Con la pandemia da Covid-19, il mondo intero è entrato in uno di quei periodi che possono essere definiti “eventi storici”: avvenimento che è il primo grande sconvolgimento mondiale direttamente prodotto dall’accelerazione della globalizzazione. La conseguente crisi in corso è differente da tutto ciò che abbiamo conosciuto nel passato, in quanto mescola una catastrofe sanitaria planetaria con un crollo finanziario ed economico e con forti tensioni diplomatiche tra stati sulla questione della chiusura delle frontiere.
Combina la ricomparsa atavica dell’incubo delle grandi epidemie da peste (quella del 1340 aveva ridotto di un terzo la popolazione europea) con l’immagine del “villaggio globale”, profetizzato da McLuhan all’inizio degli anni Settanta, come conseguenza conclusiva del progresso tecnologico spinto alle sue estreme conseguenze. Il singolare incontro tra una paura millenaria e la presa di coscienza delle incertezze della post-modernità conferisce a questa crisi un carattere particolarmente preoccupante.
Vari capi di stato hanno promulgato lo stato di emergenza e vanno facendo appello alla solidarietà nazionale, che è un classico riflesso delle alte autorità del paese nei periodi tragici. La crisi del Covid-19, rispetto a tutte le altre conosciute fino a oggi, ha come particolarità il fatto di colpire direttamente e individualmente ogni abitante della terra, tanto nella sua vita professionale quanto nella sua vita privata. Nessun settore della vita quotidiana è risparmiato: trasporti, negozi, scuola, lavoro, tempo libero. Questa crisi non è solamente una questione di stato e di decisione pubblica; la soluzione non dipende solamente dalle politiche nazionali, ma necessita una disciplina individuale e collettiva che riguarda ogni minimo gesto quotidiano.
Nonostante viviamo nel villaggio globale, in una situazione di questo genere, l’idea di nazione va riacquistando un senso. Si presenta come una comunità unita dalla minaccia e dove ogni membro è chiamato ad assumersi la propria parte di responsabilità dinanzi al pericolo. La soluzione non viene da fuori: molte nazioni hanno preso misure drastiche di chiusura o di controllo delle frontiere, la regola è che ognuno pensa per sé. In tali circostanze, la nazione esercita il suo ruolo più classico, quello di protettrice e di base sicura; paradossalmente, la tragedia del Covid-19 è all’origine di un inaspettato ritorno dell’idea di nazione come valore supremo.
Probabilmente, dopo questo evento, nulla sarà più come prima. Questo drammatico evento apre il campo a una messa in discussione di un modello ideologico dominante nel mondo occidentale, annunciato da Francis Fukuyama nel saggio politico “La fine della storia e l’ultimo uomo” (1992). Nel saggio, l’autore ho sostenuto che la diffusione delle democrazie liberali, del capitalismo e dello stile di vita occidentale in tutto il mondo potrebbe indicare la conclusione dello sviluppo socioculturale dell'umanità e divenire pertanto la forma definitiva di governo nel mondo. Tale visione è fondata sull’immagine benefattrice di un mondo uniformato dai mercati, depurato da ogni ostacolo alla comunicazione, e su una fiducia esasperata nelle virtù del libero-scambio senza frontiere.
Questa crisi solleva delle questioni fondamentali sulla fragilità del mondo post-moderno e iperconnesso. Quali precauzioni avremmo dovuto o dovremo prendere? Quali comportamenti hanno favorito il crollo della finanza e dell’economia mondiale? Il Coronavirus potrebbe diventare anche un’immensa lezione di modestia per l’uomo post-moderno, convinto di avere il controllo sulle incertezze della natura e sul suo destino. Questa crisi planetaria prova fino a che punto, nonostante i folgoranti progressi tecnologici, la storia resti incontrollabile, e l’imprevisto avrà sempre un ruolo cruciale nella storia dell’uomo.
Il contesto in cui situare la nostra attuale esistenza è caratterizzato da due anni di pandemia e di relative restrizioni che hanno modificato radicalmente il nostro essere al mondo, in tutti gli ambiti della nostra quotidianità. Si è reso necessario l’uso massivo di tecnologie digitali per minimizzare le interazioni in presenza al fine di contenere i contagi. Tale cambiamento ha prodotto, in alcuni individui più e in altri meno, dei disequilibri nello stato emotivo e nel tono dell’umore.
Didattica e lavoro a distanza, ovvero Dad e smart working, sono entrati prepotentemente nelle nostre vite negli ultimi due anni e hanno stravolto le nostre abitudini. Ma come risponde e si modifica il nostro cervello in risposta a questo tipo di attività? Che cosa accade quando ci “incontriamo” a distanza? In che modo smart working e scuola a distanza cambiano il modo in cui il nostro cervello vive e interpreta le esperienze di lavoro e di apprendimento?
Il fatto che, dopo molte ore trascorse su Skype, Zoom, Meet o qualsiasi altra piattaforma virtuale, alcune persone abbiano manifestato sentimenti di stanchezza, ha portato alcuni autori a ipotizzare uno stress da videochiamate. Tale condizione ha portato alla nascita di una nuova parola per indicarla: Zoom fatigue, ovvero stanchezza da Zoom.
All’origine di questo fenomeno, alcuni autori hanno semplicisticamente ritenuto che alla base di tale fenomeno vi fosse la difficoltà e il maggior dispendio di energie richieste per comprendere l’altro e farci capire senza l’aiuto del linguaggio non verbale. Cosa oltretutto inesatta in quanto ciò accade solo se vi sono dei problemi di ricezione delle immagini.
Altri autori (Riva, Mantovani e Wiederhold, 2020), per analizzare come l’ambiente influisce sulle nostre esperienze, si sono concentrati su tre caratteristiche di queste attività e sui processi cognitivi associati ad esse: l’unicità del luogo in cui avvengono, la supervisione da parte di un capo o insegnante e la collaborazione con colleghi o compagni.
Ogni giorno, dal momento in cui ci svegliamo, ci troviamo di fronte a un flusso continuo di scelte. Molte sono di poco conto(come abbigliarci per andare al lavoro), altre sono più importanti (se accettare o meno un nuovo incarico) ma tutte si sommano. Quando coesistono troppe opzioni, tendiamo a sentirci sopraffatti, ansiosi, stressati o comunque a disagio. Questa condizione è stata definita stanchezza decisionale, uno stato di sovraccarico mentale che può ostacolare la nostra capacità di prendere ulteriori decisioni.
La pandemia ha aggiunto un nuovo livello di complessità alle scelte quotidiane che normalmente devono essere affrontate. "Non c'è aspetto della vita che la pandemia che non ci abbia obbligato a decisioni che non abbiamo dovuto prendere prima", afferma lo psicologo Barry Schwartz, autore di "Il paradosso della scelta”. “Le cose che prima non richiedevano alcun ragionamento o sforzo ora richiedono una continua pianificazione. Nel mondo covid tutto è diventato incerto: non abbiamo avuto una pratica precedente nel prendere decisioni in circostanze simili". Molti di noi si chiedono continuamente: è più sicuro andare a un evento sportivo o mangiare al chiuso in un ristorante? Dovremmo incontrarci con gli amici oppure no? Va bene viaggiare o andare in palestra o altro?
"Le informazioni di cui abbiamo bisogno per prendere decisioni cambiano continuamente", afferma Lynn Bufka, "E con la pandemia, alcune decisioni comportano un certo livello di rischio, che può portare all'ansia, che può compromettere la nostra capacità di acquisire informazioni e prendere decisioni".
Questo stato di fatica può portare alla paralisi decisionale o all'esaurimento dell'autocontrollo.La fatica della decisione è più di una semplice sensazione; deriva in parte da cambiamenti nella funzione cerebrale.