02/01/2018

Il Manifesto della razza del 1938

Giovanni Cerro

Fondazione Collegio San Carlo, Modena.

La ricerca storiografica ha ormai accertato che il documento noto come Manifesto della razza fu il risultato di un processo redazionale complesso. La sua composizione fu affidata, sotto la diretta sorveglianza di Mussolini, a un giovane assistente alla cattedra di antropologia di Sergio Sergi presso l’Università di Roma, Guido Landra, che fino ad allora si era occupato soprattutto dello studio di alcune popolazioni africane, come gli Acioli dell’Uganda e gli abitanti della regione libica del Fezzan, e non aveva nascosto la propria adesione alla teoria della stirpe mediterranea sostenuta da Giuseppe Sergi, padre di Sergio e fondatore nel 1893 della Società romana di antropologia. Secondo questa teoria, la civiltà in Europa era stata importata da popoli originari dell’Africa orientale, in particolare dell’altopiano etiopico, che si erano diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo e anche nel Nord Europa. Gli ariani o indoeuropei, provenienti dall’Asia centrale e dal colore della pelle scuro, erano sopraggiunti solo successivamente, distruggendo con la loro barbarie le conquiste della civiltà mediterranea. Non stupisce pertanto che in quella che può essere considerata una prima bozza del Manifesto, risalente all’aprile del 1938, Landra affermava ancora che il razzismo italiano avrebbe dovuto essere «essenzialmente mediterraneo», perché nella penisola la razza mediterranea deteneva una «predominanza etnica sulle altre». Già in una seconda versione del testo, però, elaborata a giugno, si notava un cambio di rotta perché adesso si giudicava «perniciosa» l’affermazione della provenienza africana delle razze europee e si optava decisamente per un indirizzo «Ariano-Nordico». Non si intendeva con ciò negare la presenza di elementi di origine mediterranea in Italia, ma contrastare una possibile esaltazione di quelle «cattive qualità» psicologiche che ne avevano determinato l’«inferiorità»: tra queste, l’individualismo eccessivo, l’inclinazione al sentimentalismo e la mancanza di calma e tenacia. Si giunse così al testo definitivo del Manifesto, pubblicato con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza sulla prima pagina dell’edizione del 15 luglio de «Il Giornale d’Italia» (reperibile fin dal giorno precedente). I nomi dei dieci studiosi firmatari, docenti e assistenti universitari, furono resi noti solo il 25 luglio con un comunicato del Partito nazionale fascista. Pur in un groviglio di affermazioni contradditorie, che riprendevano la legislazione contro il meticciato adottata nel 1937, nel Manifesto si sosteneva una concezione biologica della razza, si rivendicava la purezza della razza italiana e la sua origine ariana; si negava l’italianità degli ebrei, unica popolazione ritenuta incapace di integrarsi nel corso dei secoli e si giudicavano «inammissibili» e «pericolose» le pretese affinità tra mediterranei, africani e semiti. Al Manifesto seguì ben presto l’ampliamento degli organi repressivi del regime e dello Stato – con la creazione dell’Ufficio razza, posto sotto la direzione dello stesso Landra, del Consiglio superiore per la demografia e la razza e della Direzione generale per la demografia e la razza – nonché la predisposizione di violente campagne propagandistiche, caratterizzate dalla riattivazione di antichi pregiudizi e la diffusione di nuovi stereotipi e animate da riviste talvolta legate a questi stessi apparati, tra le quali «La Difesa della razza» e «Razza e civiltà». La visione biologica proposta nel Manifesto ispirò tanto la Dichiarazione sulla razza, approvata il 6 ottobre del 1938 dal Gran consiglio del fascismo, quanto la legislazione antiebraica, che si concretizzò in una serie imponente di provvedimenti che condussero alla revoca dei diritti civili di quanti erano ritenuti di «razza ebraica», dall’esercizio delle professioni alla frequenza delle scuole fino alla regolamentazione delle unioni matrimoniali.

La posizione espressa nel Manifesto rappresentava soltanto una delle molteplici declinazioni del razzismo fascista. Posizioni diverse, infatti, non sempre facilmente distinguibili tra loro, erano espresse da una serie di gruppi che si fronteggiarono per far valere il proprio punto di vista nella politica del regime o semplicemente per promuovere le proprie carriere. La lotta tra le fazioni conobbe fasi alterne e nessuna di esse riuscì a prevalere in modo duraturo. Le polemiche coinvolsero lo stesso Landra, che a partire dal 1940 fu estromesso da qualsiasi incarico politico rilevante. A nulla valsero gli appelli a Mussolini, in cui Landra rievocava i suoi meriti come redattore del Manifesto e de «La Difesa della razza» e le onorificenze ricevute anche nella Germania nazista. A conferma di questo scenario frastagliato, reso ancora più incerto dalle vicende belliche, si può ricordare che le critiche mosse al Manifesto tra il 1941 e il 1942 dai membri del Consiglio superiore per la demografia e la razza, guidato da un fascista della prima ora, Giacomo Acerbo, portarono alla redazione della Dichiarazione sul concetto di razza, approvata il 25 aprile 1942, ma mai promulgata a livello ufficiale. Nel nuovo testo, si attenuava notevolmente il “biologismo” del Manifesto asserendo che le razze umane comprendevano individui con caratteri non solo fisici, ma anche psichici e culturali comuni, che non derivavano tanto dalla trasmissione ereditaria, quanto dalle condizioni ambientali e da eventuali contatti con altre razze. La tesi dell’origine ariana degli italiani era abbandonata in favore dell’esaltazione delle loro origini mediterranee. Sin dal Paleolitico, infatti, era attestata in Italia la presenza di una razza di origine mediterranea, dotata di grandi qualità creative e destinata a far prevalere il proprio tipo fisico e intellettivo. Solo molto più tardi erano arrivati gli ariani o indoeuropei, che si erano fusi con la popolazione autoctona, perché incapaci di fondare una civiltà autonoma. Risulta dunque chiaro il tentativo di riesumare le teorie di Sergi senior. Su un punto, però, il documento sembrava concordare con il Manifesto: sebbene avessero sempre rappresentato un’esigua minoranza, incapace di intaccare «l’unità biologica e spirituale» della razza italiana, gli ebrei erano considerati un «gruppo estraneo tendenzialmente disgregatore». In conclusione, si può affermare che il Manifesto costituì un momento fondamentale non solo dell’elaborazione teorica, ma anche della concreta messa in atto delle misure volte all’emarginazione e alla persecuzione antiebraica da parte del fascismo, che avrebbe conosciuto una fase ancora più violenta e tragica con i rastrellamenti e le deportazioni che segnarono la Repubblica sociale e l’occupazione nazista in Italia.

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