5 giugno 2020

Intermezzi

Chi guarda l’Annunciazione di Del Cossa non si stupisce più di tanto: l’iconografia degli animali è così vasta che una lumaca in primo piano passa tutto sommato inosservata. Probabilmente il pittore rinascimentale avrebbe preferito l’opposto: una simile scelta in un’Annunciazione è quanto di più insolito si possa immaginare.


E’ stato Daniel Arasse ad avanzare un’ipotesi affascinante, che mette in relazione la chiocciola con la piccola immagine di Dio Padre in alto a sinistra . Questo perché le due figure hanno dimensione e silhouette praticamente identiche e soprattutto l’asse che si forma fra i due è in perfetto equilibrio con quello formato dall’angelo e dalla Madonna. Assimilare Dio ad una lumaca sembra azzardato -in effetti non abbiamo testimonianze di altri casi simili- ma i conti tornano se consideriamo la dimensione paradossale dell’annunciazione, come paradossale è il lasso enorme di tempo intercorso fra la creazione e l’avvento del Signore fra gli uomini. E’ il problema da cui è nata la concezione di limbo: perché mai, se la necessità dell’Incarnazione era già stata scritta dalla notte dei tempi, Dio ha lasciato passare così tanto tempo comportandosi “come una lumaca” e ha precluso a molti uomini la possibilità di salvarsi? Che senso ha questo lunghissimo intermezzo?


Circa quattrocento anni più tardi, Johannes Brahms pubblica la raccolta di pezzi per pianoforte op. 117: Drei Intermezzi. Il fatto di dare questo titolo ad ogni brano di un opus è già di per sé una stranezza, ma non è l’unico caso. L’opera 4 di Schumann, con lo stesso titolo, è un precedente importante che può tornare utile per chiarire questa scelta paradossale: molti di questi pezzi cominciano e finiscono in medias res, un po’ come accade nel sonetto A Zacinto di Foscolo:


Né più mai toccherò le sacre sponde

ove il mio corpo fanciulletto giacque,


E’ meglio abbandonare il paragone qui, perché solo nel secondo brano dell’opera 117 Brahms si serve di espedienti “grammaticali” come Schumann, a cui può rinunciare grazie a degli inizi sommessi e dei finali quasi in morendo.

Veniamo però all'epigrafe che precede i tre pezzi, che passa spesso inosservata ma potrebbe sottendere un significato più profondo, come la lumaca di Del Cossa.


Schlaf sanft, mein Kind, schlaf sanft und schön!

Mich dauert’s sehr, dich weinen sehn.

(Schottisch. Aus Herder’s Volksliedern)


In italiano:


Dormi dolcemente, bimbo mio, dormi dolcemente e bene!

Mi spiace tanto vederti piangere.

(Scozzese. Dai canti popolari di Herder)


L’epigrafe non sorprende chi è abituato alla musica a programma di molti romantici (alcuni Poemi Sinfonici di Liszt, per esempio, presentano qualche riga in testa alle partiture che hanno ispirato), eppure Brahms generalmente fugge da questa tendenza, perciò ci costringe a fermarci e pensare.

Il parallelo fra la musica e il sonno in questi brani si ritrova anche in una testimonianza secondo cui Brahms avrebbe definito questi pezzi “tre ninnenanne per le mie sofferenze”: potrebbe essere un’allusione allo spirito “crepuscolare” e antiretorico dei brani, che con fatica e raramente si discostano da un piano crepuscolare. E’ possibile però che il compositore abbia trovato nella musica come nel sonno due dimensioni “altre”, in cui le leggi della logica e del tempo sono sospese in una sorta di limbo. Brahms potrebbe aver preso a modello l’addormentamento e il risveglio per sfumare in ogni brano l’inizio e la fine: due momenti che, al pari della creazione e dell’annunciazione, sono necessari quano problematici.

Riporto due passi chiarificatori: uno di Proust e l’altro di Wittgenstein:

Lo si definisce un sonno di piombo e abbiamo allora la sensazione, che perdura qualche istante dopo che un simile sonno si è interrotto, di essere diventati veramente di piombo. Non si è più nessuno. Come mai allora, cercando il proprio pensiero, la propria personalità come si cerca un oggetto perduto si finisce per ritrovare proprio il nostro “io” piuttosto che un altro? Perché quando ci rimettiamo a pensare non è un’altra personalità diversa dalla precedente ad incarnarsi in noi? Non si capisce da cosa sia determinata la scelta e perché, tra milioni di esseri umani quanti potremmo essere, mettiamo proprio la mano su quello che eravamo il giorno prima. Che cosa ci guida quando c’è stata una vera e propria interruzione (sia che il sonno sia stato completo o i sogni completamente diversi da noi)? Forse c’è stata una vera e propria morte come quando il cuore ha smesso di battere e veniamo rianimati con stiramenti ritmici della lingua. […] La resurrezione del risveglio, dopo quella benefica crisi di alienazione mentale che è il sonno, deve essere simile in fondo a ciò che capita quando si ritrova un nome, un verso, un ritornello dimenticato.


Shakespeare e il sogno. Un sogno è composto in un modo tutto sbagliato, assurdo, eppure giustissimo: in questa strana composizione desta un’impressione. Perché? Non lo so. E se Shakespeare è grande, come di lui si dice, allora si deve poter dire di lui: è tutto falso, non quadra – eppure è tutto giusto secondo una legge sua propria. Ci si potrebbe esprimere anche così: se Shakespeare è grande, può esserlo solo nella massa dei suoi drammi, che si creano una lingua e un mondo del tutto peculiari. Quindi Shakespeare è del tutto irrealistico. (Come il sogno).


In effetti l’Intermezzo di Brahms oscilla fra il sonno e l’intermezzo della congettura di Arasse (quello della lumaca), ma si differenzia per lo sforzo attivo di chi la produce, a maggior ragione se si tratta di musica pianistica, che è costretta dal limite di uno strumento che spegne in fretta i suoni uno ad uno. Sempre di Shakespeare è il monologo “La vita non è che un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più”, ma di qui ci si allontana troppo.

Davide Filippi


Biobliografia:

Daniel Arasse, Non si vede niente, Torino, Einaudi editore, 2013, pp. 19-26

Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Azzate, Adelphi Edizioni, 2001, p. 156

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Vol. III, “I Guermantes”, Trebaseleghe, Rizzoli, 2017, p. 105

Johannes Brahms, Drei Intermezzi op. 117, Bärenreiter-Verlag, 2010, p. 1

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