Il razzismo, un fatto sociale totale

Annamaria Rivera

In esordio conviene proporre una definizione di razzismo, sia pure imperfetta. Quella che suggerisco è la sintesi estrema della lunga voce che scrissi per l'enciclopedia Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione (Utet, Torino 2007).

Esso è definibile come un sistema di credenze, rappresentazioni, norme, discorsi, comportamenti, pratiche, atti giuridici, politici, istituzionali, sociali, volti a svalorizzare, stigmatizzare, discriminare, inferiorizzare, subordinare, segregare, perseguitare e/o sterminare categorie di persone alterizzate, se non razzializzate. Lo stigma della "razza" è, infatti, l’esito di un processo sociale di etichettamento.

Il razzismo – preferibilmente al singolare, onde coglierne il carattere unitario, al di là delle sue variazioni storiche ed empiriche – è uno dei tratti costitutivi della modernità occidentale, in particolare della cultura europea, destinato a riemergere periodicamente, soprattutto in momenti di transizione e di crisi (Burgio, 2010). E' un fatto sociale totale (per riprendere la ben nota formula di Marcel Mauss), multiforme e complesso, costituito da una pluralità di dimensioni – ideologica, culturale, simbolica, psicologica, lessicale, comportamentale, sociale, istituzionale, giuridica, politica, mediatica... –, le quali di solito s'incrementano a vicenda, producendo ciò che più volte ho definito circolo vizioso del razzismo (Rivera, 2012).

Insomma, esso è un insieme di dispositivi – soprattutto quelli della naturalizzazione, dell' essenzializzazione, della de-umanizzazione – che, agendo in un sistema di ineguaglianze sociali, serve anche ad attenuare le differenze interne al gruppo maggioritario, rafforzandone, sia pur fittiziamente, il senso identitario e comunitario. Il noi si coagula così intorno al sentimento di ostilità verso gruppi reputati estranei, diversi o nemici, sicché l'identità degli altri, drammatizzata, diviene l’antidoto dell'anonimo (de Certeau, 2007).

Il razzismo vale anche a giustificare lo sviluppo ineguale nonché lo sfruttamento, la subordinazione, le diseguaglianze, le discriminazioni, le violenze, le stragi, gli stermini, mediante l’attribuzione di una differenza naturale o quasi-naturale (che sia nominata come "razza" o come "etnia") a collettività e/o individui appartenenti a popolazioni, minoranze, gruppi alloctoni in condizioni di svantaggio giuridico, economico, sociale e/o politico.

Una rilevanza peculiare ha la dimensione giuridico-istituzionale, che riproduce, avvalora, legittima il sistema-razzismo mediante leggi e norme speciali, nonché procedure e pratiche routinarie. Il razzismo istituzionale finisce, infatti, per produrre discriminazione, segregazione, stratificazione di disuguaglianze quanto a risorse sociali, materiali, simboliche, di status; ed è responsabile perfino di stragi: si pensi a quelle, quasi deliberate, che si consumano nel Mar Mediterraneo.

Nella realtà, il "colore" e altri tratti fenotipici nonché l’effettiva distanza culturale dal noi sono non poche volte irrilevanti nella scelta delle vittime, come dimostra la tragica storia dell'antisemitismo. Lo stigma applicato a talune categorie di persone può prescindere da qualsiasi differenza, essendo l’esito di un processo di costruzione sociale, simbolica, politica. Per parlare dei giorni nostri, basta dire che, nella geometria variabile del razzismo italiano dei decenni più recenti, il ruolo di capri espiatori e di bersagli di campagne allarmistiche e violenze conseguenti è stato attribuito, di volta in volta e fra gli altri, ai migranti albanesi, agli “slavi”, ai romeni, dei quali, fino a prova contraria, non si può dire che siano “negri” oppure estranei alla storia e alla cultura europee.

Nondimeno, la forma più strutturale di razzismo è tutt'oggi costituita, soprattutto in Italia, dall'antiziganismo. Rom, sinti e caminanti sono oggetto costante non solo di leggende, pregiudizi, antipatia e ripulsa "popolari", fino alle aggressioni, agli attentati, ai pogrom; ma anche di una peculiare attività persecutoria da parte di istituzioni: pratiche consuete sono le schedature dette "etniche", i rastrellamenti, la distruzione dei loro insediamenti informali, le espulsioni fino ai "rimpatri" forzati.

Quanto al razzismo teorico dei nostri giorni – quello che si è convenuto di chiamare neorazzismo – anch'esso opera una riduzione naturalistica delle differenze, reali o immaginarie, ma ricorre a forme di pensiero e di discorso più sottili o implicite, che rimandano alla presunta inconciliabilità fra culture o "etnie" e al diritto alla differenza. L'esclusione degli altri e delle altre non è motivata con l'asserita necessità di preservare l'identità del gruppo dominante, ma con l'argomento, altrettanto pretestuoso, della tutela delle specificità di tutti i gruppi, in realtà concepiti quasi al pari di gruppi naturali. Diversamente dal vecchio razzismo "biologista", il neorazzismo non ricorre più prevalentemente ed esplicitamente alla metafora naturalistica della razza (per usare la formula di Colette Guillaumin, 1972) e all'argomento delle gerarchie razziali, ma spesso nasconde significati simili e la medesima attitudine essenzialistica dietro categorie quali etnia, differenza, identità.

Invero, gli slittamenti, i mélange, i passaggi dal razzismo "biologista" a quello detto culturale o differenzialista, ma anche viceversa, ci sono sempre stati, ci sono tuttora, sono sempre possibili: al momento opportuno può riemergere l’immaginario sedimentato della “razza”. E se consideriamo "etnia", dall’uso che ne fanno taluni mezzi d'informazione risulta chiaro come essa molte volte non sia altro che un mascheramento di “razza”, per meglio dire un suo sostituto funzionale eufemistico. Altrimenti non si comprenderebbe perché mai nei lessici di taluni giornali italiani, anche mainstream, si possano ritrovare espressioni paradossali quali individuo o gruppo di etnia cinese o di etnia latino-americana, mentre mai ci è accaduto di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.

In Italia, soprattutto a partire dal 2013, si assiste a uno sconcertante ritorno della “razza”, evocata da immagini e rappresentazioni del tutto simili a quelle proprie delle pubblicazioni popolari al servizio della propaganda fascista e colonialista: anzitutto il topos che assimila i “negri" a scimmie, col classico corollario di banane. Dileggi e ingiurie di tal genere si sono intensificati in modo martellante e quotidiano, assumendo come bersaglio soprattutto l'allora ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge (definita "un orango" da un ben noto esponente del partito razzista che oggi è al governo); ma sono risuonati anche negli stadi, contro calciatori di qualsiasi "colore" e origine, perfino italiani del Sud: alterizzati, quindi negrizzati.

La crisi economica e dello stato sociale, l'estensione del pauperismo fino alle classi medie, la disoccupazione, la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, l’indebolimento della socialità e della solidarietà ma anche delle rivendicazioni e dei conflitti sociali, la mediocrità di una politica sempre meno interessata al bene pubblico: tutto ciò produce sentimenti d'incertezza e insicurezza, frustrazione e risentimento, che si traducono in ricerca del capro espiatorio. In tal senso il razzismo "popolare" dei nostri giorni potrebbe essere definito, parafrasando Hans Magnus Enzensberger (2007), come una forma di socializzazione del rancore.

Questo processo, a sua volta, contribuisce alla nascita della comunità razzista, secondo l’espressione di Etienne Balibar (in Balibar e Wallerstein, 1991); e questa diviene un surrogato della comunità civile, solidale, rivendicativa. E’ ciò che accade oggi in Italia, soprattutto in aree e quartieri, anche popolari, in cui rilevante è l’egemonia politico-culturale leghista e perfino neo-fascista.

Riferimenti bibliografici

Balibar É., Wallerstein I, 1991 (1988), Razza nazione classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni Associate.

Burgio A., 2010, Nonostante Auschwitz. Il "ritorno" del razzismo in Europa, DeriveApprodi, Roma.

de Certeau M. 2007 (1994), La presa della parola e altri scritti politici, Roma, Meltemi.

Enzensberger H.M., 2007 (2006), Il perdente radicale, Einaudi, Torino.

Guillaumin C., 1972, L'Idéologie raciste : genèse et langage actuel, La Haye, Mouton.

Rivera A, 2012 (2001), Etnia-etnicità, Idee razziste, Immigrati, Neorazzismo, in Gallissot R.,

Kilani M., Rivera A., L'imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari, pp. 123-151; 153-187; 201-220; 279-309.