Il 1° maggio

Fabrizio Loreto, Università di Torino

Alle origini del
1° maggio

Prof. Maurizio Antonioli

La nascita del 1° maggio in Italia e le donne

Simonetta Soldani, Università di Firenze

La festa del lavoro durante il fascismo

Claudio Rosati, Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici (SIMBDEA)

La voce dei lavoratori

Giovanni Contini, Associazione italiana di storia orale (AISO)

Le musiche del 1° maggio

Antonio Fanelli, Istituto Ernesto De Martino

Il Primo maggio a Sesto Fiorentino

Stefano Arrighetti, presidente Istituto Ernesto De Martino

Breve storia del Primo maggio

Il Primo maggio nasce il 20 luglio 1889, a Parigi. A lanciare l'idea è il congresso della Seconda Internazionale, riunito in quei giorni nella capitale francese: "Una grande manifestazione sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi".

Quando si passa a decidere sulla data, la scelta cade sul 1° maggio, giorno in cui, tre anni prima a Chicago, una grande manifestazione operaia per le otto ore aveva dato luogo a una sanguinosa repressione.

In tutti i paesi le organizzazioni del movimento operaio si impegnano molto per sensibilizzare i lavoratori sul significato di quella mobilitazione senza precedenti.

"Lavoratori - si legge in un volantino diffuso a Napoli il 20 aprile 1890 - ricordatevi il 1 maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte e conquistare di fronte agli oziosi il posto che è dovuto a chi lavora. Viva la rivoluzione sociale! Viva l'Internazionale!".

Sul fronte opposto l’approssimarsi della scadenza viene vissuto con crescente apprensione. La stampa conservatrice, interprete delle paure della borghesia, consiglia di starsene chiusi in casa, di fare provviste, perché non si sa quali sconvolgimenti potrebbero accadere. Intanto i governi, dai più liberali ai più autoritari, allertano gli apparati polizieschi. In Italia il governo di Francesco Crispi usa la mano pesante, attuando drastiche misure di prevenzione e vietando qualsiasi manifestazione pubblica sia per la giornata del 1° maggio che per la domenica successiva, 4 maggio. In diverse località, per incoraggiare la partecipazione del maggior numero di lavoratori, si è infatti deciso di far slittare la manifestazione alla giornata festiva.

Si tratta di una scommessa dall'esito quanto mai incerto: la mancanza di un unico centro coordinatore a livello nazionale - quali saranno poi il Partito socialista e la Confederazione generale del lavoro - rappresenta un grave handicap sotto il profilo organizzativo e politico. Non si sa inoltre in che misura i lavoratori saranno disposti a scendere in piazza per rivendicare un obiettivo, quello delle otto ore, considerato prematuro da gran parte dei dirigenti del movimento operaio italiano Lo faranno solo per testimoniare una solidarietà internazionale di classe ?

Per le ragioni appena dette la riuscita del Primo maggio 1890 costituisce una felice sorpresa, un salto di qualità del movimento dei lavoratori, che per la prima volta dà vita ad una mobilitazione su scala nazionale, per di più collegata ad un'iniziativa di carattere internazionale. In numerosi centri, grandi e piccoli, si svolgono manifestazioni, che fanno registrare quasi ovunque una vasta partecipazione. Un episodio significativo accade a Voghera, dove gli operai, costretti a recarsi al lavoro, ci vanno vestiti a festa.

"La manifestazione del 1 maggio - è il commento a caldo di Antonio Labriola - ha in ogni caso superato di molto tutte le speranze riposte in essa da socialisti e da operai progrediti. Ancora pochi giorni innanzi, la opinione di molti socialisti, che operano con la parola e con lo scritto, era alquanto pessimista".

Anche negli altri paesi il 1 maggio ha un'ottima riuscita. Se ne compiace Friedrich Engels:

"Il proletariato d'Europa e d'America passa in rivista le sue forze mobilitate per la prima volta come un solo esercito. E lo spettacolo di questa giornata aprirà gli occhi ai capitalisti".

Visto il successo di quella che avrebbe dovuto essere una rappresentazione unica, viene deciso di replicarla per l'anno successivo. Il successo si ripete a conferma che lo spirito di quella giornata si sta ormai radicando nelle coscienze dei lavoratori. Nell’agosto 1891 il secondo Congresso dell’Internazionale decide di rendere permanente la "festa dei lavoratori di tutti i paesi". Inizia così la tradizione del Primo maggio, un appuntamento al quale il movimento dei lavoratori si prepara con sempre minore improvvisazione e maggiore consapevolezza. L'obiettivo originario delle otto ore viene messo da parte e lascia il posto ad altre rivendicazioni politiche e sociali considerate più impellenti.

La protesta per le condizioni di miseria delle masse lavoratrici anima le manifestazioni di fine Ottocento. Nel 1898 il Primo maggio coincide con la fase più acuta dei "moti per il pane", che investono tutta Italia e hanno il loro tragico epilogo a Milano. Agli inizi del Novecento si caratterizza per la rivendicazione del suffragio universale e poi per la protesta contro l'impresa libica e contro la partecipazione dell'Italia alla guerra mondiale.

Si discute intanto sul significato della ricorrenza: giorno di festa, di svago e di divertimento oppure di mobilitazione e di lotta ? Un binomio, questo di festa e lotta, che accompagna la celebrazione del 1° maggio per molti anni, dividendo i fautori dell'una e dell'altra caratterizzazione. Qualcuno, volendo conciliare gli opposti, la definisce "festa ribelle" e nei fatti il 1° maggio si rivela l'una e l'altra cosa insieme, a seconda delle circostanze più lotta o più festa.

Il Primo maggio 1919 i metallurgici e altre categorie di lavoratori possono festeggiare il conseguimento dell'obiettivo originario della ricorrenza: le otto ore.

Appena arriva al potere Mussolini proibisce la celebrazione del Primo maggio, istituendo il 21 aprile, giorno del cosiddetto Natale di Roma, la festa del lavoro nazionale. Il tentativo di rieducare le classe lavoratrice al culto dei valori imperiali fallisce: al di là delle adesioni formali, delle parate e delle cerimonie ufficiali, il regime non riesce a fare breccia nella coscienza della masse operaie. Il Primo maggio, soppresso, mantiene e anzi rafforza la sua carica “sovversiva”, divenendo occasione per esprimere in forme diverse - dal garofano rosso all’occhiello alle scritte sui muri, dalla diffusione di volantini alle bevute in osteria - la fedeltà a un’idea.

All'indomani della Liberazione, il 1° maggio 1945, partigiani e lavoratori, anziani militanti e giovani che non hanno memoria della festa del lavoro, si ritrovano insieme nelle piazze d'Italia in un clima di grande entusiasmo. Nel 1946 la Festa del lavoro viene a cadere nel pieno della campagna per il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente e rappresenta un’occasione per far sentire la decisa volontà dei lavoratori di voltare pagina, mettendo fine alla monarchia compromessa con il fascismo. Purtroppo la stagione delle grandi speranze alimentate dall’avvento della Repubblica dura poco. Nel 1947 il 1° maggio è segnato dalla strage di Portella della Ginestra : gli uomini del bandito Giuliano fanno fuoco contro i lavoratori che assistono al comizio provocando undici morti e oltre cinquanta feriti.

La strage di Portella è anche la spia del deterioramento generale con la rottura dall’unità delle forze democratiche e l’esasperazione dei contrasti sociali e politici. Nel 1948 le piazze diventano lo scenario della profonda spaccatura che, di lì a poco, porterà alla scissione sindacale. Bisognerà attendere il 1970 per vedere di nuovo i lavoratori di ogni tendenza politica celebrare uniti la loro festa.

Le trasformazioni sociali, il mutamento delle abitudini ed anche il fatto che al movimento dei lavoratori si offrono altre occasioni per far sentire la propria presenza, portano al progressivo abbandono delle tradizionali forme di celebrazione della Festa del lavoro.

Quando il Primo maggio sembra avviato all’inevitabile crepuscolo i sindacati provano a dargli un senso nuovo, nei contenuti e nel modo di celebrarlo. Cgil, Cisl e Uil decidono di concentrarsi su un’unica grande manifestazione nazionale, dedicata ogni anno a un tema specifico. Così è stato nel 2003 ad Assisi con lo slogan “Ricostruiamo la pace” e l’anno successivo Gorizia, una città a lungo divisa dalla storia, per salutare la caduta dell’ultimo muro con l’ingresso – proprio il 1° maggio 2004 – della Slovenia nell’Unione Europea. Il quartiere napoletano di Scampia e Locri sono scelti nel 2005 e nel 2006 per ribadire che il sindacato considera la lotta per la legalità il presupposto dello sviluppo del Mezzogiorno. Pozzallo, il porto siciliano approdo di tanti disperati che attraversano il Mediterraneo per fuggire dalle guerre e dalla fame, è parso il luogo più indicato per celebrare il 1° maggio 2015 dedicato all’accoglienza, alla solidarietà, all’integrazione, per il lavoro, lo sviluppo e “i diritti di tutti, nessuno escluso”. E così negli anni successivi.

Il Primo maggio è dunque riuscito a rilanciarsi, richiamando l’attenzione su temi cruciali d’interesse generale. Grazie al “concertone”in Piazza San Giovanni a Roma è anche riuscito a stabilire un canale di comunicazione con le nuove generazioni. La rassegna musicale, organizzata dai sindacati confederali, è diventata un appuntamento tradizionale che sembra aderire perfettamente allo spirito del Primo maggio, colto nel lontano 1903, da Ettore Ciccotti: "Un giorno di riposo diventa naturalmente un giorno di festa, l'interruzione volontaria del lavoro cerca la sua corrispondenza in una festa de'sensi; e un'accolta di gente, chiamata ad acquistare la coscienza delle proprie forze, a gioire delle prospettive dell'avvenire, naturalmente è portata a quell'esuberanza di sentimento e a quel bisogno di gioire, che è causa ed effetto al tempo stesso di una festa".

Durante il ventennio fascista

Così sul numero speciale dedicato al Primo maggio 1952 di «Lavoro», giornale rotocalco della Cgil dal 1948 al 1962, i segretari confederali Oreste Lizzadri, Luciano Lama e Vittorio Foa ricordano alcuni episodi legati alla loro Festa del Lavoro durante il ventennio fascista.

Tre racconti, personali e partecipati, che parlano di costrizione, resistenza, attesa di una liberazione che sappiamo arriverà.

Temi antichi ma sempre attuali, oggi più che mai.

Oreste Lizzadri: “Sfoglio i miei appunti e trovo: 14 aprile 1937, riunione a Grottaferrata con «i due ragionieri» per regolare la contabilità di fine mese. I due ragionieri! Rampi e Robustini, due compagni, comunista il primo, socialista il secondo, l’uno tipografo, l’altro venditore ambulante di cravatte a basso prezzo. Ce ne volle, alla riunione, per convincerli a non estendere l’invito ad altri compagni: erano offesi ed irritati, ma non ci riuscirono. L’anno prima si era in cinque, riuniti per lo stesso scopo, e la dimostrazione fallì prima di nascere per l’intervento della polizia, avvisata in tempo. Siamo già troppi in tre, e se la polizia saprà la cosa, uno di noi tre avrà parlato. «Si lavora in diverse direzioni» – affermai per tranquillizzarli – «I fornaciari si asterranno dal lavoro, i tranvieri in qualche modo si faranno vivi e anche fra i muratori qualcosa bolle in pentola; dobbiamo decidere noi ora». Tirai fuori l’appello già preparato. Poche righe invitanti tutti i cittadini che desideravano ricordare il Primo maggio a fornirsi di cravatta rossa e di portarla per tutta la giornata. Robustini curò la stampa dei volantini, diecimila copie; Rampi li diffuse. Il piano funzionò; si lavorò specialmente in periferia con spostamenti rapidi da un quartiere all’altro. Il 28 aprile ebbe luogo il convegno conclusivo. Se le informazioni pervenute erano esatte, fino a pochi giorni prima la polizia non aveva dato peso alla cosa benché alcuni destinatari dei manifestini si fossero affrettati a portarli o ad inviarli, anonimamente, alla questura. Dal 27, invece, i commissariati entrarono in agitazione. Vedevano volantini dappertutto. Diecimila è un bel numero; ma debbono essersi moltiplicati per dieci nella mente ossessionata dei funzionari di P.S. e degli alti papaveri della milizia. Uomini vestiti di scuro, accigliati, giravano per i cantieri edili diffidando e minacciando «Guai a chi porterà il 1° maggio la cravatta rossa». Così dove non erano arrivati i manifestini, arrivarono i poliziotti e la loro collaborazione una volta tanto fu veramente preziosa, a noi e ai venditori di cravatte. Il 1° maggio del 1937 passò tutt’altro che inosservato a Roma. I fornaciari si astennero in massa dal lavoro; su alcuni palazzi in costruzione sventolò per qualche ora la bandiera rossa; diverse vetture tranviarie, subito costrette a rientrare, uscirono dal deposito con la scritta «Viva il 1° Maggio». Ma l’episodio più significativo e anche più spassoso di quel 1° maggio fu la caccia alle cravatte rosse da parte della polizia. Cittadini di ogni ceto che nulla sapevano della manifestazione, vennero fermati per la strada e invitati, con quei modi che la polizia fascista ha poi trasmesso alla celere, a togliersi la cravatta e di recarsi al Commissariato. A nulla valsero proteste ed esibizioni di tessere fasciste o di altri documenti più rappresentativi, come quelli di sciarpa littorio o di ante marcia. Niente da fare. I più zelanti, come sempre avviene, andarono più in là: colpirono tutte le sfumature del rosso, dal rosa pallido al rosso acceso. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, c’è qualche ingenuo che si domanda se per caso, la cravatta di cui fa sfoggio il poliziotto suo vicino di casa non sia quella strappatagli, con modi inurbani e senza ragione, in quel lontano 1° maggio del 1937”.

Luciano Lama: “Non riuscirò a dimenticare gli ultimi giorni di aprile del 1944. La nostra brigata, la Ottava Garibaldi, era sottoposta da tre settimane ad attacchi in forze delle S.S., della Wehrmacht, delle «brigate nere». In quelle vallate dell’alto Appennino Tosco-Emiliano, poche centinaia di partigiani si battevano contro decine di migliaia di uomini forniti di mortai, di mitragliere pesanti, di aerei persino. La nostra formazione, per meglio sottrarsi al nemico, si era divisa. Io rimasi con una compagnia: una ventina di uomini ormai affranti per la fatica e affamati, con poche cartucce per i lunghi «91», due cavalli ed un mulo. Eravamo rifugiati in casa di un povero contadino, a oltre mille metri di altezza. Dick, il comandante di una squadra distrutta dai tedeschi al secondo assalto, ci aveva seguito, ferito a una gamba, su un cavallo, legato vicino alla mitragliatrice il cui treppiede era rimasto incastrato nel fango nell’ultimo attacco nemico. In casa, un unico letto a due piazze. Antonio, il contadino, ci aiutò ad adagiarvi il ferito. Dick si lamentava: nel polpaccio gli era rimasta infitta la pallottola di una machine-pistole e la gamba era gonfia, rossa. Occorreva riprendere il cammino al più presto perché i tedeschi, ancora nelle vicinanze, avrebbero potuto attaccarci da un momento all’altro. Decidemmo di tentare l’estrazione della pallottola e a me fu assegnato il compito dell’«operazione». Tutte le mie cognizioni chirurgiche si riassumevano nell’aver visto una volta un mio cugino, studente di medicina, sezionare una gamba in sala di anatomia. Ma non c’era tempo da perdere e mi misi al lavoro. Bagnai nell’aceto una lametta da barba cominciai a tagliare il polpaccio. Non un muscolo del viso di Dick si muoveva. I compagni, uno dopo l’altro, si avvicinarono muti e silenziosi. Ad un certo punto, mentre affondavo sempre più la lama, Dick, imperlato di sudore, disse fra i denti: «Sapete, ragazzi, che giorno è domani? E’ il Primo Maggio! Dì tu, Aldo, che sei stato all’estero e sai la storia, qualche cosa su questa data». Aldo, il commissario politico di compagnia, che in quel momento mi stava passando le forbici mi guardò in modo strano, fra la meraviglia e la commozione. E cominciò a raccontare, con voce piana e gioviale, dell’eroismo dei martiri di Chicago, delle lotte dei lavoratori, del significato che il Primo Maggio ha assunto, nel mondo, per l’intera umanità, da quando i lavoratori, resi consapevoli, hanno acquisito la forza ed il coraggio di spezzare le catene della schiavitù capitalistica. Io intanto affondavo le forbici nella carne di Dick e a un tratto incontrai con la punta un corpo duro: la pallottola. Occorse ancora qualche minuto per estrarla, ma alla fine ci riuscii. D’un tratto saltò fuori, spinta dalle forbici, con un fiotto di sangue nero rappreso. L’«operazione» era finita. Aldo intanto continuava il suo racconto. La sua voce però prese colore, si fece appassionata e calda, quando vide che il tentativo era riuscito. Ricordò la sua lotta nell’emigrazione e nella clandestinità, í duri giorni del carcere, il Primo Maggio festeggiato in segreto tra le mura della cella, celebrato dal compagno più qualificato in ogni angolo delle prigioni dov’erano tenuti i «politici». Avevo dimenticato i rischi ed i disagi della caccia all’uomo, di cui eravamo ancora protagonisti, l’operazione che m’aveva scosso i nervi e lo stomaco, l’impassibilità eroica di Dick, la fame che si faceva sempre più acuta. D’un tratto, proprio Dick ruppe il silenzio che avevano lasciato le parole di Aldo. «Senti, io non ho nulla da darti per dimostrarti il mio affetto. Ti regalo la pallottola che hai levato dalla mia gamba perché tu ti ricordi di me, di noi, di questo giorno, se riusciremo a salvarci». Povero Dick! Morì in una azione successiva mentre sparava con la mitragliatrice fissata alla roccia, senza treppiede. Ma conservo ancora quel pezzetto di piombo come il pegno più caro di una lotta che ha fatto di me ragazzo un uomo, uno dei tanti che proseguono il cammino verso la liberazione”.

Vittorio Foa: “Il ricordo più lontano è quello dei giorni in cui a me, scolaretto appartenente a famiglia piccolo-borghese di orientamento giolittiano, si aperse per la prima volta in modo ancor confuso ma non dimenticabile, il senso profondo dell’urto delle classi, della missione del mondo del lavoro. La mattina del 27 aprile, sotto la pioggia, mentre andavo a scuola, venni attirato da crocchi di gente che stazionavano in Corso Siccardi, davanti alla Camera del Lavoro. Mi avvicinai e vidi lo scempio. La sera prima i fascisti, sotto l’occhio benevolo delle «forze dell’ordine», avevano invaso, incendiato e devastato la casa del popolo. A mucchi, nelle pozzanghere fangose, libri, carte e documenti. Il palazzo, annerito e come vuoto, offriva una squallida immagine di maestà decaduta. Tutto intorno, gruppi di operai, cupi e silenziosi, col viso sconvolto e i pugni stretti dall’ira. Sapevo per ammaestramento famigliare che i fascisti erano gente cattiva, faziosa e violenta. Ma la sensazione che provai andava al di là di questo giudizio. Era un senso di pena di cui non sapevo rendermi esatto conto e che solo molto più tardi compresi essere la pena di chi assiste a una profanazione, a un sacrilegio: la vista di quei libri, di quelle carte disperse nel fango, rimase nella mia memoria e operò a distanza di anni, insieme con altre esperienze, come un richiamo alla verità. E pochi giorni dopo quella triste mattina, scopersi per la prima volta il Primo Maggio, quando vidi gli operai torinesi uscire nelle strade e nelle piazze e levare le loro bandiere contro fascisti e polizia, e affermare colla loro presenza la loro volontà di lotta. Debolezze ed errori di capi li segnavano all’isolamento e alla sconfitta, ma bastava vedere i loro volti per comprende che la storia e l’avvenire erano con loro, contro i profanatori e i loro complici. Tanti anni e tante vicende seguirono, ma quel più lontano ricordo di Primo Maggio di lotta accompagnò e diede un senso ai tanti primi maggio della galera, anche essi giorni di festa e di lotta, giorni di fede combattiva nell’avvenire”.

Quando già nelle piazze d’Italia si torna a celebrare in libertà la festa dei lavoratori, Teresa Noce trascorre il 1° maggio 1945 nel campo di concentramento di Holleischen.

"Sentiamo che siamo agli ultimi giorni delle nostre sofferenze - sriveva - che la liberazione è vicina, che bisogna perciò resistere, resistere, resistere ancora ad ogni costo, alla morte che ci è sopra, che ci minaccia sempre più a mano a mano che ci indeboliamo, che perdiamo le poche forze che ancora ci restano. La sera del 30 aprile ci riuniamo per esaminare assieme come commemorare – festeggiare non possiamo dirlo! – il Primo maggio. Stanche sfinite dalla fame e dalla fatica, discutiamo distese sul giaciglio di una di noi. Ho preparato il piano di una breve conferenza. Decidiamo di farla la sera stessa del Primo maggio, dopo il silenzio, e di farla seguire da un piccolo coro di canzoni popolari e partigiane, cantate dalle deportate più giovani. Ma chi farà la conferenza? Nessuna di noi ne ha la forza! Siamo così deboli che dobbiamo appoggiarci al muro per reggerci in piedi. Chiediamo a Giulia di fare uno sforzo: cercherà di farlo. [...] la debole voce della vecchia comunista parlò, nel silenzio della notte, della festa del lavoro. E quando, dopo di lei, le voci fievoli ma argentine delle nostre giovani compagne intonarono i canti della lotta, della libertà e del lavoro, un soffio di speranza penetrò nella lurida baracca, a rinsaldare la fede, a riaccendere la vacillante fiammella della vita. Cinque giorni dopo eravamo libere".