“I racconti" del Primo maggio ”
di Fulvio Fammoni, Presidente FDV
La festa del lavoro si celebra e si rinnova ogni anno in tutto il mondo. Ha radici profonde e un significato di straordinaria attualità. E’ la festa di chi lavora, è l’obiettivo di chi cerca un lavoro, è un giorno di speranza verso il futuro per chi ha un lavoro involontario, precario, povero. In tutti i casi, rappresenta una comunità che celebra in modo collettivo e in tante maniere diverse come comizi, cortei, concerti, balli, mostre, scampagnate, cibo e buon vino, quello che è e rimane lo strumento fondamentale di emancipazione e di crescita sociale delle persone e della società: il lavoro dignitoso. Quest’anno la grande pandemia, l’emergenza sanitaria in atto, ci priva di un elemento fondamentale di questa festa, lo stare assieme. Si stanno trovando tanti modi diversi per festeggiare comunque il Primo maggio. Anche come Fondazione Di Vittorio e come sistema degli Archivi, Biblioteche e Centri documentazione della Cgil, un patrimonio prezioso di storia e memoria scritta, visiva e orale, abbiamo voluto contribuire con questa iniziativa. Nasce su input dell’Archivio di Bergamo, una delle città più colpite dall’epidemia, e vede con un entusiasmo e una partecipazione via via crescente, la partecipazione di tante strutture di categoria e di territorio di tutto il paese. Si tratta di una mostra telematica dal titolo “I racconti del Primo maggio” (VISITA LA MOSTRA) fatta di immagini e documenti, legati ad elementi fondamentali o periodi particolari di questa giornata in ogni realtà e che prende a riferimento i temi della cura, della ricostruzione, della solidarietà e, come sempre, della dignità e valore sociale del lavoro. Attraverso queste immagini, del nostro passato e presente, ricostruiamo il lavoro e il sindacato nei momenti di costruzione della società italiana a cui ha sempre partecipato e come, anche questa volta, farà. Già prima della crisi sanitaria i numeri dell’occupazione, che avevano recuperato la caduta della precedente crisi del 2008, proponevano una insufficiente quantità di ore lavorate, una presenza crescente di precarietà e di lavoro troppo poco remunerato. Il numero dei disoccupati restava alto, così come quello degli inattivi. Adesso i primi dati reali parlano, come conseguenza della pandemia, di una profonda crisi economica che ha ripercussioni importanti sul lavoro. E’ un enorme problema che va affrontato da tutti come la priorità tra le priorità. E’ il messaggio di questo Primo maggio. Parlare di valore sociale del lavoro non è infatti solo un importante richiamo ad un preciso dettato costituzionale. E’ ricordare un dato inconfutabile della nostra storia: le grandi conquiste sociali del lavoro hanno sempre comportato una estensione positiva di quei risultati a tutta la società italiana. Richiamo solo, intenzionalmente visto il periodo, le grandi lotte per la salute nei luoghi di lavoro e lo slogan “La salute non si paga” che furono l’elemento trainante il sistema sanitario nazionale universale; tanto depotenziato attraverso i tagli di spesa poi e di cui oggi, nell’emergenza, si riscopre ruolo e centralità. Per questo, la fase di ripresa, che per dimensioni viene paragonata al dopoguerra, deve avere caratteristiche precise. Priorità nelle direttrici degli investimenti (salute e welfare, ambiente, formazione, nuove tecnologie, dotazione strutturale del Paese), con presupposti fondamentali: non solo ricostruire ciò che chiude, ma ristrutturare nel profondo un modello di sviluppo vecchio e già in forte difficoltà; privilegiare settori a intensità di lavoro evitando forme di ulteriore parcellizzazione delle attività delle persone. Fare del lavoro, della sua quantità e qualità, il centro della ricostruzione, è il vero antidoto a fenomeni di povertà che deprimerebbero ancor più l’economia e sarebbero fonte di paure e rabbia sociale. A questa discussione e a questa festa del Primo maggio vogliamo contribuire, in questa fase così difficile, partendo dalla nostra storia raffigurata nelle immagini della mostra.
In Italia, la tradizione del Primo maggio si intreccia, storicamente, con le lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa a otto ore, la regolamentazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, il miglioramento salariale, i contratti di lavoro, la legalizzazione dello sciopero.
Il fascismo abolirà - nel 1923 - la ricorrenza, preferendo una autarchica Festa del lavoro italiano il 21 aprile in coincidenza con il Natale di Roma (LEGGI).
All’indomani della Liberazione, il Primo maggio 1945, giovani che non hanno memoria della Festa del lavoro e anziani si ritrovano, insieme, nelle piazze di tutta Italia (LEGGI).
Il tema dell’unità era stato ribadito, fortemente, nella riunione del Comitato direttivo della Cgil (ancora e fino al 1948 unitaria) dell’11-12 aprile 1945. “Questa data - aveva affermato Oreste Lizzadri, segretario confederale - dovrà essere l’esaltazione dell’unità sindacale; dovranno essere fatte delle manifestazioni da parte delle Camere del lavoro: i partiti non interverranno, come tali, in quanto il Primo maggio sarà la celebrazione della festa del lavoro, e così come tale è solo la Cgil che deve esserne la promotrice”. In omaggio all’unità sindacale, Giulio Pastore annuncerà la decisione dei lavoratori cristiani di rinunciare alla loro festa del lavoro, il 15 maggio (LEGGI IL VERBALE).
Appena due anni dopo, nel 1947, il Primo maggio sarà segnato dalla strage di Portella della Ginestra, dove moriranno per mano degli uomini del bandito Giuliano 11 persone, tra le quali anche bambini (LEGGI: Emanuele Macaluso: “Proprietà terriera, baronaggio, mafia e potere politico decisero di utilizzare la banda Giuliano a difesa dei propri interessi”; L’eccidio del 1947 negli Archivi della Cgil; Di Vittorio, il segretario che si prese cura del ragazzo orfano).
Il Primo maggio successivo, quello del 1948, è l’ultimo celebrato unitariamente: poco più di due mesi più tardi l’attentato a Palmiro Togliatti decreterà la fine della esperienza unitaria.
Da quel momento, si apre una lunga stagione di feste del lavoro separate che terminerà solo vent’anni dopo, a partire dal 1970 (Gli speciali unitari per la Festa del Lavoro 1971-1983).
Il Primo maggio del 1984, il primo dopo la rottura di San Valentino, Cgil, Cisl e Uil si separano di nuovo, ma a partire dal 1986, riprendono la tradizione unitaria per i festeggiamenti della Festa del lavoro, scegliendo ogni anno un tema specifico cui dedicare l’evento e un luogo nel quale riunirsi. Si parte da Reggio Calabria nel 1986 e si arriva di nuovo a Portella l’anno successivo. Seguiranno Assisi, Prato, Milano, Roma, Genova, Torino, Brindisi, Catania, Reggio Emilia, Ancona, Pescara, Bologna, Assisi, Gorizia, Scampia, Locri, Foggia, L’Aquila, Rosarno, Marsala, Rieti, Perugia, Pordenone, Pozzallo, Ragusa, Genova e di nuovo Portella nel 2017 in occasione del 70° anniversario della strage. Sarà Prato ad ospitare il corteo dei lavoratori e il comizio dei tre leader sindacali per il Primo maggio 2018, Bologna l’anno successivo (Guarda i manifesti del Primo maggio).
A causa del perdurare dell’emergenza sanitaria per il Coronavirus, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di sospendere ufficialmente la manifestazione nazionale del Primo maggio prevista quest’anno a Padova e il Concerto di Piazza San Giovanni a Roma.
Le foto riprodotte all’interno della pagina sono di proprietà dell’Archivio storico CGIL nazionale (per consultare l’Archivio fotografico clicca qui; per saperne di più qui).
E' a disposizione degli studiosi l'inventario delle carte fino al 1986 (sono disponibili, in file digitalizzato allegato alla scheda documento, tutti i verbali e tutte le circolari confederali dal 1944 al 1986 - NAVIGA; APPROFONDISCI).
I video dell'Archivio sono conservati presso l'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, partner della Cgil nazionale dal 1986 (LEGGI).
Per saperne di più visita La CGIL nel Novecento. Il Blog.
Il Nostro maggio a Milano attraverso i documenti dell’Archivio del Lavoro
Il Primo maggio 1945 a soli 6 giorni dalla Liberazione i lavoratori milanesi ritornarono a festeggiare alla luce del sole. Un lungo corteo partito dal piazzale della nuova sede della Camera del Lavoro di Milano (leggi La conquista partigiana della Camera del Lavoro) percorse tutta la città con destinazione il Cimitero Monumentale, dove una grande folla si radunò per celebrare e onorare i Martiri della Resistenza. I festeggiamenti continuarono anche nel pomeriggio con diversi cortei confluiti all'Arco della Pace per ascoltare il comizio finale dei maggiori esponenti antifascisti. Achille Magni parlò per il Partito repubblicano, Sandro Pertini per il Partito socialista, Luigi Longo per il Partito comunista, Achille Marazza per la Democrazia cristiana, Leo Valiani per il Partito d’azione, Ernesto Cattaneo per il Partito liberale.
Sandro Pertini si appellò alla necessità di operare un “taglio netto” con il passato, ponendo subito fine alla monarchia. Luigi Longo criticò invece il governo di Roma per l’eccessiva timidezza con cui stava affrontando l’epurazione dei fascisti.
In quel Maggio, mentre Berlino veniva liberata, risorgevano così gli ideali di autodeterminazione e di democrazia disattesi durante gli anni del fascismo. Il manifesto “Festa del Lavoro, Festa di Popolo” di Ennio Morlotti e Bruno Cassinari, esponenti del Movimento di Corrente, ricorda e celebra quella giornata di vittoria dei lavoratori sul nazifascismo e la fine della guerra.
L’appello diffuso dalla Camera del Lavoro in occasione del “libero Primo Maggio” ricordava l’apporto dato dai lavoratori milanesi alla sconfitta del fascismo, e nel contempo ricordava l’importanza dell’unità per rendere effettivo “il diritto ad una vita libera, sicura, veramente civile” fino alla “liberazione di classe”.
(ascolta il discorso di Alberganti a Radio Milano Libera, letto da Omar Caniello)
Nonostante la motivata enfasi posta nel celebrare pubblicamente la festa dei Lavoratori le celebrazioni del primo maggio erano continuate pure negli anni precedenti, disattendendo ai divieti imposti dal regime.
Nel maggio 1923, infatti, proprio a Milano due militanti comunisti erano riusciti ad arrampicarsi sulla Madonnina del Duomo e issare una bandiera rossa, cosicché per tutto il giorno chiunque avesse alzato gli occhi al cielo avrebbe visto il simbolo della festa dei lavoratori.
Il primo maggio veniva, inoltre, costantemente celebrato in carcere, al confino, e finanche nei campi di concentramento.
Pietro Nenni ricordava il Primo maggio 1926 a San Vittore salutato al grido di “Viva il Primo Maggio”, “Viva Matteotti” e dai fazzoletti rossi sventolati nelle celle, con gran scompiglio degli agenti di polizia.
Toccanti risultano, poi, i ricordi di Teresa Noce del Primo maggio 1945 nel campo di concentramento di Holleischen, dove per l'occasione fu organizzata una breve conferenza alla sera, dopo il silenzio, seguita da un coro di canzoni popolari e partigiane intonate dalle deportate più giovani.
La festa del Primo maggio è sempre stata l’occasione per sintetizzare e sottolineare le problematiche del mondo del lavoro e della società, il carovita, la sicurezza, le riforme sociali, la solidarietà internazionale, l’unità sindacale, la dignità del lavoro, la pace.
Purtroppo in alcuni casi non mancarono gli scontri con la polizia (video: Corteo del Primo maggio, Milano 1967).
Negli ultimi anni c’è stato spazio anche per concerti, musica e intrattenimento come testimoniato dal manifesto del Primo maggio 2017.
Le immagini pubblicate sul sito fanno parte del Fondo Silvestre Loconsolo, conservato presso l’Archivio del Lavoro e che comprende oltre 10.000 scatti. Il fondo è consultabile online sul sito LombardiaBeniCulturali, (scegliendo dal menù a tendina “Associazione Archivio del Lavoro” nel campo Istituto di conservazione).
I manifesti sono parte della Raccolta di manifesti (1945-2010) conservata sempre presso la nostra sede. Alcuni sono stati riprodotti nel catalogo della mostra Manifestamente Lavoro (2016).
Per saperne di più guarda la pagina dedicata sul nostro sito riguardo il patrimonio conservato sul Primo Maggio
Cento anni di Primo Maggio bresciano
Alla fine dell’Ottocento, Brescia ha un tessuto industriale già forte e in crescita. Il Primo maggio viene promosso dal Consolato operaio, seguendo la Seconda internazionale del 1889 che aveva proclamato per l’anno successivo “la giornata internazionale dei lavoratori”. A mobilitarsi è una piccola parte dei lavoratori, soprattutto dalle grandi fabbriche della città. I cortei sono vietati. C’è spazio per comizi, momenti conviviali e scampagnate fuori porta con musica e canti. Le rivendicazioni di quegli anni si focalizzano sulla riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore giornaliere. Il Primo maggio, però, diventa da subito un simbolo. Per molti lavoratori è soprattutto un giorno di orgoglio e speranza. L’obiettivo è quella “società di eguali” che anima i socialisti di tutto il mondo, sempre più attivi e organizzati dentro e fuori le fabbriche.
Fin dai primi anni della sua storia, anche nella Brescia di allora, il Primo maggio diventa la cartina di tornasole dei cambiamenti in atto nel Paese. Il tema della pace è un elemento chiave per comprendere la storia della Festa dei lavoratori. Il ripudio della guerra è sempre stato un tratto distintivo del Primo maggio, a partire dal 1911 contro la guerra di Libia, passando per gli anni che precedono l’intervento nella prima guerra mondiale, fino ad arrivare al clima di mobilitazione contro la guerra in Vietnam.
Il Primo maggio bresciano si richiama all’internazionalismo ma, soprattutto all’inizio, resta molto radicato nel contesto locale. Nei primi anni del nuovo secolo, ad esempio, l’Amministrazione di Brescia si regge su un’alleanza di centrosinistra tra liberali e socialisti. Se la giornata dei lavoratori delle origini ha una forte connotazione operaia, presto diventa una prova sul campo dell’alleanza tra liberali zanardelliani e giolittiani e socialisti riformisti per il governo della città. Proprio il richiamo alle origini, alla “purezza” e alle ragioni della lotta sarà una costante in tutta la storia del Primo maggio. Nelle classi dirigenti di allora, verrà sempre stigmatizzata come festa “sovversiva”, pericolosa per la stabilità dello Stato.
Brescia si conferma un vero e proprio laboratorio politico. Uno degli elementi più interessanti è, ad esempio, l’evolversi del rapporto tra socialisti e cattolici. Fin dai primi anni del secolo, il movimento cattolico è fortemente radicato nel territorio, soprattutto nelle campagne della Bassa e nei borghi rurali. Agli inizi del secolo, il sindacalismo di ispirazione cristiana è in forte crescita, grazie anche alla saldatura con la rete capillare delle parrocchie. Presto l’obiettivo diventa quello di contendere la bandiera del Primo maggio ai movimenti socialisti. Sono molte le manifestazioni promosse dalle organizzazioni cattoliche che, per numero di partecipanti, sanno reggere il confronto. Se la città resta sotto l’egida delle forze di ispirazione socialista, in provincia si afferma un Primo maggio “cattolico” che abbandona ogni riferimento alla dimensione del conflitto: la festa di “tutti i lavoratori” celebra la collaborazione, lo sviluppo ordinato, la concordia tra le classi. Di lì a qualche decennio, tali divisioni di fondo sarebbero diventate vere e proprie fratture, segnando la storia del sindacalismo italiano.
Ma è l’avvento del fascismo a stravolgere ogni prospettiva. La lotta all’idea originaria del Primo maggio è l’altra faccia della persecuzione contro socialisti, comunisti e cattolici popolari. Sono gli anni ’20, quelli in cui il movimento fascista prepara il terreno all’imminente torsione autoritaria. Molti dirigenti sindacali, rappresentanti dei lavoratori e semplici simpatizzanti vengono minacciati e aggrediti. Numerosi attivisti sono costretti alla clandestinità. L’iscrizione al sindacato fascista diventa per molti una scelta obbligata. La provincia bresciana si rivela da subito la più permeabile al clima di intimidazione e violenza.
Una volta arrivato al potere, il fascismo tenta di creare la propria Festa del lavoro celebrandola il 21 aprile, in ricordo della fondazione di Roma. I risultati, però, non sono quelli sperati dal regime. Nonostante il clima di paura o di acquiescenza alla dittatura, il Primo maggio resta un simbolo che nessuna decisione calata dall’alto riesce davvero a spegnere. A Brescia resta memorabile la manifestazione del 1925 con le calzettaie, lavoratrici del tessile, che attraversano le vie del centro “sfilando con garofani rossi sul petto su Corso Zanardelli”. Interessante che, in una fase così difficile, siano proprio le donne a farsi carico dei rischi di una manifestazione che sfida pubblicamente i divieti.
Dopo il 1945, il Primo maggio esce dalla clandestinità. La festa torna ad essere unitaria e diventa per tutti un simbolo di riscatto. Si celebra la liberazione dal regime fascista ma anche l’avvio di una fase di collaborazione tra i nascenti partiti di massa nella ricostruzione del secondo dopoguerra. A Brescia il Primo maggio continua ad essere legato a doppio filo alle vicende nazionali. Accade in particolare con l’eco della strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947, anno che a Brescia è ricordato anche per una seconda tragedia. Nella notte tra il 30 aprile e 1° maggio, infatti, lo scoppio di un ordigno gettato per errore in una fusoliera provoca la morte di cinque operai della Metallurgica Brescia. I festeggiamenti del Primo maggio vengono sospesi per “stringersi in solidarietà fraterna con i famigliari dei caduti”. In ogni snodo critico della storia del Paese, la Festa dei lavoratori si carica di forti significati simbolici, andando al di là delle rivendicazioni sindacali.
Negli anni Cinquanta, il Primo maggio è influenzato anche a Brescia dal nuovo quadro politico. Termina l’alleanza tra i tre partiti di massa e De Gasperi avvia la nuova fase di governi centristi, con l’appoggio della destra parlamentare. La rottura dell’alleanza post-bellica investe anche il fronte sindacale. La Festa dei lavoratori è sempre di più un terreno in cui misurare i rapporti di forza interni. Anche a Brescia, nelle elezioni per le Commissioni nelle principali fabbriche della città, si acuisce lo scontro tra cattolici, comunisti e socialisti. Il 4 maggio 1955, durante una manifestazione rinviata per lasciare spazio alla MilleMiglia, il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio, intervenendo in Piazza della Loggia, parla di “fascismo di fabbrica”.
Gli anni Sessanta e Settanta cambiano invece di segno, con la stagione dell’unità sindacale. La capacità negoziale dei sindacati cresce di pari passo con il loro peso specifico nella società. Il punto più alto coincide senza dubbio con la promulgazione dello Statuto dei lavoratori del 1970. A far da contraltare, la recrudescenza del terrorismo. La strategia della tensione ha nella strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 uno degli episodi più tragici e oscuri. Al momento della deflagrazione, a parlare dal palco c’era Franco Castrezzati, segretario provinciale delle Fim-Cisl. A Brescia il corteo del Primo maggio 1975, trentennale della Liberazione, “si ferma in segno di omaggio di fronte al luogo dell’esplosione delle bomba”.
Il 1980 è una data spartiacque. È la cosiddetta ‘marcia dei quarantamila’ a segnare “un prima e un dopo”. Il 14 ottobre la manifestazione di quadri e capi-operai Fiat per le strade di Torino, a cui seguirà il referendum sulla scala mobile, rimarca un’inversione dei rapporti di forza nella società italiana. Negli anni successivi, il Primo maggio si trasforma “in un’occasione di riflessione, anche sulla propria natura”, alla ricerca costante di un’identità che, a tratti, sembra irrimediabilmente perduta. Quelli che portano al centenario sono anni difficili. I sindacati rinnovano i richiami alla pace, all’ambientalismo, alla solidarietà con i Paesi in via di sviluppo, alla lotta al razzismo. Il simbolo di questa nuova fase è il Concertone promosso dai Sindacati confederali, una sorta di grande rito laico che sembra circoscrivere le contrapposizioni di un tempo ai proclami dal palco.
Tratto da Socialismo pace e democrazia. Cento anni di Primo Maggio bresciano di Diego Angelo Bertozzi · Zambon editore, 2015
Roma, Primo maggio 1891: prove di rivoluzione
La manifestazione del Primo maggio 1891 era stata convocata in Piazza Santa Croce in Gerusalemme, nei pressi di San Giovanni in Laterano.
Fino dalla mattina di quel giorno nelle vie, ove non si trovava una bottega aperta, circolavano in fretta pochissime persone, e nelle ore pomeridiane tutta Roma era avvolta in un silenzio di tomba; e neppure nelle strade più centrali si sentiva il rumore di una carrozza; soltanto lassù nell’estremo lembo del quartiere dell’Esquilino, si addensavano i soldati e la folla irrequieta.
Piazza Santa Croce era presidiata, oltre che da un massiccio schieramento di carabinieri, da reparti della fanteria, dei bersaglieri e da due squadroni di cavalleria. Nelle prime ore del pomeriggio cominciarono ad affluire con le loro bandiere le varie delegazioni dei circoli e delle organizzazioni operaie. Verso le 15, mentre si accingeva a prendere la parola il primo oratore, una certa animazione annunciò l’arrivo della Federazione anarchica rivoluzionaria, con in testa la bandiera nera orlata di rosso. La tensione salì di colpo quando alcuni muratori gridarono all’indirizzo dei soldati “viva l’esercito italiano, viva i nostri fratelli armati!”, un saluto che non piacque agli anarchici, i quali ribatterono “viva l’esercito rivoluzionario!”, “viva la rivoluzione!”, “abbasso le baionette!”.
Iniziò il comizio e i primi interventi, ritenuti troppo moderati, furono accolti con fischi e urla dai gruppi più estremisti. In piazza e sul palco si accesero vivaci discussioni e fu difficile riportare la calma, soprattutto dopo l’arrivo di Amilcare Cipriani. L’ex garibaldino e reduce della Comune parigina, accolto da una grande ovazione, fu accompagnato sul palco, da dove ora venivano parole sempre più accese. La folla si esaltò quando un oratore disse: "Bisogna finire colle declamazioni; è tempo di agire, bisogna fare una guerra a coltello a coloro che ci opprimono. È tanto tempo che domandiamo legalmente i nostri diritti: otteniamoli con la forza".
Intervenne, rincarando la dose, l’anarchico Ettore Bardi: "Questa classe dominante, frutto della corruzione e dell'infamia, deve essere abbattuta. Oggi forse qualcuno di noi sarà sacrificato e a quelle vittime mandiamo un saluto […] Spandiamo ora il nostro sangue per l’umanità; sacrifichiamoci, e lasceremo un’aureola per le generazioni future. È tempo di farla finita: decidetelo voi! Non abbiate più fiducia in nulla: non vi sono né parlamenti né consigli, è tempo di finirla, sacrifichiamoci, decidetelo voi".
Era altra benzina sul fuoco. L’eccitazione della folla era tale che ogni invito alla calma veniva sommerso di fischi. Intanto i carabinieri, che erano scesi da cavallo, furono fatti risalire in sella. A lungo invocato parlò Cipriani, che rivolse agli impazienti l’invito a contenere il loro impeto perché non era ancora giunto il momento: "Oggi siete chiamati a provare quanti siete di numero e quanto tolleranti. Quando sarete stanchi, questa gente pasciuta dovrà cedere dinanzi a voi per amore o per forza. Sentite un uomo che non vi ha mai tradito. Organizzatevi e faremo facilmente sparire la microscopica falange dei neutri pasciuti. Se oggi siete venuti qui inermi, preparatevi a venirvi un’altra volta non con bandiere inutili, ma con qualche altra cosa fra le mani".
L’oratore successivo si disse d’accordo: “Oggi siamo qui per contarci; ma non ci perdiamo di coraggio, verrà un altro Primo Maggio”. Ma dalla folla salirono grida di dissenso: “No, no, subito !”. Neanche il carisma di Cipriani era dunque riuscito a placare gli animi e se ne ebbe conferma quando prese la parola un altro anarchico, Venerio Landi, che tagliò corto: “È inutile continuare a perdersi in ciarle. Le rivoluzioni si fecero sempre senza discutere e senza i comizi: bisogna incominciare i fatti. Tutto sta a prendere il momento e può essere domani, oggi, quando volete”.
I suoi compagni di fede, accalcati sotto il palco, non ebbero dubbi: “Sì, sì, oggi!” . A quel punto Landi non si trattenne e gridando “io sono con voi, viva la rivoluzione!” si tuffò in mezzo alla folla. L’inusitato gesto, interpretato come il segnale della rivolta, provocò un certo scompiglio e l’immediata carica della forza pubblica. Spuntarono bastoni e coltelli e vennero esplosi alcuni colpi di pistola da una parte e dall’altra. Dopo l’intervento della cavalleria e dei soldati, contrastato con lanci di pietre, i disordini si propagarono alle zone adiacenti. Dalle finestre delle case piovvero sui militari “mattoni, pezzi di lavagna e quant’altro, demolendo perfino, entro le case stesse, camini, pavimenti e muriccioli delle terrazze”. In via Emanuele Filiberto i dimostranti provarono a erigere una barricata con dei carretti e masserizie, mentre nella vicina Villa Altieri fu respinto il tentativo di assaltare le carceri femminili.
L’ordine fu infine ristabilito: tutta la zona rimase presidiata dai soldati, le case piantonate mentre nel resto della città regnava ancora il solenne silenzio del pomeriggio, che aveva infuso tanto panico nei cittadini, e s’ignorava che cosa fosse avvenuto né speravasi di aver notizie nella serata, perché le tipografie erano chiuse, e nessun giornale poteva pubblicarsi per la vacanza del personale.
Il bilancio della giornata fu di due morti, una guardia e un carrettiere, diversi feriti e circa duecento arrestati, tra i quali Cipriani, anche lui ferito alla testa. Sui fatti di Santa Croce venne istruito un “maxiprocesso”, ma le conseguenze di quel giorno di follia furono soprattutto di carattere politico. Cominciò allora a ridursi l’influenza degli anarchici, mentre si rafforzarono le correnti repubblicane, socialiste e riformiste che un anno dopo contribuirono alla nascita della Camera del lavoro di Roma.
Un giorno di festa a Rignano Flaminio
Negli anni Cinquanta i motivi dominanti delle manifestazioni promosse dalla Cgil, alle quali partecipavano con le loro bandiere i militanti dei partiti di sinistra, furono la protesta contro lo sfruttamento, la difesa delle libertà democratiche e la lotta per la pace. La Festa del lavoro veniva celebrata un po’ dappertutto secondo modalità collaudate. A Roma i comizi si tenevano ancora a Piazza del Popolo più che a Piazza San Giovanni La Cgil predisponeva per tempo un corposo dossier con “gli orientamenti di propaganda per illustrare convenientemente tutte le questioni di maggiore importanza e attualità” al centro dell’iniziativa confederale. Questo materiale, che le Camere del lavoro provvedevano a integrare con riferimenti alle situazioni locali, veniva utilizzato come traccia per i comizi e per la compilazione di giornali murali, di manifesti e volantini. Assai poco era lasciato all’improvvisazione e alla fantasia degli oratori, molti dei quali dovevano sottoporsi a un vero tour de force. I comizi si svolgevano infatti fin nei più piccoli centri, distanti tra loro pochi chilometri, ed erano spesso assegnati allo stesso sindacalista inviato dalla Camera del lavoro del capoluogo. Non appena terminato il suo comizio l’oratore saliva sulla motocicletta, sul sidecar o sulla Topolino per andare a tenere un altro comizio nel paese vicino. Il giorno seguente doveva stendere un rapporto sull’andamento della giornata, come fece diligentemente il sindacalista Ubaldo Marchionne, inviato nel 1951 dalla Camera del lavoro di Roma a celebrare il 1° maggio a Rignano Flaminio:
Partito da Roma col primo treno, sono giunto al paese verso le ore 8 e un quarto. Non appena alla visione del grande viale, che si spinge fino alla piazza del paese lungo un mezzo chilometro, si è presentato tutta una infioratura di archi, di bandierine da una parte all’altra della strada. I compagni lavoratori, specialmente i giovani, hanno lavorato tutta la notte per addobbare il paese. Un programma meraviglioso si è svolto per i festeggiamenti. Alle ore 9 il concerto locale ricorrendo le strade del comune ha rallegrato la cittadinanza al suono dei nostri inni. Alle ore 10 corsa ciclista con vistosi premi. A mezzogiorno sparo di mortaretti e castagnole, Alle 15,30 merenda alla collina della Stazione con a capo la banda e moltissime famiglie con i loro fagotti. Alle ore 18 comizio in piazza , dopo il comizio, e cioè alle ore 19,15, danza di fronte al Municipio, protrattasi fino a tarda sera. Alle ore 20,15 ho dovuto abbandonare il paese per fare ritorno a Roma. Ultimo treno valido per partire. Il comizio è stato riuscitissimo. La lega dei contadini era in piena efficienza. Questo 1 maggio ha riaffratellato tra i lavoratori molti malintesi.
In queste giornate, data l’impossibilità di recarci in Archivio o presso il Polo archivistico a causa dell’emergenza Covid 19, abbiamo scelto di concentrarci principalmente sulla nostra imponente raccolta di manifesti. Nel corso del 2018 è stato svolto uno specifico progetto di digitalizzazione della nostra collezione di locandine, manifesti e volantoni commissionati prevalentemente dalla Camera del Lavoro di Reggio Emilia o dalle organizzazioni ad essa affiliate. Questa raccolta ammonta, ad oggi, a più di 3.000 pezzi.
I manifesti murari riferiti al Primo maggio, prodotti dalla Camera del Lavoro a partire dall’inizio degli anni Sessanta, riproducevano tanto il programma delle celebrazioni per la festa dei lavoratori in città e provincia quanto slogan e parole d’ordine. Questi ultimi, in particolare, erano sia affissi sul territorio che esposti proprio in occasione delle manifestazioni. Si tratta ancora di manifesti che riportano la sola firma della Camera del Lavoro.
Scorrendo la raccolta si possono trovare le parole d’ordine internazionaliste della prima metà degli anni Sessanta come “pace e disarmo”, “fine alla sporca guerra al Vietnam” o “solidarietà coi popoli che lottano per l’emancipazione, per l’indipendenza, contro il colonialismo”; quelle rivendicative della seconda metà degli anni Sessanta come “salvaguardare la salute dei lavoratori, ritmi e orari di lavoro più umani”, “40 ore di lavoro in 5 giorni, diritto di assemblea in fabbrica” o “ w l’unità sindacale, più potere contrattuale ai sindacati”. Nel corso degli anni Settanta i manifesti con gli slogan tendono a scomparire – anche a causa dell’emergere di nuove forme di comunicazione e di lotta – e rimangono quelli contenenti il programma delle celebrazioni, che diventano definitivamente unitarie. Scorrendo questa tipologia di materiali si può notare come nel corso degli anni Sessanta prevalga ancora l’elemento del Primo maggio come festa di popolo. Oltre alla manifestazione e al comizio del Segretario generale della Camera del Lavoro – in quegli anni Walter Sacchetti e Franco Iori - i programmi ufficiali si dipanano su più giornate e prevedono: gare di bocce, partite di calcio, spettacoli per bambini e distribuzione di doni, momenti musicali in piazza e in teatro, spettacolo pirotecnico offerto dall’Amministrazione comunale ai lavoratori.
A partire dagli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta una nuova centralità l’assume invece il comizio conclusivo, che vede la partecipazione di dirigenti nazionali e che rimanda immediatamente allo sviluppo delle lotte del periodo. In quegli anni prenderanno la parola dal palco delle celebrazioni: Elio Giovannini, Rinaldo Scheda, Giorgio Benvenuto, Sergio Garavini, Fausto Vigevani.
È nel corso degli anni Novanta che, oltre alla manifestazione e al comizio conclusivo, prende sempre più la scena – anche in relazione alla crescita del “concertone" romano – la presenza di artisti e musicisti che chiudono le celebrazioni con lo spettacolo serale. In quegli anni si esibiscono artisti come Ligabue, Pierangelo Bertoli, i Nomadi, Enzo Jannacci, Luca Barbarossa e tanti altri.
Nel 1998, alla presenza dei tre Segretari generali Cofferati, D’Antoni e Larizza, Reggio Emilia ospita la manifestazione nazionale del Primo maggio di Cgil, Cisl e Uil.
I materiali qui riprodotti sono solo una piccola parte di quanto l’Archivio storico della Camera del Lavoro di Reggio Emilia conserva sul Primo maggio, la festa dei lavoratori.
I materiali documentali, fotografici e iconografici spaziano dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, ma si segnalano anche materiali antecedenti al secondo conflitto mondiale. La parte documentale è conservata presso l’Archivio storico depositato presso il Polo archivistico comunale - Istoreco, la raccolta fotografica in apposito fondo presso la Fototeca della Biblioteca Panizzi e la raccolta dei manifesti presso la sede di Via Roma.
Il Primo maggio appartiene alla storia del movimento sindacale tutto. I metalmeccanici sono una parte fondante di questa storia, anche se non sempre le carte d’archivio che sono giunte fino a noi riescono a farcelo mettere a fuoco.
È indubbio che agli albori del movimento sindacale la Fiom – allora Federazione Italiana Operai Metallurgici, nata nel 1901 – fosse fra le categorie che animarono maggiormente le celebrazioni della Festa internazionale dei lavoratori. Anche dopo la fondazione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro nel 1906, a cui la Fiom contribuì in maniera determinante, la categoria mantenne comunque una certa autonomia organizzativa nella costruzione delle manifestazioni per il Primo maggio, almeno fino alla soppressione delle libertà sindacali per mano fascista. Questa peculiarità si affievolì a partire dalla ricostruzione della Cgil unitaria nel secondo dopoguerra, quando le celebrazioni del Primo maggio passarono definitivamente in capo al livello confederale, tanto dal punto di vista nazionale che territoriale.
L’Archivio storico della Fiom nazionale conserva copia (in formato cartaceo e in microfilm) de “Il metallurgico”, quello che dal 1898 al 1925, con alterne vicende e una periodicità non sempre regolare, fu l’organo di stampa ufficiale dei metallurgici della Fiom.
Abbiamo scelto di riprodurre qui alcune prime pagine del giornale della Federazione, uscite proprio in occasione del Primo maggio. Lo abbiamo fatto per rimettere al centro di quella data il protagonismo dei metalmeccanici e metallurgici italiani, un protagonismo che a inizio Novecento ha permesso l’affermarsi del Primo maggio come Festa internazionale dei lavoratori anche nel nostro paese, attraverso richieste generali e generalizzabili come quella delle 8 ore lavorative.
Il Primo maggio del 1914 “Il metallurgico” apre con questo editoriale, dal titolo “Passa il lavoro!”, la propria edizione per la festa dei lavoratori. Un testo trionfale sullo sviluppo e la diffusione delle celebrazioni, un testo che fa molto riflettere se si pensa che neanche due mesi dopo l’Europa intera si sarebbe trovata nel baratro del primo conflitto mondiale.
Passa il lavoro!
[da “Il metallurgico”, a. XV, n.3 – Torino, maggio 1914]
“La festa del Primo Maggio segna ogni anni il sempre crescente trionfo della classe lavoratrice. […] Le fabbriche chiuse, le campagne verdi baciate dal sole e deserte di uomini; le officine, i forni, i negozi, le tipografie, tutto chiuso, tutto in riposo, tutto in festa. Lo sciopero generale dei lavoratori! […] Vi è un giorno dell’anno; un giorno non dedicato ad alcun santo e a nessun sovrano, e nel quale un sol sovrano si riconosce: il Lavoro, il diritto del lavoro; un giorno nel quale tutti che sono avversari, tutti che sono potenti, si sentono piccini, piccini; ed il pane non si produce e la terra non si lavora e le macchine non si muovono e i padroni diventano buoni e la pena secolare che grava sulle spalle delle genti del lavoro si ferma, si sospende, si spezza. Ciò che significa che gli uomini vanno presentendo il divenire di un mondo nuovo e la fine delle ingiustizie vecchie. Questo è il Primo Maggio.”
È il 1 maggio 1972, sono passati 25 anni dai fatti che fecero del 1 maggio 1947 a Portella della Ginestra una giornata di sangue. In quell’occasione, durante la celebrazione unitaria del doloroso anniversario, Rinaldo Scheda segretario nazionale Cgil pronunciò un discorso che vale davvero la pena di leggere e condividere, non soltanto perché ricorda un evento che ha profondamente sconvolto l’opinione pubblica e l’intero mondo politico e sindacale ma anche perché in alcuni passaggi risulta di estrema attualità.
Abbiamo pensato di condividere una parte del discorso di Scheda, la versione integrale la potete trovare nella sezione Documenti.
“…per noi, questo nostro primo maggio del 1972, è certo l’occasione per ricordare il significato di una giornata come questa che da 82 anni i lavoratori di tutti il mondo, prima in pochi, poi, anno per anno sempre di più, celebrano come la giornata dedicata alle loro lotte e ai motivi ideali che ispirano il loro impegno verso l’emancipazione della classe lavoratrice.
È certo l’occasione per ricordare qui a Portella la manifestazione del 1 maggio di molti decenni orsono, prima del fascismo, quando ai lavoratori parlava Nicola Barbato, il medico socialista di Corleone. Siamo qui per ricordare i nostri martiri caduti a Portella 25 anni orsono. Ma noi siamo qui oggi, in questo primo maggio del 1972, per dire, per dimostrare, che ci muoviamo nel solco, sulla strada tracciata dai promotori dell’appello rivolto ai lavoratori di tutto il mondo 82 anni orsono, e non siamo più una generosa ma sparuta avanguardia, rappresentiamo una massa enorme di lavoratori impegnati in Italia a ricostruire una nuova unità sindacale. […]
Ho ricordato prima che dalla strage che insanguinò queste campagna 25 anni fa ad oggi di strada è stata percorsa. Abbiamo tutti coscienza che l’Italia, la Sicilia di oggi è diversa, è cambiata nei confronti di quello che era nel 1947. […] Abbiamo però nello stesso tempo coscienza che questa Italia, questa Sicilia, pure diversa da quello che era, vive ancora in una situazione nella quale esistono gravi storture, profondi squilibri, ingiustizie intollerabili.
E ciò che ci preoccupa è che in questo stato di crisi che attraversa il paese, riemerge il pericolo di una involuzione a destra, acquista consistenza e pericolosità l’insidia reazionaria e fascista […]
Il fascismo ha avuto e può tornare ad avere un certo sostegno di massa, ingannando con una propaganda subdola strati e ceti sociali, del cui stato d’animo di delusione e di inquietudine cerca demagogicamente di farsi interprete.
Non dobbiamo dimenticare che il fascismo è anche una ideologia reazionaria, che sorge da una crisi: e cioè una posizione, un atteggiamento negativo, che prevale nei confronti di esigenze positive in campo sociale, economico, culturale e politico che non vengono soddisfatte. È cioè il “rifugio negativo” di masse, di gruppi di uomini i cui scottanti problemi non trovano una soluzione in una politica che pur viene realizzata nel quadro di un regime democratico, ma che evidentemente non è democratico nel senso più pieno o comunque presenta gravi carenze.
Si tratta di gruppi, di uomini che, anziché battersi, lottare perché siano date risposte positive alle loro esigenze, cedono alla demagogia ed all’inganno fascista o di destra”. […]
Ma non basta ricordare cosa è stato il fascismo e smascherare l’inganno che oggi viene messo in atto dagli squallidi fantasmi di un passato di ignominia.
Le iniziative di questa gente ci preoccupano certo ma abbiamo anche la tranquilla e ferma consapevolezza di chi come noi queste forze le ha già battute una volta e sapremo tornare a batterle su qualsiasi terreno”.
Se è vero che la memoria è l’elemento imprescindibile della storia collettiva, gli archivi storici della Cgil non offrono soltanto la possibilità di dare una testimonianza di ciò che è stato, ma sono un patrimonio, un’occasione per studiare il passato, per difenderlo e pensare strategicamente al futuro.
Abbiamo scelto di ricordare il Primo maggio della Liberazione e degli anni ‘50 del secolo scorso. Gli anni ‘50 furono molto difficili per il lavoro dipendente, ma furono anche gli anni in cui maturò fra i lavoratori e le lavoratrici la consapevolezza che bisognava conquistare un forte potere negoziale nei luoghi di lavoro, che contrastasse il potere unilaterale dei padroni; e per farlo bisognava essere uniti.
Sono, dunque, gli anni della grande disillusione dopo una guerra di liberazione che tante speranze aveva suscitato. Sono gli anni dell’inizio della guerra fredda, dell’entrata dell’Italia nella Nato e nel Piano Marshall, a patto che la sinistra comunista fosse bandita per sempre dal governo del paese, della scomunica papale dei comunisti.
Furono, infine, gli anni della riscossa padronale, una vera e propria rivincita contro l’idea libertaria della fase costituente della Repubblica; gli anni delle grandi epurazioni di sindacalisti e comunisti nei luoghi di lavoro. Anni che lo storico Luigi Arbizzani definì “della Costituzione negata nelle fabbriche”.
In Emilia Romagna la restaurazione padronale fu particolarmente feroce, a causa del fatto che la sinistra sindacale e politica aveva un seguito enorme. Infatti gli anni ‘50 si aprono, il 9 gennaio del 1950 con l’eccidio di Modena: sei lavoratori vengono uccisi durante una manifestazione sindacale contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite; e si chiudono con un altro eccidio di lavoratori, cinque, a Reggio Emilia durante uno sciopero generale il 7 luglio 1960. In tutto il paese tra il 1947 ed il 1954 furono 109 i morti durante le proteste.
In pratica la ristrutturazione industriale post bellica avverrà a spese degli operai e delle operaie, che solo negli anni successivi, e pagando prezzi pesantissimi, riusciranno a conquistarsi una pur piccola parte del boom economico.
Significative sono le testimonianze portate alle Assise pubbliche sulle Libertà Democratiche indette dai lavoratori della Ducati di Bologna il 17 aprile del 1955, cui parteciparono, oltre a tutto il mondo del lavoro, le istituzioni locali e lo stesso mondo cooperativo. Alla denuncia del clima autoritario e di repressione nei luoghi di lavoro, del licenziamento di migliaia di rappresentanti sindacali, si accompagnò la denuncia dell’oppressione derivata da un’organizzazione del lavoro, che mortificava le professionalità, che non consentiva ai lavoratori alcun intervento sui ritmi e sull’organizzazione del processo produttivo.
E’ l’inizio della ripresa di un confronto serrato anche nel mondo sindacale, lacerato dalla rottura dell’unità nazionale, per la realizzazione di quell’unità d’azione, che permettesse di riunire tutte le forze sindacali per fronteggiare la restaurazione padronale.
Gli anni ‘60 vedranno la ripresa forte delle lotte e la conquista di nuovi diritti per gli uomini e le donne che lavorano.
I manifesti ritratti nelle foto sono una testimonianza chiara dei temi sostenuti dai lavoratori nella festa del Primo maggio di quegli anni: il protagonismo delle donne: l’Udi solo a Bologna contava 80.000 donne; la cooperazione, che contava a Bologna 132.000 soci; le rivendicazioni; i temi internazionali; la libertà nelle fabbriche; il diritto alla casa. Infine il piacere di trovarsi insieme in festa per ribadire che senza il lavoro non c’è libertà né dignità.
Cosa resta del nostro Maggio
Da più di un mese fuori dalle abitazioni c’è solo silenzio, intervallato dall’ormai familiare cantilena di ambulanze e campane a lutto. Bergamo e le sue valli – storicamente abituate al movimento, terra di pendolarismo e migrazioni sin dal principio della modernità – si sono fermate, inaspettato epicentro di un’emergenza sanitaria globale. Scoprendo la paura, il trauma di vedere i propri cari morire senza poter dare loro un ultimo saluto consolatorio, il dramma di un'intera generazione che se ne va, lasciandosi alle spalle un patrimonio di esperienze forse troppo spesso trascurate da chi è venuto dopo.
A qualcuno potrebbe sembrare paradossale che in un contesto simile si scriva e si ragioni di lavoro, e addirittura della sua Festa. A noi della Biblioteca “Di Vittorio” della Cgil di Bergamo, che ci occupiamo proprio di conservare la memoria del lavoro, di studiarlo e raccontarlo nelle sue molteplici sfaccettature e implicazioni, sembra invece più che mai doveroso. Perché la pandemia ha avuto come conseguenza l’interruzione oppure, all’opposto, la continuità senza ragione e senza protezione di molte attività produttive, obbligandoci a ripensare il lavoro nel più ampio contesto di un sistema di sviluppo che si misura con la contraddizione tra produzione e salvaguardia di salute e ambiente. E perché, in questa fase, stare a casa allo scopo di evitare il contagio significa anche non poter festeggiare come tradizionalmente si è fatto alcune delle ricorrenze civili che dettano il calendario della democrazia in Italia e nel mondo. In particolare, in questo 2020, dopo il 25 Aprile, non ci è consentito scendere in piazza per celebrare il Primo maggio, la Festa dei lavoratori.
Eppure, la storia del Primo maggio ha molto da raccontare in funzione della crisi del lavoro che oggi colpisce al punto tale da far registrare richieste di ammortizzatori sociali per più della metà dei dipendenti del settore privato nella provincia orobica. È questa una delle ragioni concrete, al di là dell’adesione ideale, per cui siamo tra i promotori dello spazio che ospita questo scritto e una parte della documentazione sul Primo maggio conservata presso il nostro archivio. Nelle vicende e nella cronologia della Festa dei lavoratori a Bergamo, infatti, c’è un particolare intreccio tra il protagonismo sociale e politico di un gruppo di donne e di uomini che ha contribuito a (ri)costruire il sindacato, e la compiuta affermazione dell’identità operaia come segno insieme di appartenenza e di lotta.
Ne sono dimostrazione le testimonianze (molte delle quali, sono presentate in “Se sono diventato sindacalista è per la Resistenza” di Giuliana Bertacchi ed Eugenia Valtulina) e le fotografie raccolte negli anni, a partire da quella dei tranvieri che nel 1918 posano composti di fronte all’obiettivo, un gruppo misto, perché sono molte in quel momento le donne che sostituiscono gli uomini al fronte. Ordinato e imponente è anche il corteo del Primo maggio 1922 sul lungolago di Lovere, l’ultimo prima dell’irruzione del fascismo. La festa celebrava allora il rinnovamento e la speranza e coincideva con l’inizio della primavera, disegnando orizzonti futuri di riscatto per le classi lavoratrici. Una giornata che non avrebbe conosciuto il radicamento di cui invece sappiamo, se non fosse coincisa con una delle fasi più ottimistiche per la storia del movimento operaio, un lungo e progressivo processo di costruzione dell’identità di classe che trovava nel Primo maggio uno dei momenti più simbolici.
Di fatto, nemmeno il fascismo seppe spegnere la spinta conviviale del Primo maggio, che alcuni lavoratori ricordavano, esibendo un fiore all’occhiello o un particolare tipo di cappello di paglia e, a volte, fuggendo verso le colline circostanti la città per cantare e bere.
Ed è nell’immediato dopoguerra che la festa del Primo maggio si associa non più alla costruzione, ma alla ricostruzione, anche organizzativa, del movimento operaio. Mentre ancora echeggiano gli spari, il Primo maggio 1945 si salda – idealmente e cronologicamente – con il 25 aprile e il Comitato provvisorio della Camera del lavoro di Bergamo e provincia si rivolge ai lavoratori, alle lavoratrici e a tutti i partigiani proponendosi come la “casa” delle forze popolari.
Gli anni Cinquanta sono l’apoteosi del Primo maggio a Bergamo. La grande manifestazione del 1950, preparata anche come prova di forza della Cgil nei confronti della Cisl appena scissa, in un territorio a fortissima vocazione cattolica, è spesso rievocata come un passaggio mitico nella storia della confederazione orobica. Il lungo corteo, la massiccia partecipazione popolare, i carri, la musica, gli spettacoli e persino i fuochi d’artificio serali (di cui ha ampiamente dato conto l’allora segretario socialista della Camera del lavoro Vittorio Naldini nel suo I rossi, i bianchi, i padroni, di cui è testimonianza l'intervista all'altro segretario camerale di allora, il comunista Carlo Paratico, e di cui ha fornito un’analisi Francesco Mores nel volume Questa voglia di cambiare la condizione umana) sono il segno di un enorme desiderio di coinvolgimento in cui, insieme all’appartenenza di classe, si afferma e sviluppa - anche dal punto di vista iconografico - l’espressione della soggettività operaia: ogni nucleo di lavoratori sfila dietro uno stendardo che reca il nome della propria fabbrica, quasi a rimarcare un’unione profonda con il proprio luogo di lavoro. Era allora un’abitudine presentarsi nelle assemblee sindacali prima con il nome della fabbrica di appartenenza e poi con il proprio nome di battesimo: “Lavoro alla Magrini, mi chiamo…”. In alcune occasioni, e ne è rappresentazione la fotografia del 1954 con le operaie del calzificio Germani che sfilano lavorando sul camion della ditta, si dismette l’abito della festa per esibire l’uniforme da lavoro. Una tradizione che non ha nulla del carnevalesco e che, invece, salda l’orgoglio operaio alla rivendicazione della propria condizione.
La manifestazione del 1950 è l’avvio di una tradizione che prosegue (i due video del 1962 e 1964 ne sono ulteriore conferma) e si consolida nel decennio successivo, fino ad arrivare al 1971, primo grande corteo unitario. I sindacati confederali si riuniscono per festeggiare il Primo maggio e i cartelli recitano parole d’ordine che, come nell’immediato dopoguerra, esprimono un profondo sentimento antimilitarista: pace ed educazione scandiscono le battaglie del lavoro. Ad esse si aggiungerà poi il tema della salute e dell’ambiente di lavoro.
Dagli anni Ottanta la celebrazione tende a diventare un rituale cristallizzato in un corteo silenzioso e nei discorsi ufficiali dal palco allestito in Piazza Vittorio Veneto. In uno dei testi pubblicati nel catalogo della mostra fotografica di Uliano Lucas, Lavoro/lavori, Sergio Cofferati scrive che poco a poco dalle immagini sindacali “spariscono anche le piazze e i luoghi aperti, e la maggior parte delle fotografie documenta iniziative in teatri e sale cinematografiche: grandi palchi della presidenza, striscioni, slogan, persone che parlano al microfono e facce di dirigenti sindacali che ascoltano. Come se ormai non ci fosse più alcuna necessità di osservare e studiare il lavoro, come se si sapesse già tutto ciò che bisogna sapere, definitivamente”.
Una riflessione amara che a vent’anni di distanza dalla pubblicazione del volume non ha perso del tutto validità: il lavoro è rimasto per anni confinato in un cono d’ombra, forse frantumandosi insieme alla frammentazione dei soggetti e delle identità dei lavoratori.
In questo senso, alle soglie di una crisi che da sanitaria si sta trasformando in economica e dunque sociale, il Primo maggio ha ancora molto da trasmetterci e insegnarci. Occorre recuperarne i simboli, inclusi l’allegria e il drappo rosso che sventola attorno a quella tavola in uno degli scatti degli anni Settanta che ritrae i canti e i pranzi in campagna, rituali dopo la manifestazione in città. Tra i due poli - costruzione e ricostruzione - è di nuovo il momento di ribadire il diritto nel lavoro, ma prima ancora al lavoro , per le tante e i tanti che non hanno occupazione o che la stanno perdendo. Resta intatto il dovere per la memoria di chi ha contribuito a costruire e ricostruire e che oggi ci lascia, segnando un passaggio generazionale di cui sentiamo il bisogno di raccogliere l’eredità.
La festa del lavoro nella Repubblica ha assunto significati ampi e partecipati, diventando la rappresentazione della società nelle sue diverse epoche. Da giornata di astensione dal lavoro e di mobilitazioni si è allargata, includendo la socialità e la “cultura” dei lavoratori, con eventi sportivi e ludici come i balli, la musica, la cucina. Una festa popolare dunque. Agli aspetti prettamente rivendicativi e a quelli politici col tempo si è affiancata una ritualità, un farsi “tradizione”, attraverso un percorso di adattamento e mutamento che ci ha lasciato in eredità un complesso di consuetudini, come la distribuzione dei garofani rossi, radicate nell’immaginario di larghe fasce sociali. Attraverso il Primo maggio è dunque possibile osservare i mutamenti della società italiana, del mondo del lavoro e del lavoro stesso, con le sue rivendicazioni: a lavori che scompaiono, come i contadini, fanno riscontro altri che emergono, come il terziario, il commercio, i lavori della conoscenza, fino a quelli che permangono, come gli operai.
Nel secondo dopoguerra i sindacati furono all’opera per rimettere in campo la celebrazione, proibita dal fascismo. Con la Repubblica il Primo maggio si prendeva un posto, sancito anche dal carattere di festa nazionale attribuitogli dalle istituzioni. Nel pistoiese si giunse a una prima messa a punto sistematica del suo svolgimento negli anni successivi alla rottura dell’unità sindacale del 1948. Fu un’opera portata avanti dalla Cgil, a partire dal biennio 1950/51, ed in particolare dal sindacato dell’agricoltura, la Confederterra. Il momento centrale si andò articolando attorno al corteo del capoluogo, Pistoia, senza però tralasciare la diffusione locale, esplicata nelle tante più piccole manifestazioni degli altri centri, che andavano da cortei e comizi veri e propri alle “veglie” nell’aia, politicizzando un’antica tradizione del mondo mezzadrile.
Il corteo di Pistoia, salvo qualche minimo cambiamento di percorso, è da sempre lo stesso, una sfilata per le vie del centro cittadino con l’arrivo finale nella piazza del Duomo. La partenza è sempre stata davanti alla sede della Camera del Lavoro. Fin dagli anni ’50 emerse una sua strutturazione interna, a tutt’oggi immutata. La prima parte del corteo riservata alle rappresentanze istituzionali, con i loro gonfaloni, e alla banda comunale, segnale della piena cittadinanza dentro allo Stato conquistata dal “popolo lavoratore” con la Repubblica, seguita da uno “spezzone” più politico, con gli striscioni contenenti messaggi di stringente attualità, ed a ridosso le rappresentanze dei lavoratori, a partire da quelle delle aziende o fattorie in lotta. Già in quel decennio si fece strada con forza la pratica di non far sfilare solamente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche i simboli del loro lavoro, i trattori per le campagne e gli autobus prodotti nella fabbrica cittadina. All’unità dei lavoratori, simboleggiata dall’alleanza tra contadini e operai, i “mezzi meccanici”, come venivano chiamati, aggiungevano altri significati simbolici. Erano cioè una dimostrazione di modernità, utili per attirare i giovani e a mostrare con orgoglio il prodotto della fatica e della professionalità dei lavoratori. Sempre a quegli anni risale l’organizzazione della distribuzione dei garofani rossi da parte delle donne, una presenza mai venuta meno.
A partire dalla seconda metà degli anni ’50, e con sempre più forza negli anni ’60, intorno al corteo sorsero una miriade di eventi collaterali, dalla lotteria al torneo sportivo, dalle mostre di pittura alla gara di ballo, con il corollario di cene e feste, nel capoluogo organizzate nel parco di Monteoliveto. La data penetrava in profondità nella società locale, divenendo un riflesso delle trasformazioni dell’Italia e degli italiani, con le loro passioni politiche. Nelle cronache della festa si ritrovano i segnali della Storia, dall’operaio che in una riunione nel 1968 chiedeva maggior attenzione agli studenti alle diatribe tra i vecchi sindacalisti e i più giovani, che nel 1969 pretendevano di sfilare nel corteo con le loro lambrette “smarmittate”, una nota che può sembrare di costume ma che ci racconta, con una battuta, il cambiamento epocale, sociale e culturale che affrontava l’Italia in seguito al miracolo economico. Emergevano nuovi attori e nuovi oggetti. E sempre su questa scia vanno lette le preoccupazioni per la partecipazione degli “autonomi” ma soprattutto il prepotente ingresso del femminismo in piazza del Duomo nel 1977, quando un gruppo di donne dette fuoco al manichino di una strega, danzando in cerchio, dando vita a reazioni impreviste e inaspettate, come quelle della Cisl che si schierò dalla loro parte a differenza del Pci che le contestò.
Un’altra costante è stata sempre la spinta all’unità dei lavoratori. La ritroviamo nei discorsi preparatori tutti gli anni, unita a un’attenzione a far sì che fosse il lavoro, con le sue rivendicazioni, il vero protagonista della giornata, prima e sopra la politica. Da qui le continue attenzioni e cure contro le strumentalizzazioni, da qui una costante e lunga ricerca di una celebrazione unitaria tra le organizzazioni sindacali. Una ricerca che a fine anni ’60 era sempre più pressante, all’alba di una grande stagione di lotte e di riforme, tale da suscitare anche l’intervento delle Istituzioni a suo favore. L’unità nelle celebrazioni fu raggiunta a piccoli passi e faticosamente, dapprima con l’adesione delle Acli al corteo della Cgil nel 1971, seguita l’anno dopo da quella della Cisl, mentre la Uil ancora se ne teneva fuori, duramente criticata, mentre si cercava di allargare la spinta unitaria anche agli studenti, invitati ufficialmente a prender parte al corteo con una lettera del 1971. Solo tra il 1972 ed il 1973 aderiva anche la Uil, dapprima con alcune categorie e poi con tutta la confederazione. Ma l’unità è sempre stata un risultato da tener stretto, rimesso in discussione nel decennio dopo dalla Cisl, che nel 1984, in seguito al decreto di San Valentino, sfilava via nonostante fosse duramente criticata dalla Chiesa locale, che dal 1979 aderiva alla giornata organizzando la santa messa nella cattedrale. Una ferita che fu sanata solo quattro anni più tardi, nel 1988, quando nuovamente il Primo maggio tornava ad essere celebrato in maniera unitaria. Tra gli anni ’80 e ’90 iniziavano i primi interventi di rinnovamento della festa nel solco di quella che ormai era la tradizione. Nel 1989 veniva inserita una festa per i bambini, e molti interventi nelle riunioni preparatorie rimarcavano che i trattori non erano solo folklore ma racconto ed espressione del lavoro, di quel mondo agricolo trenta anni prima ancora così importante e presto dimenticato, mentre altri proponevano una nuova popolarizzazione della festa, con feste, pranzi e balli, pratiche di socialità andate perse nel decennio delle grandi passioni dei ’70. Iniziava timidamente a muovere i suoi passi una nuova forma di diffusione territoriale, accanto a quella sindacale, affidata alle strutture che il movimento dei lavoratori nei decenni aveva costruito sul territorio, a partire dai circoli Arci, che nel passaggio di secolo radicavano una “nuova” tradizione di feste e pranzi. La socialità di nuovo legata al lavoro, alla politica e alle comunità locali, espressione della vitalità di una giornata che ha sempre travalicato i suoi stessi confini.
Con i primi due decenni del XXI secolo al Primo maggio si affianca sempre più una popolarizzazione del 25 aprile, che ne recupera gli aspetti sociali e festivi, intercettando una grande partecipazione. Alla festa del lavoro continuano a venire affidati messaggi politici e rivendicazioni, a partire dalla crisi economica del 2008 sempre più declinati sulla difesa dei diritti e dell’occupazione e contro la precarietà fino a questo Primo maggio del 2020, che pur non potendo praticare le piazze non rinuncia a porre i temi della salute e della sicurezza sul lavoro e del lavoro in vista dell’incerto futuro.
Nel difficile e complicato momento che stiamo vivendo le foto storiche del Primo Maggio acquistano una particolare forza e potenza evocativa. Forse perché, nella condizione di distanziamento ed isolamento sociale cui siamo costretti, le immagini di quello stare insieme ci arrivano come mai dritte, dritte al cuore. In un lampo ci trasportano in quello sfilare che ogni anno si ripete e si rinnova, in quel camminare uniti per esserci, per contare. Ci proiettano in quella grande storia partecipativa e di festa che il Primo Maggio ha rappresentato e continua a rappresentare, dando un volto alle migliaia e migliaia di lavoratrici e di lavoratori che, prima di noi, con fermezza e dignità, con tenacia e ostinazione si sono messe in cammino nelle strade e nelle piazze di città e paesi.
A Trieste la storia della Festa del lavoro risale al periodo a cavallo tra Otto e Novecento. Sono gli anni in cui la città è centro portuale e industriale di grande rilevanza per l’Impero asburgico, con un proletariato fortemente composito, formato, oltre che da lavoratori indigeni, italiani e sloveni, anche da moltissimi immigrati. Tra queste prime celebrazioni, quella del 1902 occupa un posto di particolare rilievo nella storia del movimento sindacale triestino in quanto diretta espressione di un internazionalismo operaio la cui forza comunicativa e partecipativa deriva dall’averlo sperimentato, pochi mesi prima, nel grande sciopero generale di solidarietà alla lotta dei fuochisti del Lloyd austriaco. Conclusosi con un comizio in tre lingue, italiano, tedesco, sloveno, il Primo maggio del 1902 è quello che nella dimensione locale concorre forse maggiormente a fissarne i tratti identitari e fondanti ancorandolo nel lungo periodo, non solo idealmente ma anche nella pratica, alla festa di tutti i lavoratori del mondo, ad una dimensione partecipativa che, seppur con contraddizioni e problematicità diverse, continuerà nel tempo ad essere celebrata, sentita, vissuta come espressione di un attore collettivo internazionale. Non solo. Il Primo maggio del 1902 costituisce anche una delle prime importanti prove per il sindacato triestino, a quel tempo strutturato secondo il modello austro-tedesco. Un sindacato che, anche dopo il passaggio di Trieste all’Italia, sarà chiamato a rappresentare una conflittualità operaia particolarmente complessa, ad assumersi la responsabilità di organizzarla e portarla nello spazio pubblico in modo ordinato, contenuto, pacifico. È una prova che perdura nel tempo, per divenire più difficile nei principali momenti di snodo storico della città. Così negli anni che seguono sia la fine della prima che la seconda guerra mondiale, segnati prima dalla violenza di un movimento fascista che nella città si distingue per la precocità e la rapidità della sua affermazione, poi da una ricostruzione sociale, politica ed economica su cui pesano enormemente la questione dell’assetto del confine orientale, il clima e il contesto della guerra fredda. Sono gli anni che, fino al 1954, vedono Trieste sottoposta all’amministrazione angloamericana, durante i quali il Primo Maggio è espressione di una lotta di classe che, soprattutto nel periodo che precede la condanna cominformista di Tito e del socialismo jugoslavo del 1948, sarà investita da una conflittualità sociale e politica particolarmente accesa e complessa. Una conflittualità in parte derivante dalle molte difficoltà materiali ed emergenziali che affliggono il territorio, ma anche e soprattutto dal complicato percorso attraverso il quale nella città si realizza il passaggio dal fascismo alla democrazia, la ricostruzione della cittadinanza e dei suoi organismi di rappresentanza. Tuttavia, in questo periodo, la celebrazione della festa del lavoro porta nello spazio pubblico una massa che forse come mai si presenta sulla scena organizzata e ordinata, composta e disciplinata. Nel ricalcare forme di partecipazione e di rappresentazione che si collocano tra la festa popolare e la parata militare, il Primo maggio è l’occasione per mostrare alla città la forza delle masse operaie, per esibirla, oltre che nel suo peso numerico, anche come forza fisica, muscolare. Così, ad esempio, in quello sfilare di gruppi giovanili dai corpi robusti, atletici, prestanti, in quello sventolare di altissime bandiere, portate dai lavoratori con solennità e insieme leggerezza, quasi fossero senza peso.
Dopo il ritorno della città all’Italia, il Primo maggio triestino riprenderà il suo cammino con un passo diverso, quello della celebrazione di una festa del lavoro che può finalmente divenire festa repubblicana. Nel farsi espressione di una rinnovata dignità e compostezza, è un cammino che conosce la sua prima importante messa in scena nel maggio del 1956: in quel lungo corteo che assieme ad un giovane Luciano Lama sfila nella città per riunirsi, di lì a poco, ed ascoltarlo nel comizio finale. È il Primo maggio che segna gli ultimi momenti dell’integrazione delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori triestini costituitesi nel maggio 1945, i Sindacati Unici, nella Cgil nazionale, preceduti, pochi mesi prima, dall’Assemblea costituente e dalla nascita della nuova Camera confederale del lavoro.
Le profonde e radicali trasformazioni economiche, sociali, politiche, culturali e demografiche da cui la città è interessata nella seconda metà del Novecento pongono al Primo maggio nuove prove, nuove sfide dettate da un contesto che sempre più vedrà proprio il lavoro, e la sua rappresentanza, tra i principali protagonisti del mutamento. È uno sforzo che lo porta ad aprirsi a nuovi strumenti e linguaggi, ad innovare le sue tradizionali forme di partecipazione e rappresentazione, restando tuttavia saldamente ancorato al suo passato, alla sua eredità di lotte ed esperienze, fino a spingersi verso un cammino che si fa corsa in avanti, che diviene esplosione di coloratissime bandiere.
Modena - Quando la festa del Primo maggio non poteva essere festeggiata…
Non è la prima volta che i lavoratori non possono festeggiare liberamente in piazza il Primo maggio. Celebrata come giornata internazionale dei lavoratori dal 1890, diventa un avvenimento cruciale nel calendario delle organizzazioni dei lavoratori. Normalmente, in tale occasione i periodici operai vengono stampati a colori, per sottolineare l’importanza della data, e le organizzazioni sindacali si impegnano nell’organizzare comizi e manifestazioni. Tale celebrazione a più riprese l’ostilità del governo e delle forze conservatrici, come confermato dal documento della Camera del lavoro di Carpi riferita al Primo maggio 1909.
Con il fascismo questa festa ‘sovversiva’ è soppressa, sostituita nel 1923 dal ‘Natale di Roma’, festa del lavoro celebrata il 21 aprile di ogni anno. Continuerà ad essere celebrata solo all’estero, dove trovano rifugio migliaia di antifascisti. Questo avviene in particolare in Francia dove, per la forte emigrazione anche economica, sono presenti quasi un milione di italiani. La celebrazione del Primo maggio diventa un momento importante per il loro coinvolgimento nella vita sindacale e nell’impegno antifascista, come testimonia il manifestino relativo al Primo maggio 1924 nella cittadina francese di Reims.
Durante il regime per i lavoratori italiani il Primo maggio assume quindi un forte significato simbolico. Festeggiare, in qualsiasi modo, la data, diventa una forma importante di opposizione al fascismo e di mantenimento della propria identità politica e di classe. L’importanza simbolica viene colta anche dal fascismo che non soltanto abolisce la festività ufficiale, ma impegna con grande spiegamento di forze i propri organi repressivi per impedire qualsiasi celebrazione da parte della classe lavoratrice. Non è un caso che nei fascicoli dedicati al ‘Movimento sovversivo’ della polizia per vari anni ci sia quello relativo proprio al Primo maggio, con rapporti di questori e prefetti sulle situazioni locali.
A Modena sono soprattutto i comunisti a mantenere vivo il ricordo della festa del lavoro, con lanci e affissioni di manifestini. Il primo episodio viene registrato dalla polizia nel 1923, quando “ignoti” lanciano una “quantità non trascurabile” di manifestini nel quartiere operaio della Sacca. Nel 1926 il prefetto informa il ministero dell’Interno che la giornata del Primo maggio è passata senza avvenimenti di rilievo, anche se sono segnalate “sporadiche” esposizioni di bandiere rosse e il rinvenimento di manifestini della gioventù comunista, “immediatamente sequestrati dalla polizia”. Il 29 aprile inoltre viene fermato un dirigente socialista, in possesso di un lungo volantino dattiloscritto dell’Internazionale operaia socialista, che spiega il significato della data.
Il ricordo del Primo maggio diventa una modalità utilizzata soprattutto da vecchi militanti socialisti per richiamare nel presente le lotte passate; i casi sono numerosi, uno dei più rilevanti è quello che vede protagonista il bracciante socialista di Spilamberto Giuseppe Luppi, il quale tutti gli anni in occasione di tale data passeggia per il paese con indumenti di colore rosso, venendo immancabilmente fermato dai carabinieri.
Anche nelle zone di bonifica tra il basso modenese e quello reggiano il Primo maggio sono effettuati controlli sugli ‘scarriolanti’, gli operai che movimentano la terra degli scavi per costruire i canali d’irrigazione, perché se nella pausa pranzo vengono sorpresi mentre mangiano dei cappelletti o dei tortellini - tipici piatti dei giorni di festa o di occasioni importanti -, allora vuol dire che stanno celebrando la festa del lavoro.
Il richiamo alla festa continua anche negli anni Trenta, nonostante i rischi sproporzionati nel caso si venga intercettati. Il 28 aprile 1930 vengono distribuiti volantini che recitano “1° maggio, tutti fuori delle officine”. Uno dei diffusori è arrestato e condannato a 3 anni e 15 giorni di reclusione. Nel 1935 altri antifascisti sono arrestati per la diffusione di un volantino inneggiante al Primo maggio, che ci è pervenuto perché trovato in una perquisizione del comunista Bruno Losi, che sarà poi partigiano e nel dopoguerra sindaco di Carpi.
Dopo il 1936 le continue retate della polizia mettono definitivamente in crisi l’antifascismo in provincia, e l’asfissiante sorveglianza nei confronti degli attivisti rende sempre più complicato organizzare qualsiasi forma di espressione del dissenso, specialmente in una data delicata come quella del Primo maggio. Ma con lo scoppio della Seconda guerra mondiale il dissenso si riattiva, e durante la guerra sono segnalate a più riprese diffusioni di volantini inneggianti al Primo maggio, un altro sintomo del distacco e dell’ostilità della popolazione nei confronti del regime.
La proposta di celebrare il primo maggio ripercorrendo la nostra storia in una mostra virtuale che è scaturita dai nostri colleghi di Bergamo è stata accolta con entusiasmo dalla Toscana. Quest’anno è un primo maggio speciale più difficile e doloroso per molti, ma è anche un’occasione che ci può unire più profondamente. Il filo conduttore nel ripercorrere le tappe della nostra storia con documenti e immagini è la continuità del movimento operaio fiorentino nei i valori che sin dagli albori, dalla nascita della Camera del Lavoro a Firenze e della CGIL ci hanno sempre sostenuti. Abbiamo scelto tre foto.
La prima foto risale al 1° maggio del 1909, appena 3 anni dopo la fondazione della CGIL e 20 anni dopo il congresso della Seconda Internazionale di Parigi, con cui si decise di organizzare una manifestazione per ridurre le ore lavorative ad otto. Da essa emerge la voglia di inserirsi nel contesto storico del centro, dei suoi monumenti, quasi una riappropriazione della città e della sua memoria secolare (del resto la sede della Camera del Lavoro, per una scelta caparbiamente perseguita, è, nel secondo dopoguerra, lo storico Palazzo Peruzzi di Borgo de’ Greci), che colloca gli operai, gli impiegati, le donne, a fianco della Loggia dei Lanzi, di Piazza Santa croce, del Duomo.
Un secondo gruppo di foto ritrae alcuni scorci della manifestazione in Piazza S. Croce del Primo Maggio del 1949 in cui nei volti dei partecipanti si percepisce ancora il vissuto della guerra e la voglia di rinascita. Gli sguardi si dividono tra l’attenzione al contesto, alle parole degli oratori, la preoccupazione, l’affermazione di una propria soggettività, quasi che il contesto legittimasse e “proteggesse” la volontà costruttiva e produttivista che si legge nello striscione degli operi della Fiat, in un momento, il 1949, durissimo per il sindacato. Le abbiamo scelte perché il dopoguerra è un periodo a cui ci sentiamo profondamente vicini in questa fase così difficile di guerra contro il virus. Condividiamo con i lavoratori di allora sofferenze e speranze di una ricostruzione di una società nuova.
Questi sono i documenti che la CGIL Toscana ha scelto. I temi che ricorrono sono quelli delle lotte per le 8 ore di lavoro, della sicurezza sul lavoro e la salute dei lavoratori, l’impegno per la pace e l’ambiente, le lotte per la democrazia contro le dittature e per l’autodeterminazione dei popoli.
La pandemia e la sofferenza che ha portato con sé ci ha permesso di capire con maggiore lucidità quali sono i valori e le priorità per le persone e la CGIL. Ripercorrendo le immagini del primo maggio si scopre che questi valori coincidono con la nostra storia. E’ da questi valori che bisogna partire per ricostruire. Da qui nasce la nostra occasione di riscatto.
Buon primo maggio a tutti!