Organizzatori: Francesco Bellucci (Università di Bologna) e Lorenzo Cigana (LHTL - Paris)
It seems likely that all these different kinds of indeterminacy are
what make it possible for the grammar to offer a plausible construal of experience
— one that is rich enough, yet fluid enough, for human beings to live with
(Halliday-Matthiessen 2000: 562)
Non è scorretto affermare che il problema della vaghezza abbia accompagnato la riflessione sul linguaggio e sulla semantica fin dalle sue prime formulazioni: l’indeterminatezza del contenuto linguistico a tutti i livelli della sua organizzazione, insieme alle nozioni complementari come quelle di “polisemia”, “ambiguità o “sottospecificazione” che ne fanno da corollario, è stata concepita di volta in volta come un tratto costitutivo della struttura delle lingue storico-naturali e più in generale dei sistemi di segni; come un ostacolo, tanto comunicativo quanto epistemologico, al quale dover ovviare; come una “soglia” – un tratto che appare e scompare in relazione agli obiettivi descrittivi che le teorie stesse si pongono.
Ricostruire la storia del problema significa dunque non solo raccogliere, classificare e descrivere i fenomeni che manifestano il concetto di vaghezza, ma anche investigare l’idea stessa di vaghezza - e i concetti in cui essa si manifesta e si articola: ambiguità, vaghezza, indeterminatezza, sottospecificazione, generalità/genericità, indecisione, sfumatura (Zhang 1998; De Mauro 1982; Tuggy 1993; Levinson 1997). Tale ricostruzione può assumere forme diverse ma è chiaro che non può essere condotta solo su base empirica, ma anche epistemologica e storiografica: come le teorie riescano a cogliere e rendere la vaghezza dipende in larga parte dagli assunti di base di cui esse si dotano circa la funzione del linguaggio, la sua ontologia di base, i tratti minimi necessari per renderne conto - e questo aspetto si intreccia inevitabilmente con l’evoluzione dei paradigmi in cui tali assunti si sono affermati o sono da cui sono stati rigettati. Una tale mappatura dovrebbe, almeno idealmente, giungere a identificare i tratti epistemologici fondamentali che permettono di inquadrare - e differenziare - i concetti in gioco. Uno di questi sembra essere la distinzione tra piano astratto (o ideale) del linguaggio e il piano concreto della sua realizzazione, che si riflette inevitabilmente nell’istanza di situare su quale livello i vari concetti menzionati intervengano: se sul piano virtuale del “sistema” o sul piano attuale, del suo “uso” discorsivo. Ma altri criteri sono altrettanto importanti, come la distinzione tra piano del significato o piano del significante (che consente di differenziare vaghezza e polisemia), o tra contenuto codificato linguisticamente e contenuto contestuale, oppure tra conoscenza idiomatica e conoscenza enciclopedica del locutore.
L’atelier intende esaminare come il concetto di vaghezza venga declinato in alcune teorie del linguaggio del Novecento, cercando di reperire in prospettiva storiografica i tratti metateorici fondamentali per situare questo (e quelle) in un quadro unitario (cf. Winkler 2015).
Riferimenti
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Università di Bologna
Come riconosciuto ormai da più parti (Brock 1969, Williamson 1994, Lane 1997, Monti 2025) Peirce concepisce la vaghezza in un modo difficilmente assimilabile alle moderne teorie della vaghezza in logica e filosofia del linguaggio. Peirce inizialmente (intorno al 1903) concepisce la vaghezza e il suo opposto, la generalità, come proprietà del soggetto della proposizione (che Peirce chiama “segno”): un segno vago ha un oggetto particolare (“qualche uomo”), mentre un segno generale ha un oggetto generale (“tutti gli uomini”). Di questa opposizione Peirce fornisce sia una definizione logica sia una definizione “pragmatica”. In seguito, e soprattutto in alcuni manoscritti relativi a “Issue of Prgamaticism” (1905), Peirce estende la sua teoria della vaghezza anche al predicato della proposizione. In diverse versioni di “Issues” Peirce discute almeno tre sensi distinti in cui un predicato può essere definito vago o generale, ovvero tre modelli distinti di vaghezza (e generalità) predicativa: (i) il modello dei tratti semantici, (ii) il modello degli iperonimi, e (iii) il modello della polisemia.
Riferimenti
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Université de Picardie Jules Verne - UR 4283 CERCLL et UMR 7597 HTL
Tullio De Mauro ([1982] 2007) è indubbiamente tra i primi, nel Novecento italiano, a rilanciare la questione della vaghezza delle lingue sottraendola alla sola indagine logica e filosofica. Ricondotta alle sue ragioni semiotiche, la vaghezza è intesa, nella riflessione demauriana, come una “condizione segnica”, un fenomeno che colpisce in egual misura il significato e il significante delle lingue.
In rottura con la tradizione logica (Russell 1923, Black [1937] 1949) che aspirava a riparare (Prampolini 1998) gli aspetti vaghi del linguaggio, la rilettura demauriana del fenomeno reinterpreta la nozione di vaghezza e la consegna alla linguistica contemporanea: non difetto di struttura, non problema occasionale di mal malfunzionamento della comunicazione, ma proprietà costitutiva delle lingue e aspetto ineliminabile della semantica discorsiva.
Ma chi può esprimere un giudizio su cosa è vago? In generale, le teorie della vaghezza, o per lo meno gli indirizzi di vario segno teorico che indagano il fenomeno (Black [1937] 1949, De Mauro [1982] 2007, Gizbert-Studnicki 2000), ricorrono più o meno apertamente alla finzione del locutore ideale quale sola istanza legittima capace di esprimere un giudizio di indecidibilità, fondato da un lato su un’impossibile definizione in tratti pertinenti (intensione) e dall’altro su un’impossibile applicazione del segno a classi di oggetti (estensione).
Mostreremo come a partire da De Mauro, la riflessione sulla vaghezza, nel quadro più generale del dibattito sulla discretezza, abbia condotto alla scoperta di risorse e meccanismi di cui le lingue dispongono per codificare i contenuti in modo vago. Seguiremo la fortuna della nozione e i tentativi di distinguerla da concetti affini (indefinitezza, genericità, ambiguità, polisemia, mitigazione). Allargheremo infine lo sguardo alle tendenze della coeva linguistica europea e all’elaborazione delle diverse tipologie di vago (Fuchs 1986, Kleiber 1987, Moeschler & Reboul 1994, Ducrot & Schaeffer 1999).
Riferimenti
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Laboratoire d'Histoire des Théories Linguistiques - Paris
A partire dagli Anni ’60, il concetto di “sottospecificazione” (underspecification) è ormai entrato a far pienamente parte del lessico tecnico della linguistica e della sua euristica: con tale concetto si designa la mancanza, nella rappresentazione semantica di un dato contenuto linguistico, di uno o più tratti la cui attualizzazione viene demandata al contesto – il contenuto in questione sarà dunque definito “non-specificato”, ovvero generico, in relazione a questi tratti.
In ambito semantico, tanto lessicale quanto grammaticale, il concetto è stato posto in contiguità teorica con le nozioni di vaghezza e di indeterminatezza, nonostante dipenda da presupposti storico-epistemologici differenti. Per esempio (come abbiamo sottolineato in altra sede), l’aspetto della mancanza dei tratti sottospecificati fa problema all’interno del paradigma teorico in cui pure tale concetto affonda – ovvero il paradigma strutturale: tale aspetto richiede allora di essere concettualizzato in un modo che non sia semplicemente “sottrattivo”. Qui ci sembra opportuno mettere in causa la contiguità con i problemi menzionati sopra (vaghezza, indeterminatezza, specificazione incrementale, polisemia, genericità/generalità semantica), cercando di chiarire e di circoscrivere dal punto di vista storico i requisiti epistemologici convocati dal concetto di sottospecificazione nonché i problemi specifici a cui l’uso di tale concetto fa fronte soprattutto in relazione al fenomeno dell’anafora.
Riferimenti
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Sapienza, Università di Roma
La nozione di vaghezza, sovrapposta a quella di indeterminatezza e ambiguità, trova ragione, secondo De Mauro, nella stessa definizione di segno linguistico come associazione tra due sistemi di classi. La vaghezza, precisa, non ha a che fare con la polisemia, ma è «una condizione segnica, non soltanto semantica» (De Mauro, 1982/2004: 100). Ne discende che il segno linguistico risulta «strumento di un’attività allusiva» (ibid.) poiché, essendo le lingue storico-naturali permanentemente aperte all’innovazione, «indecidibile è il confine del significato di ciascuna parola» senza il contributo tollerante degli utenti (ivi, p. 180).
La riflessione demauriana è contraddetta da Coseriu (1990) che nega risolutamente l’indeterminatezza o la vaghezza dei confini lessicali. L’argomento coseriano, in polemica con la semantica dei prototipi, evidenzia, invece, la discretezza o la determinatezza delle categorie linguistiche: essendo ogni nome διακριτικόν τῆς οὐσίας, tali categorie non sono indeterminate o vaghe; sono, semmai, le cose significate ad avere natura eterogena e confini vaghi. Il significato lessicale è sempre determinato a livello idiomatico, cioè del sapere linguistico, mentre la vaghezza riguarda l’eventuale asimmetria, nel parlare, tra il sapere determinato che pertiene al sistema dei valori linguistici e quello impreciso e approssimativo circa le cose da designare. In sostanza, mentre De Mauro tende a giungere a una “semantica semiotica” che vede le lingue come strumenti nelle mani dei parlanti e a svuotare il significato del suo valore obiettivo al di fuori delle prassi e dell’uso, la riflessione coseriana insiste sull’autonomia della dimensione propriamente linguistica.
Sullo sfondo, emerge la questione della ineffabilità del linguaggio sollevata da Ortega y Gasset (1949). Se, infatti, spostiamo l’attenzione dalle lingue già fatte al linguaggio statu nascendi, la sua caratteristica saliente risulta essere l’ineffabilità: in sostanza, «ciascuna lingua nasce già come amputazione del dire» (Ortega y Gasset, 1949/2001: 93). All’ineffabilità del linguaggio come strumento comunicativo e cognitivo, che dice e allo stesso tempo non deve/può dire, ritagliando la massa dell’esperibile in categorie discrete, Ortega y Gasset aggiunge l’ineffato, ovvero tutto ciò che attraverso la lingua si dovrebbe dire, ma non si dice, con la ragionevole certezza che non ve ne sia bisogno o con la speranza che sia l’interlocutore a colmare le lacune.
Muovendo dalle riflessioni degli autori menzionati, il contributo si propone di esaminare, nell’ottica di una prospettiva “integrale”, la questione della vaghezza/indeterminatezza semantica - nel suo intreccio con l’onniformatività e la metalinguisticità - sui tre livelli del parlare in generale, del parlare una lingua e del parlare individuale.
Riferimenti
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Università degli Studi di Siena
Nella discussione semantica, il principio di sottodeterminazione linguistica del significato ha ricevuto trattamenti diversi. Secondo alcuni (cfr. e.g. [2]), la forma linguistica degli enunciati non corrisponderebbe sempre alla proposizione intuitivamente espressa dai parlanti, ma sarebbe comunque sufficiente a esprimere una proposizione - il che risulta vitale per dare conto della natura suppostamente rappresentazionale del significato. Secondo altri (cf. e.g. [1], [8]), essa non coglierebbe la proposizione intuitivamente espressa dai parlanti, n´e sarebbe sufficiente a esprimerne alcuna. Secondo altri ancora (cf. e.g. [9]), la forma linguistica degli enunciati sarebbe non solo necessariamente proposizionale, ma corrisponderebbe anche alla proposizione intuitivamente espressa dai parlanti. Con spirito montagoviano, questi ultimi autori stipulano la presenza nella forma linguistica degli enunciati di molteplici elementi di variazione contestuale vincolata, sicch´e la sottodeterminazione linguistica viene ad assumere l’aspetto di un principio di dipendenza contestuale del significato.
Il presente testo vuole presentare una versione recente di questa terza direzione di ricerca, sviluppata nell’ambito della cosiddetta ipotesi di logicità del linguaggio (cf. e.g. [5], [3], [4]). Tale ipotesi afferma che alcune contraddizioni e tautologie sono giudicate agrammaticali dai parlanti proprio in ragione del loro statuto logico; altre contraddizioni e tautologie, invece, risultano perfettamente accettabili, dal momento che un operatore di modulazione contestuale del significato `e in grado di reinterpretarle rendendole, almeno in linea di principio, non contraddittorie n´e tautologiche. Emerge così come la dipendenza contestuale sia una caratteristica (non solo semanticamente ma anche) sintatticamente centrale.
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