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La Consapevolezza

Abitare in un luogo, come qualcuno forse saprà, non significa necessariamente vivere quel luogo.

Anche questo è emerso dalle ricerche condotte dal gruppo BAM nei giorni della sfida: un contrasto tra la Busto che vediamo ogni giorno, dalle finestre delle scuole o degli uffici, e quella che invece si nasconde poco oltre il nostro naso e che, tuttavia, spesso non riusciamo a notare.

Noi studenti attraversiamo la città ogni giorno, a piedi o con i mezzi, ma dei “paraocchi” invisibili spesso ci impediscono di vedere oltre: è stato grazie all'occasione rappresentata da questa sfida che abbiamo potuto attraversare la città in direzioni e contesti diversi dal solito tragitto mattutino e abbiamo scoperto, non senza sorpresa, una città piena di particolari curiosi e inaspettati, che ci hanno donato una visione del luogo del tutto nuova.

Accanto al nostro crescente interesse per i dettagli, è andato delineandosi il profilo di una città sì piena di potenzialità, ma in cui non mancano il degrado e l’abbandono: aspetti sollevati in particolar modo dalle persone intervistate in lungo e in largo per il centro, che hanno sottolineato come la gestione del comune potrebbe essere notevolmente migliorata.

Ciò che di Busto viene apprezzato e riconosciuto, da una larga fetta della popolazione, è la parte “antica”: le ville Liberty, i parchi, le chiese con le loro piazze sono solo alcuni dei siti che occupano un posto nel cuore dei bustocchi, i quali vorrebbero vedere valorizzato questo lato della città. Un’altra nota positiva è l’ampio spettro di manifestazioni ed eventi organizzati nell'arco di tutto l’anno: la cittadinanza accoglie con favore, secondo i nostri sondaggi, sia eventi sportivi (come maratone, corsi di pattinaggio e di danze irlandesi, aperti anche alle scuole) che culturali (per esempio il BAFF – Busto Arsizio Film Festival, il cineforum Fratello Sole, i concerti di musica classica dal vivo e i progetti per le scuole).

Tuttavia, altri dati sono affiorati dalle ricerche, impressioni percepite da noi e da molti degli intervistati. Tanti cittadini hanno evidenziato la trascuratezza di determinate zone della città, delle strade, degli edifici, e la necessità di avere più zone verdi, dunque una maggiore sensibilità all'ecologia e all'ambiente. È stato messo in rilievo, inoltre, il forte contrasto tra edifici antichi, che trasudano remota eleganza, e palazzi moderni che, spesso, sono sull'orlo della decadenza.

Al di là dello stupore iniziale che si può provare, trovandosi davanti una villa Liberty a pochi meri da un caseggiato popolare, è sbalorditivo constatare come due epoche tanto diverse possano coesistere nello stesso luogo: le nostre radici si intrecciano con le ramificazioni del presente, abituando il nostro sguardo a una continuità tra antico e contemporaneo che, se non sempre graziosa da vedere, è quantomeno significativa.

Qualcosa che a noi mappers era sfuggito, ma che l’occhio attento degli abitanti non si è lasciato scappare, è che da una grande città si può imparare molto: imparare a rispettare la diversità, gli spazi comuni e gli altri, per citare alcuni esempi.

Un curioso esperimento, condotto parallelamente al questionario, prevedeva che agli intervistati venisse chiesto come sarebbe Busto Arsizio se fosse una persona. Le conclusioni che ne abbiamo tratto sono piuttosto interessanti: la media delle risposte ci dice infatti che Busto sarebbe un uomo sulla sessantina, il cui colore preferito sarebbe il grigio e la più grande paura – risultato davvero curioso – sarebbe quella dell’abbandono. A quanto pare, i bustocchi e gli abituali frequentatori del luogo percepiscono la città come un uomo che invecchia, forse triste, stanco e disilluso (ce lo comunica la scelta del colore grigio) e con una gran paura di essere lasciato indietro, abbandonato, detestato da coloro che, per negligenza o per errore, non ha saputo aiutare.

Cosa ci dicono tutti questi dati? Come possiamo utilizzare le informazioni che abbiamo raccolto?

Senza dubbio, e specialmente nell'ottica di proseguire con i sondaggi, essi ci forniscono il quadro generale della percezione che la cittadinanza ha del proprio comune; di qui il punto di partenza per migliorare l’offerta dei servizi e per sfruttare tutto il potenziale inutilizzato che Busto Arsizio possiede, offuscato dall'abitudine e da quella mentalità che vede del cambiamento la fatica anziché l’opportunità.

Speriamo davvero che la rinnovata consapevolezza di ciò che la città possiede, che il nostro progetto ha almeno in parte portato alla luce, sia uno spunto di riflessione per coloro che hanno la possibilità di cambiare le cose.

Busto Arsizio, 25/09/2020

Gente di Busto

Questione di Prospettive

A Serena viaggiare in autobus non dispiaceva. È vero, forse non era il modo più comodo o il mezzo più efficiente con cui spostarsi, ma le dava la possibilità di “uscire” dai confini di sé stessa e del suo mondo e di cambiare prospettiva. L’aveva scoperto durante il primo anno di studi superiori, quando aveva iniziato a spostarsi abitualmente in quel modo: per tutta la durata del tragitto, lei poteva estraniarsi da ciò che accadeva a bordo e concentrarsi sulla strada, sui paesi che attraversava prima di arrivare a scuola, sulle persone di cui, anche se per una frazione di secondo, incrociava lo sguardo. Nonostante la strada fosse sempre la stessa, non c’era un solo giorno in cui la trovasse uguale al precedente: un continuo mutare di luci, colori, situazioni, stati d’animo, incontri e canzoni di sottofondo riprodotte casualmente dalla sua playlist faceva sì che ogni viaggio fosse unico a modo suo.

Era interessante, soprattutto, notare i repentini cambiamenti di paesaggio nel giro di poche decine di metri: i paesini aggrappati sopra la Valle che ne chiudevano i confini, le distese di campi che bruscamente si interrompevano, lasciando spazio al cemento, alle case, ai supermercati che a ritmi incredibili si innalzavano dove prima c’erano parchi e giardini. Anche questo, sì, era stupefacente, sebbene non di certo in senso positivo. Negli anni in cui Serena, tutti i giorni, aveva percorso quella strada, aveva visto la città muoversi e mutare, come un gigantesco organismo; e accanto ai cambiamenti belli, come la ristrutturazione di vecchie zone in decadenza, ve n’erano altrettanti che non si potevano certo lodare. Trovava affascinante, e in un certo senso anche caotico, il modo in cui l’antropizzazione e l’ambiente fossero costretti a convivere nelle città, prevalendo ora l’uno ora l’altro, in un rigido e macchinoso sistema di gestione che i governatori del luogo si sforzavano, non sempre con risultati soddisfacenti, di far funzionare.

Eppure, nonostante l’incoerenza della città con sé stessa e i passaggi repentini dall'eleganza di un edificio alla fatiscenza del suo adiacente, nonostante i muri intorno ai parchi cittadini, ghettizzati come prigionieri del potere assoluto del cemento, Serena aveva imparato ad amare quella città. Aveva imparato a vedere il bello oltre lo sporco, l’attenzione oltre l’incuria, le persone dietro le facciate dei palazzi. Era stato un passo importante, per lei.

Soprattutto, ciò che l’aveva aiutata ad andare “oltre” erano stati gli spostamenti a piedi dal centro del paese verso la stazione degli autobus, nei pomeriggi in cui usciva tardi da scuola: in particolare nei giorni in cui c’era bel tempo, la strada si riempiva di una luce più calda e ovattata, che aveva il potere di addolcire l’animo e il modo tagliente in cui si approcciava al mondo. Perché nel quarto d’ora in cui le gambe si muovevano da sole verso la stazione, i suoi occhi si fissavano sulla visione d’insieme e, al tempo stesso, su ogni singolo personaggio.

Vedeva le coppie di anziani che camminavano mano nella mano sul marciapiede, vedeva i genitori di ogni origine, lingua, religione e colore portare a casa da scuola i figli; vedeva gli amici che prendevano un gelato e vedeva gli ubriachi starsene in disparte, appoggiati a qualche muro o barcollanti sul ciglio della strada, con i vestiti sporchi e le facce cupe, forse per la rabbia e il rimpianto. Sentiva le voci sopra il rombo delle auto, voci che parlavano in italiano, in spagnolo, in arabo, in indiano o in una miriade di altre lingue; voci di bambini, di vecchi, voci di tutti i generi e gli umori. E ogni volta che, terminata la traversata, si sedeva sulla panchina ad aspettare il bus, la Serena che arrivava non era mai la stessa persona che era partita da scuola, solo una manciata di minuti prima. Ogni volta si sentiva cambiata e diversa, in qualche modo più ricca e più bendisposta verso il mondo: intorno a sé vedeva potenzialità da sfruttare, problemi da risolvere, elementi grezzi da migliorare, e li vedeva con la speranza e l’entusiasmo di poter veramente, concretamente fare qualcosa. La società multiculturale, variegata e variopinta che, nel bene e nel male, percepiva crescere intorno a sé, le dava ottimismo e fiducia nel futuro.

Non tutti i giorni amava quella città, naturalmente. Certi giorni la odiava al punto da desiderarla rasa al suolo, dalla prima all'ultima costruzione. Altre volte avrebbe voluto ricostruirla da capo; altre ancora, invece, il tutto le era semplicemente indifferente. La cosa importante, però, era saper cambiare punto di vista. Lei l’aveva imparato: riusciva a immedesimarsi negli altri e a immaginare il loro vissuto, anche se a volte non centrava il punto focale della questione, e non sempre riusciva ad accettare le nefandezze umane come semplici errori a cui porre rimedio. Dopotutto, non sempre c’era una luce dorata e soffusa a smussare il filo tagliente del suo giudizio.

Sorrise a questo pensiero, mentre il rombo del motore dell’autobus faceva tremare il pavimento sotto i suoi piedi e lo schienale del sedile. Cercò una posizione più comoda senza trovarla, poi appoggiò il mento su una mano e si girò a guardare la città che lentamente scivolava via, fuori dal finestrino. Pregi e difetti, quel posto aveva comunque il suo fascino.

La riproduzione casuale le donò il brano perfetto: tutto combaciava, il paesaggio, la luce, la musica, il ritmo dei suoi pensieri.

E mentre l’ultimo scorcio della città spariva dietro un alto muro, Serena si disse che sì, Busto Arsizio era anche questa.

Busto raccontata ai Bambini

La Caccia al Tesoro - 1

È una fredda e uggiosa giornata di fine ottobre, uno di quei giorni che fanno venire voglia di non fare niente e poltrire tutto il pomeriggio… Sempre, però, che non siate due bambini di sette anni impazienti di uscire dalle scuole elementari. Quando finalmente suona la campanella, le porte si aprono riversando all’esterno la calca di scolaretti urlanti; tra di loro, ecco Luca e Michele, che come due frecce in giacche rosse e blu corrono verso un grande ombrello marrone. Andiamo a vedere cosa succede sotto l’ombrello.

«Nonna, nonna!» strilla Michele, e «Ciao nonna!» gli fa eco Luca, rivolto all’insù verso il viso di un’elegante signora dai capelli bianchi. Subito parte una raffica di domande: «Possiamo andare al parco?», «Cosa mangiamo per merenda?», «Se finisco tutti i compiti posso guardare la televisione?», «Hai ritrovato il mio pupazzo drago?» La nonna li guarda severa. «Una cosa per volta!» esclama con aria di rimprovero, anche se in fondo si vede che è divertita anche lei. Con i nipoti ai lati, attaccati con le mani sporche di pennarelli colorati all’orlo della sua giacca, la nonna si avvia verso casa, non molto distante dalle scuole. Appena entrati dalla porta, poi in bagno e in fine a tavola, con le dita affondate nel panino al salame, ecco che i bambini ripartono alla carica: «Nonna Chiara, perché non possiamo andare al parco?» chiede Michele dondolando i piedi sotto la sedia. La nonna fa un sospiro.

«Te l’ho già detto, Michi. Sta piovendo, come pensi di giocare per terra sotto la pioggia?»

Lui ci riflette un attimo, perplesso. «Neanche se mettiamo la mantella?» chiede poi, speranzoso.

«Nemmeno in quel caso.»

«Non possiamo andare al cinema, nonna?» domanda allora Luca.

«E per vedere cosa? A quest’ora non c’è niente!»

«E se andiamo dalla Giulia a giocare?»

«Per oggi no, tesoro, ho parlato con la nonna di Giulia e mi ha detto che è andata dal dentista. Questo pomeriggio staremo qui in casa e giocheremo con quello che c’è» dice nonna Chiara, gentile ma decisa. I bambini mettono il broncio.

«Non è giusto! Non c’è mai niente di divertente da fare, qui!» grida Luca.

«Questa città è brutta!» conviene Michele, arrabbiato. A queste reazioni, la nonna incrocia le braccia. «Voi dite?» chiede, guardandoli con gli occhi a fessura. I nipoti fanno di sì con la testa.

«È grigia, triste, il tempo è sempre brutto, ci sono i piccioni che mi fanno paura» elenca Luca.

«I palazzi sono tutti brutti e ci sono tante macchine che inquinano» sostiene Michele, solenne.

«Voi pensate che Busto sia una brutta città. Bene, allora la nonna vi dimostrerà il contrario!» esclama trionfante. Michele aggrotta le sopracciglia. «Ah sì? E come farai?»

La nonna allora sorride, intenerita, e fa una carezza alle sue due piccole pesti. «Vedrete, vedrete!»

La Caccia al Tesoro - 2

Il giorno dopo, quando nonna Chiara va a prendere i nipotini a scuola, ha una sorpresa per loro. Dopo un passaggio veloce a casa per depositare i pesanti zaini pieni di libri e per fare merenda, ecco che li porta di nuovo fuori, nonostante la pioggerella fastidiosa che non smette di cadere. Fa indossare loro vestiti caldi, li copre ben bene con la mantella antipioggia e dà loro un ombrellino ciascuno. Poi, sorridente, annuncia: «Do ufficialmente inizio alla Caccia ai Tesori di Busto Arsizio!» i cuginetti si guardano, non hanno ben capito. Nonna spiega: «Voglio farvi scoprire tutte le cose belle e interessanti che questa città nasconde, sotto la sua apparenza fuligginosa. Perciò una volta ogni settimana, a partire da oggi fino alla fine della scuola, vi porterò in un angolino di Busto Arsizio a cui non avete mai fatto caso e vi insegnerò dove guardare per trovare la bellezza.» I bambini sembravano dubbiosi, incerti. Così la nonna aggiunse: «Ah, ovviamente dovrete fare qualcosa anche voi: dovrete cercare tutti i particolari più interessanti e inserirli in una scheda, in base alla quale poi io vi darò dei punti. A giugno, in base ai punti che avrete totalizzato, ovviamente ci sarà un premio!» Alla parola “premio” a Luca e Michele si drizzano le orecchie e si illuminano gli occhi. Che premio sarà? Sarà forse un gioco? E quanti punti serviranno? La nonna, però, si rifiuta di rispondere a queste domande: bisogna sbrigarsi, prima che faccia buio! E così, mano nella mano, nonna e nipoti si incamminano verso la loro prima meta: la Chiesa di San Giovanni. Quando arrivano in piazza la pioggia dà loro un po’ di tregua, così la nonna può spiegare loro la storia.

«Questa è la basilica di S. Giovanni Battista, una delle chiese più importanti di Busto Arsizio. Scommetto che ci siete passati davanti tantissime volte, eppure non l’avete mai osservata davvero. Questa chiesa venne iniziata nel 1609, sapete cosa significa? Significa che è molto, molto vecchia, perché ha più di quattrocento anni! E il suo campanile è perfino più vecchio, perché ha più di seicento anni. Non vi fa sentire piccoli piccoli?

Ora, guardate com’è bella la facciata: molto elaborata, ricca di decorazioni, di statue e di rilievi che raccontano storie della religione cristiana. Anche sui portoni, che sono fatti di rame e di bronzo, ci sono dei rilievi, cioè delle “vie di mezzo” tra sculture e incisioni, che raccontano la vita di San Giovanni Battista. Venite a vedere da vicino… Forza, guardate attentamente.»

Luca e Michele si avvicinano al muro bianco, lo sfiorano con le dita, alzano gli occhi e si guardano intorno. Vedono decori di fiori, foglie e visi che non avevano mai visto prima, e spalancano gli occhi o sussurrano «Uau!» per la sorpresa. Poi la nonna li accompagna dentro: spiega che le tre parti in cui è divisa la chiesa si chiamano navate, un nome buffo; mostra loro i soffitti che si chiamano volte, i pilastri e le colonne, e indica dei dipinti bellissimi sui muri che hanno lo strano nome di affresco. «Si chiamano così perché stanno al fresco, nonna?» chiede Luca curioso. Lei ride: «Non proprio, Luca. Si chiamano così perché gli artisti li dipingono quando il muro è ancora fresco, “appena fatto”.» Michele ridacchia, tappandosi la bocca per non fare troppo rumore: «Nonna, posso colorare anche io così sulle pareti di casa tua?» chiede con una luce furbetta negli occhi.

Poi nonna Chiara si allontana: va a sedersi su una panca un po’ indietro, e lascia ai bambini il compito di dare la caccia ai dettagli curiosi della chiesa, raccomandandosi di non fare rumore e, soprattutto, di non fare pasticci!

I due si avviano attenti lungo la parete, osservando gli affreschi e le cappelle decorate. Senza guardare dove mettono i piedi, percorrono la volta con i nasi all’insù, affascinati dai colori e dai disegni così precisi. Poi d’un tratto… «AHI!» strepita una vocina da sotto il piede di Michele. E, meraviglia delle meraviglie, da lì emerge un essere minuscolo, alto come una bottiglietta d’acqua, con la pelle color papiro, i vestiti all’antica e le orecchie troppo grandi per la sua piccola faccina imbronciata. «Dico, ti sembra il caso di andare a disturbare uno che se ne stava tranquillo per i fatti suoi? Potevi chiedermi di farti passare! Non c’era bisogno di calpestarmi!» strillò la creatura agitando l’indice. Michele non riesce a credere ai suoi occhi, ci mette un po’ prima di rispondere. «Scusami tanto, non ti avevo visto! Io stavo guardando la volta, e…» «Ah, due appassionati d’arte!» lo interrompe il piccoletto, improvvisamente allegro. «Non aggiungere altro. Vedete, io sono un folletto urbano: è nostro compito custodire i tesori delle città, perché purtroppo, spesso, gli umani se ne dimenticano. Io mi chiamo Trip e lavoro qui, sapete, per conto del Boss…» guardandosi intorno con aria guardinga, indica con il pollice l’altare alle sue spalle, carico di simboli sacri «…e sono sempre contento di dare una mano a chi viene in visita. Allora, ditemi: cosa cercate?»

Appena sa del compito dato loro dalla nonna, Trip parte in quarta, entusiasta di mostrare ai due bambini le meraviglie della sua chiesa: perfettamente a suo agio nel ruolo di guida turistica, e non senza vantarsene di tanto in tanto (chissà se questo farà piacere al “Boss”?), illustra tutti i quadri più belli della basilica. «Qui, nella sagrestia, ci sono ritratti di frati e di Santi, per esempio, dipinti da pittori come Giovan Francesco Lampugnani o Ambrogio Bellotti, che voi non conoscete ma che alla loro epoca erano piuttosto famosi. E poi, se mi seguite da questa parte… Ecco, questa statua raffigura Beata Giuliana, che è anche patrona di una zona della città. E poi guardate l’organo: è giovane, insomma, ha solo cento anni, ma è così carino!» Poi Trip decide di svelare loro qualcosa di molto particolare. «Osservate attentamente, perché ciò che sto per farvi vedere non si trova tutti i giorni: qui ho due foto della piazza e della chiesa che risalgono a molto, molto tempo fa… non erano a colori, e in una delle due non c’erano neppure le automobili. La città intorno è cambiata, ma la basilica è rimasta la stessa fino al giorno d’oggi. E ricordate che, per quanto siano vecchie queste foto, la chiesa e la città lo sono molto di più…Non è straordinario?» Luca e Michele rispondono eccitati, parlando di quadri e di decorazioni e di mille altre cose insieme. Poi Trip agita una mano, fermandoli: «Amici, vedo vostra nonna che viene a prendervi. Io devo andare: non dimenticate quello che vi ho raccontato, e se incontrerete un altro folletto urbano come me, ditegli che conoscete Trip! Sarà molto più amichevole.» Poi il folletto corre via, salutando i bambini con le braccia alzate, e scompare dietro a una colonna.

Sulla via del ritorno, quando la nonna chiede cosa hanno scoperto di interessante, Michele e Luca non riescono a smettere di parlare: ogni volta che credono di aver finito si ricordano un altro dettaglio, un’altra storia, e dopo un po’ la scheda della nonna è così piena che non sa più dove appuntarsi i loro racconti. Nonna Chiara è colpita e molto contenta del loro lavoro. «Complimenti, vi siete meritati nove punti!» esclama orgogliosa, segnando il punteggio su un taccuino. «Allora, dove andiamo la prossima volta? E quando ci andiamo?» chiede Luca esaltato; né lui né il cugino riescono a stare fermi.

«Pazienza, ragazzi» risponde la nonna, soddisfatta. «Pazienza.»