soldi
verranno sottratti a sanità, servizi, scuola. Con un’aggravante: l’operazione serve a coprire altri
“sgravi fiscali”, quelli che contemporaneamente il governo dà ai capitalisti. Risultato finale: i
lavoratori pagheranno il doppio.
Ma, appunto, tutti i governi, dall’inizio degli anni ’90, hanno fatto la stessa cosa, mentre pagavano
il “debito”, esattamente come la Meloni.
Tuttavia il capitale si trascina, governo dopo governo, un problema: sotto la pressione del mercato
mondiale e della crisi, vorrebbe andare più in fretta, privatizzare, svendere, radere al suolo scuola
pubblica, sanità, pensioni, contrati nazionali… Ma su questa strada incontra la resistenza della
popolazione. Certo, una resistenza confrontata a sua volta a ostacoli molto grandi, principalmente a
causa della politica dei dirigenti delle organizzazioni dei lavoratori. L’ultimo caso è proprio di
questi giorni, con le mobilitazioni divise e frammentate convocate da CGIL-CISL-UIL per il mese
di maggio. Ma resta un fatto: benché colpita, disorientata dai dirigenti (non parliamo di quelli dei
partiti di sinistra, a cominciare dal PD…), la classe operaia e i lavoratori esistono ancora come
classe, quindi come forza, dispongono di sindacati nazionali, di contratti nazionali (magari non
buoni, ma che li uniscono), di diritti nazionali.
Torniamo dunque alla questione del fascismo. I capitalisti ricorrono alla repressione, alla linea dura,
all’autoritarismo solo quando da un lato non riescono a far passare i loro piani con la “democrazia”,
ma dall’altro hanno risolto un problema: il pericolo della rivolta della classe operaia.
Ed è qui che si condensa la situazione di oggi. Uguale ai suoi predecessori per il suo programma
economico, il governo Meloni è accanito nel voler andare fino in fondo su Autonomia differenziata
e presidenzialismo. Non a caso ha scelto per prima l’Autonomia differenziata: essa infatti, se
realizzata, permetterebbe di frantumare, distruggere, dividere la classe operaia, le sue conquiste, le
sue organizzazioni. Compiuto ciò, il capitale otterrebbe due punti: poter imporre i suoi piani e
attaccare ulteriormente la democrazia con il presidenzialismo, forma intermedia tra il fascismo e la
democrazia parlamentare.
25 aprile e 1° maggio di oggi, ecco dunque il contenuto attuale della lotta per la Liberazione, per la
democrazia, per i diritti dei lavoratori: ritiro immediato dell’Autonomia differenziata, unità di tutte
le organizzazioni dei lavoratori, mobilitazione nazionale unita contro la politica del governo, no al
presidenzialismo.
Lorenzo Varaldo
Nel momento in cui chiudiamo questo numero nessuno può prevedere come evolverà la situazione in Francia.
Da una parte, l’enorme movimento che si è messo in moto contro la “riforma” delle pensioni di Macron non accenna a rifluire, ma al contrario rilancia e si allarga anche a fasce della popolazione che fino ad oggi ne sono rimaste fuori o ai margini. Dalle fabbriche alle scuole, dagli uffici ai trasporti alla sanità, la mobilitazione si spinge ora ad abbracciare piccoli commercianti.
Dall’altra parte, a colpi di forza e nel disprezzo totale della volontà della popolazione, Macron sembra tirare dritto.
Di certo, c’è che il movimento si esprime spesso in modo spontaneo, come il giorno in cui la legge è passata con un colpo di forza all’Assemblea Nazionale (vedere pag. 4): nessuna organizzazione aveva lanciato l’appello a scendere subito in Place de la Concorde. Si è trattato di moto di rivolta collettivo, spontaneo, che lascia ancor più aperta ogni possibilità.
Comunque vadano le cose, qualche insegnamento questo movimento ce lo offre subito, anche per il nostro Paese.
Innanzitutto, se c’è una forza che potenzialmente può fermare i governi che agiscono al soldo dell’UE e della grande finanza internazionale, questa è la forza della mobilitazione di massa.
In secondo luogo, se c’è invece qualcosa che può “salvare” i governi (in questo caso Macron), questo “qualcosa” è l’esitazione dei dirigenti - in primis quelli sindacali - a portare fino in fondo la lotta, costi quel che costi. Dal basso, in Francia, da settimane monta una richiesta proprio ai dirigenti sindacali: “Basta con gli scioperi e le manifestazioni a singhiozzo o per zone, solo lo sciopero generale a tempo indeterminato può costringere Macron”. Al momento, questo appello non ha avuto la risposta necessaria, ma tutto resta aperto.
Passiamo all’Italia e al governo Meloni.
Forte dell’inesistenza di una qualunque reale opposizione che rappresenti i lavoratori (per annacquata e stinta che possa essere), il governo procede per la sua strada: riforma fiscale che regala miliardi ai capitalisti e li sottrae dunque a scuola, sanità, servizi, stupendi (pag.2); aumento dei finanziamenti per le armi; nuovi pericolosi attacchi ai più elementari diritti democratici (Fratelli d’Italia ha annunciato addirittura l’abrogazione del reato di tortura, mentre la Meloni ci “spiega” che il massacro delle Fosse Ardeatine è il risultato di un odio verso gli “italiani”!). Soprattutto, il governo - nonostante le contrarietà e le critiche giunte da più parti - procede senza esitazioni sulla strada dell’Autonomia differenziata.
Su quest’ultimo aspetto è necessario soffermarsi. Certo, il governo procede… ma chi glielo permette?
Da un lato, Mattarella ha firmato il DDL Calderoli, dando così la possibilità che la discussione inizi in Parlamento. Dall’altro, lo stesso Calderoli ha nominato la commissione che dovrà definire i LEP come premessa per applicare l’AD. Ebbene, succede che in questa commissione il “furbo” Calderoli abbia inserito fior fior di personaggi del PD o legati al PD, come Violante, Fiasconaro, Visco, Amato, Bassanini… Come minimo, la neo segretaria del PD Schlein dovrebbe chiedere a questi illustri “democratici” di rifiutarsi di partecipare ai lavori di una commissione che apre la porta alla divisione della Repubblica, ed eventualmente sconfessarli se accettano; al momento tutto tace, e dunque tutto procede. Non solo: la Schlein nomina capogruppo PD l’on. Boccia, che al tempo del governo M5S-PD aveva presentato anche lui un DDL di applicazione dell’AD!
Pur non essendo in Francia, anche da noi sul piatto della situazione politica non c’è però solo un governo che avanza e un’ “opposizione” che non si oppone, se non a parole.
Ci sono anche, per esempio, manifestazioni e iniziative contro l’AD un po’ dappertutto, compresa quella di Torino del prossimo 4 aprile, nonché mozioni di istanze e direttivi sindacali, appelli e prese di posizione (pag. 3).
Una certa unità - difficile e problematica (vedere resoconto congresso CGIL) - cerca dunque di farsi strada. A fianco di essa, manifestazioni e scioperi in molte realtà (GKN, ma non solo) che licenziano, chiudono, delocalizzano.
Situazione diversa dalla Francia, certamente. Ma con uno stesso denominatore comune: la responsabilità che incombe sui dirigenti sindacali di appellare ad una grande manifestazione nazionale, che porti a Roma decine di migliaia di cittadini, per il ritiro immediato del DDL Calderoli, lo stop all’Autonomia differenziata e a tutti i piani del governo.
Da Torino arriva un primo segnale di unità con la manifestazione del 4 aprile.
Tribuna Libera è pienamente impegnata ad aiutare a costruire dappertutto questa mobilitazione.
Lorenzo Varaldo
Che cosa rende possibile che un gruppo di squadristi fascisti aggredisca e colpisca pesantemente giovani studenti davanti ad un liceo di Firenze? Che cosa rende possibile che un ministro della Repubblica, dopo non aver proferito verbo sull’accaduto, minacci invece di sanzioni la preside di un altro liceo per aver indirizzato una lettera agli studenti, nella quale, stigmatizzando l’accaduto, sollecita a non essere indifferenti di fronte alla violenza fascista? Che cosa rende possibile che il capo del governo (che è stata da giovane leader dell’organizzazione che sembra aver organizzato il pestaggio) non intervenga?
Violenze e aggressioni fasciste, in giro, ce ne sono purtroppo spesso state, anche più gravi di quelle di Firenze (stragi, attentati). Possibili coperture dello Stato o di parti di esso anche. Ma mai, se non negli anni che hanno portato al fascismo, i vertici delle istituzioni si erano spinti a legittimare apertamente la violenza e quindi, potenzialmente, ad alimentarla.
Di fronte a ciò, i lavoratori patiscono di non avere un partito che rappresenti i loro interessi, che li difenda con fermezza e indipendenza. I partiti a sinistra del PD si sono praticamente suicidati sostenendo i peggiori governi di “centro-sinistra”. Da parte sua, il PD (DS-PDS) è stato ed è il vero responsabile della creazione di questo vuoto che facilita la destra.
Questo numero del giornale approfondisce per esempio il pericolo dell’Autonomia differenziata. Ebbene, la modifica della Costituzione che rende possibile l’AD è stata voluta e votata dal contro-sinistra nel 2001. Ma è solo un esempio: l’Autonomia Scolastica, i salari al merito, il Job’s Act, la “riforma” Fornero e prima ancora quella Dini, le privatizzazioni, la flessibilità-precarietà, l’attacco al contratto nazionale, la regionalizzazione della sanità e la sua prima privatizzazione… non sono che alcuni dei provvedimenti devastanti che il PD (nelle sue varie versioni) ha varato.
Quando invece era all’ “opposizione”, lo stesso partito ha lasciato passare di fatto ciò che la destra produceva. È così che si è arrivati al campo libero totale che si è lasciato alle destre fascistizzanti e razziste. E tuttavia, immancabilmente, in modo instancabile, superando difficoltà enormi, la classe operaia e i lavoratori hanno cercato, contro i dirigenti politici di quelli che erano i loro partiti, di resistere, di battersi. Lo hanno fatto sul terreno diretto della lotta di classe (scioperi, manifestazioni), ma anche impadronendosi di ogni occasione indiretta, come con le elezioni, astenendosi, votando contro i governi, votando formazioni che non aprivano realmente prospettive (M5S), ma raccoglievano il rigetto.
Privati di una rappresentazione politica, i lavoratori cercano di sfruttare ogni occasione, per lontana che sia da una vera rappresentazione di classe e da una vera prospettiva. Un milione di cittadini hanno trasformato per esempio le “primarie” del PD, un evento simbolo della degenerazione della politica e della vita dei partiti, in un modo per sconfiggere la linea ufficiale di questo partito rappresentata da Bonaccini (fautore dell’AD) e affermare con il voto alla Schlein la loro volontà di cambiare, anche per resistere alle destre.
Situazione rocambolesca: il meccanismo perverso per il quale può votare alle primarie anche un cittadino non iscritto al partito viene trasformato in un’occasione per dire: “Non ne possiamo più della vostra politica”. Intendiamoci subito: nessuna illusione può esserci nella nuova segretaria PD. È la vice di Bonaccini in Emilia-Romagna, ne ha sostenuto tutte le politiche (AD compresa), ha semplicemente offerto una stampella vagamente “rosé” (non certo rossa) alla giunta e al partito.
Se davvero intende “cambiare” il partito e la sua politica, che lo dimostri con atti concreti, non con slogan e propaganda. Che proponga subito che Bonaccini ritiri la richiesta di AD per l’Emilia Romagna. Che si esprima per il ripristino del divieto di licenziare. Che annunci lo stop alla regionalizzazione della sanità e alla privatizzazione. Che prenda posizione, quantomeno, per la fine dell’invio di armi all’Ucraina e per il cessate il fuoco immediato, come hanno chiesto in migliaia e migliaia nelle manifestazioni di questi giorni. Non sarebbe nulla di rivoluzionario, ma quanto meno un piccolo passo in direzione dei lavoratori.
Da parte nostra, sappiamo una cosa: la volontà di resistenza che cerca tutte le opportunità per farsi strada è l’unica che può salvarci dalle spinte gravi e pericolose di questo governo. In primis, dunque, c’è subito la responsabilità dei dirigenti sindacali nel chiamare alla mobilitazione unita, per fermare tutti gli attacchi in atto, la guerra, le aggressioni fasciste e le coperture del governo.
Ma il vuoto politico che ci ha portato a questa situazione pone più che mai un’altra questione: quella di ricostruire una vera rappresentazione politica indipendente della classe operaia e dei lavoratori, in grado di guidare le lotte e aprire davvero una prospettiva.
Lorenzo Varaldo
Un anno dopo l’attacco della Russia all’Ucraina, la NATO ha deciso di entrare ancora più massicciamente nel conflitto (pag. 4). La decisione della Germania, dopo Francia, Gran Bretagna, Polonia e naturalmente USA, di inviare carri armati per il sostegno all’Ucraina colpisce e inquieta tutti i popoli.
Dove ci porta questa escalation? Di sicuro, a profitti colossali per le industrie - in particolare degli armamenti - tra le quali, in primis, ci sono quelle statunitensi. I “grandi” capitalisti della terra si ritrovano a Davos, come ogni anno, e constatano di non essere più di tanto preoccupati, visti gli affari che girano. Non solo carri armati: la NATO si impegna a inviare tecnologie, formatori, esperti, materiali…
Un anno dopo, il capitalismo si conferma incapace di affermare una qualche “soluzione” che non sia quella della devastazione.
Ma nel pieno dell’Europa che sprofonda in questa distruzione, non c’è solo la guerra con i suoi profitti. C’è per esempio la reazione dei lavoratori e della classe operaia in Francia alla “riforma” delle pensioni presentata dal governo Macron: milioni in sciopero e in piazza, il Paese che si ferma, Macron in crisi, i capitalisti che si inquietano. E poi c’è lo sciopero degli insegnanti in Gran Bretagna e in Portogallo, e addirittura gli scioperi che scoppiano in Russia.
L’abisso e la speranza: da una parte, la ricerca sfrenata del profitto, che conduce alla guerra per strappare e difendere “zone di influenza”, mercati, risorse e al tentativo di distruggere tutto ciò che resta delle conquiste dei lavoratori; dall’altra, la reazione dei popoli, l’unica che può aprire una via d’uscita, in Francia, in Inghilterra, negli USA, in Russia, così come in Iran, in Afghanistan…
E in Italia? Certamente non si può dire che nel momento in cui chiudiamo questo numero siano in atto grandi manifestazione e scioperi. Tuttavia, i giornali sono costretti a riportare che la popolazione non ne può più di questa guerra e, dai sondaggi, si dimostra ampiamente contraria all’invio di armi. Il minimo che si possa affermare è che la gente non è stupida: un anno di propaganda, di retorica, di informazione parziale e manipolata non ha convinto.
Intanto scioperi e mobilitazioni scoppiano in molte fabbriche del Paese, contro chiusure e licenziamenti, ma spesso anche contro le condizioni di lavoro, lo sfruttamento, gli orari impossibili, la carenza di organici. É il caso delle Carrozzerie di Mirafiori, in sciopero negli straordinari il 14 e il 21 gennaio. Il volantino della FIOM titola: “Aumentano le produzioni, diminuiscono i lavoratori, peggiorano le condizioni!”.
Da parte sua il governo “lavora”. Prepara un’ennesima “riforma” delle pensioni, si appresta a discutere il disegno di legge Calderoli per applicare l’autonomia differenziata che frantuma il Paese, propone di differenziare da nord a sud gli stipendi (a partire dalla scuola) e di svendere la scuola ai privati… Se per il momento sta procedendo con un minimo di cautela è proprio perché sa di essere seduto su una polveriera, come dimostra la vicenda della vertenza con i benzinai: l’aumento dei prezzi, la povertà dilagante, le privatizzazioni, la crisi che rimette in causa il lavoro, esasperano lentamente la popolazione, fino a quando una misura in più può far esplodere la rabbia e diventare contagiosa.
Una cosa è certa: alla luce del sole come in Francia o sotterranea come sembra oggi in Italia, è la lotta di classe, concreta o possibile, che detta le leggi e i provvedimenti. Solo “sotto minaccia”, il capitale può fermarsi, esitare, frenare i suoi attacchi, concedere qualcosa. Che cosa? Le urgenze sono sotto gli occhi di tutti: aumenti salariali, blocco dei prezzi, finanziamenti alla sanità, stop immediato all’Autonomia differenziata. Ben poco ci si può attendere in questo senso dal PD, forse appena “qualcosina” di più dal Movimento 5 Stelle, che ha sì parlamentari e voti, ma non organizza i lavoratori, non li mobilita.
Molto dovrebbero e possono invece fare le organizzazioni sindacali. Qualche timido passo si è visto con gli scioperi di dicembre, poi con la denuncia dell’Autonomia differenziata da parte di CGIL e UIL. L’assemblea nazionale per il NO all’Autonomia differenziata si è svolta a Roma il 29 gennaio (pag. 3). Alla fine è stata votata una mozione che si indirizza a tutte le forze sindacali e politiche perché si organizzi una grande manifestazione nazionale che porti a Roma, per il ritiro dell’AD, decine e decine di migliaia di lavoratori e cittadini. É questa la strada da seguire, contro la AD, per veri aumenti salariali, per il blocco dei prezzi, per il No all’invio di armi e alle spese militari che ogni giorno di più, alimentando la guerra, sottraggono fondi per i lavoratori, i servizi pubblici, gli stipendi, le pensioni.
Lorenzo Varaldo
Il disastro della sanità non può che inquietare e indignare tutti.
Un lettore ci riporta la sua esperienza: “Mi sono rotto un piede e sono andato al Pronto Soccorso dove mi hanno detto che avrebbero dovuto operarmi, ma non potevano farlo subito, ma qualche giorno dopo, e quindi mi hanno rimandato a casa. Di fronte a dolori forti mi sono recato di nuovo in ospedale dopo due settimane, ma non era ancora il momento di operarmi. Intanto la rottura si stava calcificando male e mi hanno detto che con l’operazione avrebbero di nuovo spaccato le ossa! Ho atteso altri quindici giorni, nulla. Allora mi sono fatto visitare privatamente con spese enormi, in una clinica privata-convenzionata, che infine mi ha operato, più di un mese dopo”.
Un’altra lettrice ci guida nell’inferno del Pronto Soccorso nel quale è finita per un parente disabile anziano: “Abbandonato per quattro giorni in barella, mai lavato, male assistito per carenza di personale, malati ovunque appoggiati su sedie, barelle precarie. Ho visto un’anziana che era caduta ed era ferita in volto, abbandonata per ore. Un’altra anziana piangeva perché le era caduto il telefonino e nessuno la aiutava. Infermieri che cercano di volare letteralmente da un caso all’altro, presi d’assalto dai parenti. Uomini e donne in camere insieme. Nessun controllo sull’area covid. Un girone dantesco”.
Un responsabile dell’associazione dei medici ospedalieri parla a Radio1: “Bisogna informare i cittadini di quello che c’è e di quello che si prepara. Ciò che c’è è il frutto delle soppressioni di posti letto, di reparti, della chiusura di ospedali, della regionalizzazione. Quello che si prepara è la privatizzazione totale, la liquidazione della sanità pubblica”. Un altro precisa: “I tagli sommati all’emergenza Covid hanno creato liste d’attesa interminabili che portano a migliaia e migliaia di morti per diagnosi che non vengono fatte o vengono fatte tardi, troppo tardi per intervenire”.
In breve, le barbarie. Barbarie delle quali sono responsabili tutti i governi che si sono succeduti, che hanno applicato un’identica politica, dettata dall’UE e dalle leggi del capitale. Intanto, un pugno di capitalisti fa profitti giganteschi sulla guerra. Le spese militari nel mondo hanno raggiunto la cifra record di 2.100 miliardi. Tutti gli Stati e i governi “investono” in armi. La NATO impone l’aumento delle spese militari. In Italia, Fincantieri vara un piano 2023-2027 di “sviluppo e potenziamento” della produzione militare, così come Mbda, società italo-franco-britannica impegnata nella missilistica, che ha ordini, da sola, per 17 miliardi (dati La Stampa, 19/12).
Le barbarie sono il frutto diretto dei fondi stanziati per la guerra e per le armi e sottratti a sanità, servizi, scuola, contratti…
Questo governo cerca di distrarci con il POS, con i tetti al contante, addirittura con la caccia al cinghiale! Ma nella sostanza, stanzia 21 miliardi per le multinazionali dell’energia che hanno fatto profitti giganteschi grazie alla guerra e che sicuramente investiranno questi soldi anche in azioni delle industrie di armamenti.
Intanto, si prepara a varare l’Autonomia differenziata. Come dire: “Avete presente il disastro della sanità? Bene, vogliamo portarlo dappertutto, nella scuola, nell’ambiente, nelle infrastrutture…”.
Esiste un’ “opposizione”? Il PD, dopo aver varato tutti i provvedimenti che ci hanno portato a questo punto, prepara un congresso per “vincere tra cinque anni”. Che il PD possa vincere tra cinque o dieci anni è tutto da dimostrare. Ma nel frattempo? Una risposta si può già dare guardando i candidati alla segreteria: da una parte Bonaccini, feroce sostenitori dell’Autonomia differenziata, delle privatizzazioni, delle politiche UE; dall’altro Sclein, che in Consiglio Regionale Emulia-Romagna è vice di Bonaccini. Ben poco ci si può attendere da questo congresso, da questo partito.
Ben di più ci si dovrebbe attendere dalle organizzazioni sindacali, che ancora mobilitare milioni e milioni d lavoratori e cittadini. Come comprendere che, a fronte delle misure del governo Meloni, abbiano proclamato, ancora una volta in ritardo, scioperi divisi per Regioni, mal organizzati, con parole d’ordine che possono aprire la porta addirittura a nuovi tagli (riduzione del cuneo fiscale)? I lavoratori, loro, nonostante questa divisione e disorganizzazione, in molte parti d’Italia hanno scioperato. Sono e sarebbero pronti a fermare la Meloni e tutti quelli che la coprono. Questo movimento, certamente, saprebbe aprirsi una prospettiva diversa.
Raccogliere questa forza e mobilitare davvero, nell’unità e su parole d’ordine di rottura con il capitale oppure tradire questa disponibilità: la responsabilità dei dirigenti è direttamente collegata alle barbarie che avanzano.
Lorenzo Varaldo
Le immagini del disastro di Ischia, con la devastazione del territorio e i morti, sono solo un’altra espressione del sistema marcio nel quale viviamo. Guerra, devastazione del territorio, milioni di malati che attendono per mesi esami e operazioni e spesso, infine, muoiono a causa dei ritardi di diagnosi e cure, povertà che avanza, migranti che muoiono in mare o vengono lasciati in condizioni disumane per giorni e giorni sulle navi, lager nei quali vengono ributtati quando non approdano sulle nostre coste…
La radice di tutto ciò è il sistema capitalista. La ricerca di un profitto sempre più grande, costi quel che costi, abbinato al “sacrosanto” principio della “libera concorrenza non falsata”, impone da un lato di tagliare tutto ciò che dovrebbe essere destinato alla protezione del territorio, alla prevenzione, ai servizi pubblici, alla ricerca… dall’altro di destinare nello stesso tempo miliardi e miliardi sempre crescenti alla guerra. «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, scriveva il generale prussiano Carl von Clausewitz. E aggiungeva: "La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico”.
Quale politica e quale guerra? La politica della “libera concorrenza non falsata” che porta alla guerra su due fronti: da un lato, contro i lavoratori, i popoli, le gente normale, che ne fanno le spese ad Ischia, nei Pronto Soccorso degli ospedali, con la precarietà e i licenziamenti; dall’altro, contro altri Stati o territori “concorrenti”, per strappare o controllare fette di mercato e risorse, a costo di enormi massacri. In questo senso, è anche una guerra tra capitalisti e tra capitalismi, come tra Putin e la NATO, attraverso l’Ucraina.
Lungi dall’assicurare un “nuovo ordine mondiale”, come pretendeva Bush-padre nel 1990, il capitalismo realizza il caos e le barbarie mondiali.
I lavoratori i e i popoli hanno solo da perderci, e con loro l’esistenza dell’intera umanità, dal farsi implicare negli interessi di questo sistema. Al contrario, la sola via d’uscita per l’umanità è quella della lotta indipendente e contro gli interessi del profitto, del capitale, per preservare con le unghie e con i denti ciò che non è stato ancora distrutto e per aprirsi la strada per la riconquista di quanto si è perso, nonché per rovesciare la logica del profitto, dell’uomo contro l’uomo, e affermare quella del progresso, della solidarietà, dell’uomo per l’uomo.
Belle parole, si potrà dire, ma che cosa significano oggi, per esempio di fronte al governo Meloni? Questo governo è ferocemente dalla parte del capitale, contro i lavoratori e la stragrande maggioranza della popolazione. É un governo di guerra. Lo dimostrano tutte le prime misure adottate, lo dimostra la Legge di Bilancio in discussione (vedere pag. 2).
Lo dimostrano gli enormi regali che si prospettano per i capitalisti a danno dei servizi pubblici e dei salari, gli euro tagliati alla scuola pubblica per regalarli alla privata, i miliardi che mancano per la sanità… Lo dimostra l’aumento della spesa per armamenti. A fronte di ciò, nel momento in cui chiudiamo questo numero, CGIL e UIL hanno annunciato una mobilitazione e un possibile sciopero. Vedremo gli sviluppi.
Mobilitarsi e scioperare è sacrosanto, ma per che cosa? I lavoratori hanno interesse che si dica chiaramente: ritiro dei 21 miliardi regalati alle multinazionali dell’energia e quindi sottratti a servizi, salari, sanità, scuola; aumenti veri degli stipendi, non con il “cuneo fiscale”, che sottrae soldi allo Stato e ai servizi e che i lavoratori dovranno poi pagare, ma con gli enormi profitti e con i fondi stanziati per la guerra; ritiro della Flat tax; ritiro di qualunque progetto di Autonomia differenziata che apre lo porta alla divisione del Paese, alla fine dei contratti nazionali, alle assicurazioni private al posto della sanità pubblica. E specialmente i lavoratori hanno interesse che i dirigenti dicano: questa volta andremo fino in fondo, mobiliteremo con tutte le forze fino al ritiro delle misure reazionarie. Su questa base, la forza per fermare la Meloni ci sarebbe?
Ce lo dice il governo stesso, quando ammette di non aver potuto fare subito tutto ciò che voleva perché “c’è veramente il rischio di una rivolta sociale”. Nulla è impossible se si parte dal basso, dalle esigenze e dalle urgenze dei lavoratori, dei disoccupati, dei giovani, dei pensionati. Questa forza, potenziale e reale, avrebbe oggettivamente, più che mai, bisogno di una rappresentazione politica per aprire la prospettiva di un altro governo, un governo dei lavoratori, che rompa con il capitale per salvarci dal disastro al quale ci conduce.
Lorenzo Varaldo
Nel momento in cui Berlusconi cercava di fare in Parlamento qualche sgambetto alla Meloni, l’ex parlamentare ed ex pluri-ministro Clemente Mastella, esperto di formazioni e di cadute di tanti governi fin dai tempi della DC, veniva intervistato a RadioUno: “Lei pensa che i problemi emersi tra Berlusconi e Meloni lascino pensare ad una vita difficile per il governo?”. Risposta: “Guardi, i problemi di oggi in Parlamento sono del tutto marginali e verranno superati. Il vero problema è che questo governo è maggioritario alle elezioni, ma minoritario nel Paese. Ciò che cresce nel Paese, l’esasperazione della gente, la rabbia che può esplodere: è questo che deciderà la sorte del governo nei prossimi mesi”.
Mastella forse non lo sa, ma non fa altro che esprimere un concetto molto chiaro: tutto si giocherà sul terreno della lotta di classe diretta.
Lo sa bene certamente la Meloni, che presentandosi alle Camere ha detto: “Siamo fermamente convinti del fatto che l'Italia abbia bisogno di una riforma in senso presidenziale, che garantisca stabilità. Una riforma che consenta di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”. Traduzione: abbiamo bisogno di un sistema istituzionale che impedisca ai governi di cadere sotto la pressione della lotta di classe della quale parla Mastella. Un sistema, dunque, che invece di riflettere le forze della società, “decida” sopra di esse, per conto del capitale, senza ostacoli.
Quindi la Meloni ha proseguito: “Parallelamente alla riforma presidenziale, intendiamo dare seguito al processo virtuoso di Autonomia differenziata”.
Due facce della stessa medaglia: da una parte (presidenzialismo) si impone la stabilità per mettere la camicia di forza alla lotta di classe, sterilizzarla, blindarla; dall’altro (Autonomia differenziata), si vuole dislocarla, frantumarla, smembrare le conquiste e i diritti per distruggerli.
Quanto tempo si dà la Meloni per attuare queste due “riforme”? Tutto dipenderà ancora una volta dalla mobilitazione, della quale anche noi facciamo pienamente parte (pag. 3).
Nel frattempo, la Meloni ha annunciato le misure immediate da attuare: estensione della Flat Tax per i redditi più alti, taglio di almeno cinque punti del cuneo fiscale, sostegno totale all spese militari per la guerra in Ucraina, alla NATO, all’UE.
Che cosa significa? Semplice: i soldi che andranno ai più ricchi, ai capitalisti e alla guerra verranno sottratti a scuola, sanità, pensioni, servizi.
Per il resto, è sufficiente leggere il programma di Fratelli d’Italia: stop agli scatti di anzianità, aumenti solo per il “merito”, pagamento del debito, riduzione della spesa pubblica, privatizzazioni (chiamate “arretramento della Stato rispetto a un protagonismo eccessivo sul mercato di beni e servizi”), federalismo fiscale, voucher al posto della sanità e dei servizi sanitari pubblici… Infine ci sono gli attacchi più o meno aperti ai diritti, come l’aborto.
Di fronte ad un simile programma, possiamo aspettarci qualcosa dall’ “opposizione”?
Mai dire mai…, ma nemmeno essere ingenui… Presidenzialismo? É la Meloni stessa a ricordarci che “in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra”. Autonomia differenziata? Era nel programma di governo del PD e del M5S e oggi Fassino lo rivendica… Riduzione del cuneo fiscale e esenzioni per i capitalisti? Le hanno fatte anche loro… Tagli di bilancio, privatizzazioni, “merito”, riduzione del debito? Sono da sempre gli assi portanti del PD e poi, di fatto, del M5S…
Ma tra il dire (della Meloni), il silenzio o la complicità (dell’ “opposizione”) e il realizzare davvero i piani annunciati c’è tutto ciò che spiega Mastella: la lotta di classe.
Proprio l’accento messo dalla Meloni su presidenzialismo e Autonomia differenziata lo dimostra: la mobilitazione è sempre in agguato, va dislocata, impedita, deviata.
La forza per fermare la Meloni dunque esiste, ed è temuta. Nel momento in cui il governo si presentava in Parlamento, a Genova gli operai bloccavano le stazioni e l’aeroporto e occupavano l’autostrada, boccando così la minaccia di licenziamenti (pag.2). Pochi giorni fa, gli studenti hanno manifestato a Roma, e sono stati duramente attaccati dalla polizia.
Tutto si concentra e si concentrerà su una questione: il ruolo e la posizione dei dirigenti delle organizzazioni dei lavoratori, a partire da quelli sindacali. In nome dei presunti “interessi comuni” tra capitalisti e lavoratori, non possono che aprire la porta al disastro della realizzazione del programma-Meloni; viceversa, rompere con questa logica e battersi in tutta indipendenza, fino in fondo per fermare la Meloni vuol dire aprire una prospettiva alla maggioranza reale che esiste.
Lorenzo Varaldo
La vittoria elettorale della destra e in particolare di Fratelli d’Italia, che discende dal partito fascista MSI, non può che inquietare ogni lavoratore legato ai valori dei diritti sociali, democratici, della classe operaia, della solidarietà.
Non c’è alcun dubbio che il prossimo governo cercherà di colpire duramente i diritti delle donne, dei migranti, dei disoccupati, il ruolo della scuola pubblica, come ha promesso Meloni in questa campagna elettorale. La stessa democrazia e l’unità della Repubblica sono in pericolo con la proposta di presidenzialismo e di attuazione dell’Autonomia differenziata.
Peraltro, la stessa Meloni, dietro l’ammiccante “critica” all’UE, ha affermato chiaramente che proseguirà ad applicare le direttive di Bruxelles che sono chiarissime: pagamento del “debito” con conseguenti tagli ai servizi, alla sanità pubblica, alla scuola, alle pensioni; privatizzazioni; aumento delle spese militari ai danni di quelle sociali; rimessa in causa dei contratti nazionali. Addirittura, la sera delle elezioni, Crosetto, esponente di Fratelli d’Italia, ha invitato Draghi a “concordare insieme” la Legge di Bilancio.
Non c’è alcun dubbio: dobbiamo prepararci a batterci per fermare i piani di questo governo.
Su quali forze si può contare? Su quali possibilità?
Partiamo da alcuni dati elettorali.
Innanzitutto, l’astensione massiccia, mai vista nella storia della Repubblica, ci dice che se è vero che la destra e la Meloni escono vittoriosi sul piano della maggioranza parlamentare, non lo sono per nulla nel Paese. Per restare a Fratelli d’Italia, prende il 25% del 64% degli elettori, cioè il 16%, tre elettori su venti! Tutta la destra insieme prende circa un elettore su quattro, con gli stessi voti complessivi del 2018. Il paese non va dunque a destra e non dà un consenso maggioritario a quello che sarà il nuovo governo.
Non solo: la destra non ha nemmeno la maggioranza dei voti espressi: l’avrà in Parlamento solo grazie alla distorsione democratica del meccanismo elettorale.
Viceversa, in un modo o nell’altro, con il voto a partiti diversi, più piccoli o più grandi, o con l’astensione, questo voto esprime comunque una volontà di rigettare le politiche portate avanti da trent’anni.
La vittoria delle destre è prima di tutto il risultato dell’insistenza, della costanza, della fermezza con la quale i partiti usciti dalla tradizione del movimento dei lavoratori e democratico hanno portato avanti una politica di distruzione dei diritti e delle conquiste, in applicazione fedele delle direttive UE, e in ultimo di guerra. Se la destra oggi vince, la responsabilità è prima di tutto del PD e di LEU. E prima di loro, dei dirigenti del PCI e del PSI, che trent’anni fa hanno dislocato i loro partiti per prendere in carico direttamente questa politica anti-operaia. La prova è arrivata ancora una volta: quando la “sinistra” fa una politica di destra, apre la porta alle peggiori forme di reazione.
D’altra parte, la vittoria delle destre è anche il risultato della politica portata avanti dal M5S, contro le aspettative di chi lo aveva votato per un reale cambiamento, nel 2014 e poi nel 2018. Se c’è una cosa che queste elezioni esprimono è il rigetto verso tutte le politiche portate avanti per anni e anni.
Resta un fatto: la storia non viene determinata solo dai governi e dai parlamenti, ma muove dal profondo della società, dalla lotta di classe, dal consenso reale che un governo può avere o non avere, dalle lotte che possono fermare o meno gli attacchi, come è avvenuto in passato diverse volte, e proprio con le destre. Un esempio tra tutti: la difesa dell’art. 18 nel 2002, con tre milioni in piazza.
Va detto chiaramente ciò che tutti nascondono: il governo che si annuncia, maggioritario nel Parlamento, è ultra-minoritario nel Paese; non ha alcuna legittimità per portare avanti i colpi che annuncia.
Come potrà essere fermato?
La condizione non è forse che le organizzazioni sindacali e quelle dei lavoratori si mobilitino in tutta indipendenza, per fermare gli attacchi che si annunciano, senza alcuna ricerca di “accordi” o “emendamenti” che già in passato si sono rilevati come lo strumento per far passare infine i progetti più distruttivi?
La posta in gioco del prossimo periodo, che si tratti di attacchi sociali o alla democrazia, ai diritti o alle conquiste che hanno resistito a trent’anni di governi agli ordini dell’UE, della guerra come delle condizioni di vita di milioni di cittadini, è tutta qui: un po’ prima o un po’ dopo, i lavoratori saranno portati, sul terreno della lotta di classe diretta, ad indirizzarsi contro il prossimo governo Meloni, perché non sono loro ad aver subito una sconfitta nelle elezioni. La sola disfatta è quella dei dirigenti e dei partiti di “sinistra” la cui politica ha aperto la strada a questo risultato. Allora, di nuovo, sarà posta la questione della responsabilità dei dirigenti.
Queste elezioni ci consegnano in modo quanto mai evidente il problema dell’assenza di una rappresentazione politica dei lavoratori, indipendente dal capitale. Noi non pretendiamo certo di rispondere da soli a questo problema, ma è chiaro che la necessità di ricostruire un partito indipendente della classe operaia e dei lavoratori è posta. Non è un problema che si possa risolvere da un giorno all’altro, ma è una questione che va affrontata, perché solo un tale partito, appoggiandosi sulla maggioranza che in modo confuso e contraddittorio si è espressa anche in questo voto, potrà aprire una prospettiva per salvarci dal disastro al quale questo sistema economico con i suoi partiti ci conduce.
Questa discussione, che dalle colonne di Tribuna Libera abbiamo proposto anche in campagna elettorale, è più attuale che mai.
La redazione di “Tribuna Libera” 26 settembre 2022
Se è indubbiamente vero che la caduta del governo Draghi ha portato alla sospensione di alcuni attacchi a ciò che resta delle conquiste dei lavoratori e della democrazia, nondimeno sappiamo che tutti i partiti che escono da questa legislatura si candidano semplicemente a continuare l’opera dell’ex capo della BCE.
In questi quattro anni e mezzo ne abbiamo viste di tutte (vedere il Corsivo). Mai si era arrivati a tanto: se si può governare indifferentemente con e “contro” chiunque, e poi tutti insieme, non è proprio perché i programmi, in fin dei conti, sono identici, peraltro imposti dall’UE e dalle istituzioni internazionali?
Un’inquietudine attraversa allora tutti coloro che non vogliono accettare il baratro nel quale ci stanno conducendo: siamo destinati a poter solo combattere dopo il voto, contro un governo - quale che sia - del quale già conosciamo il programma, gli attacchi, le misure? Siamo destinati a sperare che il prossimo Draghi di turno cada prima o poi, per avere qualche altro mese di respiro? O non si può, al contrario, aprire una prospettiva per i lavoratori, per difficile e non immediata che sia, con una lista indipendente, sul terreno della classe operaia e dei lavoratori?
É il tema di fondo posto dalla Lettera Aperta inviata ai partiti, ai gruppi e ai militanti che pubblichiamo a pagina 3.
Negli ultimi giorni si è aperta la possibilità che una lista guidata dall’ex sindaco di Napoli, Gianni De Magistris, si presenti alle elezioni in modo indipendente con il nome di Unione Popolare.
Si tratta di un fatto significativo, che solleva attese, riflessioni, interrogativi. Da parte nostra pensiamo che una questione sia dirimente: la difesa indipendente degli interessi della classe operaia e dei lavoratori contro quelli del capitale.
É infatti proprio l’idea che gli interessi del capitale e della classe operaia possano convivere che ci ha portati al disastro che viviamo. Tutti i governi, e in particolare quelli di centro-sinistra e poi del M5S, hanno affermato ciò, e immancabilmente hanno fatto gli interessi del capitale, contro i lavoratori. L’esempio del presunto “aumento dei salari” di cui tutti parlano oggi è emblematico: tutti propongono di aumentarli tagliando il “cuneo fiscale”, cioè riducendo la parte di tassazione per lavoratori e imprese. Ma così facendo, preparano semplicemente la strada a nuovi tagli nella sanità, nella scuola, nei servizi, al taglio di altre migliaia di posti di lavoro…
La questione dell’indipendenza si riduce quindi a quella dei contenuti, delle rivendicazioni. Quali?
Per esempio il ripristino del divieto di licenziare, misura che - caso unico in tutto il mondo - i lavoratori erano riusciti ad imporre a governo e Confindustria nel marzo 2020. Poi, l’immediata cancellazione dei vergognosi tagli alla sanità che il governo Draghi ha recentemente decretato (vedere pag. 2), ma anche di quelli degli anni passati che ci hanno condotto alla situazione disastrosa che viviamo. Quindi, l’abrogazione del Decreto concorrenza, che impone la privatizzazione di tutti i servizi pubblici, e del Decreto 36 che attacca la professione insegnante e la scuola pubblica; il ritiro di qualunque ipotesi di Autonomia differenziata e dunque l’abrogazione del comma 3° dell’art. 116 della Costituzione; il ripristino di una scala mobile dei salari che adegui immediatamente gli stipendi agli aumenti di questi mesi. Infine, lo stop immediato all’invio di armi per la guerra in Ucraina e la fine delle sanzioni.
Non si tratta evidentemente di un programma esaustivo, ma certamente una lista basata su queste rivendicazioni avrebbe tutto il nostro sostegno.
Nel momento in cui scriviamo non sappiamo se con l’Unione popolare sarà così, se lo sarà in parte, se si porranno problemi.
Sappiamo però che questo tentativo è, al momento, l’unico sul quale discutere per provare a fare dei passi avanti, sia per queste elezioni sia per affrontare il problema di un vero partito dei lavoratori.
Come militanti raggruppati attorno a Tribuna Libera intendiamo quindi partecipare alla discussione che la lista Unione Popolare apre, ponendo sul tavolo le questioni qui esposte.
Senza aut aut, senza la pretesa di avere soluzioni pronte che oggi nessuno può avere, mettiamo a disposizione le nostre forze affinché questo dibattito ci sia, cresca, si sviluppi, raggruppi.
Per questo sosteniamo lo sforzo per la raccolta firme che potrà permettere all’Unione Popolare di esistere e invitiamo tutti i nostri lettori e simpatizzanti ad andare a sottoscrivere per la lista, tanto più a fronte delle condizioni iperdifficili nelle quali i partiti in Parlamento, nel disprezzo della democrazia, la costringono (*).
Lorenzo Varaldo
Che cos’è la democrazia? Etimologicamente “governo del popolo”, l’espressione sta a significare più in generale che appunto è il popolo a decidere chi deve governare.
“La democrazia è in pericolo” hanno dichiarato molti leader politici all’indomani del voto amministrativo che ha visto un’astensione del 50% al primo turno e addirittura del 40% al secondo.
Davvero questo voto è l’espressione di un pericolo per la democrazia?
A noi sembra piuttosto che i politici vogliano dirci - meglio, “dirsi” - un’altra cosa: in pericolo è un sistema che da ameno trent’anni cerca di ingannare i cittadini con presunte “alternanze”, per proporre e imporre poi le stesse politiche. La crisi nasce proprio perché i cittadini hanno compreso l’inganno e lo rifiutano.
Se la democrazia è l’espressione della volontà del popolo, ebbene, il popolo si è espresso: non vuole nessuno di questi partiti e di questi governanti! Certo, lo ha fatto attraverso una forma inedita e che non porta direttamente a nessun cambiamento, a nessuna prospettiva. Ma lo ha detto in modo chiaro, e per questo i nostri governanti si sentono minacciati.
Minacciati? Da che cosa, se in fin dei conti alla fine comunque qualcuno viene eletto, tanto che il PD osa addirittura cantare vittoria, quando i suoi sindaci vengono votati dal 50% del 40%, cioè dal 20% degli aventi diritto?
Un lavoratore intervenuto all’incontro organizzato da “Tribuna Libera” l’11 giugno ha riportato quanto riferito dai media: Draghi, in una delle sue ultime riunioni, avrebbe dedicato la maggior parte del tempo al problema di come fare a incanalare la rabbia sociale.
Pochi giorni dopo arriva il voto, o meglio il non-voto. Non c’è dubbio, Draghi e c., dietro le loro facce sicure e arroganti, hanno di che preoccuparsi: il rigetto che si esprime in un modo o nell’altro nelle urne ad ogni tornata elettorale può congiungersi in qualsiasi momento alla rabbia di chi ha perso il lavoro, di chi non trova posto negli ospedali per esami e operazioni urgenti, di chi non arriva più a fine mese a causa degli aumenti generati dalla speculazione…
Vai mai a vedere - dal loro punto di vista - che prima o poi la democrazia, quella vera, non faccia incontrare il rigetto espresso nel voto e la mobilitazione?
Vai mai a vedere che questa mobilitazione non riesca davvero a imporre aumenti salariali, stop a privatizzazioni, assunzioni di medici e infermieri, il ritiro del Decreto 36 nella scuola e la concessione di tutti i posti necessari, il ritiro del DDL Gelmini sull’Autonomia differenziata…
Sogni? Fantasie?
E’ la domanda che ha animato il dibattito dell’incontro dell’11 giugno. Se ci poniamo dal punto di vista della stragrande maggioranza della popolazione, il non-voto ci restituisce ancora una volta sul piano elettorale la stessa risposta che più e più volte i lavoratori hanno saputo esprimere sul piano della mobilitazione: la forza c’è, ci sarebbe, potrebbe mettersi in moto e ottenere davvero il rispetto della volontà popolare. Quella forza che aveva imposto e poi difeso per un anno intero, di fronte alle feroci pressioni di Confindustria, una misura eccezionale e unica al mondo come il divieto di licenziare, misura inaccettabile per il capitalismo che questo sistema aveva però dovuto ingoiare, ebbene, quella forza potrebbe ottenere qualunque cosa.
E non è solo una questione italiana.
In Francia, uno tsunami di astensione ha decretato - dietro l’apparente “vittoria” di Macron - il rigetto totale del presidente uscente, ma anche di tutti i partiti. In Gran Bretagna, mentre si moltiplicano gli scioperi, i giornali si inquietano su un sistema politico che “rischia il crollo” dopo la mozione di sfiducia al premier Johnson. Addirittura in Ucraina e in Russia, sotto le macerie della guerra, spuntano scioperi e manifestazioni. Per non parlare degli immensi scioperi in Sri Lanka, della manifestazioni di massa in Ecuador, della mobilitazione in Belgio, in Tunisia… (pag. 4).
Dappertutto, i popoli cercano di aprirsi una strada sul loro terreno, quello della lotta di classe, della rottura con un sistema economico - il capitalismo - agonizzante, che porta ogni giorno di più l’umanità alle barbarie.
Ciò che “preoccupa” i leader politici e i commentatori nel nostro Paese come altrove, è per noi invece la direzione da seguire: è solo attraverso la mobilitazione che potrà realizzarsi ciò che nessuno rappresenta in Parlamento, la volontà della stragrande maggioranza.
Cioè la democrazia.
Lorenzo Varaldo
Gli insegnanti e il personale della scuola hanno scioperato il 30 maggio contro il Decreto 36, che nel tagliare migliaia di posti e addirittura una parte di stipendio cerca di introdurre un “premio” economico per una fetta dei docenti, con il fine evidente di mettere sotto controllo la libertà d’insegnamento e di dividere la categoria per far passare un ulteriore attacco alla scuola, alla formazione dei giovani, alla professione insegnante.
A pag. 3 e sul sito del “Manifesto dei 500” si può approfondire il contenuto di questo attacco.
Qual è il significato che questo sciopero può avere nella situazione politica che viviamo?
Tutto dipende da quale sarà il seguito che i dirigenti sindacali, della scuola e delle altre categorie, vorranno dare.
Importante per il contenuto e per l’unità sindacale che si è determinata, lo sciopero, in sé, mira a respingere ancora una volta - per la precisione la quarta dal 2000 - un attacco che in generale si può definire per il “salario al merito”, dove il “merito” appare sempre più apertamente quello di essere disponibili a distruggere la scuola pubblica e il futuro dei giovani.
Ma al di là di questo importantissimo obiettivo, lo sciopero rappresenta senza dubbio un momento di rottura di quella “unione sacra” che, dopo aver trovato per due anni il suo alimento attorno al Covid, da fine febbraio è stata rilanciata attorno alla guerra in Ucraina.
L’unione sacra è certamente quella del Parlamento e delle forze che sostengono il governo Draghi, ma è specialmente il clima che si è cercato di creare nel Paese, il “tutti uniti, c’è un’emergenza”, che sembra rovesciare il “Nessun dorma!” pucciniano in un “Nessun parli!”, o ancora in un “Che tutti dormano, per favore!”.
Ebbene, la scuola dà il segnale: i lavoratori non dormono, non sono più disposti al silenzio, al ricatto.
Tuttavia, ogni lavoratore comprende la situazione e si interroga: l’arroganza del governo è enorme, l’alternativa politica al momento non c’è, scioperi se ne sono visti tanti, giusti, ma come aprire davvero una prospettiva?
Questo Decreto 36 non è il solo provvedimento micidiale che Draghi si appresta a varare. A fianco dell’aumento dei prezzi e della speculazione che si lascia volontariamente correre (vedere pag. 2), in questi giorni si sta giocando un’altra partita dalle conseguenze molto gravi: il varo del PNRR, o meglio dei tanti provvedimenti distruttivi che, in nome dei “fondi dati dall’Europa”, vengono adottati.
In testa c’è il DDL chiamato “concorrenza”, contro il quale si sono svolte manifestazioni in molte città italiane il 14 maggio. Di che cosa si tratti è scritto nero su bianco nell’art. 1: “Rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo e amministrativo, all’apertura dei mercati … nel quadro dei principi dell’UE”. In altre parole, e come scriviamo da un anno, “volete i soldi?, e allora privatizzate e liberalizzate tutto ciò che ancora mantiene una parte anche minima di pubblico!”.
Quei soldi che, si badi bene, dovrete poi restituire sotto forma di pagamento del debito.
E non si tratta solo dei servizi pubblici municipali, ma dei trasporti a tutti i livelli, della sanità, delle poste, delle infrastrutture…
Poi c’è stata la privatizzazione totale degli ITS (Istruzione Tecnica Superiore), consegnata completamente al capitale, per la quale si prevede addirittura che il 70% dei docenti possa essere assunto direttamente dalle imprese.
A fronte di ciò, il disastro della sanità è sotto gli occhi di qualunque persona abbia avuto a che fare con il sistema (già ampiamente regionalizzato e privatizzato) dalla pandemia ad oggi (vedere pag. 2 e 3).
Guerra fuori dall’Italia, “per procura”, come ormai ammettono anche ex capi di Stato americani (pag. 4), guerra dentro il nostro Paese contro la popolazione. Esclation in Ucraina dalle conseguenze sempre più imprevedibili, escalation in Italia contro i lavoratori, i pensionati, i giovani.
Tutti comprendono che questa doppia guerra non può essere fermata se non con un enorme movimento che si metta in marcia, con in testa i dirigenti sindacali, chiamati a rompere definitivamente con Draghi.
Ma allora, dopo la scuola, non è l’ora di uno sciopero generale di massa, che paralizzi il Paese, che dia anche alla giornata del 30 maggio quella forza che, sola, può fermare il governo? Tribuna Libera, nel quadro della preparazione della Conferenza Mondiale contro la guerra e lo sfruttamento, per l’Internazionale Operaia” che si terrà a Parigi a fine ottobre, organizza l’11 giugno un incontro-dibattito a partire da questa domanda: come aiutare lo spiraglio che la scuola ha aperto ad allargarsi?
Lorenzo Varaldo
L ’escalation innescata con la guerra in Ucraina preoccupa tutti i lavoratori e i cittadini. Da un lato ci sono i morti, i massacri, le barbarie di città rase al suolo, le fughe di milioni di persone, le violenze inaudite sulla popolazione. Dall’altro le conseguenze che pesano fin d’ora sui popoli dei Paesi occidentali e sul popolo russo: aumento vertiginoso dei prezzi e delle tariffe, tagli annunciati e realizzati per le spese per armamenti, distruzione di posti di lavoro.
Ma non siamo, come alcuni vogliono farci credere, ad uno “stallo”. Ogni giorno che passa assistiamo alle contrapposte dichiarazioni di Putin da una parte, di Biden e dei leader dell’UE dall’altra, che alimentano l’escalation: adesione di nuovi Paesi alla Nato, aumento vertiginoso delle forniture di armi all’Ucrania, chiusura delle forniture di gas contrapposta alla ricerca di fare a meno del gas russo… “Fulmineremo chi ci tocca, possediamo armi che nessuno ha, le useremo se sarà necessario”, dichiara Putin; “Non cederemo a nessun ricatto”, rispondono Biden e l’UE.
La propaganda riflette questa corsa alla guerra: “La corsa a rafforzare i propri arsenali pone le basi di una nuova ebbrezza militarista, così l’attrazione verso la guerra si radicalizza” (La Stampa, 28/4). Parole che fanno paura. Mentre tutti ci auspichiamo che la guerra si fermi in qualche modo, non possiamo escludere a priori che la situazione non sfugga di mano e non degeneri oltre, coinvolgendo altri Paesi, l’Europa, il mondo.
Nessuna equazione si può fare tra avvenimenti storici, ma è certo che tutte le guerre - e quelle mondiali in particolare - sono partite con primi attacchi locali, prime reazioni, escalation incontrollabili… Chi può salvarci? Prima di rispondere partiamo da un punto: Draghi e il suo governo, con il sostegno di praticamente tutto l’arco parlamentare, compresi coloro che arrivano dalla storia del movimento dei lavoratori, fanno pienamente parte di questa escalation e di questa propaganda.
Un’escalation esterna, con l’invio di armi, con le sanzioni, con il moltiplicarsi di dichiarazioni, e una escalation interna, con l’attacco ai lavoratori, alle famiglie, alla scuola, alla sanità. In questo, il Draghi che dichiara di essere in guerra contro la Russia lo è contro di noi. É ormai un fatto: al contrario di quanto il governo e la maggioranza degli “esperti” ha detto e scritto in questi due mesi, l’invio di armi, le sanzioni, il diventare di fatto “co-belligeranti”, non ha prodotto alcuna trattativa di pace, alcuna pace.
Il governo Draghi, come tutti i governi occidentali a partire da quelli degli USA, della Francia, della Germania e della Gran Bretagna, fanno i soli interessi dei capitalisti (e in questo momento particolarmente quelli delle multinazionali che producono armi) e non possono sfuggire ad una logica: “Saccheggiare le ricchezze del mondo intero che ancora gli sfuggono, per controllare ancora più strettamente l'economia mondiale” (dall’Appello Internazionale contro la guerra, uscito dall’Incontro del 3 aprile. Vedere pag. 4).
É proprio questa logica, come emerso dall’incontro promosso dalla nostra redazione il 2 aprile (resoconto a pag. 3) che ha portato al punto in cui siamo; ed è proprio questa logica che apre la prospettiva del disastro totale. Non saranno dunque i governi a salvarci, a portarci fuori da questa situazione.
Solo la resistenza dei popoli, lo stare fuori dalla “nuova ebbrezza militarista”, il NO fermo a qualunque “unione sacra” (*) con il nostro governo e con quelli occidentali, potranno evitare il peggio.
Per questo, tutto ciò che si muove contro il nostro governo, che si tratti del NO alle “riforme” (AD, Concorrenza, scuola…), che sia per aumenti salariali e contro il caro-prezzi, oppure direttamente contro l’invio di armi e le sanzioni, è nei fatti un passo che apre una speranza. Più che mai abbiamo bisogno che il movimento dei lavoratori, con i propri sindacati, si situi su un terreno di indipendenza e di lotta contro questo governo, contro gli “effetti interni ed esterni” della guerra.
E più che mai abbiamo bisogno che questa lotta si leghi a livello internazionale per affermare, al di là della propaganda, la fratellanza tra i popoli, contro i loro governi fautori di guerra. Per questo, mentre siamo impegnati in tutte le lotte nazionali, prepariamo la Conferenza Mondiale contro la guerra e lo sfruttamento, per l’Internazionale operaia, che si terrà a Parigi a fine ottobre. Sosteneteci, aiutateci ad inviare la delegazione italiana, firmate l’appello internazionale.
Lorenzo Varaldo
(*) “Unione sacra” è un’espressione nata con la Prima Guerra Mondiale a significare il tentativo dei governi di unire capitalisti e classe operaia attorno al presunto “interesse nazionale” superiore, per far accettare ai lavoratori e alla popolazione la guerra e tutta la politica che ne discende. Da allora, questa espressione viene utilizzata spesso per indicare il tentativo di associare i lavoratori agli interessi del capitale.
Le immagini di Mariupol devastata ci riportano indietro di ottant’anni, ai bombardamenti che rasero al suolo quartieri e città in tutta Europa durante la II Guerra Mondiale. La guerra, mai assente dal 1950 nel mondo, è di nuovo nel nostro continente. Più passano i giorni, più la propaganda cerca di convincerci che l’aumento delle spese per armamenti sia giusto, che le sanzioni e l’invio di armi siano “normali”, che un possibile intervento sia possibile.
Radio1 (28/3) spiega con preoccupazione: “Il tabù dell’utilizzo delle armi nucleari si sta infrangendo”. In breve: le barbarie. D’altra parte, dopo due anni di pandemia, diversi esperti ci informano che il Covid è destinato a diventare la prima causa di morte, con 65.000 decessi all’anno. Guerra, covid, tagli per dirottare soldi sulle armi, speranza di vita che diminuisce, regressione di un’intera società. Di fronte all’aumento di spese per armamenti, il ministro della difesa Guerini spiega: “Dovremmo avere la capacità di dibattere tenendo sullo sfondo lo scenario nel quale ci troviamo, di rinnovata competizione tra gli Stati, con riflessi conseguenti anche sulle dimensioni di sicurezza e difesa e le prospettive di revisione del concetto strategico della NATO e del rilancio del progetto di difesa europea”. Tutto è detto.
1) Lo scenario di “rinnovata competizione tra gli Stati” non è che un eufemismo - peraltro ben poco mascherato - per spiegare che la competizione globale del capitalismo, dunque tra le multinazionali, spingendo la precarietà, la riduzione dei salari, la sostituzione della forza lavoro con automazione per aumentare i profitti, genera automaticamente più povertà nella popolazione e quindi restringe gli sbocchi dei prodotti (cioè le vendite), dunque i mercati. In pratica, alla ricerca di più profitto il capitale crea costantemente le condizioni per… meno profitto.
2) Così facendo, le multinazionali con i loro relativi Stati (USA in testa), non potendo accettare questa tendenza al minor profitto che loro stesse hanno generato, entrano in “competizione rinnovata” tra di loro, per strapparsi fette di mercato che possano rimpiazzare quelle perse.
3) Guerini prosegue con cinismo: “… con riflessi conseguenti anche sulle dimensioni di sicurezza e difesa…”. Detto in altri termini: aumentare le spese militari per difendersi dall’ “invadenza” degli altri capitalismi, ma anche per occupare spazi di altri. Con un “vantaggio” per il capitale: l’industria delle armi può così davvero rilanciare i profitti moltiplicando la produzione di… strumenti di morte. Il capitale non conosce morale, non conosce etica. Va dove conviene, e se conviene la guerra, se conviene la speculazione, se conviene la droga, la prostituzione… avanti tutta. Guerini e Draghi in testa.
Chi paga? I popoli. Prima di tutto con le conseguenze della guerra, quella sul campo e quella economica (sanzioni, aumento dei prezzi, speculazioni…). Poi con la deviazione dei miliardi che dovevano andare per sanità, scuola, stipendi, ricerca, servizi pubblici, pensioni… e che invece vengono destinati alle armi e quindi dovranno essere sottratti al resto. E così il governo stanzia 60 miliardi per spese di armamenti. 60 miliardi: chi può credere un solo istante che siano “necessari” per la guerra in corso?
E’ evidente, quella che si prepara è un’ “economia di guerra”, fomentata dall’UE e dagli USA, oltre che naturalmente dalla Russia. Nel momento in cui chiudiamo questo numero, gli ennesimi negoziati si stanno svolgendo. Quale risultato avranno nell’immediato è evidentemente fondamentale per le sorti di chi muore sotto le bombe. Ma quali che siano questi risultati, un dato è certo: dalle malattie alla guerra, dalla distruzione dei posti di lavoro e delle conquiste all’ambiente, i governi al servizio del capitale non possono che aumentare le barbarie, fino ad aprire scenari fino a ieri impensabili ai popoli.
Da queste barbarie si può uscire solo con l’unità e la mobilitazione dei popoli uniti, per il cessate il fuoco immediato, per lo smantellamento della NATO, per il NO fermo alle spese militari, battendosi in ogni Paese, in primis il nostro, contro il governo che sottrae i soldi a scuola, sanità, contratti, pensioni per darli ai giganteschi profitti che la guerra genera.
Per aiutare questa mobilitazione, Tribuna Libera ha promosso l’Appello contro la guerra (vedere pag. 3 e sito) e partecipa alla Conferenza Internazionale d’urgenza, domenica 3 aprile, nel quadro della preparazione della Conferenza Mondiale di fine ottobre prossimo. Contro la guerra, contro lo sfruttamento: tutto si lega. E allora, prima di tutto, è necessario battersi contro il nostro governo, che promuove tutto ciò.
Lorenzo Varaldo
"Sono sicuro che la popolazione russa non vuole la guerra”, dice un moldavo residente in Italia alla radio, il 25 febbraio.
Ne siamo sicuri anche noi. I popoli tutti non vogliono la guerra e non possono sopportare ciò che sta succedendo e le prospettive che qualcuno ha il “coraggio” di nominare (armi atomiche, guerra mondiale).
Per questo, la redazione di Tribuna Libera ha subito preso posizione in modo chiaro e netto al momento dell’attacco: “L’ingresso delle truppe russe in Ucraina segna una svolta nell’escalation che prosegue da mesi tra la Russia e i Paesi della Nato guidati dall’amministrazione USA.Si tratta ormai di una vera guerra che mira a vietare ogni sovranità alla nazione ucraina e ad imporre ancora una volta la dominazione della “grande-Russia”. Per i lavoratori, i giovani e i popoli del mondo intero che aspirano e si battono per l’indipendenza, un’esigenza si impone: ritiro delle truppe russe! Putin: giù le mani dall’Ucraina! L’aggressione di Putin contro l’Ucraina non fa sparire la responsabilità di Biden e degli altri governi occidentali, compreso il nostro, che da mesi fomentano lo scontro con provocazioni e con la loro politica di accerchiamento militare della Russia e la concentrazione delle truppe della NATO alle sue frontiere. Per questo pensiamo che i lavoratori e i giovani in Italia, come in tutta Europa, non possano avere alcuna fiducia in Draghi e negli altri leader europei per assicurare la pace tra i popoli” (testo integrale della dichiarazione sul sito).
Questo numero di Tribuna Libera dedica un ampio spazio (pag. 4) all’analisi della situazione, delle responsabilità, degli interessi che ci sono dietro questa guerra. Essa ha sul suo fondo una motivazione: la crisi di un sistema economico - il capitalismo - basato sul profitto, che “porta in sé la guerra come le nuvole portano la tempesta”, come dichiarava il socialista Jean Jaurès all’inizio del ‘900. Mai come oggi quest’affermazione è vera e tragica. Trentadue anni fa, Bush proclamava il “nuovo ordine mondiale” che avrebbe soppiantato il sistema dei blocchi post Seconda Guerra Mondiale. E lo proclamava… bombardando l’Iraq!
Un bilancio si impone: la legge del profitto, delle multinazionali, della speculazione, della droga, delle armi, la “concorrenza libera e non falsata”, dogma dell’UE e di tutto il mondo, ha prodotto un moltiplicarsi di guerre mai visto, fino ad arrivare, ottant’anni dopo, nel pieno dell’Europa. E’ una crisi mondiale paurosa, frutto di un’economia marcia, che mettendo la ricerca di un profitto sempre più grande al suo centro (e dunque di uno sfruttamento sempre più sfrenato) non può che distruggere salari, diritti, condizioni di vita, e di conseguenza restringere i mercati.
E così i capitali si dirigono verso la speculazione, la produzione di armi, la droga e infine producono la guerra, sia come sbocco naturale dell’industria degli armamenti, sia per controllare territori, nazioni, regioni da strappare ad altri per “dare aria” alla propria produzione, cioè alle proprie multinazionali assetate dalla crisi che hanno creato.
Per questo, come l’aggressione di Putin va condannata con fermezza, per il suo stop immediato, così non si può avere fiducia nei governi USA e UE, e quindi nel nostro, che rispondono agli interessi delle loro multinazionali. Tutte le volte che le organizzazioni dei lavoratori si sono unite ai loro governi sul terreno della guerra è stato un massacro. Viceversa, la mobilitazione indipendente, su tutti i temi a cominciare dal no alla guerra, è la sola strada che in passato ha aperto e oggi può aprire una prospettiva.
Per questo, ci battiamo affinché l’ “unione sacra” che la propaganda vuole promuovere tra capitalisti e lavoratori, ieri in nome del Covid, oggi della guerra, venga rigettata e ci si batta in modo indipendente sia contro la guerra, sia contro un governo che in questa situazione tragica ha il coraggio di preparare l’Autonomia differenziata che divide il Paese, tollera che Zaia e Bonaccini, presidenti di Veneto ed Emilia Romagna di colore politico “diverso”, siglino addirittura un “Asse strategico” per una politica comune, permette l’ulteriore privatizzazione della sanità in Lombardia e in tutto il Paese, reprime gli studenti… Si potrebbe continuare a lungo sui disastri del governo Draghi, a partire dalla sanità (pag. 2), con un ministro (Speranza) che ha il coraggio di dichiarare: “Il Sistema Sanitario Nazionale ci ha salvato”.
Più che mai, la lotta contro la guerra e quella contro lo sfruttamento sono legate. Di fronte allo scenario internazionale, oggi ci sentiamo ancora più motivati nel preparare anche in Italia la “Conferenza Mondiale contro la guerra, lo sfruttamento e il lavoro precario” che si terrà a Parigi a fine ottobre prossimo.
Truppe russe: fuori dall’Ucraina! Truppe della NATO: fuori dall’Europa! Ritiro dei contingenti italiani da qualunque operazione militare!
Lorenzo Varaldo
La rielezione di Mattarella a Presidente della Repubblica segna una nuova tappa nella crisi istituzionale del nostro Paese.
É la crisi di un sistema nello stesso tempo completamente incapace di darsi una credibilità per portare avanti i suoi attacchi all’interno dell’involucro parlamentare grosso modo uscito dalla Costituzione e contemporaneamente impossibilitato ad effettuare una vera trasformazione reazionaria di queste stesse istituzioni a causa della resistenza, più o meno conscia, della popolazione.
Questa crisi risale a molto lontano e dal 1992, con l’avvento dei criteri di Maastricht, ha vissuto continui tentativi di “rimedi”, segnati principalmente dalle “riforme”, elettorali e costituzionali. Tuttavia nessuna di esse è riuscita a schiacciare definitivamente la resistenza dei lavoratori, nonostante molte misure contro di essi siano state prese. Dal governo Monti alle difficoltà a mettere in piedi il successivo governo Letta, dal NO al colpo di forza di Renzi (referendum del 2016) allo stallo della prima rielezione di Napolitano, fino agli incredibili quasi tre mesi necessari per varare il primo governo Conte, questa crisi, via via più spettacolare, è arrivata fino ad un governo mai visto nella sua composizione - quello Draghi - che va dal PD alla Lega, passando per il M5S.
Si può dire che al varo di questo governo, in un certo senso i partiti avessero dichiarato: “Noi non ce la facciamo più, non siamo in grado di inventare qualcos’altro per illudere i cittadini. Non ci sono formule che possano stare all’interno di un voto normale, di una maggioranza e un’opposizione, di un primo ministro ordinario”. In altri termini, le istituzioni del 1948 non sono più in grado di garantire un quadro capace di portare i colpi che il capitale (via UE) esige. E così hanno consegnato ad un Bonaparte la patata bollente. Peccato che il nostro sistema non sia bonapartista…(*) e che quindi anche il più beatificato dei Bonaparte alla fine cominci a risentire della lotta di classe, del discredito, della mobilitazione. Dunque, panico.
Il “gioco” al quale abbiamo assistito per mesi e poi nelle ultime settimane non è stato un trastullarsi del Palazzo mentre il Paese va a rotoli (cosa peraltro vera): è stato il panico del sapere che qualunque soluzione che potesse togliere a Draghi il suo ruolo di Bonaparte - e cioè ridare centralità ai meccanismi della Costituzione - sarebbe stata un azzardo pericoloso, perché nessuno è in grado di portare i colpi che l’UE pretende. É quindi logico che tutti i primi commenti alla rielezione di Mattarella a Presidente della Repubblica vadano in una direzione: si è salvato il governo Draghi e la “stabilità”.
Ma due piccoli bonaparte (Draghi e Mattarella) ne fanno uno intero? In realtà la “stabilità” può essere garantita solo fino ad un certo punto da queste forzature. Per avere stabilità ci vuole infatti consenso e questo governo ne perde ogni giorno di più. Le tensioni tra i partiti che non stanno tardando ad emergere dopo gli applausi a Mattarella (liberatori: proprio nel senso che il Parlamento si è liberato di una responsabilità e di un peso che non sapeva come affrontare) riflettono in modo deformato proprio ciò che succede nel Paese: Bonaparte barcolla. Una cosa è certa: come lavoratori, non abbiamo nulla da guadagnare da questa continuità del governo.
Al contrario, noi accusiamo Draghi (vedere pagine interne). «Questa non è scuola, non è lavoro. Vogliamo sicurezza e diritti, stop Pcto e stage che insegnano la precarietà», è stato scandito dagli studenti nelle piazze, i questi gironi, durante le manifestazioni a seguito della tragedia di Lorenzo Parelli, il giovane morto durante uno stage di alternanza scuola-lavoro. Come i lavoratori con lo sciopero generale di dicembre, come nella lotta contro l’Autonomia Differenziata che potrebbe portare un colpo decisivo alla democrazia e all’unità della Repubblica, come per le migliaia di operai che si mobilitano per difendere il posto di lavoro, gli studenti vogliono battersi, resistere, mettono avanti rivendicazioni. Ma chi può soddisfarle?
Chi può aprire la prospettiva di un altro governo che la faccia finita con i piani distruttivi e adotti davvero le misure urgenti di cui ci sarebbe bisogno? Con milioni di lavoratori e militanti, non abbiamo una soluzione pronta per questo problema. Ciò non toglie che il problema esista, tanto più dopo la rielezione di Mattarella che conferma Draghi. Come per tutti i problemi, la peggior cosa da fare è negarlo. Il 10 febbraio, con l’Incontro-Dibattito al quale invitiamo (pag. 3), proponiamo proprio il contrario: cominciamo a discuterne liberamente, confrontiamoci.
Tribuna Libera è al servizio di questo dialogo.
Lorenzo Varaldo
Milioni di lavoratori sono dunque scesi in sciopero il 16 dicembre su appello della Cgil e della Uil. A loro si aggiungono i 100.000 che una settimana prima avevano risposto alla chiamata delle stesse organizzazioni nella scuola, nell’unità con Gilda, Snals, Cobas, Cub e Usb.
Non c’è alcun dubbio, in basso si è trattato di una dimostrazione di forza, di esistenza e di resistenza.
E’ la classe operaia in quanto tale (data mille volte per “finita” o “superata” dalla propaganda e da tanti pseudo intellettuali) che ha trascinato questo movimento, come si può vedere dai dati e dai nostri commenti di pagina 3. Ma è stata anche la scuola ad averne aperto la porta.
Un movimento che si è fatto strada tra mille difficoltà, attraverso gli scioperi delle fabbriche, le proteste e l’indignazione nelle scuole, le mobilitazioni di chi viene licenziato, e che ha imposto lo sciopero ai vertici sindacali, modificando una situazione di consenso generale attorno al governo che in qualche modo perdurava dallo scoppio della pandemia (vedere ancora analisi di pag. 3).
Se è vero infatti che questo consenso - andato sotto il nome di “interesse generale”, “interessi comuni tra lavoratori, padroni e governo, “unità nazionale”, - non ha impedito che scioperi e manifestazioni di sviluppassero in tutti i settori, è anche vero che esso è stato alla base degli accordi che di fatto hanno permesso l’eliminazione del divieto di licenziare, la ripresa scolastica senza alcuna misura di sicurezza, la concessione di miliardi e miliardi ai padroni che oggi licenziano senza pudore, il varo di provvedimenti che discriminano e dividono i lavoratori.
Ebbene, questo consenso, seppur non “spazzato via”, esce profondamente compromesso dalla proclamazione dello sciopero.
Nelle manifestazioni sono apparsi cartelli del tipo “Cacciamo Draghi”, e anche “No Draghi al Quirinale”.
Non è un fatto secondario. Nel momento in cui molti politici e commentatori si allineano a Giorgetti nel dichiarare che ci vorrebbe un “semi-presidienzalismo di fatto”, cioè una figura come Draghi (o chi per esso) che possa governare al di sopra di ogni dialettica parlamentare, prolungando di fatto il consenso destra-sinistra di oggi per imporre dall’alto i piani distruttivi che il capitale pretende (vedere pag. 2), è molto importante che i lavoratori con i sindacati esprimano il loro No, il loro dissenso, la loro forza. E ora?
Dal palco di Roma, il giorno dello sciopero generale di CGIL e UIL (16 dicembre), Landini ha dichiarato: “Scioperiamo per rimettere al centro il lavoro, perché non possiamo sopportare quando un lavoratore viene licenziato”. Giusto. Ma allora Landini dovrebbe trarre la sola conclusione logica: ritirare la sua firma dall’accordo che di fatto ha sbloccato il divieto di licenziare e formulare la rivendicazione netta: “Ripristino della legge che vieta i licenziamenti”.
Lo stesso Landini prosegue: “Bisognerebbe dire a Confindustria che anche loro dovrebbero battersi con noi, contro le delocalizzazioni, i licenziamenti”.
La Confindustria che si batte con i sindacati? Due anni di “interessi generali del Paese” ci hanno condotto a questa situazione; è proprio contro questa illusione e questo “consenso fuorviante” che hanno fatto sciopero in milioni.
Sempre Landini: “Hanno detto che è una manovra espansiva. Ma espansiva per chi? Quello che divide il Paese è la precarietà, l’ingiustizia, l’evasione fiscale…solo l’1% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato. Sono stati dati 185 miliardi alle imprese senza condizioni, anche a chi ha licenziato, delocalizzato…”. Tutto giusto, ma allora bisogna battersi prima di tutto per l’abrogazione del Job’s Act, non per la sua “revisione”, e per la requisizione dei 185 miliardi, da destinare a scuola, sanità, rinnovi contrattuali…
Landini conclude: ”Dovrebbero ringraziarci per lo sciopero generale e le piazze che abbiamo riempito, perché il rischio è di una rottura democratica di rappresentanza”.
Se il governo “ringrazia” è perché qualcuno gli fa un favore, ma quale favore si può fare ad un simile governo? Da parte loro, i lavoratori hanno indicato chiaramente che la sola via per bloccare sia i piani di Draghi e dell’UE di distruzione delle conquiste, sia quelli più generali di rimessa in causa della democrazia è quella della mobilitazione unita, con i loro sindacati, su rivendicazioni precise fino al loro ottenimento.
É l’indipendenza del movimento operaio e dei lavoratori che può aprire una prospettiva. Il 16 ce lo dice: la forza c’è, ora i dirigenti devono utilizzarla.
Lorenzo Varaldo
Il decreto del governo soprannominato “concorrenza” ha un contenuto preciso: rendere impossibile mantenere in vita i servizi pubblici ancora esistenti, quelli (rarissimi) che sono sopravvissuti davvero alle diverse ondate di privatizzazioni dall’inizio degli anni ’90, ma anche quelli che sono rimasti in maggioranza allo Stato (o ai Comuni e agli enti locali), benché di fatto già sottomessi alle regole del mercato.
Questo decreto gravissimo non è tuttavia il solo provvedimento della Legge di Stabilità che comincia ad applicare le “condizioni” che l’UE ha dettato a tutti i Paesi per “elargire” centinaia di miliardi di euro, apparentemente superando il dogma di “non sforare il debito” che per anni aveva dominato i discorsi della propaganda e di tutti gli schieramenti politici.
Tant’è: il “debito” è stato ampiamente sforato, principalmente stampando moneta, sotto la pressione della situazione che il Covid ha generato e per la paura dei governi di un’esplosione sociale.
Ma il capitale ha la sue legge, implacabile: quella del profitto. I soldi non sono un’invenzione slegata dalla produzione, dal mercato, dall’economia.
La moneta è nata e persiste nel suo valore come rappresentazione delle merci, dei beni materiali. Una moneta che eccede la circolazione di merci è una moneta che crea immediatamente un problema: chi paga questa eccedenza? Due sono le strade: o la paga il capitale, diminuendo i profitti e utilizzando quindi la moneta stampata per aumentare i salari, i diritti, le condizioni di vita, e quindi rilanciando davvero la produzione (e dunque il valore dei soldi) oppure la pagano lavoratori, i disoccupati, i pensionati, attraverso una nuova regressione del potere d’acquisto (diminuzione dei salari e/o aumento dei prezzi, privatizzazioni con conseguente pagamento dei servizi, attacco alle pensioni…).
Da notare come questa seconda “soluzione”, portando ad impoverire la stragrande maggioranza della popolazione, prepara un nuovo crollo della produzione, quindi una svalutazione della moneta, quindi nuova crisi.
Non c’è alcun dubbio che il governo Draghi stia praticando la seconda “soluzione”. Abbiamo citato il decreto “concorrenza”, ma con esso c’è l’ennesimo attacco alle pensioni, la fine del divieto di licenziare, la diminuzione delle tasse con conseguente taglio della spesa pubblica, l’Autonomia differenziata…
Più che mai si dimostra come sia impossibile “tenere il piede in due scarpe”. In altri termini, è impossibile per qualunque governo fare nello stesso tempo gli interessi della Confindustria (capitalisti) e dei lavoratori. Pretenderlo, è pura propaganda per ingannare i lavoratori e implicarli negli attacchi o almeno farglieli digerire.
D’altra parte, è del tutto normale che il capitale tenti la strada di questo inganno, che comprende l’utilizzo del problema Covid (che esiste e che la legge del profitto impedisce di combattere come si dovrebbe) per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica da ciò che si prepara e si vara.
Meno normale - e lo abbiamo detto più volte da queste colonne - è che i dirigenti sindacali caschino in questa trappola e salgano sul carro del presunto “interesse comune”.
Ben venga dunque la notizia dello sciopero della scuola (10 dicembre) e in particolare delle posizioni prese dalla FLC-CGIL e dalla FIOM, che sostanzialmente vanno nel senso di rompere un quadro di consenso generale attorno al governo e di affermare ciò che è sacrosanto: gli interessi sono contrapposti, da una parte c’è la stragrande maggioranza della popolazione, dall’altra una manciata di super-ricchi, di speculatori, di detentori dei grandi mezzi di produzione. Ma ciò che è valido per la scuola, non lo è in effetti per tutte le categorie e per l’insieme del sindacato? Allo sciopero della scuola, non dovrebbe corrispondere uno sciopero generale che raggruppi tutte le categorie, tutta la popolazione, per dire cose semplici e chiare e battersi per esse? Quali cose?
Blocco dei prezzi, ripristino del divieto di licenziare, ritiro del decreto concorrenza, ritiro di ogni progetto di Autonomia Differenziata, tutti i soldi alla sanità pubblica, alla scuola, agli aumenti salariali… Per non parlare delle richieste di annullamento del debito, della nazionalizzazione delle industrie farmaceutiche (della quale c’è bisogno in tutto il mondo, per rendere accessibili e controllabili i vaccini), della requisizione di quelle che, in tutti i settori, licenziano, mettono in cassa integrazione, precarizzano…
Più che mai c’è urgenza di battersi per la mobilitazione che da un lato sappia fermare i piani del governo, dall’altro cominci a mettere sul tavolo la questione di un governo che prenda le misure urgenti di cui c’è bisogno.
Lorenzo Varaldo
Non hanno aspettato un istante.
Erano pronti da mesi, forse da anni, i capitalisti che al momento della revoca del divieto di licenziare da parte del governo Draghi sono passati all’azione, chiudendo fabbriche, licenziando migliaia di lavoratori, comunicandolo “con un click” (pag. 2 e 3) Al momento sono 85 i “tavoli di crisi” aperti nel Paese, cioè le situazioni drammatiche, che non sono, tuttavia, che l’anticamera di ciò che potrà succedere nei prossimi mesi.
Nel frattempo, Stellantis (la multinazionale nata dalla fusione di FCA con PSA, a loro volta nate dalle fusioni Fiat-Chrysler e Peugeot-CitroenOpel, a loro volta nate dalle fusioni di…), che ha già usufruito in piena pandemia di sei miliardi di crediti garantiti dal governo, ne ottiene altri dodici dalle banche e decide di… ridurre drasticamente il personale negli stabilimenti Fiat.
Questa situazione era chiara ben prima che scoppiasse. Il governo, che dichiara di preoccuparsi della salute per il Covid, non ha esitato un momento a gettare milioni di famiglie nella fame!
Ma la responsabilità è solo del governo? I dirigenti sindacali avevano giustamente denunciato ciò che si preparava. I fatti non hanno però seguito le parole e hanno firmato una “presa d’atto” con governo e Confindustria che ha significato l’ok alla revoca del divieto di licenziare (pag. 2).
La reazione dei lavoratori non si è fatta attendere: scioperi immediati in tutte le fabbriche colpite, manifestazioni, occupazioni. A Firenze i sindacati hanno proclamato una giornata di sciopero generale. A Palermo, alcuni giorni dopo, anche. E poi decine di iniziative locali.
Ma è un problema solo di Firenze? É un problema solo di Palermo?
No, la soluzione è un’altra: sciopero generale di tutto il Paese, per il ripristino del divieto di licenziare, per salvare tutti i posti, per la requisizione e la nazionalizzazione delle fabbriche se necessario.
La forza in basso c’è, lo dimostrano le manifestazioni di questi giorni che i media nascondono.
In più, questo sciopero potrebbe diventare davvero “generale”, coinvolgendo il mondo della scuola, della sanità, tutti i cittadini attorno alle misure semplici, essenziali, che continuano a non essere prese di fronte alla pandemia che rimonta: tracciamenti di massa, potenziamento dei trasporti, riduzione degli alunni nelle classi, riapertura di tutti gli ospedali e dei posti letto soppressi e dei servizi sanitari chiusi (a partire da quelli territoriali), nazionalizzazione dell’industria farmaceutica, requisizione dei brevetti. E naturalmente vaccinazione di massa per tutti quelli che la richiedono. E’ paradossale: mentre il governo vara il Green Pass, in molte Regioni mancano i vaccini!
Strano concetto di “libertà” per il governo: se si tratta di gettare sul lastrico milioni di cittadini, va promossa; se si tratta di chi non vuole vaccinarsi, va repressa!
Un anno e mezzo di pandemia e un mese di liberalizzazione dei licenziamenti lo confermano in modo evidente: non esiste alcun “interesse comune” tra i lavoratori, i pensionati, i giovani, la maggioranza dei cittadini e una manciata di capitalisti che riesce a trarre profitti giganteschi da questa crisi paurosa. I presunti “interessi comuni” ci portano al disastro, sociale e sanitario, sotto la regia dell’UE che ha espressamente spinto per la fine del divieto di licenziare e che “concede” oggi decine e decine di miliardi… a patto che vengano utilizzati proprio per privatizzare, attaccare i contratti nazionali, favorire la concorrenza e domani vengano restituiti con tagli paurosi di servizi pubblici, salari, pensioni.
Subito, allora, la responsabilità è dei dirigenti sindacali: ritiro del sostegno alla “presa d’atto”, bilancio serio di queste settimane di luglio, sciopero generale. Noi ci battiamo per l’unità per imporre questo sciopero. Per questo denunciamo e combattiamo la divisione che il governo promuove utilizzando la questione dei vaccini: divide et impera, come sempre.
Quale governo potrà davvero aprire la porta ad un vero lavoro e ad un vero salario, alla fine della precarietà, alla libera ricerca scientifica e a tutte le misure sanitarie conseguentemente necessarie per combattere il Covid-19, compresa tutta la chiarezza e la credibilità necessarie per i vaccini?
Solo un governo che rompa con gli interessi del capitalismo e dunque con i trattati dell’UE che li impongono. Un governo che dica chiaramente “Divieto di licenziare, stop ad ogni austerità, ad ogni taglio, ad ogni privatizzazione”. Battiamoci subito per l’unità, per il divieto di licenziare, e intanto allarghiamo la discussione su come aprire la prospettiva di un tale governo.
Sostenete la lista alle elezioni di Torino!
Lorenzo Varaldo
Man mano che passano le settimane, la retorica dell’UE che avrebbe “cambiato politica” comincia a lasciar trapelare la realtà. Primo segnale: di fronte alle mobilitazioni (pag. 2 e 3) per la conferma del divieto di licenziare, la Commissione europea è intervenuta dichiarando che si tratta di una misura “non efficace e ingiusta perché penalizza i lavoratori a termine”.
Da quale pulpito! Dopo aver promosso dagli anni ’90 la flessibilità e la precarietà più sfrenate in nome della “libera concorrenza non falsata” e aver in Italia dettato le “riforme” Treu e Biagi, oggi l’UE si permette di utilizzare le condizioni penose che essa stessa ha creato per decine di milioni di persone per distruggere quelle di chi ancora non è stato precarizzato dall’UE stessa!
Secondo segnale: dopo aver “concesso” prestiti (si badi bene, “prestiti”, quindi soldi da restituire domani) agli Stati, allentando momentaneamente i criteri di Maastricht, l’UE ha approvato il piano dell’Italia di utilizzo di questi fondi a condizione che il nostro governo attui tutte le “riforme” che in trent’anni non si sono riuscite a mettere in atto.
É Brunetta a spiegarci bene la situazione: “Avviso ai naviganti, no reform, no money”, dichiara in un’intervista su La Stampa (27/6). E precisa: “Quello che abbiamo sottoscritto (con l’UE) è stato un ibero contratto. Noi non abbiamo mai auto la forza e il coraggio di fare quelle riforme. E quindi dovremo solo dire grazie all’Europa, alla Merkel e a Draghi”. Quali riforme? Brunetta, un nome una garanzia: privatizzazioni, distruzione dei contratti nazionali, “carriere, produttività”… D’altra parte, e lo abbiamo dimostrato a più riprese da queste colonne, gli “investimenti” nella scuola sono lì a dimostrare a che cosa servano i soldi UE: introdurre i privati, ridurre le conoscenze dei giovani, prepararli ad accettare le regole del mercato e della precarietà.
Terzo segnale: da diversi giorni si è cominciato a dire che a fianco dei soldi “da spendere” ci sono i tagli da fare, subito. Il titolo di un editoriale de La Stampa esplicita il concetto: “Tagliare la spesa aiuta il Recovery plan”. Questo editoriale spiega molto bene: i criteri di Maastricht non sono spariti, sono sempre validi; se in questo momento non si riescono a rispettare, deve essere chiaro che al più presto bisogna rientrare nelle regole. E allora, spiega sempre l’editorialista, “il moltiplicare degli investimenti non è sempre così elevato da generare entrate sufficienti (introiti dalle tasse) a coprire i costi”.
Conclusione: meglio iniziare a tagliare subito per non trovarsi domani a dover tagliare ancora di più. E voilà spiegato perché in pieno Recovery le scuole primarie di Torino e provincia devono lottare contro il taglio di ben 100 posti (pag. 3). Nel frattempo sono già un milione i posti di lavoro persi in un anno. La questione è posta più che mai: è possibile aprire la porta ad un cambiamento reale continuando a sottomettersi all’UE, già responsabile di averci portato a questo punto con i suoi tagli alla sanità, le sue privatizzazioni, la sua precarietà? Da dove può arrivare una via d’uscita? La risposta è tra le righe delle parole stesse di Brunetta: “… non abbiamo mai avuto il coraggio e la forza di fare quelle riforme”. La forza, cioè quella per schiacciare la resistenza dei lavoratori, che decine di volte hanno imposto lo sciopero. Il coraggio, di rischiare una rivolta ancora più grande schiacciando questo movimento che ad ondate diverse si è sempre presentato in trent’anni di storia italiana.
Oggi, questa “forza” e questo “coraggio” possono arrivare dal solo fatto di “aver sottoscritto un contratto con l’UE”? La mobilitazione degli operai di Genova (pag. 3), che si riflette in tutte le altre di queste settimane, ci dice di no: la lotta sarà ancora una volta il solo terreno sul quale si giocheranno le “riforme”. Certamente, la firma dei dirigenti sindacali su un accordo che rimette in causa il divieto di licenziare costituisce un nuovo ostacolo (*) D’altra parte, mentre si moltiplicano le liste per le prossime elezioni amministrative, la questione è posta anche sul piano politico: il più bel programma che si possa scrivere diventa carta straccia se si resta nel quadro dell’accettazione dei criteri di Maastricht. Attorno a questo giornale, dal 2006, le elezioni comunali sono state l’occasione per porre, attraverso una lista, questa discussione e mobilitare attorno a questa prospettiva. Come e più del 2006, del 2011, del 2021, con i nostri mezzi, noi ci situiamo su questo terreno: per il divieto di licenziare, per un vero lavoro e un vero salario, per la fine di qualunque austerità. E di conseguenza per l’abrogazione dei Trattati UE. Lorenzo Varaldo
“ Perché vedi, alla fine siamo tutti sulla stessa barca: noi, loro, gli altri che saranno arrivando adesso e lanciano i petardi. Prendi noi: non lavoriamo da un anno, ma come si campa?”.
È uno dei partecipanti alle ben cinque manifestazioni che si sono svolte a Torino il 26 marzo che parla. La Stampa commenta: “La città sfinita scende in piazza e unisce operai, studenti, riders, tassisti, giostrai”. Due giorni prima i dipendenti Amazon hanno aderito al 75% al primo “sciopero strutturato” del colosso del commercio elettronico.
I lavoratori, i giovani, la popolazione non staranno a guardare ancora a lungo. Chi può sopportare che ad un anno e 100.000 morti dall’inizio della pandemia e dopo aver subito una seconda ondata e ora una terza, il Paese conti tra i 300 e i 500 deceduti al giorno, con le scuole chiuse, 600.000 posti di lavoro persi, decine di migliaia di attività commerciali sospese o che non riapriranno più, ospedali e servizi sanitari che sono costretti ad annullare o rimandare visite e interventi chirurgici urgenti, decretando così la morte di altre centinaia di migliaia di persone i cui nomi non appariranno mai nelle statistiche di questa pandemia?
Nulla di tutto ciò che è successo in un anno e che sta succedendo era o è ineluttabile. Al contrario, è il frutto di decisioni politiche precise.
Un anno fa, la tragedia era il prodotto degli ospedali chiusi da tutti i governi che si sono succeduti per trent’anni, nazionali e regionali, delle terapie intensive soppresse, delle privatizzazioni, dei tagli alla ricerca, della regionalizzazione della sanità. Poi, via via, la responsabilità politica è apparsa ancora più grave: nessun serio tracciamento né tamponi di massa, nessuna requisizione delle fabbriche per riconvertire la produzione…
Oggi assistiamo al teatrino di Draghi e dell’UE che “denunciano” Astra-Zenaca. Premesso che le loro “denunce” sono impotenti e puramente propagandistiche, poiché in Europa si confezionano semplicemente le dosi, prodotte altrove, vogliono forse farci credere di non conoscere le condizioni dei contratti che loro stessi hanno siglato, sottomettendosi ai diktat delle multinazionali USA? Draghi vuol farci credere questo, lui che è stato alla testa di tutta la politica UE che ci ha condotto a questo punto?
La realtà è che tutto è fuori controllo. Lo sono i numeri dei contagi e dei morti. Lo è la prospettiva di tracciamento e di contenimento se riapriranno le scuole e le attività. Lo è l’economia, ma anche l’istruzione di milioni di allievi. Lo è la somministrazione dei vaccini, ma anche la pandemia stessa, che lasciata correre per un anno sta facilitando continue mutazioni del virus, le quali portano ormai diversi esperti a parlare di “anni e anni per uscirne”.
Tutto questo ha una “logica”: è la logica del profitto, degli interessi di chi sta speculando e si sta arricchendo sulla pandemia, mentre trascina il mondo alla catastrofe. Già si parla di “economia dei vaccini” o di “economia del farmaco”… in altri termini: come l’industria degli armamenti vive sulla guerra, così quella del farmaco e dei vaccini ha bisogno di malati, cioè varianti, morti, terrore, e di “anni e anni”. E intanto, in questi “anni”, il capitale ha bisogno come il pane di distruggere-disarticolare ciò che resta delle conquiste dei lavoratori, a partire dalla scuola, dai contratti nazionali, dalla Pubblica Amministrazione (vedere pag. 2 e 3).
È in questa situazione che un sentimento di rivolta profondo sta nascendo tra i lavoratori, i giovani, i piccoli commercianti.
Il governo lo sa e lo teme, perché ricorda gli scioperi di un anno fa nelle grandi fabbriche del nord che impose il divieto di licenziare e quello fortissimo degli operai ILVA a Genova, a settembre.
Due “logiche” opposte sono di fronte: quella del disastro “per anni” e quella della mobilitazione per imporre la requisizione dei brevetti, la nazionalizzazione dell’industria del farmaco, la produzione in massa di vaccini e nel frattempo un vero tracciamento, il mantenimento a tempo indeterminato del divieto di licenziare e la divisione del lavoro esistente tra i tutti i cittadini, a stipendio pieno.
Due “logiche” contraddittorie che interpellano prima di tutto i dirigenti sindacali: scegliere quella della disponibilità a discutere la “riforma” della Pubblica amministrazione (pag. 2) vuol dire accompagnare il disastro; scegliere quella che li ha portati a proclamare lo sciopero Amazon e unire la popolazione intro il governo e i capitalisti per esigere le misure urgenti in ogni settore è l’unica che può aprire una via d’uscita.
Lorenzo Varaldo
Il 23 febbraio 2020 aspettavamo il decreto che chiudesse dalla sera alla mattina le scuole. Oggi, esattamente un anno dopo, aspettiamo l’ordinanza della Regione Lombardia che chiuda dalla sera alla mattina le scuole”. Chi parla è Valentina Borgo, assessore alla Cultura del Comune di Rovato, 19.000 abitanti nella provincia di Brescia che sta per entrare nuovamente in lockdown. E prosegue: “In un anno non è cambiato nulla, non si è imparato nulla. La luce in fondo al tunnel è il vaccino, sempre che arrivi”. Un condensato della situazione.
Ma la luce in fondo al tunnel è il vaccino? Dipende. Innanzitutto perché al momento il vaccino è fonte prima di tutto di ritardi, scandali, speculazioni, dubbi. Ma poi perché il rischio è di entrare immediatamente in un altro tunnel, quello della “grande occasione” che economisti, “esperti”, teorici del capitale ci stanno propagandando da un anno. Come scrive giustamente il “Manifesto dei 500” (pag. 3), quale “grande occasione” poteva nascondere una tragedia mondiale come quella del Covid?
Con Draghi cominciamo a capirlo. Espressione del capitale finanziario più feroce e spietato che possa esserci (pag. 2), il nuovo presidente del Consiglio dei Ministri ha utilizzato parole fumose nei suoi discorsi di presentazione, ma sufficienti per capire che questo governo è stato messo in piedi per arrivare là dove Conte aveva fallito: cogliere la “grande occasione” del virus per liquidare tutto ciò che resta delle conquiste dei lavoratori, dei contratti nazionali, della scuola e della sanità pubbliche, dei servizi.
Due anni fa, quando con un capovolgimento spettacolare il M5S lasciò la Lega per governare con il PD, da queste colonne scrivevamo: “Se è diventato “normale” governare indifferentemente con la destra o con la “sinistra”, se è diventato “normale” governare con chi ha sostenuto la peggiore destra, il motivo è che dietro il teatrino degli accordi più rocamboleschi tutti applicano la stessa politica dettata dall’UE”. Oggi si è andati addirittura oltre: è diventano “normale” un governo che va dal PD e da LEU fino alla Lega e a Berlusconi, passando per il M5S! Se siamo arrivati a questo punto, a questa “unione sacra” che va dall’estrema destra a ciò che resta della “sinistra”, il motivo è uno solo: per il capitale si tratta di riunire tutte le forze, evitare qualunque problema o dialettica parlamentare, aggirare qualunque opposizione per cogliere la “grande occasione”.
Ma tra il dire e il fare… c’è di mezzo il motivo che ha portato alla caduta di Conte: la forza della classe operaia e dei lavoratori che aveva costretto il precedente governo a decretare il divieto di licenziare (misura unica nel mondo!), a confermarlo a settembre e a prendere misure - seppur timide - per evitare un’esplosione sociale. A pagina due raccogliamo alcune brevi testimonianze di lotte in corso, sotto il titolo “Le lotte che ci vogliono nascondere”.
Esattamente nello stesso modo, vogliono farci dimenticare che furono gli scioperi spontanei del marzo 2020 e poi quelli di settembre, in primis degli operai dell’ILVA che avevano occupato le vie della città, a costringere il governo a decretare il divieto di licenziare e a non procedere oltre nella “grande occasione”. L’arrivo di Draghi rappresenta il tentativo di schiacciare questa forza. Ma nulla ci dice che l’unione sacra che si è stabilita sarà sufficiente: la classe operaia si è battuta, si batte e continuerà a farlo. Associare i partiti è una cosa, ma senza il coinvolgimento dei sindacati nell’enorme opera di distruzione che si prepara, anche per “super-Mario” è difficile passare.
Tutto si riduce dunque alla responsabilità dei dirigenti sindacali. All’uscita dall’incontro con il nuovo presidente del consiglio, i dirigenti di CGIL-CISL-UIL hanno dichiarato di aver richiesto la proroga del divieto di licenziare. Pochi giorni prima Landini aveva dichiarato che “con Draghi possiamo far uscire l’Italia dalla precarietà del lavoro”. Va detto chiaramente: queste due cose sono contraddittorie. Appoggiare Draghi, dichiarare che “adesso si metta all’opera” (sindacati scuola) vuol dire aprire la porta, come avvenne con Monti nel 2011, al disastro. Non è questo che i lavoratori vogliono dai dirigenti, ma che davvero mobilitino subito per la conferma a tempo indeterminato del divieto di licenziare e per la misure concrete e urgenti per salvarci dalla pandemia, perché è insopportabile che “un anno dopo si sia allo stesso punto”. Nelle assemblee, nei sindacati, con le associazioni, nei luoghi di lavoro, noi ci batteremo per questo: NO all’unione sacra con Draghi, mobilitazione indipendente nell’unità!
Lorenzo Varaldo
Conte sì, Conte no: è una discussione che può interessarci? E’ una discussione che può aprirci una prospettiva nella drammatica situazione che viviamo ormai da un anno?
Un governo che lascia intendere tranquillamente che una media di 500 morti al giorno sia una “situazione sotto controllo” (vedere Corsivo). Un governo che alimenta non si sa quale speculazione dei tamponi (testimonianza a pag. 3), che non ha organizzato il tracciamento quando era possibile, che non ha saputo programmare in sei mesi il rientro scolastico che poi si rivelato un fallimento e che si “ripete” dopo Natale. Un governo che non è in grado di pianificare l’intera produzione orientandola ad uscire da questa pandemia… chi può pensare che un tale governo possa portarci fuori?
Ma d’altra parte, qualcuno può anche solo vagamente immaginare che un altro governo di “unità nazionale”, frutto di qualche gioco di parole (“responsabili” che diventano “costruttori”), oppure uscito da nuove elezioni con questi partiti possa aprire una prospettiva per la stragrande maggioranza della popolazione, che guarda allibita il teatrino della politica, mentre la situazione sprofonda?
Due intenti uniscono tutti, il governo oggi dimissionario, Renzi che l’ha fatto cadere, la destra che chiede le elezioni: stabilità e rispetto del quadro dell’UE. Siamo chiari: questi due intenti sono strettamente legati. Significano cercare un governo che sappia, senza ostacoli e impedimenti, eliminare il divieto di licenziare, varare le “riforme” strutturali imposte da Bruxelles in grado di attaccare i contatti nazionali, privatizzare, asservire la scuola al mercato… e preparare il terreno per il pagamento dell’immenso debito che l’UE sta facendo piombare sulla testa di miliardi di persone (vedere pag. 2).
Sono questi due intenti la chiave per comprendere la crisi, da qualunque parte la si guardi, ma anche per tracciare la sola via d’uscita che possiamo avere come lavoratori, giovani, pensionati, piccoli artigiani e commercianti. Andiamo con ordine.
- La crisi. Tutti uniti su ciò che ci vuole (appunto stabilità e rispetto del quadro UE), sono divisi sul come arrivarci. Qualcuno pensa che il secondo governo Conte abbia fatto il suo tempo per discredito e sia quindi incapace a varare i colpi che i capitalisti pretendono, che possono produrre milioni di disoccupati da un giorno all’altro; qualcun altro pensa invece che la via di un nuovo esecutivo sia invece troppo pericolosa, difficile, incerta. Certo, ci sono anche gli interessi personali, le ambizioni, le “poltrone”. Ma la radice dello scontro è tutta nel “come” realizzare le misure che il capitale (via UE) richiede.
- Come uscirne. Questa divergenza tra i partiti che ha generato la crisi di governo riflette in realtà un’altra questione: la popolazione non ne può più. Non ne può più dei continui confinamenti, deconfinamenti, riconfinamenti, dei colori, dei tamponi che non si fanno, delle classi che aprono e chiudono, degli ospedali che non fanno più gli esami e le operazioni vitali per le patologie non-Covid, dei posti di lavoro persi e a rischio… E oggi a tutto questo si aggiunge l’incredibile vicenda dei vaccini, ultimo riflesso di una politica che mette al primo posto i profitti delle multinazionali e all’ultimo la salute.
La gente che non ne può più è la stessa che si era mobilitata a marzo nelle fabbriche, poi nella scuola e nella sanità, poi a Genova per l’ILVA… Non c’è dubbio: questa immensa forza potrebbe imporre a qualunque governo le misure urgenti di cui abbiamo bisogno. Ma c’è un problema…
Davanti ai sindacati, Conte ha dichiarato: “Vi ringrazio per il contributo dato al Paese in questi mesi difficili rinunciando anche alla vostre legittime rivendicazioni”. Traduzione: avete frenato il movimento che poteva mettersi in marcia e imporre un’altra politica, grazie!
Il “come uscirne” sta nell’esatto contrario: mettere avanti tutte le “legittime rivendicazioni” e pretenderle con la lotta, per strapparle a qualunque governo ci sarà.
Quali rivendicazioni? Riorganizzazione di tutta la produzione e della macchina statale per garantire i tamponi, i tracciamenti, le cure; requisizione delle multinazionali del farmaco e dei brevetti dei vaccini, tenuti segreti per regolarne lentamente la produzione in funzione dei profitti; conferma del divieto di licenziare a tempo indeterminato; divisione del lavoro esistente tra tutti i cittadini a parità di salario; requisizione dei miliardi di profitti di banche e multinazionali da utilizzare al posto di un Recovery fund che domani dovremo pagare…
Si possono aiutare i lavoratori a mettere avanti queste misure per imporle? Venite a discuterne all’assemblea aperta di Tribuna libera, il 5 febbraio.
Lorenzo Varaldo
Dopo aver assistito ai banchi con le rotelle come misura “fondamentale” per la riapertura delle scuole durante l’estate, e di conseguenza al fallimento del rientro, qualcuno avrà forse sperato che si fosse toccato il fondo. No: mentre tutti i giorni muoiono centinaia di persone e i contagi non si fermano; mentre ancora oggi non si riescono ad effettuare i tamponi che sarebbero necessari; mentre non esiste un piano minimamente credibile per il rientro scolastico del 7 gennaio; mentre migliaia di piccoli commercianti e artigiani sono spinti alla rovina e milioni di lavoratori vivono con un reddito da fame, il governo trova il tempo di varare la “fondamentale” modifica del sistema di valutazione nella scuola primaria!
Ma non è tutto: spinge i cittadini a riversarsi nelle strade e nello stesso tempo li incolpa per gli assembramenti! Confusione mentale? No: è la logica conseguenza di un sistema schizofrenico che da un lato promuove la distruzione di milioni di posti di lavoro, della sanità, della scuola pubblica, dei salari, dei servizi, dall’altro ha bisogno di un minimo di “ripresa” per poter estrarre, attraverso il mercato e dunque le vendite, il profitto. E’ la stessa logica che ha impedito di prepararsi per la seconda ondata, la stessa per la quale si dà ormai per scontata la terza, la stessa che porta a dire ai responsabili dell’UE che “Il Recovery fund andrà comunque pagato”. In altri termini: quello che si mette oggi sul piatto della “ripresa” andrà domani (e nemmeno troppo in là) rimborsato con tagli, attacchi alle conquiste, distruzioni paurose. “Nulla potrà più essere come prima, semplicemente perché è stato il “prima” che ci ha condotto a questo punto” è uno slogan lanciato a marzo-aprile da molte associazioni, in particolare legate alla difesa della sanità.
Eppure a distanza di nove mesi tutto procede come prima, diciamo anche peggio di prima. Gli slogan non sono dunque sufficienti. Che cosa manca? Partiamo da un punto: tra i lavoratori e i cittadini comuni la volontà di cambiare esiste. Mai come in questi mesi è cresciuta la coscienza che questo sistema basato sul profitto gigantesco di un pugno di uomini è fallito e ci trascina al disastro. Mai come in questi mesi è cresciuta la coscienza che le privatizzazioni, le regionalizzazioni, l’attacco alla sanità e alla scuola pubblica… sono un vero cancro che ci conduce al disastro. C’è stato il movimento operaio che si è messo in moto a marzo nelle fabbriche; poi quello della scuola; poi le manifestazioni di infermieri e medici; poi quelle degli operai dell’ILVA. E’ infine quelle contro l’Autonomia differenziata (pag. 3).
É vero: moltissime riunioni, assemblee, incontri si sono svolti online, ognuno nella propria casa, mentre la lotta vera non può che essere nelle piazza, nelle manifestazioni, negli scioperi. Ciò non impedisce che queste riunioni esprimano un grande fermento, come nel caso dell’appello di RSU della scuola (pag. 3). Sarebbe più che possibile oggi, appoggiandosi alla volontà di cambiamento che esiste, per le organizzazioni che si richiamano ai lavoratori - in primis i sindacati - mobilitare i lavoratori e i cittadini per andare a prendere i miliardi dei giganteschi profitti e investirli per pianificare l’intera produzione sul bisogno immediato di salvarci dal Covid e rilanciare la produzione sulla base degli interessi della maggioranza. Uno studio della Harvard T.H. Chan School Health e dell’Università del Colorado pubblicato su “Science Advances” sostiene che testare il 75% della popolazione di una città ogni tre giorni ridurrebbe le infezioni dell’88% e porterebbe a eliminare il virus in sei settimane. Non è ciò che è successo in Cina? Non è ciò che dice ogni giorno l’OMS (“Tamponi, tamponi, tamponi”)?
Ma per farlo, c’è una condizione: che si rompa con gli interessi dei capitalisti, che la si faccia finita con l’idea di “fare sistema” con chi ci ha portato fin qui e ci spinge al disastro. Noi pensiamo che ci sia bisogno di un raggruppamento politico in grado di battersi per questo, nelle lotte, nei comitati, nei luoghi di lavoro, nei sindacati. Un raggruppamento che si batta perché i profitti di pochissimi vengano requisiti e messi a disposizione del lavoro, dei salari, della sanità, della scuola, dei servizi, della ricerca… Un raggruppamento che sappia allargare la discussione sulla necessità di un partito indipendente dei lavoratori in grado di battersi per questo programma.
Tribuna Libera è uno strumento per aiutare questo raggruppamento a crescere, chiarire le parole d’ordine, affrontare gli ostacoli: sosteneteci anche nel 2021, aiutateci a far conoscere il giornale. Lorenzo Varaldo
I media nazionali si sono ben guardati dal dare la dovuta eco alla mobilitazione degli operai di Arcelor-Mittal di Genova, i cui tratti essenziali raccontiamo a pagina 2. Scesi in sciopero spontaneo, in massa, gli operai hanno sfilato per le vie della città e si sono mobilitati per giorni con forza e decisione, fino ad ottenere il ritiro di uno dei licenziamenti previsti e il rientro dei 250 lavoratori sospesi. La lotta ha aperto una breccia. Nel momento in cui questo numero esce, gli stessi operai stanno nuovamente scendendo in sciopero, compatti, per ottenere garanzie sul loro futuro, sulla vita dell’azienda, sulla produzione. Il segretario genovese della FIOM, Bruno Manganaro, spiega: ”Annunciano l'ingresso dello Stato al 50%, ma non ci dicono con quali prospettive industriali e occupazionali né ci spiegano chi guiderà l'azienda". “La Repubblica” spiega: “La Fiom genovese non si fida di quello che teme sia un "accordicchio", in cui "Mittal prende tempo come se stesse ad attendere sul bordo del fiume". Per Manganaro, “quello che abbiamo visto fino ad oggi (Da Arcelor e dal governo) sono solo chiacchiere e nessuna sostanza. Il timore è che ci vogliano tenere in cassa integrazione per i prossimi due o tre anni e questo per noi non è accettabile”. Chiacchiere e niente sostanza da parte del governo e dei capitalisti. Poche chiacchiere e molta sostanza da parte degli operai. Prosegue Manganaro: “Figuriamoci se abbiamo paura della signora Morselli (AD di Arcelor Mittal, ndr). A gennaio quando venne a Genova e nominò Guido Rossa (delegato CGIL ucciso dalle BR nel 1979, ndr) dicendo che in fondo operai e azienda stanno dalla stessa parte, venne fischiata dai lavoratori, che avevano già capito da che parte stava Mittal”. La classe operaia ha capito: possono raccontarci mille volte la favola dell’ “interesse comune”, ma quando si arriva ai fatti gli operai non si fanno ingannare. E’ questa forza - a volte espressa, a volte potenziale e però temuta - che ha costretto il governo a bloccare nuovamente i licenziamenti fino al 31 marzo. Che cosa si potrebbe strappare in sicurezza, in misure urgenti per la lotta alla pandemia, in posti di lavoro, in riconversione delle produzioni, in provvedimenti a favore della sanità pubblica e della scuola se la si facesse veramente finita - come ci indicano gli operai di Genova - con gli “interessi comuni” e si formulassero rivendicazioni chiare, concrete, immediate, come fa un gruppo di RSU della FLC-CGIL, nell’unità tra lavoratori di tutte le mozioni interne alla CGIL? Porre la questione vuol già dire rispondere. Una cosa è certa: la “concordia generale” invocata dal governo e accettata da Landini e dai dirigenti sindacali per mesi ha prodotto ad oggi un solo risultato: lasciare campo libero a governo e Confindustria per non fare tutto ciò che ci avrebbe preservato dal disastro di oggi (pag. 2). Il 9 dicembre i sindacati del Pubblico Impiego hanno convocato uno sciopero per assunzioni, lotta al precariato, sicurezza e rinnovi contrattuali. La propaganda legata al capitale si scatena: ma come, uno sciopero della categoria che è risultata più protetta in questi mesi? Ipocrisia: saranno proprio i rinnovi contrattuali, l’assunzione di almeno 500.000 lavoratori (dati CGIL), le misure di sicurezza, la stabilizzazione dei lavoratori precari a permettere alle altre categorie, per i esempio i commercianti, di non tenere solamente “aperto”, ma di avere qualcuno che vada a comprare! Altrimenti, finita la pandemia, resteranno “aperti” per ben poco. Da qualunque angolo la si guardi, la realtà ci consegna un’identica lezione: da una parte ci sono gli interessi della classe operaia, dei lavoratori, della stragrande maggioranza della popolazione, compresi piccoli commercianti e artigiani le cui sorti sono legate a quale dei lavoratori. Dall’altra, un pugno di capitalisti che fin d’ora ricorda - attraverso l’UE - che “il debito creato oggi andrà pagato, che ci si scordi di annullarlo”. Un debito gigantesco che cresce in modo esponenziale ogni giorno e il cui possibile pagamento significherebbe il disastro. Gli operai di Genova indicano la strada: si può annullare il debito, si può cambiare politica, si può salvare la popolazione dal virus e dalla crisi, si possono tenere le scuole aperte garantendo però la sicurezza, ma ad una condizione: rompere con gli interessi del capitale e andare fino in fondo nella lotta. Raggruppiamoci per affermarlo nelle assemblee, nei sindacati, nei comitati di lotta: No agli “interessi comuni”, rivendicazioni concrete e indipendenti!
Lorenzo Varaldo
Una insegnante intervenuta nell’assemblea del “Manifesto dei 500” sintetizza la situazione sanitaria gravissima che stiamo vivendo: “É inconcepibile che dopo otto mesi ci troviamo in questa situazione. Se si poteva al limite giustificare una certa impreparazione a marzo, oggi è inammissibile”. É inconcepibile ed inammissibile, non c’è dubbio. Il primo responsabile è il governo. Ciò che succede è la dimostrazione lampante di tutto ciò che doveva fare e non ha fatto, di ciò che doveva prevenire e non ha previsto, di ciò che doveva investire e programmare e non ha realizzato. Sullo stesso piano vanno poste le Regioni, tutte, che si sono messe a “competere” con il governo per piccoli provvedimenti inutili, senza fare nulla per prepararsi davvero alla seconda ondata. Sapevano che sarebbe arrivata, più pericolosa della prima. Sapevano che i servizi territoriali delle ASL erano stati quasi liquidati in passato e non avevano potuto svolgere la loro azione a gennaio, febbraio, marzo. Sapevano che la seconda ondata avrebbe richiesto di riaprire questi servizi e farli funzionare, così come gli ospedali, i posti letto, le terapie d’urgenza, assumere medici e infermieri, personale… Sapevano che le scuole sarebbero diventate (dentro e fuori) il veicolo di una nuova fiammata del Coronavirus. Sapevano dei trasporti, delle attività sociali, degli assembramenti… Ma il governo si è occupato da un lato di banchi a rotelle, dall’altro di garantire i profitti delle banche e dei capitalisti, per poi addirittura annunciare che era pronto o togliere il divieto di licenziare che si era trovato costretto a varare dopo gli scioperi spontanei delle fabbriche di marzo. Perché? La motivazione è purtroppo semplice e drammatica al tempo stesso: fare ciò che si doveva fare avrebbe voluto dire pianificare e gestire l’economia, investire per il bene della maggioranza e non per un pugno di super ricchi, organizzare la produzione, requisire cliniche private, assumere nelle ASL e nelle scuole… Voleva dire requisire gli immensi profitti di banche e capitalisti per dirottarli sulla sanità, sulla scuola, sui trasporti, sulla ricerca, assicurando che il lavoro esistente fosse diviso tra tutti, con un salario pieno. I soldi ci sono, basta vedere la quantità di profitti registrati anche solo da marzo ad oggi. Utopia? Si può chiamare come si vuole, ma se non si va in questa direzione il disastro che è sotto gli occhi di tutti non sarà fermato. Chi poteva imporre allora le misure che il governo non ha preso? Chi potrebbe imporle oggi? Alla domanda sullo stato del “dialogo” con il governo, Landini, segretario generale della CGIL, risponde: “Dagli Stati generali non abbiamo avuto altri incontri. L’estate ha prodotto un rallentamento e non ho capito perché. Ora è il momento di un piano straordinario per il lavoro”. Se il disastro della pandemia che deborda di nuovo è la dimostrazione del fallimento del governo, la dichiarazione di Landini è la chiusura del cerchio: sedersi al tavolo della grande “concertazione”, del presunto “interesse comune” tra lavoratori, capitalisti e governo, dell’ “unità e della concordia generale” (Landini a marzo) significa lasciar passare ciò che è sotto i nostri occhi. “Abbiamo chiesto al governo”, “Abbiamo segnalato al governo”, “Abbiamo sollecitato il governo”: non è certo con questo tipo di supplica, che abbiamo sentito ripetere più volte dai dirigenti sindacali in questi mesi, che ci possiamo salvare. Al contrario, le misure vanno imposte: solo la mobilitazione unita dei lavoratori con le loro organizzazioni, in primis i sindacati, quindi con un cambio radicale di rotta da parte dei dirigenti, può imporle. Nel suo comunicato con il quale rivendica di non aver firmato il contratto integrativo per la scuola (Didattica a distanza), il segretario della UIL-Scuola dichiara: “Siamo ad un governo al capolinea. Deve andarsene a casa”. E’ una dichiarazione forte. Abbiamo bisogno di un governo che nel giro di pochi giorni organizzi tamponi a tappeto, istituisca tutti i laboratori necessari ad avere i risultati immediati, apra ospedali e reparti, organizzi i tracciamenti su scala di massa con gli strumenti tecnologi che esistono, assuma personale sanitario e lo formi… E per fare questo non esiti a requisire i miliardi di profitti ai capitalisti e agli speculatori. Una cosa è certa: bisogna fare in fretta. Solo la mobilitazione può imporre ciò che nessun partito esistente in Parlamento vuole attuare.
Lorenzo Varaldo
Non c’è alcun dubbio: il risultato del referendum per la riduzione del numero dei parlamentari segna un nuovo passo verso la rimessa in causa delle istituzioni parlamentari uscite dalla lotta contro il fascismo. Pur nei limiti di queste istituzioni, attraverso esse, e dunque attraverso la Costituzione del 1948, fino all’inizio degli anni ’90 poteva esprimersi in Italia ad certo livello la lotta tra le classi sociali, e quindi potevano trovare spazio le istanze dei lavoratori, della classe operaia, delle conquiste sociali e democratiche. 1992: Trattato di Maastricht, nascita dell’UE. Da questa data il capitale non può più sopportare che il quadro istituzionale del 1948 rallenti o addirittura blocchi le controriforme imposte da Bruxelles (e necessarie a tutti i capitalisti). Per questo promuove - con la partecipazione micidiale dei partiti che storicamente si richiamano ai lavoratori, PD in testa - le controfirme istituzionali che si susseguono e vanno in due direzioni: accentrare i poteri e dividere il Paese. Si può essere dunque portati, a prima vista, allo sconforto di fronte al risultato referendario. Ma volgiamo lo sguardo a ciò che è successo in basso in questi mesi, mentre la demagogia preparava la mela avvelenata del Sì. Marzo 2020: la pandemia scoppia nel Paese, il sistema sanitario, Lombardia in testa, mostra tutte le falle di trent’anni di privatizzazioni e tagli. Il capitale non si arresta, gli operai, come gli infermieri e i medici, vengono mandati al massacro; la giostra (del profitto) non può fermarsi. Ma i capitalisti hanno fatto male i conti. Gli operai delle gradi fabbriche scendono in sciopero spontaneo al grido di “Non siamo carne da macello!”. Chiedono lo sciopero generale, cercano di imporlo alle loro direzioni, a Landini che parla di “concordia” tra le classi per superare la crisi. Sotto la pressione della mobilitazione che monta la FIOMLombardia appoggia il secondo sciopero. Il governo decreta allora la chiusura, lo stop alla produzione. Il capitale, per il momento, deve piegarsi. Lo sciopero genera la sua onda: il governo è costretto a decretare il divieto di licenziare, prima fino a giugno, poi fino a dicembre. Certo, si tratta di una misura limitata perché i lavoratori percepiscono solo una cassa integrazione spesso misera, e spesso molto in ritardo. Ma resta un fatto: è una misura che in altri Paesi non viene presa e che viene assunta per paura della “rivolta” (ammissione di diversi ministri). Su un altro terreno, il governo è costretto a prendere qualche timida misura in campo scolastico: 50.000 assunzioni, mascherine per tutti, un certo stanziamento alle scuole… Misure molto limitate e insufficienti, con un anno scolastico che si apre con decine di migliaia di posti vacanti, con poco personale ATA, nel caos dei regolamenti. Ma anche qui, il timore dei movimenti nascenti, che pressano i dirigenti sindacali silenti, impone qualche passo, seppur insufficiente. 1992-2000: quasi trent’anni di attacchi alla democrazia, ai diritti, alle conquiste che hanno portato colpi anche molto grandi… Ma la resistenza è ancora lì: cacciata dalla porta, la lotta di classe tende a rientrare dalla finestra. Che cosa ci attende ora? Da parte del governo e dei capitalisti tutto è chiaro: eliminare il divieto di licenziare provocando milioni di disoccupati da un giorno all’altro, approvare le “riforme” strutturali volute dall’UE per poter spendere i soldi del Recovery fund, cominciare a pagarlo con nuovi tagli, privatizzare. E, per fare tutto ciò senza ostacoli, se il taglio dei parlamentari non dovesse bastare, varare l’Autonomia differenziata per dividere la popolazione, sopprimere il bicameralismo, addirittura eliminare il Parlamento (Grillo). Ma sanno che sulla loro strada c’è la resistenza e la possibile rivolta. Cantano vittoria per il referendum, ma in realtà sanno che sia chi ha votato Sì, sia chi ha votato No, sia chi si è astenuto in fondo lo ha fatto per lo stesso motivo: il rigetto dei partiti e della politica che hanno portato avanti da trent’anni. La lotta (di classe) è aperta ed è su questo terreno che si giocherà la “partita”. In questa lotta, più che mai abbiamo bisogno di organizzarci affinché il movimento dei lavoratori difenda e riconquisti la sua prima arma: l’indipendenza, in primis quella dei sindacati (e quindi il no alla “concordia” dei presunti “interessi comuni”). Raggrupparci attorno a Tribuna Libera vuol dire organizzarsi per portare un contributo a questa lotta e aiutare nello stesso tempo i lavoratori ad affrontare il problema di un vero partito che li rappresenti e apra la strada ad un’altra politica, in grado di salvarci dal disastro al quale ci porta il capitale e chi lo sostiene in nome di un “interesse comune”.
Lorenzo Varaldo
Il 29 marzo siamo chiamati a votare al referendum confermativo della “riforma” costituzionale che prevede di tagliare 345 parlamentari, 115 senatori e 230 deputati. La propaganda ha colpito a tamburo battente: si tratterebbe di “tagliare i costi della politica”, di “combattere la casta”, di “rendere più efficiente il Parlamento”. Interroghiamoci. Quasi tutti i partiti hanno votato questa “riforma”. Si tratta delle stesse forze politiche che da trent’anni applicano, dal governo o dall’opposizione, a Roma come nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni, la stessa politica di tagli, privatizzazioni, attacco ai servizi pubblici, precarizzazione, attacco alle pensioni... Molte di queste forze nel 2016 avevano sostenuto la “riforma” Renzi della Costituzione, altre le “riforme” precedenti. Esiste un legame tra questi elementi? Qual è il vero motivo di questa riduzione dei parlamentari? Nel loro insieme, le precedenti modifiche costituzionali, passate nel 2001 e nel 2012 e respinte nel 2006 e nel 2016, prevedevano due cose: 1) la cessione di ampi poteri alle Regioni; 2) il rafforzamento del potere del governo. Un unico obiettivo legava questi due assi: far passare più velocemente i piani distruttivi. Per farlo, si è cercato di muoversi in due direzioni: dividere i lavoratori e le loro conquiste e nello stesso tempo imporre un governo più forte. Il primo elemento è in parte passato con la modifica del Titolo V del 2001, che ha aperto le porte all’Autonomia differenziata per far passare a livello regionale la politica di pareggio di bilancio, di privatizzazioni, di distruzione dei contratti nazionali ecc. Questa direzione aveva subito una battuta d’arresto con la sconfitta della “devolution” nel 2006, ma oggi si ripresenta in tutto il suo pericolo con l’applicazione dell’Autonomia differenziata. La seconda direzione (imporre un governo forte) ha incontrato maggiori difficoltà. Già la modifica costituzionale del centro-destra del 2006 prevedeva, oltre alla devoluzione dei poteri alle Regioni, la trasformazione del Senato in Senato delle Regioni, la fine del bicameralismo perfetto e l’istituzione di un premierato forte, con la possibilità per il primo ministro di sciogliere il Parlamento. Prevedeva inoltre, guarda caso, la riduzione del numero di parlamentari, con una Camera di 528 deputati e un Senato di 252 senatori. Ma questa “riforma” fu appunto respinta dal referendum del giugno 2006. Stessa sorte è toccata a quella di Renzi, del 2016, che prevedeva anch’essa un Senato delle Regioni e l’abolizione del bi-cameralismo perfetto. Il rafforzamento dell’esecutivo auspicato da destra e da “sinistra” non c’è dunque stato. Tuttavia i piani distruttivi per i capitalisti non possono attendere e il rischio di incagliarsi in qualche dialettica parlamentare è sempre alto, come si può vedere dalla stessa vicenda della Legge quadro sull’Autonomia differenziata, così come dall’approvazione delle Leggi di stabilità. Per questo tutti i partiti tornano oggi alla carica: diminuire il numero dei parlamentari diventa un imperativo categorico. Con meno parlamentari, infatti, è possibile ridurre i tempi della discussione e quindi dell’approvazione delle future leggi distruttive, riducendo anche il tempo nel quale i cittadini possono organizzarsi, far pressione, opporsi, scioperare. Con meno parlamentari si spunta ancor di più l’arma dell’ostruzionismo che può ostacolare i nuovi colpi dei vari governi. La tenaglia cerca dunque di stringersi: Autonomia differenziata per dividere da una parte, potere forte e riduzione degli spazi di democrazia dall’altra. Il M5S si incarica così di far passare ciò che PD, Lega e Berlusconi non erano riusciti a far passare nel 2006 e nel 2016. E questo spiega perché oggi tutti sono d’accordo. Per farlo, hanno il coraggio di utilizzare demagogicamente il rigetto dei cittadini verso i parlamentari, dovuto alla loro costante approvazione di tutte le leggi che hanno colpito le conquiste dei lavoratori!
Il 29 marzo siamo chiamati a votare al referendum confermativo della “riforma” costituzionale che prevede di tagliare 345 parlamentari, 115 senatori e 230 deputati. La propaganda ha colpito a tamburo battente: si tratterebbe di “tagliare i costi della politica”, di “combattere la casta”, di “rendere più efficiente il Parlamento”. Interroghiamoci. Quasi tutti i partiti hanno votato questa “riforma”. Si tratta delle stesse forze politiche che da trent’anni applicano, dal governo o dall’opposizione, a Roma come nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni, la stessa politica di tagli, privatizzazioni, attacco ai servizi pubblici, precarizzazione, attacco alle pensioni... Molte di queste forze nel 2016 avevano sostenuto la “riforma” Renzi della Costituzione, altre le “riforme” precedenti. Esiste un legame tra questi elementi? Qual è il vero motivo di questa riduzione dei parlamentari? Nel loro insieme, le precedenti modifiche costituzionali, passate nel 2001 e nel 2012 e respinte nel 2006 e nel 2016, prevedevano due cose: 1) la cessione di ampi poteri alle Regioni; 2) il rafforzamento del potere del governo. Un unico obiettivo legava questi due assi: far passare più velocemente i piani distruttivi. Per farlo, si è cercato di muoversi in due direzioni: dividere i lavoratori e le loro conquiste e nello stesso tempo imporre un governo più forte. Il primo elemento è in parte passato con la modifica del Titolo V del 2001, che ha aperto le porte all’Autonomia differenziata per far passare a livello regionale la politica di pareggio di bilancio, di privatizzazioni, di distruzione dei contratti nazionali ecc. Questa direzione aveva subito una battuta d’arresto con la sconfitta della “devolution” nel 2006, ma oggi si ripresenta in tutto il suo pericolo con l’applicazione dell’Autonomia differenziata. La seconda direzione (imporre un governo forte) ha incontrato maggiori difficoltà. Già la modifica costituzionale del centro-destra del 2006 prevedeva, oltre alla devoluzione dei poteri alle Regioni, la trasformazione del Senato in Senato delle Regioni, la fine del bicameralismo perfetto e l’istituzione di un premierato forte, con la possibilità per il primo ministro di sciogliere il Parlamento. Prevedeva inoltre, guarda caso, la riduzione del numero di parlamentari, con una Camera di 528 deputati e un Senato di 252 senatori. Ma questa “riforma” fu appunto respinta dal referendum del giugno 2006. Stessa sorte è toccata a quella di Renzi, del 2016, che prevedeva anch’essa un Senato delle Regioni e l’abolizione del bi-cameralismo perfetto. Il rafforzamento dell’esecutivo auspicato da destra e da “sinistra” non c’è dunque stato. Tuttavia i piani distruttivi per i capitalisti non possono attendere e il rischio di incagliarsi in qualche dialettica parlamentare è sempre alto, come si può vedere dalla stessa vicenda della Legge quadro sull’Autonomia differenziata, così come dall’approvazione delle Leggi di stabilità. Per questo tutti i partiti tornano oggi alla carica: diminuire il numero dei parlamentari diventa un imperativo categorico. Con meno parlamentari, infatti, è possibile ridurre i tempi della discussione e quindi dell’approvazione delle future leggi distruttive, riducendo anche il tempo nel quale i cittadini possono organizzarsi, far pressione, opporsi, scioperare. Con meno parlamentari si spunta ancor di più l’arma dell’ostruzionismo che può ostacolare i nuovi colpi dei vari governi. La tenaglia cerca dunque di stringersi: Autonomia differenziata per dividere da una parte, potere forte e riduzione degli spazi di democrazia dall’altra. Il M5S si incarica così di far passare ciò che PD, Lega e Berlusconi non erano riusciti a far passare nel 2006 e nel 2016. E questo spiega perché oggi tutti sono d’accordo. Per farlo, hanno il coraggio di utilizzare demagogicamente il rigetto dei cittadini verso i parlamentari, dovuto alla loro costante approvazione di tutte le leggi che hanno colpito le conquiste dei lavoratori!
I “costi” della politica
In vista del referendum sul taglio dei parlamentari siamo andati alla ricerca di qualche dato. Quanto sarà il risparmio dato da questo taglio? Secondo il Codacons: “Verificando il bilancio della Camera per il biennio 2018-2020 emerge come il costo di ciascun Deputato, tra indennità e rimborsi vari, sia pari a 230mila euro; analogamente, in base al bilancio del Senato, ciascun Senatore costa allo Stato 249.600 euro annui. Se quindi il numero di Deputati fosse ridotto da 600 a 400, e quello dei Senatori da 315 a 200, il risparmio complessivo per le casse statali sarebbe pari a 81,6 milioni di euro (52,9 milioni di euro alla Camera, 28,7 milioni al Senato). Ciò significa che ogni singola famiglia italiana non dovrebbe contribuire alle spese per la politica per un importo pari ad appena 3,12 euro annui, ossia 1,35 euro a cittadino”. Questo quanto afferma Carlo Rienzi presidente del Codacons (sito Codacons 08/10/2019). Nessuno però si è posto il problema di quanto è il costo per la democrazia di questo “taglio” di deputati e senatori.
Un giorno storico per l’Europa”, “Una svolta”, “Finalmente l’Europa risponde ai suoi ideali”.
Che magniloquenza nel presentare il Recovery Fund approvato infine dal Consiglio Europeo!
Eravamo abituati ad un’Unione Europea che impone piani di tagli, che detta “riforme” distruttive, che stabilisce sanzioni a chi sfora i bilanci…
Ma che fa l’UE oggi? Stanzia addirittura 750 miliardi per la “ripresa”? Per ricreare dunque, almeno in parte, almeno spera, quel mercato che prima ha distrutto? Per investimenti pubblici, posti di lavoro, stipendi? Le leggi del capitale si arrestano dunque di fronte al Covid?
“Venghino signori, verghino, miliardi per tutti!”
Calma, calma, andiamo con ordine.
Certo, una distruzione talmente massiccia come quella che si è vista in questi mesi, e che in parte per il capitale era necessaria perché la produzione superava di gran lunga la possibilità di assorbimento del mercato (lo sanno bene gli operai metalmeccanici di tutta Europa, che riferivano di migliaia e migliaia di auto invendute, di produzione inutile, di lavoro che scarseggiava…), una tale distruzione pone al capitale un problema: dove si potrà estrarre il profitto?
Si può alimentare la speculazione (pag. 2), si può spingere al massimo lo smart-working, ma poi, alla fine, se la gente si impoverisce sempre di più, chi li compra i prodotti?
Quindi sì, il capitale ha un certo bisogno di far riprendere la produzione, di alimentare il mercato, di ricostruirlo.
Ma questa esigenza si scontra con l’altra: non può rinunciare al tasso di profitto che aveva prima, ed anzi ad aumentarlo. Spinto dalla concorrenza, infatti, il singolo capitalista, come il sistema nel suo insieme, non può che cercare di ridurre sempre di più il “costo del lavoro”, cioè il quanto costa la forza lavoro (in stipendi, ma anche in servizi, pensioni, scuola, sanità…). E per imporre la sua legge, il capitale non può che essere spinto a rimettere in causa la democrazia e l’unità delle nazioni (pag. 2).
É esattamente qui che si spiega ciò che sta avvenendo.
Il “venghino signori, venghino”, in perfetto stile del miglior imbonitore, nasconde (malamente) il trucco della cruda realtà: il conto - con gli interessi - che dovrà essere pagato subito (non domani, subito, vedere pag. 2) per ottenere i miliardi improvvisamente apparsi. In altri termini, il capitale si prepara a estorcere ai lavoratori il doppio di ciò che, molto limitatamente, sembra concedere.
E se lo concede parzialmente oggi, non è solo per far ripartire i consumi e quindi i profitti, ma anche per timore dell’esplosione della lotta di classe, quella lotta di classe che pudicamente e timidamente chiama “possibile tensione sociale”.
Certo, i lavoratori, la classe operaia, sono in grave difficoltà, se non altro per la crisi spaventosa che è in atto e per quella, ancora più paurosa, che si annuncia.
Ma possiedono un’arma, temuta, importante: la loro rabbia, la loro voglia di battersi, la loro capacità di mobilitarsi. Cioè la loro lotta di classe, quella che ha costretto a marzo i capitalisti ed il governo a chiudere le fabbriche, cosa che mai e poi mai avrebbero voluto fare.
Tuttavia, per essere efficace, quest’arma non deve essere spuntata, annacquata, abbassata. É necessario cioè che le organizzazioni dei lavoratori, in primis i sindacati, si mobilitino non per vaghe parole come “investimenti”, “scelte”, “lavoro” o, peggio, “fare sistema” con i capitalisti, ma con rivendicazioni precise: suddivisione del lavoro esistente tra tutta la popolazione; stipendi interi per tutti secondo i contratti nazionali; espropriazione delle fabbriche che chiudono o licenziano; restituzione dei miliardi tagliati alla sanità; concessione di tutti gli organici di insegnanti e personale necessari a far ripartire la scuola in sicurezza; aumenti salariali per tutti.
E’ da questo punto di vista che la discussione sulle posizioni di Landini che rilanciamo all’interno assume tutta la sua importanza e urgenza. Non si tratta di una discussione teorica, interna al sindacato. Si tratta di una scelta concreta, le cui conseguenze ricadono su milioni e milioni di lavoratori e cittadini: il sindacato come strumento per ottenere rivendicazioni precise e salvare la stragrande maggioranza o il sindacato per discutere su parole vuote che, infine, coprono il “venghino signori, verghino”?
Nondimeno, un’altra questione si pone: in questa situazione, non è forse quanto mai urgente cominciare a discutere di un partito indipendente, che apra la prospettiva di andare al governo e da lì cambiare lo stato delle cose, affermando gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione e rompendo con quelli del capitale?
Lorenzo Varaldo
Il 29 marzo siamo chiamati a votare al referendum confermativo della “riforma” costituzionale che prevede di tagliare 345 parlamentari, 115 senatori e 230 deputati. La propaganda ha colpito a tamburo battente: si tratterebbe di “tagliare i costi della politica”, di “combattere la casta”, di “rendere più efficiente il Parlamento”. Interroghiamoci. Quasi tutti i partiti hanno votato questa “riforma”. Si tratta delle stesse forze politiche che da trent’anni applicano, dal governo o dall’opposizione, a Roma come nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni, la stessa politica di tagli, privatizzazioni, attacco ai servizi pubblici, precarizzazione, attacco alle pensioni... Molte di queste forze nel 2016 avevano sostenuto la “riforma” Renzi della Costituzione, altre le “riforme” precedenti. Esiste un legame tra questi elementi? Qual è il vero motivo di questa riduzione dei parlamentari? Nel loro insieme, le precedenti modifiche costituzionali, passate nel 2001 e nel 2012 e respinte nel 2006 e nel 2016, prevedevano due cose: 1) la cessione di ampi poteri alle Regioni; 2) il rafforzamento del potere del governo. Un unico obiettivo legava questi due assi: far passare più velocemente i piani distruttivi. Per farlo, si è cercato di muoversi in due direzioni: dividere i lavoratori e le loro conquiste e nello stesso tempo imporre un governo più forte. Il primo elemento è in parte passato con la modifica del Titolo V del 2001, che ha aperto le porte all’Autonomia differenziata per far passare a livello regionale la politica di pareggio di bilancio, di privatizzazioni, di distruzione dei contratti nazionali ecc. Questa direzione aveva subito una battuta d’arresto con la sconfitta della “devolution” nel 2006, ma oggi si ripresenta in tutto il suo pericolo con l’applicazione dell’Autonomia differenziata. La seconda direzione (imporre un governo forte) ha incontrato maggiori difficoltà. Già la modifica costituzionale del centro-destra del 2006 prevedeva, oltre alla devoluzione dei poteri alle Regioni, la trasformazione del Senato in Senato delle Regioni, la fine del bicameralismo perfetto e l’istituzione di un premierato forte, con la possibilità per il primo ministro di sciogliere il Parlamento. Prevedeva inoltre, guarda caso, la riduzione del numero di parlamentari, con una Camera di 528 deputati e un Senato di 252 senatori. Ma questa “riforma” fu appunto respinta dal referendum del giugno 2006. Stessa sorte è toccata a quella di Renzi, del 2016, che prevedeva anch’essa un Senato delle Regioni e l’abolizione del bi-cameralismo perfetto. Il rafforzamento dell’esecutivo auspicato da destra e da “sinistra” non c’è dunque stato. Tuttavia i piani distruttivi per i capitalisti non possono attendere e il rischio di incagliarsi in qualche dialettica parlamentare è sempre alto, come si può vedere dalla stessa vicenda della Legge quadro sull’Autonomia differenziata, così come dall’approvazione delle Leggi di stabilità. Per questo tutti i partiti tornano oggi alla carica: diminuire il numero dei parlamentari diventa un imperativo categorico. Con meno parlamentari, infatti, è possibile ridurre i tempi della discussione e quindi dell’approvazione delle future leggi distruttive, riducendo anche il tempo nel quale i cittadini possono organizzarsi, far pressione, opporsi, scioperare. Con meno parlamentari si spunta ancor di più l’arma dell’ostruzionismo che può ostacolare i nuovi colpi dei vari governi. La tenaglia cerca dunque di stringersi: Autonomia differenziata per dividere da una parte, potere forte e riduzione degli spazi di democrazia dall’altra. Il M5S si incarica così di far passare ciò che PD, Lega e Berlusconi non erano riusciti a far passare nel 2006 e nel 2016. E questo spiega perché oggi tutti sono d’accordo. Per farlo, hanno il coraggio di utilizzare demagogicamente il rigetto dei cittadini verso i parlamentari, dovuto alla loro costante approvazione di tutte le leggi che hanno colpito le conquiste dei lavoratori!
I “costi” della politica
In vista del referendum sul taglio dei parlamentari siamo andati alla ricerca di qualche dato. Quanto sarà il risparmio dato da questo taglio? Secondo il Codacons: “Verificando il bilancio della Camera per il biennio 2018-2020 emerge come il costo di ciascun Deputato, tra indennità e rimborsi vari, sia pari a 230mila euro; analogamente, in base al bilancio del Senato, ciascun Senatore costa allo Stato 249.600 euro annui. Se quindi il numero di Deputati fosse ridotto da 600 a 400, e quello dei Senatori da 315 a 200, il risparmio complessivo per le casse statali sarebbe pari a 81,6 milioni di euro (52,9 milioni di euro alla Camera, 28,7 milioni al Senato). Ciò significa che ogni singola famiglia italiana non dovrebbe contribuire alle spese per la politica per un importo pari ad appena 3,12 euro annui, ossia 1,35 euro a cittadino”. Questo quanto afferma Carlo Rienzi presidente del Codacons (sito Codacons 08/10/2019). Nessuno però si è posto il problema di quanto è il costo per la democrazia di questo “taglio” di deputati e senatori.
Dal primo giorno di epidemia, poi diventata pandemia, un mantra ha caratterizzato i messaggi del governo, della Confindustria, dell’UE, degli “esperti”: ciò che stava succedendo rappresentava una grande “occasione”. Sorvoliamo sul cinismo di chi, mentre migliaia di carri funebri attraversavano il paese alla ricerca di un cimitero dove seppellire i morti, si permetteva di parlare di “opportunità”. Oggi il contenuto di questa “opportunità” si sta rivelando a chiare lettere. - Scuola. E’ un Piano devastante quello che il governo ha presentato il 26 giugno: penetrazione dei privati, smembramento delle classi (non in funzione di ridurne il numero di alunni, ma per mescolarle e ricomporle in continuazione, in una girandola di età, conoscenze, attività tale da disorientare qualunque alunno), accorpamento di discipline per ridurre il livello dei programmi, istituzionalizzazione della didattica a distanza, regionalizzazione. In realtà, il Piano non è di oggi: è stato scritto venticinque anni fa dal ministro Berlinguer e tutti i ministri successivi hanno cercato di realizzarlo. Ma la resistenza e le lotte del mondo della scuola, pur non riuscendolo a bloccare dl tutto, ne hanno certamente impedito la sua esecuzione totale. Ed ecco allora la “grande occasione” di oggi: con il pretesto della pandemia lo si vuole realizzare fino in fondo. - Sanità. Il 4 giugno i medici hanno denunciato che 500.000 interventi sono stati rinviati per far posto ai malati di Coronavirus! I primari precisano: "Ritardi letali per la diagnosi dei tumori. Arrivano da noi già troppo gravi". Già prima del Covid si moriva in lista d’attesa, aspettando una visita, un intervento, un esame per sei mesi, dieci, un anno… Poi abbiamo visto la “scelta” tra di far vivere e chi far morire a causa delle migliaia di posti tagliati in terapia d’urgenza, degli ospedali chiusi, dei posti letto soppressi, dei servizi territoriali eliminati grazie alla regionalizzazione-sussidiarietàprivatizzazione. Oggi è il disastro. Ma che cosa hanno il coraggio di dichiarare Fontana, Zaia, Cirio, uniti a Bonaccini? Che la vicenda del coronavirus dimostrerebbe che è necessaria più autonomia, più regionalizzazione! E’ la “grande occasione” per i prossimi i colpi. - Contratti nazionali, riforme del mercato del lavoro. Un diluvio di soldi inventati e stampati che fino a ieri non esistevano sono piovuti apparentemente sui governi, ma a due condizioni: che si faccia subito un piano per restituirli e che siano accompagnati dalle “riforme” per precarizzare ancora di più il lavoro, ridurre le tasse ai capitalisti per renderli “competitivi”, quindi tagliare nei servizi pubblici, nei salari. E’ la “grande occasione” per liquidare tutto ciò che i lavoratori hanno strappato in centottanta anni di lotte. Si può continuare per qualunque settore, per qualunque campo: come non sono arretrati di fronte al Covid che montava e hanno lasciato aperte le fabbriche e spedito gli anziani a morire soli come dei cani, così i capitalisti non arretrano di un millimetro oggi, e rilanciano. E’ l’essenza di questo sistema: trascinarci al disastro in nome del profitto. Chi può allora comprendere che i sindacati, Landini in testa, continuino a parlare di “necessità di concordia” tra le parti sociali? Chi può comprendere che si chieda il “taglio delle tasse dei lavoratori”, ben sapendo che se nel frattempo non si vanno a prendere i giganteschi profitti di banche e capitalisti, la sola conseguenza saranno nuovi colpi a servizi e salari? Chi può comprendere il silenzio sindacale di fronte al Piano micidiale della scuola o al disastro della sanità? Eppure la via d’uscita esiste. Nella scuola è l’assunzione di tutti gli insegnanti necessari a garantire il rientro in sicurezza e il recupero di ciò che si è perso con la didattica d’emergenza. Nella sanità è la requisizione di tutte le cliniche private per recuperare le visite e gli interventi lasciati indietro. Nell’industria è la requisizione degli enormi profitti di banche e capitalisti per pianificare la produzione per il bene della stragrande maggioranza della popolazione. Ancora nella sanità: è la restituzione dei 37 miliardi tagliati. I movimenti che, a partire da scuola e sanità, si sono messi in moto in queste settimane aspirano senza dubbio, più o meno consciamente, ad aprirsi la via per questa politica. Aiutarli per respingere insieme la “grande opportunità” è la sola aspirazione del confronto e delle informazioni di queste colonne. Ma raggrupparsi attorno a questa discussione ci induce a proporne un’altra: presto o tardi, abbiamo diritti ad organizzarci in un partito che ci rappresenti davvero nelle nostre aspirazioni e che si candidi a fare a ciò che è necessario per salvarci?
Lorenzo Varaldo
Di fronte all’enorme crisi economica che è scoppiata e che diventa ogni giorno più grave, governo, opposizioni, “esperti” sono concordi su un punto: l’origine è nella pandemia. Ed evidentemente, se l’origine è in un virus, tutti ci ritroviamo sullo stesso piano: non ci resta che accettarla e assecondare le misure che vengono prese. Noi pensiamo che non sia così, che la pandemia non sia un “destino”, così come non lo è la crisi. E non siamo tutti sullo stesso piano. La pandemia si può combattere (benché in grande ritardo) per cancellarla e non per “conviverci”. La crisi si può sconfiggere. Ma ci sono delle condizioni, e per comprenderle bisogna ritornare ancora una volta su ciò che è successo. Certo, un virus è un fenomeno della natura. Ma per i virus si può fare ricerca, prevenzione, creare le condizioni perché non si sviluppino. Oppure no. Di fronte ad un virus si può disporre di sistemi sanitari adeguati. Oppure no. Per un virus si possono prendere misure urgenti di riconversione dell’economia per combatterlo e per proteggere la popolazione. Oppure no. Sono scelte. E allora: il virus si è diffuso e ha seminato 33.000 morti per la sua forza o per una politica che ha falcidiato la ricerca, cancellato decine di migliaia di posti letto, chiuso centinaia di spedali, soppresso 8.000 posti di medici, 10.000 di terapie intensive, liquidato i servizi territoriali? Quante vite si sarebbero potute salvare, quanti posti di lavoro, quante attività, quante famiglie si potevano preservare dall’abisso della povertà nel quale sono gettate ora? Sono scelte, e i governi hanno scelto di tagliare da una parte per mettere i miliardi nelle tasche di un’altra parte, quella di capitalisti, banchieri, speculatori. Italia, Francia, Spagna…, Brasile, Stati Uniti…: quasi 400.000 morti ufficiali ad oggi, milioni e milioni in povertà, disoccupati, famiglie costrette a mangiare solo cibo in scatola (vedere pag. 2), in Italia, settima potenza industriale del mondo! No, il virus è la scintilla, certo, ma il disastro è provocato dal capitalismo, dai proprietari delle multinazionali, delle banche, delle assicurazioni. Ora queste persone, rappresentate in Italia dal governo e da tutti i partiti presenti in Parlamento, vorrebbero farci credere che ci salveremo “tutti insieme”. No, chi ci ha portato fin qui ci porterà al disastro totale. Già si sentono le sirene: “Ma l’UE ha stanziato…”. L’UE ha stanziato? Basta leggere un qualunque articolo di commento agli “stanziamenti favolosi” per comprendere: metà sono soldi che dovremo restituire con gli interessi ai capitalisti, l’altra metà provengono dal bilancio UE, cioè dalle nostre tasse (non certo quelle di FCA che ha evaso spostando la sede in Olanda e Gran Bretagna e ora ha il coraggio di chiedere altri 6.5 miliardi!). E su tutto, un fatto: i soldi saranno dati solo se l’Italia attuerà le “riforme”, cioè altri attacchi ai lavoratori e alle conquiste. Non hanno esitato a mandare al massacro la gente, non esitano a distruggere milioni di posti di lavoro, la scuola, a continuare a privatizzare la sanità, a liquidare i contratti… La via d’uscita invece esiste: è la nazionalizzazione con la centralizzazione della produzione per il bene della maggioranza, per combattere il virus e dare lavoro a tutti; è la divisione del lavoro esistente tra tutti i cittadini con stipendi interi; è il rilancio della produzione (e dunque dei posti di lavoro) per investire in scuola, sanità, infrastrutture, ambiente; è il divieto di licenziare; è la confisca (restituzione) pura e semplice dei giganteschi profitti fatti in questi anni. Ma per fare questo c’è una premessa: rompere con chi vuol farci credere che tutto dipenda da un virus e che ci siano “interessi comuni”. Rompere con chi vuole “farci convivere” con una crisi perenne e sempre più grave. Raggrupparsi tra coloro che pensano questo, tra coloro che vogliono battersi per questo, non è una strana idea, ma una tradizione che arriva da lontano, addirittura dalla I^ Internazionale di Marx ed Engels, nella quale c’erano militanti e organizzazioni con idee diverse, ma tutti erano d’accordo su un punto: per promuovere gli interessi dei lavoratori è necessario battersi contro quelli dei capitalisti e unirsi. Una tradizione quanto mai attuale, che attraversa tutti i confini (leggere pag. 3 e 5) e mobilita in tutto il mondo. Più questa idea e questa azione si diffonderanno e uniranno i lavoratori anche in Italia, meno morti ci saranno, meno sofferenze, meno povertà e licenziamenti, più si aprirà una prospettiva per un governo che cambi veramente lo stato delle cose. Tribuna Libera non ha altra aspirazione che questa: aiutare a costruire questa coscienza e nel frattempo batterci per l’unità, per salvarci, per il ritiro di tutte le misure che ci portano al disastro, in ogni settore. Raggruppiamoci, abbonatevi, fate conoscere il nostro giornale.
Lorenzo Varaldo
Nel momento in cui il governo annuncia l’inizio della cosiddetta “Fase2”, i morti di Covid-19 sono in Italia sei volte quelli dell’intera Cina, 27.000 contro 4.700. La sola Lombardia ha tre volte i decessi cinesi.
I numeri non sono certi, dice qualcuno? Certo, certo… ma nemmeno per il nostro Paese! visto che da diverse fonti scientifiche si comincia a dire che sono molti di più.
Non sono certi? Un dato però è certo: la Cina ha un miliardo e mezzo di abitanti, l’Italia 60 milioni, la Lombardia 10!
Non sono ancora “certi”?
Il Corriere della Sera scrive: “Alla vigilia dell’8 aprile, quando è stato revocato il lockdown di Wuhan – un lockdown molto più rigido del nostro –, la Cina intera dichiarava 62 nuovi casi, la maggior parte dei quali importati”. All’annuncio di Conte, l’Italia ne conta 1.762 in più del giorno prima, con 333 morti, di nuovo in crescita.
Lo stesso Corriere della Sera commenta: “Abbiamo chiuso in ritardo per salvaguardare il comparto produttivo e apriamo adesso, raffazzonati, per salvaguardare il comparto produttivo”.
E conclude: “Stiamo dicendo «dovremo convivere col virus», ma dovremmo dire «stiamo per sfidare il virus»”.
“Sfidare il virus” sulla nostra pelle! Esattamente come si è tenuto aperto all’inizio e non si sono prese le misure preventive, mandando così a morire migliaia di persone e a contagiarne altre centinaia di migliaia.
Esiste un fondamento alla Fase2? No, da ampi settori del mondo scientifico si sottolineano i dubbi, i pericoli, le allerte. Ma il governo passa sopra a tutto: al servizio del capitale e delle banche (vedere pag. 2), è pronto a rischiare altre migliaia di morti. La giostra dei profitti deve ripartire.
Ma non è solo il virus che ammazza. Dieci milioni di italiani sono a un passo dalla povertà assoluta. In banca hanno meno di 900 euro in media. “Registriamo un afflusso dal 20 al 50% più alto nelle nostre strutture. Mense, centri di ascolto e di distribuzione dei beni di prima necessità, dormitori. Arrivano persone mai viste prima- giovani famiglie, anziani soli- che vincono la vergogna e chiedono aiuto: non solo cibo e medicine, ma bollette e affitti da pagare”, dice don Andrea La Regina di Caritas Italiana. (La Repubblica 24/4).
Ma i soldi li danno alle banche!
Intanto, gli aumenti dei prezzi stanno dilagando in tutto il Paese. Prima erano le mascherine, ora tutti i generi alimentari. E domani?
C’è un filo che lega tutto questo: è il rifiuto del governo di rompere con gli interessi del capitale, delle banche, degli speculatori. E’ il rifiuto di “prendere in mano la situazione con il solo fine di sconfiggere il virus e garantire la salute dei cittadini, senza nessuna concessione agli interessi privati e alle pressioni economiche”, come si legge giustamente nella Lettera Aperta lanciata dal comitato Nazionale per il ritiro di qualunque Autonomia Differenziata (pag. 4).
Chi può comprendere che in questa situazione i sindacati abbiamo siglato un accordo con il governo che permette di riaprire il 4 maggio? Landini “giustifica”: “Tutte le parti sociali assumono il principio che la sicurezza e la salute delle persone sono l’elemento centrale per rilanciare la produzione e l’economia”. E addirittura: “Ora tutti si rendono conto di cosa vuol dire aver indebolito la sanità pubblica”.
Ah sì? “Tutte” le parti sociali si aiuteranno? “Tutti” avrebbero compreso? Tutti, “mano nella mano” con chi ci ha condotto a questo punto?
No, la via d’uscita non arriverà da nessun “tutti”, che invece è la logica che ci ha portato fin qui. Arriverà dalla distinzione netta tra gli interessi dei lavoratori, dei cittadini, della stragrande maggioranza della popolazione da quelli dei capitalisti. La strada l’hanno indicata gli operai a marzo: solo la lotta contro i capitalisti aveva imposto la chiusura.
Quale strada?
Quella che si può intravedere da quel pochissimo che ha fatto il governo: hanno bloccato (forse) il prezzo delle mascherine? E perché non farlo con tutti i prezzi? Hanno intenzione di metterne sotto controllo la produzione? E perché non requisire le fabbriche e mettere sotto controllo tutta la produzione, selezionando quella necessaria, garantendo la sicurezza e nello stesso tempo che nessuno sarà licenziato? Hanno costruito ospedali in pochi giorni? E perché non requisire tutte le cliniche private, farla finita con una privatizzazione che ha ucciso migliaia di persone, occupare gli hotel per evitare che i malati ritornino - ancora oggi! - a casa positivi?
I soldi per fare tutto questo? Che vadano a prenderli dai profitti giganteschi delle banche e delle multinazionali!
E’ questo che devono dire, unite, tutte le organizzazioni che parlano in nome dei lavoratori, a partire dai sindacati.
E’ della nostra vita, che si tratta. Raggruppiamoci attorno a Tribuna Libera per aiutare a costruire questa strada.
Lorenzo Varaldo
E’ nel febbraio 2000, al ritorno dalla Conferenza Mondiale di San Francisco per la difesa dell’indipendenza dei sindacati e delle libertà democratiche, che un gruppo di lavoratori di Torino decide di promuovere un nuovo giornale. C’era all’epoca il governo D’Alema, succeduto a Prodi. I lavoratori si trovavano confrontati ad un problema ogni giorno più sconcertante: i partiti storici del movimento operaio portavano avanti un programma di attacchi tipico dell’altra parte politica, la destra. Ma pur disorientati e colpiti, non rinunciavano a battersi, a reagire, ad organizzarsi. Proprio in quei giorni il mondo della scuola scioperava in massa contro il “concorsone” del ministro Berlinguer, facendo risalire dal basso l’unità che i dirigenti sindacali avevano rimesso in causa firmando un accordo e ottenendo il ritiro del provvedimento e addirittura le dimissioni del ministro.
Tribuna Libera veniva dunque lanciata per aprire la discussione su questi problemi, sulla rappresentazione politica dei lavoratori, sulla questione dell’indipendenza dei sindacati, sulle responsabilità della situazione nella quale ci si trovava, sul legame di questa situazione con le direttive dell’Unione Europea. Un giornale per discutere, dunque, ma una discussione non fine a se stessa, ma orientata ad agire, a raggrupparsi e confrontarsi sulle lotte, su come affrontare gli ostacoli, che spesso arrivavano dai vertici delle organizzazioni che si richiamano ai lavoratori. Senza mai saltare un mese, Tribuna Libera ha cercato per vent’anni di seguire questa strada. Ripercorrere questo cammino vuol dire ritornare su un percorso che ha visto gli attacchi e gli ostacoli moltiplicarsi, ma anche la resistenza e le mobilitazioni. Vuol dire ritornare sulle discussioni che abbiamo aperto (anche con le liste alle elezioni di Torino), sulla questione di chi rappresenta politicamente i lavoratori e sulle lotte che abbiamo condotto, spesso con altri, sempre per l’unità in difesa delle conquiste della classe operaia e della democrazia.
Infine, vuol dire ritornare a quell’internazionalismo dal quale siamo partiti e al quale siamo sempre rimasti legati. Da Torino, Tribuna Libera ha stabilito dialoghi e contatti in diverse città. Vista la situazione che viviamo, siamo pronti a ripartire. Le nostre colonne sono più aperte che mai.
La redazione