28 febbraio 2020

Vogliamo essere come il sole

Qualche tempo fa ho trovato una poesia di Konstantin Balmont. Si intitola “Vogliamo essere come il sole” ed è stata pubblicata nel 1903. È curioso che non si trovi su internet, visto che l’autore è considerato uno dei più grandi poeti del Simbolismo russo.

Avendola scartata alla svelta in passato e riletta solo di recente mi sento in dovere di scrivere una piccola introduzione. Per cominciare mi appoggio a Proust:


Domandai poi al duca di presentarmi al principe d’Agrigento. “Come? non conoscete quell’ottimo Gri-Gri” esclamò M. de Guermantes, e fece il mio nome al principe d’Agrigento. Il suo, tanto spesso citato da Françoise, mi era sempre apparso come un vetro trasparente, dietro il quale vedevo stagliarsi, in riva ad un mare violetto per i raggi obliqui di un sole d’oro, i cubi rosa di una città antica di cui non dubitavo che il principe – di passaggio a Parigi, grazie a un momentaneo miracolo – fosse l’effettivo sovrano, altrettanto luminosamente siciliano e gloriosamente patinato. Ahimé! Quel volgare farfallone a cui venni presentato e che, per salutarmi, con greve disinvoltura, fece una piroetta che credeva elegante, non aveva niente a che vedere con il suo nome, come fosse stato possessore di un’opera d’arte ma senza riceverne su di sé alcun riflesso, senza averla forse nemmeno guardata. […] Così di trovava ad essere ad un tempo l’unico uomo al mondo che fosse principe d’Agrigento e forse l’unico al mondo che lo fosse di meno. Era d’altronde molto contento di esserlo, ma come un banchiere è felice di avere molte azioni in una miniera senza peraltro curarsi se questa miniera risponde ai nomi graziosi di Ivanhoe e di miniera Primerose, o se si chiama semplicemente Miniera N° 1.


Per l’autore dell’estratto sopra, simbolista come Balmont, le parole sono cariche di un fascino evocativo tutto soggettivo, che non fa distinzione fra una poesia e, appunto, un nome qualsiasi. Nel primo caso, però, si fa spesso seguire da un limbo dove il senso dei versi si nasconde o si presenta solo per accenni.

Mi spiego meglio, e visto che Proust ci ha portato ad Agrigento, potremmo pensare alla scorza profumata di un’arancia per il fascino di prima, alla parte bianca per il momento in cui il significato non ci è chiaro e alla polpa per il contenuto che l’autore ha voluto ordinare nella forma che abbiamo davanti.


Vogliamo essere come il sole


Ho imprigionato i mondi con un mio sguardo,

sono il padrone.


Chi è eguale a me nella mia forza melodiosa?

nessuno, nessuno.


Ricorderemo solo che in un sogno d’oro

aspiriamo eternamente a ciò che è diverso,

nuovo forte, buono, cattivo.


Sei felice? Sii due volte più felice,

sii l’incarnazione di una fantasia improvvisa!

Solamente non indugiare in una calma immobilità,

avanti, ancora, fino al confine segreto,

avanti, ci invita il giorno fatale,

all’eternità, dove divampano nuovi fiori.

Vogliamo essere come il sole, esso è giovane.

In questo è il segreto della bellezza!


Sono l’astro sempiterno

infuocato tramonto di vittoria.


Amate i vostri sogni di un amore sconfinato,

fate che essi divampino e che non si consumino

debolmente.


Si potrebbe cominciare dal cuore della poesia, la strofa più lunga, e in particolare dall’espressione che dà il titolo alla raccolta a cui appartiene: “vogliamo essere come il sole”. Qui nasce la prima di alcune contraddizioni, tanto care alla poesia simbolista per ragioni su cui bisognerebbe dilungarsi.

Dicevo, quindi, che il sole è paradossalmente giovane per Balmont, e non c’è verso di venirne a capo, se non associando il suo movimento costante -secondo la nostra prospettiva, logicamente- con la gioventù, l’età dell’energia e del cambiamento.

L’immagine in questione ci torna utile per sciogliere un’altra contraddizione poco sopra, per cui la morte (“confine segreto” e “giorno fatale”), pur essendo la condizione che ci costringe all’immobilità eterna, viene esaltata e incorporata nella “poetica dell’azione”, sostenuta in tutta la poesia. Potrebbe essere una concezione pseudo-religiosa dell’aldilà, ma io credo di no (senza pretese, qui la polisemia è la regola): secondo me Balmont sfrutta l’ambiguità del sole, immobile o instancabile a seconda dei punti di vista, per trasporla sul concetto di morte e sovrapporre eternità e movimento (forse un eco nietzschiano dell’eterno ritorno, con tutti i paradossi che porta con sé questa visione). Ecco che prendono senso anche due immagini prima poco chiare: la prima (v. 17), dove il tramonto diventa non più simbolo di declino, ma di trionfo, e la seconda (v. 13), dove l’eternità viene mostrata con un prato in cui i fiori nascono e muoiono incessantemente come lingue di fuoco (per inciso, è il mio passo preferito).

Detto ciò, Balmont è morto -per davvero, non come il suo sole-, però sono abbastanza sicuro che sarebbe più contento di aver trascinato chi legge per un momento sotto la luce estiva più che di aver trasmesso chissà che riflessioni metafisiche. Non è così importante aver capito che la “forza” (v. 3) è definita melodiosa e non armoniosa, per dire, perché lo stesso concetto di melodia si lega allo svilupparsi nel tempo e al cambiamento tanto celebrato, quello che deve restare è soprattutto l’impressione di una poesia dorata, tiepida, eccetera: quello che prima chiamavamo “la scorza dell’arancia”.


Appendice

L’articolo è finito sopra, ma per chi non è stufo ci sarebbero ancora due cose da dire sulla concezione di azione, slancio, o come la vogliamo chiamare.

Dieci anni prima della pubblicazione della raccolta in questione viene dato alle stampe “Il regno di Dio è in voi”, di Lev Tolstoj, dove in nome della continua speculazione religiosa, che dovrebbe essere caratteristica del cristiano, l’autore indica ogni sorta di Chiesa come l’anticristo, in quanto “cristallizzazione” di una dottrina. Il pensiero dell’autore, che ovviamente si sviluppa anche in una pars costruens, ha avuto un discreto seguito all’incirca fino al primo dopoguerra. Mi domando se Balmont ne fosse al corrente.

Per contro, nove anni dopo il nostro 1903, viene pubblicato il manifesto del Futurismo russo “Schiaffo al gusto del pubblico”, considerato la pietra tombale del Simbolismo. È ironico il fatto che, come sappiamo, quest’avanguardia abbia fatto del dinamismo il proprio vessillo.


Davide Filippi


Bibliografia

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Vol. II, “I Guermantes”, Trebaseleghe, Rizzoli, 2017, pp. 483-484

Leone Tolstoi, Il regno di Dio è in voi, s.l., Marco Valerio Editore, 2013

La poesia è tratta dal testo che segue:

Giovanna Taglialatela, Aleksandr Nikolaevic Skrjabin nel Simbolismo russo, Firenze, “La Nuova Italia” Editrice, 1994