14 agosto 2020

La stazione


Il mio non arrivo nella città di N.

È avvenuto puntualmente.


Sei stato avvertito

con una lettera non spedita.


Hai fatto in tempo a non venire

all'ora prevista.


Il treno è arrivato sul terzo binario.

È scesa molta gente.


La mia persona, assente,

si è avviata verso l'uscita tra la folla.


Alcune donne mi hanno sostituito

frettolosamente

in quella fretta.


A una è corso incontro

qualcuno che non conoscevo,

ma lei lo ha riconosciuto

immediatamente.


Si sono scambiati

un bacio non nostro,

intanto si è perduta

una valigia non mia.


La stazione della città di N.

Ha superato bene la prova

di esistenza oggettiva.


L'insieme restava al suo posto.

I particolari si muovevano

sui binari designati.


È avvenuto perfino

l'incontro fissato.


Fuori dalla portata

della nostra presenza.


Nel paradiso perduto

della probabilità.


Altrove.

Altrove.

Come risuona questa parolina.

Ho incontrato questa poesia fra le tante di un volume che raccoglie tutta la produzione di Wislawa Szymborska, poetessa polacca dallo stile dolce e scorrevole. Ricordo di essere stato colpito dalle strofe centrali:


A una è corso incontro

qualcuno che non conoscevo,

ma lei lo ha riconosciuto

immediatamente.


Si sono scambiati

un bacio non nostro,

intanto si è perduta

una valigia non mia.


La stazione della città di N.

Ha superato bene la prova

di esistenza oggettiva.



Mi è sembrato di riconoscere in questi versi una vertigine abbastanza celebre nella letteratura: il “perturbante” di Freud, vale a dire «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.» (Freud, 1919). Nella fattispecie, per quanto la narratrice sia certa dell’esistenza autonoma di miliardi di persone attorno a lei, la realtà rimane per lei “paradiso perduto della probabilità”; il momento di consapevolezza rende le comparse della stazione dei protagonisti anche fuori scena, anche se le loro vicende non sono note. Un passo di Proust può aiutare molto:


Ahimè! fu proprio quel fantasma che vidi quando, entrato in salotto senza che la nonna fosse stata avvertita del mio ritorno, la trovai che leggeva. Io ero là, o piuttosto non c’ero ancora, perché lei non lo sapeva e, come una donna che viene sorpresa intenta a far qualcosa che cercherà di nascondere se qualcuno dovesse entrare, era in balia di pensieri che non avrebbe mai mostrato dinanzi a me. Di me - grazie a quel privilegio che non dura che un attimo e durante il quale abbiamo, nel breve istante del ritorno, la facoltà di assistere bruscamente alla nostra assenza - non c’era presente in quel momento che il testimone, l’osservatore, in cappello e cappello da viaggio, l’estraneo che non appartiene alla casa, il fotografo che viene a prendere una foto di luoghi che non si vedranno più. Infatti ciò che si fissò meccanicamente nei miei occhi quando vidi la nonna fu appunto una fotografia. […] Ma se al posto del nostro occhio ci fosse un obiettivo puramente materiale, una lastra fotografica, all’ora nel cortile dell’Accademia, invece del gesto di un accademico che uscendo vuole chiamare un fiacre, vedremmo la sua esitazione, le sue precauzioni per non cadere all’indietro, la parabola della sua caduta, come se fosse ubriaco o il suolo coperto di uno strato di ghiaccio. Lo stesso succede quando qualche crudele astuzia del caso impedisce alla nostra intelligente e pietosa tenerezza di accorrere in tempo per nascondere ai nostri occhi ciò che non devono mai contemplare, quando gli occhi la precedono e, arrivando primi sul posto, abbandonati a se stessi, funzionano meccanicamente come pellicole […].


La riflessione corrisponde effettivamente ai versi centrali di Szymborska. In sintesi, una semplice distrazione per uno scherzo del destino può farci conoscere come per la prima volta ciò che ci è perfettamente familiare: la vecchiaia della nonna, l’uomo che chiama un fiacre, perfino il naso di Gengé di Uno, nessuno e centomila, nel nostro caso le vite nascoste nell’andirivieni della stazione.

Questa è la contraddizione in seno alle strofe centrali, che mi hanno colpito inizialmente e di cui si è parlato finora, ma finora si è affrontata la poesia così:


Il mio (non) arrivo nella città di N.

È avvenuto puntualmente.


Sei stato avvertito

con una lettera (non spedita.)


Hai fatto in tempo a (non) venire

all'ora prevista.


Il treno è arrivato sul terzo binario.

È scesa molta gente.


La mia persona(, assente,)

si è avviata verso l'uscita tra la folla.

Alcune donne mi hanno sostituito

frettolosamente

in quella fretta.


A una è corso incontro

qualcuno che non conoscevo,

ma lei lo ha riconosciuto

immediatamente.


Si sono scambiati

un bacio non nostro,

intanto si è perduta

una valigia non mia.


La stazione della città di N.

Ha superato bene la prova

di esistenza oggettiva.


L'insieme restava al suo posto.

I particolari si muovevano

sui binari designati.


È avvenuto perfino

l'incontro fissato.


(Fuori dalla portata

della nostra presenza)


Nel paradiso perduto

della probabilità.


Altrove.

Altrove.

Come risuona questa parolina.

Non possiamo trascurare le parole fra parentesi, pena la perdita di un altro importante tassello di questo strano puzzle. La narratrice nega costantemente di trovarsi nella stazione della città di N., ma la descrizione di ciò che accade non solo è particolareggiata, ma è caratterizzata da un tono stranamente assertivo: è difficile credere alle sue parole.

Ora quindi i paradossi sono due, ma il secondo non aiuta a sciogliere il primo, che si nutre della vista, degli occhi come pellicole, per poter scardinare il senso comune, ma come può convivere questo con un racconto che giocoforza è il frutto dell’immaginazione?

E’ incredibile come uno stile così fine e quasi colloquiale sia la veste di una trama che, più la si guarda, più si contorce: anche questa è una contraddizione.


Davide Filippi


FONTI:

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Vol. III, “I Guermantes”, Trebaseleghe, Rizzoli, 2017, p.162-163

Sigmund Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, 1991, p. 169

Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), a cura di Pietro Marchesani, Cles, Adelphi, 2017, p. 199, 201





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