Approfondimenti - domande e risposte


Negando l’esistenza delle razze non si rischia di negare l’esistenza di differenze tra i gruppi umani? Con il risultato di non valorizzare una ricchezza, appunto la nostra diversità.

Negare l’esistenza delle razze nella nostra specie non vuol dire negare l’esistenza della diversità all’interno e tra i gruppi umani. Un atteggiamento di questo tipo, oltre che sbagliato sarebbe controproducente. Chi sostiene tesi razziste potrebbe facilmente obiettare: “come si può dare credibilità a chi nega l’esistenza di differenze tra un nigeriano e uno svedese?”. Antropologi e genetisti cercano però modelli che possano descrivere la struttura genetica della nostra specie meglio di quanto non facciano le razze, senza fermarsi a quello che ci comunica la nostra percezione. Il loro fine ultimo è quello di mettere a fuoco gli scenari evolutivi che hanno caratterizzato la storia dei diversi gruppi umani. Pur al di fuori di rigidi e irrealistici schematismi, il riconoscimento e lo studio della diversità tra e all’interno dei gruppi umani rimane un elemento assolutamente centrale per comprendere gli effetti sulla nostra biologia sia delle vicende storiche e demografiche che dei processi adattativi.


Siete consapevoli di quanto sia pericoloso far dipendere la dignità umana e i diritti individuali da fattori biologici? Se ancoriamo un valore morale a una prospettiva scientifica, che facciamo poi se quella prospettiva cambia?

Si può e si deve sottoscrivere l’idea che il riconoscimento della piena dignità e i diritti individuali vadano estesi a tutti, indipendentemente da cosa ci dicono le nostre conoscenze biologiche sulla diversità di questi o di quelli. Questa è una considerazione che dovrebbe precedere ogni discussione su razze sì o razze no, come accade nel nostro Manifesto. Detto questo, la domanda porta con sé un dubbio che dobbiamo affrontare: ha ancora senso dibattere delle razze? Non sarebbe meglio smettere per evitare guai peggiori? Anche se si possono intravvedere delle ragioni in questa presa di posizione, i rischi che essa comporta potrebbero essere assai maggiori di quelli che si vogliono evitare. Finiremmo, infatti, per far passare come una concessione dettata dall’etica o dai sentimenti, quello che in realtà ci dice un corpo molto esteso e robusto di dati scientifici, accumulato da più di 40 anni a questa parte (Lewontin, 1972) e corroborato dai più recenti dati genomici (Baker et al., 2017). La percezione pubblica e l’atteggiamento della società nei confronti della diversità possono cambiare più facilmente e rapidamente di quanto non accada con i paradigmi scientifici, specialmente in un periodo come quello che stiamo vivendo. Rinunciando a discutere oggi delle razze, potremmo trovarci in un futuro nemmeno troppo lontano a non poter più invocare le motivazioni scientifiche alla base del concetto di universalità della condizione umana contro i tentativi di razzializzazione e di discriminazione degli “altri”. Finiremmo per ridurre il nostro ambito d’azione di studiosi a discussioni accademiche, venendo meno a quel contratto non scritto, ma assolutamente vitale, tra Scienza e Società, per il quale vanno esplorate ed attuate a livello sociale tutte le ricadute positive (e anche negative) delle nuove conoscenze. Un po’ come dire: giocate pure ma rimanete nel vostro orticello.


Ma non pensate che l’interpretazione della differenza biologica in termini di differenza sociale abbia attecchito solo per demagogia e ignoranza?

Non c’entra solo la demagogia, purtroppo. La domanda da cui partire per dare una risposta è: “cosa spinge tante persone a vedere un mondo diviso in “razze”? Provando ad alzare lo sguardo, le razze appaiono figlie di una visione del mondo che attrae per la sua semplicità e rassicura (noi bianchi). Sono, in definitiva, un prodotto di quello stesso modo di pensare per cui “i napoletani hanno meno voglia di lavorare dei milanesi”, “i romani sono spacconi” e “i genovesi tirchi”, tanto per rimanere nello stretto della nostra Italietta. Ragionare per (poche) categorie, mettere da parte le differenze al loro interno, privilegiando la semplicità al rischio di perdere il senso profondo delle cose e degli uomini. C’è quindi una sorta di “facilità cognitiva” che spinge molti verso le “razze umane”, rendendo meno attraenti i modi più complessi, ma più aderenti ai fatti scientifici, di vedere la diversità, ad esempio quelli che tengono in conto il nostro elevatissimo mescolamento. E su questo humus cognitivo che attecchisce e finisce per radicarsi “L’interpretazione della differenza biologica in termini di differenza sociale”. Lo stesso in cui proliferano e si alimentano a vicenda demagogie, ideologie disumane e fanatismi religiosi. In un’ottica evoluzionistica si potrebbe speculare che la capacità di semplificare possa essere stato un vantaggio evolutivo in certe situazioni dove era necessario prendere velocemente delle decisioni. Ma fermarsi alla superficie dei problemi può diventare un punto di debolezza per i membri di società complesse e in continuo mutamento demografico, culturale e tecnologico.


L’ associazione tra dignità umana e uguaglianza biologica prepara una trappola enorme: assume che bisogna rispettare solo quelli che sono sufficientemente uguali a te stesso, che fanno parte della tua famiglia, della tua tribù.

Ma “rispettare solo quelli che sono sufficientemente uguali a te stesso” è proprio l’elemento centrale delle ideologie razziste e dei fanatismi religiosi. Al contrario, lo sviluppo naturale della critica al concetto di razza è la sostituzione di un modello che basa la definizione di categorie umane sul rapporto antinomico diversità/somiglianza con quello che pone al centro l’unità di tutti gli umani, pur riconoscendone la diversità. Certo, abbiamo bisogno di compiere molta strada perché questo non venga percepito come una mera utopia. I tempi in cui viviamo ci danno la sensazione di camminare su un tapis roulant che va in direzione opposta rispetto alle nostre convinzioni e aspettative. Ma proprio per questo bisogna intensificare i nostri sforzi per capire, discutere e comunicare la natura e il senso della diversità umana.


Se il razzismo fosse solo la punta dell’iceberg?

(tratto da Parlare di diversità umana, 2019, Il Tascabile Treccani).

Razzismo è un termine ombrello che utilizziamo per indicare comportamenti umani accomunati dall’idea che le capacità cognitive e le qualità morali siano diverse a seconda dell’origine e dell’aspetto esteriore di ogni individuo. Si può tentare di mettere a fuoco i suoi significati definendone le differenti tipologie. Una distinzione spesso utilizzata si basa sul livello al quale il razzismo viene praticato: individuale, interpersonale o istituzionale. Un ulteriore criterio è rappresentato dalle sue finalità: lo sterminio (come nel Terzo reich), la segregazione (apartheid in Sudafrica), lo sfruttamento dei “razzializzati” oppure la difesa da una loro presunta invasione (in molti contesti attuali del mondo occidentale). Dalla seconda metà del Novecento, al razzismo di matrice prettamente biologica si è aggiunto il cosiddetto neo-razzismo o “razzismo senza razza”, tramite il quale si vogliono giustificare politiche e atti discriminatori facendo perno non più sulle differenze fisiche e genetiche, ma su quelle culturali e religiose.

Se si vogliono comprendere le dinamiche individuali e sociali che portano le persone al razzismo, può essere utile muovere il fulcro del ragionamento dalle sue tipologie alle analogie con altri comportamenti sociali che producono intolleranza, discriminazione e violenza. Per fare questo è necessario cambiare radicalmente prospettiva: pensare al razzismo non più in modo sincronico (come comportamento), ma diacronico, come punto d’arrivo di un processo. Pur immaginando quest’ultimo come un continuum, potremmo descriverlo per comodità attraverso tre fasi: semplificazione, stigmatizzazione e odio.

  • Semplificazione. Spesso avvertiamo la necessità di semplificare ciò che accade intorno e dentro di noi attraverso un lavoro di selezione e ordinamento, riducendo ciò che osserviamo a schemi e categorie. Ovviamente, questo non riguarda solo la diversità umana, e non va visto necessariamente in modo negativo: può essere un modo per organizzare la nostra esperienza o comunicare più efficacemente cose complesse. Nel nostro caso, è lecito sostenere che utilizzare il concetto di razza non rende automaticamente razzisti, ma può semplicemente rispondere a un’esigenza cognitiva. Questo non impedisce, tuttavia, di riflettere più attentamente sulla visione della diversità che è connaturata all’idea di razza. Per fare questo, non bisogna intendere le razze umane come un termine che esprime una generica diversità (un errore compiuto da molti), ma come qualcosa di ben preciso: categorie che sono, o per meglio dire pretendono di essere, discrete (chiaramente distinte l’una dall’altra), omogenee (gli individui di una stessa razza sono molto simili tra loro e molto diversi da quelli di altre razze) ed esclusive (ogni persona può appartenere a una sola razza).

  • Stigmatizzazione. Come alcuni degli eventi più drammatici della nostra storia recente ci insegnano, le razze hanno assunto agli occhi di molti non tanto il significato di categorie “di comodo”, quanto di raggruppamenti “naturali”. Chi fa propria questa visione, si incammina su una strada che può portarlo ad associare aspetto fisico, cultura o religione, da una parte, e stigmi di varia natura, dall’altra: una volta che ci si abitua, o si viene abituati, a ragionare sulla diversità sulla base di schemi riduttivi e disumanizzanti come quelli razziali, non solo si finisce per credere che siano reali, ma diventa anche più facile convincersi, grazie anche all’impatto della propaganda e della falsa informazione, che i negri sono incivili, i gialli scaltri e maligni, gli islamici terroristi. Accettando che le differenze, le storie e i valori degli individui vengano oscurate da categorie astratte e prive di qualsiasi base scientifica, si finisce, anche inconsapevolmente, per mettere in discussione beni immateriali ma fondamentali per la società, come la convivenza, la condivisione e la solidarietà.In ogni caso, non possiamo far finta di non vedere quanto il passaggio dalla semplificazione alla stigmatizzazione venga facilitato da Internet. Utilizzando messaggi continui, brevi e capaci di toccare la sfera emotiva, i social possono indebolire le capacità dei loro utenti di riflettere con spirito critico su ciò che viene propagandato. Al tempo stesso, chi fa parte di comunità virtuali, pensa, o si illude, facilmente di condividere “verità di gruppo”, il che rafforza il convincimento interiore e rende ancora più difficile ripensare in modo autonomo pregiudizi e false credenze.

  • Odio. Nel semplice schema che vi propongo, il passaggio finale è quello che porta a sentimenti di odio e facilita la diffusione a livello sociale delle ideologie che ne sono portatrici. Quest’ultimo può essere visto come il risultato della combinazione di due ingredienti essenziali: ignoranza e paura. L’ignoranza, intesa come mancanza di conoscenza che ha tra i suoi effetti anche quello di rendere meno capaci di valutare la qualità delle informazioni che si ricevono, espone strati significativi della popolazione alla propaganda razzista. Ne sono dimostrazione il successo di fake news, come quella dei 35 euro al giorno dati ai migranti o quella degli extracomunitari che passano il tempo baloccandosi con smartphone di ultima generazione. Nella categoria dell’ignoranza può essere vista, in definitiva, anche la tendenza a ritenere inferiori culture e religioni altrui, molto spesso senza conoscerle minimamente, per poi sviluppare forme di superbia o, ancor peggio, di disprezzo generalizzato, come accade oggi spesso a danno dei migranti. La paura può essere accesa dal timore di vedere la capacità di soddisfare i propri bisogni, magari già precaria, ulteriormente compromessa dall’arrivo dei “nuovi”, così come dal terrore dell’uomo nero o di quello con la barba lunga e la tunica che vengono per imporre con la forza il ritorno alla legge della giungla o la sottomissione alla sharia.

Possiamo pensare che il processo appena schematizzato possa spiegare il formarsi di altri comportamenti sociali che producono discriminazione, intolleranza e atti violenti? Seppure con gli opportuni distinguo, la mia risposta è sì. Il sessismo, l’omofobia e anche le forme di intolleranza religiosa mostrano, infatti, analogie significative con quanto appena delineato. Il punto di partenza per il loro diffondersi è sempre l’adozione di categorie semplificatorie che nascono da una concezione rigida dell’alterità, attraverso le quali si opera una taglio netto tra “noi” e “loro”. Questi ultimi vengono collocati, senza alcun rispetto della persona in quanto tale, in gruppi sui quali è facile riversare stigmi di vario tipo: essere “per natura” subalterni a chi appartiene al “sesso forte”; possedere una sessualità “deviata”; professare una religione crudele; sostenere un’eresia inaccettabile. Oltre che tra coloro che fanno un certo utilizzo dei social, questi sentimenti trovano più facilmente terreno fertile tra chi è refrattario al confronto con i “diversi” e ignora del tutto il loro modo di intendere la vita. La paura può essere quella di sentirsi umiliati da chi si dovrebbe aver sottomesso secondo stereotipi basati sulla prevaricazione e la sottomissione dei più deboli Oppure, di diventare malvisti perché non si fanno propri atteggiamenti intolleranti, ma che danno una qualche preminenza in certi ambienti degradati. O, magari, di non rendere evidente agli altri la propria adesione a una qualche pratica socialmente diffusa o addirittura istituzionalizzata, ancorché discriminatoria e violenta.

Può avere senso costruire una narrazione che metta insieme razzismo, sessismo, omofobia e intolleranze religiose? Forse sì, perché potrebbe essere utile per far sì che più persone, partendo da punti di vista ed esperienze personali differenti, possano cogliere il filo rosso che lega l’incapacità o il disinteresse a vedere le persone nella loro individualità, la facilità con cui pregiudizi e intolleranze possono attecchire nelle menti umane e la disinvoltura con cui si finisce per accettare, o far finta di non vedere, la discriminazione e la violenza nei confronti di chi è ritenuto diverso.


E' possibile pensare un'identità che non escluda la diversità?

(tratto da Parlare di diversità umana, 2019, Il Tascabile Treccani).

Nel corso della nostra esistenza ci interroghiamo continuamente su noi stessi e il mondo che ci circonda, chiedendoci cose del tipo: “chi sono io nel corpo e nella mente?”, ”quali sono i miei valori?” oppure “come mi rapporto agli altri?”. Le risposte che diamo a noi stessi di volta in volta concorrono a definire la nostra identità. Possiamo avere bisogno dell’identità per più di un motivo. Per sentire di essere delle persone in un mondo pieno di altri noi, per orientare il nostro rapporto con gli altri, per capire quali scelte fare nel momento in cui valori e necessità entrano in contrasto.

L’ininterrotto dialogo alla ricerca di noi stessi ha un altro importante significato. Ci mette di fronte al fatto che pensieri e azioni descrivono le nostre personalità come complesse, mutevoli e non riducibili a stereotipi. Personalmente posso definirmi oggi come un cittadino italiano, che non si riconosce in nessuna religione e crede che umanità e solidarietà siano valori primari. Se provo a mettere insieme queste e altre sfaccettature, inevitabilmente mi rendo conto di essere immerso in un buon numero di contraddizioni o perlomeno di incongruenze. Mi sento legato al mio paese e della sua storia, ma mi riconosco anche come cittadino dell’Europa e del mondo. Sono pronto per molte questioni ad adottare un punto di vista relativista, ma mi identifico nei valori della Costituzione. Credo che l’accoglienza si debba accompagnare alla responsabilità e al rispetto delle regole (da parte di tutti), ma posso capire come particolari stati di bisogno possano condurre a uscire da certi binari.

Sotto la spinta emotiva di alcuni fatti, posso sentire crescere dentro di me sentimenti che a parole detesto, sotto quella di altri posso mettere in dubbio limiti e barriere che mi sembravano prima insormontabili. L’elenco potrebbe essere più lungo, ma quanto detto mi sembra già sufficiente per mettere in dubbio che la mia identità sia davvero ferma e irremovibile. Ma, allora, posseggo diverse identità, magari troppe? Oppure, non ne posseggo alcuna? Credo che nessuna risposta possa essere convincente se si rimane ancorati a un’identità intesa come a una cosa monolitica, stabile e perfettamente coerente con se stessa. Se si pensa che non possa tenere conto della diversità e della mutevolezza che caratterizzano i percorsi di vita, pensieri e comportamenti di ciascuno di noi. Un po’ come rimanere fermi sull’idea che un corso d’acqua venga alimentato solo da una sorgente di montagna, rifiutando la possibilità che possa essere invece un fiume che raccoglie nel suo corso diversi affluenti.

Accettando le contraddizioni e provando a riconciliarle, ciascuno può maturare un senso di coerenza interiore che non significhi rigidità, ma che porti a stabilire un rapporto più consapevole, aperto e creativo con se stesso e con gli altri, aiutando a superare le barriere innalzate dell’alterità. Magari, perché si è imparato ad anteporre la comprensione al giudizio. Oppure, perché si riescono a cogliere le analogie tra le proprie storie individuali, famigliari o di gruppo e quelle di chi è vissuto in contesti molto differenti dai nostri. In queste riflessioni, può essere visto l’eco di quanto afferma l’economista e filosofo Amartya Sen quando sottolinea che attraverso l’accettazione delle proprie diverse identità si possono cogliere meglio i punti di contatto con chi riteniamo esserci estraneo. Tornando a usare me stesso come “cavia” (non per vanità, ma per mancanza di alternative), potrei forse sentirmi più aperto alle ragioni altrui e meno lontano da coloro che dicono di vergognarsi di essere italiani, oppure da chi si professa un religioso ortodosso o crede di poter di migliorare la sua vita rifiutando l’empatia. Insomma, seguendo la strada tracciata da Amartya Sen è possibile superare l’accezione divisiva dell’identità, fino a renderla un mezzo per favorire avvicinamento, contaminazione e cambiamento reciproco tra noi umani.

Ovviamente, sviluppare la propensione a riconoscerci e accettarci come portatori di identità diverse non è né immediato né semplice. Si possono senz’altro fare passi in avanti attraverso l’educazione, sfruttando anche occasioni di dialogo che partono da altri presupposti e si sviluppano con altre finalità. Il tema della diversità umana può essere uno di questi. Mentre cerca di tracciare un quadro generale delle somiglianze e differenze tra noi umani, ciascuno di noi sente, prima o poi, la necessità di pensare a sé stesso e al suo posto nel grande insieme dell’umanità. Forse potremmo incrementare la sinergia tra questi due livelli di pensiero, cercando di creare esplicitamente un’osmosi tra la riflessione su ciò che è dentro di noi e quella che riguarda ciò che circonda: tra la diversità delle nostre identità e quella tra i nostri simili.

Provo a essere meno generico. Immaginiamo che alcuni rivendichino apertamente di essere sistematicamente discriminati per via del colore della pelle o della propria cultura. Altri possono reagire inizialmente con indifferenza o fastidio. Ma poi, alcuni di essi possono rendersi consapevoli di non essere del tutto estranei al problema della discriminazione. Magari, tra questi ci potrebbe essere un distinto signore di mezz’età, che sente crescere dentro di sé la consapevolezza di quanto gli pesi ancora l’essere stato sbeffeggiato ed emarginato da piccolo perché andava troppo bene a scuola. Oppure, una signora appena quarantenne che si sforza di apparire in grande forma, ma che, per un evento inatteso, non riesce più a nascondere un certo handicap e vede cambiare l’atteggiamento degli altri nei suoi confronti. O, per finire, un anziano che, mentre discute con altri proprio di quella rivendicazione, si rende conto che la sua conoscenza reale del mondo, maturata nel corso di una lunga e travagliata esistenza, viene ridicolizzata da chi il mondo lo conosce solo attraverso il suo smartphone. Anche se i motivi, l’intensità e le conseguenze sono diverse, il prendere coscienza di essersi sentiti e/o di sentirsi soli e messi da parte può aiutare quel signore di mezz’età, la quarantenne e l’anziano a calarsi nei panni di coloro le cui vite sono state segnate ancora più profondamente dall’intolleranza e la discriminazione, e a vedere sotto una diversa luce le loro istanze.


Letture

Baker J.L. et al. 2017. Human ancestry correlates with language and reveals that race is not an objective genomic classifier. Scientific Reports 8:1572.

Biondi G. & Rickards O. 2014. Un appello per l'abolizione del termine razza. http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/olga-rickards-e-gianfranco-biondi/appello-labolizione-del-termine-razza/ottobre-2

Capocasa, M. et al. 2014. Linguistic, geographic and genetic isolation: a collaborative study of Italian populations. Journal of Anthropological Sciences, 92: 201–231.

Destro Bisol G. & Danubio M. 2015. C’è ancora posto per le “razze umane” nella Costituzione italiana? Le Scienze forum.

Destro Bisol G. & Capocasa M. 2016. Italiani. Come il DNA ci aiuta a capire chi siamo. Carocci, Roma, 2016.

Destro Bisol G., Allovio S., Danubio M. & Papa C. et al. 2017. Anthropologists, Italians and the “human races”. Journal of Anthropological Sciences, 95: 291-297.

Greco P. 2017. Via la parola "razza" dalla Costituzione. http://www.scienzainrete.it/articolo/parola-razza-dalla-costituzione/pietro-greco/2017-06-02

Lewontin R.C. 1972. The Apportionment of Human Diversity. Evolutionary Biology, 6:381-398.

Lobon L. et al. 2016. Demographic History of the Genus Pan Inferred from whole mitochondrial genome reconstructions. Genome Biology and Evolution, 8:2020-2030.


Giovanni Destro Bisol