Riteniamo ormai inammissibile che vengano perpetrate, all’interno dei corsi proposti nell’ambiente accademico, narrazioni che propongono un’idea fuorviante e discriminatoria del mondo, che parte dalla focalizzazione dell’uomo bianco benestante e capitalista e si autolegittima come unico punto di vista valido. Di fronte alle tante proposte didattiche che ricalcano un sapere di stampo machista, rivendichiamo la valenza storica delle soggettività discriminate e la necessità che queste non vengano cancellate da insegnamenti male-focused. Riconoscendo dunque la necessità dell’ottica intersezionale per leggere il presente, e il ruolo centrale dell’istruzione universitaria per la costruzione di prospettive future, proponiamo un modello di università che assuma il ruolo riformatore del presente, coscientizzando lə studentə del proprio ruolo trasformativo nella società e dei propri privilegi, riuscendo a leggerli attraverso la lente dell’intersezionalità, affinché l’università non sia un luogo in cui vengono riprodotte disuguaglianze di classe, di genere o etniche, ma diventi uno spazio di liberazione dei saperi, di autodeterminazione delle coscienze di ognunə.
Ancora di più all’interno di una fase internazionale che vede l’avanzare delle destre e la crisi dei diritti riproduttivi (si pensi al ribaltamento della sentenza Roe vs Wade da parte della Corte Suprma avvenuto lo scorso 24 giugno, che impedisce l’accesso all’aborto a milioni di donne negli Stati Uniti o alla negazione del diritto all’aborto per profughe che scappano dalla guerra in Ucraina che si rifugiano in Polonia o, per restare all’interno dei confini nazionali, al numero sempre più alto di medici obiettori di coscienza che rende difficoltoso o addirittura inaccessibile avere accesso all’aborto in alcune regioni) non possiamo esimerci dal confronto con la necessità di costruire spazi di cura anche all’interno delle università, non solo attraverso la liberazione dei saperi e una didattica transfemminista, ma anche con la costruzione di percorsi vertenziali che portino ad avanzamenti nel contrasto alle disuguaglianze e alla violenza di genere.
Un lavoro in questo senso che andrà fatto nei prossimi anni è sicuramente quello sulle carriere alias. Infatti riguardo la tutela dei dati sensibili dellə studentə che si identificano come trans, ma che ancora non hanno completato l’iter legale e ottenuto la rettifica dei documenti, all’interno degli Atenei italiani c’è ancora molta strada da fare: innanzitutto non tutti gli Atenei dispongono di prassi da adottare per la tutela dellə studentə; poi, tra quelli che invece offrono la carriera alias o il doppio libretto, ogni Ateneo ha una sua procedura specifica di attivazione della pratica che si basa quasi sempre unicamente sulla consegna di adeguata documentazione medico-psicologica che attesti che lə studentə sta effettuando per davvero un percorso di riassegnazione di genere. La richiesta di tale documentazione non solo è lesiva del principio di autodeterminazione della singola persona, ma è anche classista: bisogna considerare infatti che non tuttə hanno accesso a quel tipo di documentazione, essendo la transizione un lusso in Italia. Sono pochi gli Atenei che hanno superato, sostituendola con moduli di richiesta basati su autodichiarazioni o colloqui individuali, questa prassi.
È importante però non dimenticare che lo stesso strumento della carriera alias non è che una misura tampone in uno Stato in cui non solo l’ultima legge relativa alla rettificazione di attribuzione di sesso è la Legge 164 del 1982, Legge che nel corso di questi 40 anni è gradualmente stata smontata o abrogata da altre Leggi e Sentenze, ma che l’iter di riassegnazione non è un diritto, ma un lusso che solo pochi possono economicamente permettersi.
Nel sostegno all’autodeterminazione dellə studentə sarà necessario improntare un lavoro di attivazione che preveda maggiori tutele per le soggettività attualmente discriminate, riconoscendo la legittimità dell’identità di ognunə.
All’indomani della pandemia, è aumentata l’attenzione all’interno del dibattito pubblico sulla questione del benessere psicologico, senza per questo mettere in critica le effettive cause di natura sistemica che sono alla base del problema.
L’emergenza sanitaria ha portato con sé, a livello globale, profondi cambiamenti nella routine e nel piano individuale, relazionale e sociale. E’ stato osservato come negli ultimi anni si sono acuite o sono sorte sintomatologie cliniche, malessere crescente e elevati livelli di stress altamente predittivi del rischio di sviluppare disagio psicologico e psicopatologia nella componente studentesca, nei ricercatorə e nei precariə. Questo quadro si è andato a sommare ad un problema strutturale legato al modello universitario per il quale lə studentə sono costantemente sotto pressione, intrappolatə in una narrazione di performatività, competizione, individualismo, connessə con i ritmi imposti da un'istruzione orientata alla produttività a ogni costo. L’emergenza sanitaria non ha fatto che acuire queste problematiche già esistenti.
Trasversalmente alla comunità accademica, le figure dipendenti non strutturate e le figure non dipendenti subiscono appieno la retorica del sacrificio ad ogni costo: n’è prova l’ormai diffuso rischio di burnout, così come l'allarmante aumento di suicidi tra lə studentə e dottorandə . Emblematicamente, uno studio di Nature mostrava una correlazione tra il dottorato e la possibilità sei volte maggiore di sviluppare disturbi depressivi, di natura ansiosa e burnout.
L’università neoliberale non persegue la salute collettiva ma quella del profitto, riducendo la salute mentale a una responsabilità individuale, che non ha nulla a che fare con i fattori sociali e dipendente da una condizione inevitabile e genetica e non quale naturale conseguenza delle ingiustizie sociali che del disagio psicologico sono la causa prima.
Vogliamo invece che sia riconosciuto il diritto ad una salute sistemica,che comprenda la situazione personale, ambientale, sociale e culturale della persona. Un reale DSU, reali politiche abitative, rapporti interpersonali improntati alla solidarietà, didattica libertaria e ricerca slegata da favoritismi e meccanismi clientelari baronali sono la base per un’università portatrice di benessere sistemico.
Il tema delle neurodivergenze in Italia non viene considerato con l'attenzione che merita.
A livello universitario si riscontra una mancanza di servizi o di informazione su di essi qualora esistano, così come l'assenza di formazione a personale docente e tecnico amministrativo, o l'impossibilità di accedere a modalità alternative in quanto stumenti compensativi. O, come spesso accade, i servizi dedicati a persone con disturbi specifici dell'apprendimento si rivelano in realtà carenti o totalmente impreparati al trattamento di studentə autistichə o con ADHD. L'esperienza comune si scontra contro una dura realtà, in cui lə studentə neurodivergentə sono abbandonatə e costrettə a cercare supporto altrove.
In alcuni atenei, non sempre vengono messi a disposizione servizi quali tutur (alla pari o specializzati) in grado di fornire supporto adeguato allo studio o all'elaborazione degli strumenti compensativi (mappe concettuali, formulari, sbobine o registrazioni delle lezioni etc), e non vengono adibite aule per esami tali che rispettino le esigenze o l’ipersensibilità di alcunə studentə a suono o stimoli esterni. Frequentemente, le diagnosi presentate vengono messe in discussione, suprattutto nei casi in cui vengano da centri privati. La stessa pratica di dover ottenere la diagnosi in un centro privato, è una diretta conseguenza di quanto il Servizio Sanitario Nazionale, che dovrebbe prendere in carico le richieste e che invece si trova costantemente a corto di posti disponibili soprattutto per chi ha necessità di ottenere la diagnosi da adultə.
È ancora molto forte la retorica riguardante gli adattamenti compensativi per studentə con DSA, che sono visti come avvantaggiamenti invece che appunto compensazioni in grado di garantire una performance alla pari. Anche per questo motivo alcunə studentə si vedono negare da docentə, poco o per nulla formatə, gli adattamenti agli esami, o subiscono bullismo, abilismo e discriminazioni proprio da questə ultimə.
Anche la stessa DAD, da molti criticata, è stata per una parte di comunità studentesca (neurodivergente e disabile) l'unico mezzo con cui poter seguire con continuità e in sicurezza le lezioni anche in periodi di non-ondata pandemica, e ora a questə stessə studentə è stato precluso l'utilizzo di questo strumento.
Lo stesso ottenimento della diagnosi viene ancora vissuto da moltə con sofferenza, come un fallimento personale, proprio a causa di questa narrazione stigmatizzante, incorretta e che danneggia ulteriormente una comunità che già deve affrontare la difficoltà di esistere in un mondo capitalista e neurotipico in cui la performatività e la produttività sono tutto, e che gli atenei universitari non fanno nulla per contrastare.