Leggenda dei nontiscordardime
Un tempo, in un regno prospero e felice, la giovane Daina abitava con la madre ormai vecchia
in una piccola capanna dipinta di bianco,
sul limitare di un campo di grano, vicino ad un ruscello che scorreva gioioso,
alla quieta ombra di alberi secolari.
Era bello in inverno, coi severi alberi spogli, i rami immobili contro il cielo grigio
e i bruni campi silenziosi dove volavano pigramente i corvi dalle nere, lucide ali.
Ed era bello in estate, sotto le fresche foglie luccicanti dove tubavano
le colombe innamorate l'una dell'altra,
accompagnando con il loro linguaggio d'amore il lieto scorrere del torrente d'argento.
Le donne andavano a riempire di purissima acqua i loro secchi in quel luogo incantato,
ed i viandanti si sedevano per riposare e parlare con Daina, flessuosa,
dolce e paziente come l'animale di cui portava il nome.
Ella lavorava filando alla rocca tessuti leggeri e preziosi per le ricche signore
del regno e sognava, filando, i suoi sogni,
il bel viso piegato sotto il peso dei lunghi capelli neri, raccolti sul capo in una treccia splendida,
degna di una regina,
i grandi occhi liquidi e scuri levati talvolta ad osservare fiduciosi chi voleva fermarsi a parlare con lei.
Un giorno, uno dei viandanti la informò che il Nobile Signore, padrone del regno,
stava visitando tutte le terre che gli appartenevano, e quindi certo sarebbe giunto anche lì.
Turbata - senza nemmeno ben capirne la ragione - per la prima volta nella sua breve, placida vita,
Daina corse dalla madre, per chiedere alla saggezza di lei quale mai vestito dovesse indossare
per rendere omaggio al loro Signore.
Quanto ai gioielli, la scelta era obbligata. Daina e la madre erano molto povere,
vivevano del lavoro della fanciulla,
e non possedevano che la piccola capanna bianca dove vivevano ed uno splendido gioiello,
un grande zaffiro che racchiudeva in sé tutti i tenui bagliori del cielo, incastonato in una montatura degna di un re.
Quello zaffiro era appartenuto ad un possente signore del regno,
che in anni ormai lontani aveva amato la madre di Daina,
bella allora come ora la figlia, e poi l'aveva abbandonata, lasciandole in dono la piccola
e quel gioiello prezioso.
La madre, sgomenta per il turbamento della figlia, pregò in silenzio perché la storia non si ripetesse,
perché alla fanciulla così ignara fossero risparmiati il dolore dell'abbandono e del disinganno,
le lacrime dello struggimento e della solitudine, ma ben sapendo che ogni cosa è già scritta,
aiutò comunque la sua bella figlia ad acconciare i lunghi capelli neri e
ad indossare un abito bianco come l'alba del mattino,
fermandole sul seno il gioiello azzurro colore del cielo.
Finalmente il Nobile Signore passò davanti alla piccola casa di Daina,
che attendeva tremando,
ma, anche se vide la graziosa capanna dipinta di bianco, la giudicò troppo piccola
per prestarle attenzione
e passò oltre senza badare alla bellezza di quell'angolo fatato; era estate,
ma preso dai gravi pensieri del suo regno, egli non vide le lucide foglie dei grandi alberi,
non udì il richiamo amoroso dei colombi innamorati,
non fu attratto dal fresco gorgoglio del ruscello d'argento.
Daina però non poteva tollerare il pensiero di non aver reso alcun omaggio al suo Signore.
E così, in un gesto dettato da inconsapevole orgoglio, poiché anche nelle sue vene scorreva nobile sangue,
e dalla delusione di un'inconfessata speranza, lanciò verso il Principe il suo prezioso gioiello di cielo.
Indifferente, il Principe passò col suo cavallo là dove il gioiello era caduto,
e dietro a lui gli infiniti zoccoli dei cavalli di tutto il suo seguito numeroso.
E il bello zaffiro si frantumò in numerose piccole schegge di luce azzurra, che riflettevano il sole.
Fu una dea pietosa che passava di lì a trasformare quelle schegge in migliaia di piccoli fiori azzurri,
cui venne dato il nome di "non ti scordar di me" perché il ricordo del gesto orgoglioso e gentile
della piccola Daina non andasse del tutto perduto.
La regina delle Nevi
...La Regina delle Nevi era una fata bellissima. Pastori e cacciatori che s’inerpicavano lassù,
sulle vette eccelse delle Alpi,
dove regnano le nevi perpetue, restavano incantati della sua tanta bellezza e
avrebbero dato qualunque cosa per poterla sposare.
Davano infatti quasi sempre la vita. Perché una legge implacabile del destino impediva
che la Fata potesse sposare un mortale.
La Regina delle Nevi del resto doveva aver proprio un cuore di ghiaccio:
attirava presso il suo palazzo di cristallo i malcapitati,
li accoglieva benevolmente, poi, sul più bello, appena essi le domandavano di sposarli,
sbucavano fuori, a un suo cenno, migliaia e migliaia di folletti da tutti i crepacci delle rocce.
Erano tanti e tanti, che non se ne vedeva la fine e, circondando
il pretendente e sospingendolo verso l’abisso,
lo facevano precipitare giù per i picchi dirupati.
Il giorno dopo qualche alpigiano ritrovava il suo cadavere sulla riva del torrente.
Un giorno, questa sorte crudele toccò a un giovane ardito cacciatore di camosci,
il più bel giovane che si fosse mai veduto al mondo.
Aveva visto la Regina delle Nevi in una rosata aurora di maggio e n’era restato cosi affascinato che,
tornato in pianura a casa sua, non aveva più trovato pace e non pensava che a lei.
Era timido e ingenuo, e perciò non osava ancora rivolgere alla bellissima Regina
la fatale domanda di nozze ma,
da quel primo giorno che l’aveva ammirata, era tornato più volte nel regno delle nevi
per aver la possibilità di rivederla ancora.
Si sedeva ai piedi di lei, taciturno, e stava ore intere a contemplarla senza nemmeno muoversi.
La Fata era in verità commossa di questa muta ammirazione.
E siccome il giovane non domandava di sposarla, non c’era ragione di chiamare l’aiuto dei folletti.
Forse anche, chi sa, senza avvedersene, la Fata gli si era affezionata.
E se non ci fosse stata la legge del destino a vietarle le nozze con un mortale,
forse quello era l’unico uomo che si sarebbe adattata a sposare.
I folletti se ne erano accorti e temendo che la loro Regina potesse un giorno trasgredire
la legge e attirare nel regno il castigo,
di loro spontanea iniziativa, senza aver avuto alcun ordine dalla loro sovrana, anzi a sua insaputa,
una volta che videro il giovane salire le balze dirupate del monte, lo attorniarono
e lo spinsero nell’abisso sottostante.
Era il tramonto e le torri lucenti del gran palazzo di cristallo,
dimora della Regina, erano tutte rosate per l’ultima carezza dei raggi del sole morente.
Da una finestra del palazzo, la Regina delle Nevi aveva visto ogni cosa.
Era fatale che fosse cosi, ma il cuore di ghiaccio della Regina delle Nevi
si era a poco a poco mutato in un povero cuore sensibile di donna:
dai suoi occhi divinamente belli scesero calde lacrime che, rotolando giù,
come vive perle, sulla superficie levigata del ghiacciaio,
scesero tra le rupi e li si fermarono, cambiandosi in piccole stelle d’argento.
Così nacquero le stelle alpine ("edelweiss" in tedesco), che spuntano proprio
sul margine dei precipizi per ricordare,
agli audaci che vogliono coglierli sfidando il pericolo, l’antica storia d’amore
e di morte del giovane cacciatore di camosci
che amò segretamente la Regina delle Nevi e fu da lei segretamente riamato.
Accadde tanti e tanti anni fa. Sopra una grande rupe inaccessibile c'era un vecchio castello con due torri,
una situata a sud, l'altra a nord.
Vi abitava un giovane Re, con la sua bellissima moglie, Milena, e con due figli gemelli.
Vivevano tranquilli ed erano felici.
Ma un giorno i vicini, invidiosi del Re, gli fecero guerra.
Lui stesso dovette partire con i suoi guerrieri. La Regina piangeva amaramente e,
mentre accompagnava il marito,
lo scongiurava così: «Non partire, mio diletto! Resta con noi!
Questa notte ho fatto un brutto sogno e credo che tu non ritornerai mai più... Non partire!».
«Non addolorarti, mia buona Milena!», le rispondeva il Re sorridendo.
«I miei guerrieri sono forti come le aquile, agognano alla vittoria e alla gloria.
I loro cavalli scalpitano impazienti nelle scuderie. Non essere triste, torneremo!
Correremo tra le grige montagne, tra le nubi e le gole selvagge e faremo ritorno alle nostre case,
carichi di trofei nemici e di gloria!»
Baciò in silenzio i due bambini e, seguito dall'esercito, sparì ben presto in mezzo alle montagne.
Dopo quel giorno trascorse un lungo anno, senza che del Re e dei suoi guerrieri si avessero notizie.
Per cercare il suo diletto sposo, la Regina aveva mandato in tutto il regno i suoi servi fedeli;
ma questi, al loro ritorno, raccontarono di aver percorse tutte le vie del mondo,
senza che nessuno potesse dar loro notizie circa il Re ed il suo esercito.
Trascorsero tanti anni ancora.
I gemelli erano diventati due bei giovanotti robusti; uno abitava nella torre meridionale,
l'altro in quella settentrionale.
L'uno aveva indole e mentalità diversa dall'altro, anche se si assomigliavano tanto,
che potevano esser confusi tra loro.
Molte volte si sbagliava anche la Regina!I due fratelli decisero dunque di lasciare il vecchio castello e di andare per il mondo in cerca del padre.
All'udire la decisione presa dai suoi figli diletti, la povera Regina Milena si mise a piangere.
Piangeva dalla gioia, per l'amore e la forza di cui davano prova i due principi;
ma piangeva anche dal dolore,
perché temeva di perderli così come aveva perduto suo marito.Mentre li accompagnava,
la Regina disse loro: «Figlioli miei, ho un'unica preghiera per voi.
Rimanete sempre insieme, come due buoi aggiogati al medesimo carro.
La via presa da uno sia cara anche all'altro.
Vogliatevi bene e non lasciatevi mai!».
Benedicendoli, raccomandava loro l'amicizia e la fedeltà; e intanto piangeva amaramente.
I due guerrieri uscirono dal castello avito in groppa a due robusti destrieri.
Un fratello aveva lasciato la torre meridionale, l'altro la torre settentrionale.
Galopparono assieme e di comune accordo per un buon tratto di strada, poi cominciarono
a desiderare direzioni opposte
perché i loro caratteri e i loro pensieri erano diversi.
Uno, Mures, scelse la direzione del nord;
l'altro, Olt, quella del sud.Irruento e sventato per natura,
Olt spronò il cavallo attraverso le montagne e corse verso il sole e la luce;
Mures, tranquillo e triste come una dolce notte araba, si diresse verso la mezzanotte.
Poco dopo, però, Mures cominciò a sentirsi triste per la mancanza del fratello e,
girato il cavallo, corse verso sud per raggiungerlo.
Non trovando Olt, Mures si decise a riprendere il proprio cammino, silenzioso e tranquillo.
Chissà come si era allontanato, Olt! Chi lo avrebbe potuto raggiungere?
La Regina Milena, inconsolabile, trascorreva le giornate sulla torre più alta del castello
e seguiva con lo sguardo le vie prese dai suoi amati figlioli.
Aveva visto che i due fratelli si erano separati quando ancora erano vicini al nido paterno,
ma si era consolata al pensiero che non sarebbero rimasti a lungo l'uno lontano dall'altro.
Poi li avrebbe voluti rincorrere. Ma in che modo? Avevano preso due direzioni opposte!
Piangendo, la povera Regina alzò le mani verso il cielo e pregò così: «Gran Dio»,
diceva tra le lacrime «guida i miei figli sulla giusta via!
Fa' che odano le mie preghiere e le mie lacrime!
Forse si ricorderanno di quello che avevo chiesto loro».
In quel medesimo istante, dai suoi begli occhi sgorgarono due ruscelli di lacrime,
che corsero nelle due opposte direzioni scelte dai due gemelli. Intanto i due fratelli,
insieme coi loro cavalli, si trasformarono in due fiumicelli e rimasero per sempre due fiumi.
L'Olt irruente e impetuoso precipita su enormi sassi, si trasforma in schiuma e comincia
a gettarsi giù dalle montagne,
attraverso gole e burroni, e circonda la Torre Rossa turbinando e
sbattendo contro le sue pareti poderose.
Il Mures scorre placido nella pianura e porta le proprie acque in alto, verso settentrione.
Voi penserete che nei due fiumi scorra acqua.
No, sono le lacrime cristalline dell'inconsolabile Regina Milena,
che ancora oggi piange i due figlioli partiti in cerca del padre.
La fiaba dei gatti (Otranto)
Una donna aveva una figlia e una figliastra, e questa figliastra la teneva come un ciuco da fatica,
e un giorno la mandò a cogliere cicorie...
La ragazza va e va, e invece di cicoria trova un cavolfiore: un bel cavolfiore grosso grosso.
Tira il cavolfiore, tira, tira, e quando lo sradicò, in terra s'aperse come un pozzo.
C'era una scaletta e lei discese. Trovò una casa piena di gatti, tutti affaccendati.
C'era un gatto che faceva il bucato, un gatto che tirava acqua da un pozzo, uno che cuciva,
un gatto che rigovernava, un gatto che faceva il pane.
La ragazza si fece dare la scopa da un gatto e l'aiutò a spazzare, a un altro prese in mano
i panni sporchi e l'aiutò a lavare,
all'altro ancora tirò la corda del pozzo, e a uno infornò le pagnotte.
A mezzogiorno venne fuori una gran gatta, che era la mamma di tutti i gatti,
e suonò la campanella: - Dalin, dalon! Dalin, dalon!
Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato venga a guardare!
Dissero i gatti: - Mamma, abbiamo lavorato tutti, ma questa ragazza ha lavorato piú di noi.
-Brava, - disse la gatta, - vieni e mangia con noi -.
Si misero a tavola, la ragazza in mezzo ai gatti e Mamma Gatta le diede carne,
maccheroni e un galletto arrosto;
ai suoi figli invece diede solo fagioli.
Ma alla ragazza dispiaceva di mangiare da sola e vedendo che i gatti avevano fame,
spartí con loro tutto quello che Mamma Gatta le dava.
Quando si alzarono, la ragazza sparecchiò tavola, sciacquò i piatti dei gatti,
scopò la stanza e mise in ordine. Poi disse alla Mamma Gatta:
- Gatta mia, ora bisogna che me ne vada, se no mia mamma mi sgrida.
Disse la gatta: - Aspetta, figlia mia, che voglio darti una cosa -.
Là sotto c'era un grande ripostiglio, da una parte era pieno di roba di seta,
dalle vesti agli scarpini, dall'altra pieno di roba fatta in casa, gonnelle, giubbetti,
grembiuli, fazzoletti di bambace, scarpe di vacchetta.
Disse la gatta: - Scegli quel che vuoi. La povera ragazza che andava scalza e stracciata, disse:
- Datemi un vestito fatto in casa, un paio di scarpe di vacchetta e un fazzoletto da mettere al collo.
-No, - disse la gatta, - sei stata buona coi miei gattini e io ti voglio fare un bel regalo -.
Prese il piú bell'abito di seta, un bel fazzoletto grande, un paio di scarpini di raso, la vesti e disse:
- Ora che esci, nel muro ci sono certi pertugi; tu ficcaci le dita, e poi alza la testa in aria.
La ragazza, quandò uscí, ficcò le dita dentro quei buchi e tirò fuori la mano tutta inanellata,
un anello piú bello dell'altro in ogni dito.
Alzò il capo, e le cadde una stella in fronte. Tornò a casa ornata come una sposa.
Disse la matrigna: - E chi te le ha date tutte queste bellezze? - Mamma mia, ho trovato certi gattini,
li ho aiutati a lavorare e m'hanno fatto dei regali, - e le raccontò com'era andata.
La madre, l'indomani, non vedeva l'ora di mandarci quella mangiapane di sua figlia.
Le disse: - Va' figlia mia, cosí avrai anche tu tutto come tua sorella.
-Io non ne ho voglia, - diceva lei, da quella malallevata che era, - non ho voglia di camminare,
fa freddo, voglio stare vicino al camino.
Ma la madre la fece uscire a suon di bastonate. Quella ciondolona cammina cammina,
trova il cavolfiore, lo tira, e scese dai gatti.
Al primo che vide gli tirò la coda, al secondo le orecchie, al terzo strappò i batti,
a quello che cuciva sfilò l'ago, a quello che tirava l'acqua buttò il secchio nel pozzo:
insomma non fece altro che dispetti per tutta la mattina, e loro miagolavano, miagolavano.
A mezzogiorno, venne Mamma Gatta con la campanella: - Dalin, dalon! Dalin, dalon!
Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato venga a guardare! -Mamma, - dissero i gatti,
- noi volevano lavorare,
ma questa ragazza ci ha tirato la coda, ci ha fatto un sacco di dispetti e non ci ha lasciato far niente!
-Bene, - disse Matnma Gatta, - andiatno a tavola -. Alla ragazza diede una galletta d'orzo bagnata nell'aceto,
e ai suoi gattini maccheroni e carne.
Ma la ragazza non faceva altro che rubare il mangiare dei gatti.
Quando s'alzarono da tavola, senza badare a sparecchiare né niente, disse a Mamma Gatta:
- Be', adesso dammi la roba che hai dato a mia sorella.
Mamma Gatta allora la fece entrare nel ripostiglio e le chiese cosa voleva.
- Quella veste là che è la piú bella! Quegli scarpini, che hanno i tacchi píú alti!
Allora, - disse la gatta, - spogliati e mettití questa roba di lana unta e bisunta
e queste scarpe chiodate di vacchetta tutte scalcagnate -.
Le annodò un cencio di fazzoletto al collo e la congedò dicendo:
- Adesso vattene, e mentre esci, ficca le dita nei buchi e poi alza la testa in aria.
La ragazza uscí, ficcò le dita nei buchi e le si attorcigliarono tanti lombrichi,
e piú faceva per staccarseli, piú s'attorcigliavano.
Alzò il capo in aria e le cadde un sanguinaccio che le pendeva in bocca e lei doveva
dargli sempre un morso perché s'accorciasse.
Quando arrivò a casa cosí conciata, piú brutta di una scoppiettata,
la mamma ne ebbe tanta rabbia che morí.
E la ragazza a furia di mangiar sanguinaccío, morí lei pure.
Mentre la sorellastra buona e laboriosa, se la sposò un bel giovane. cosí stettero belli e contenti.
Drizza le orecchie che ancora li senti
La Leggenda delle fate di Colfiorito
C'era una volta, nel cuore di una splendida vallata ai piedi del Monte Vettore, un paese chiamato Colfiorito.
All'interno di una grotta del Monte Vettore, viveva, assieme alle sue ancelle, la malvagia Sibilla.
Un giorno la perfida maga, irritata, provocò una frana che ricoprì completamente il paese di Colfiorito.
Molto tempo dopo, un gruppo di pastori solitari giunse sul posto in cerca di verdi pascoli,
ma anche di giovani fanciulle con le quali trascorrere il resto della loro monotona vita.
Una notte, con loro grande stupore, le ancelle della Sibilla uscirono dalla grotta e discesero il monte Vettore
per incontrare i pastori.
Al contrario della Sibilla, le fate erano delle donne bellissime, ed ognuna simboleggiava
un elemento della natura (acqua, fuoco, neve, prati, boschi...).
La Discesa delle fate si ripeté ancora per altre sere: le fanciulle raggiungevano di nascosto i pastori,
con i quali ballavano il saltarello, per poi scappare alle prime luci dell'alba.
Una notte però, un pastore, incuriosito, andò a guardare sotto i fastosi vestiti della propria amata
e con sua sorpresa notò delle zampe di capra.
Le fate, avendo capito che il loro segreto era ormai svelato, scapparono e tornarono nella grotta,
dove c'era però la perfida Sibilla che le stava aspettando per imprigionarle.
Pochi giorni dopo giunse nel luogo dove si erano stabiliti i pastori, un valoroso cavaliere chiamato Guerrin Meschino,
proveniente dalla città di Corfù in Grecia.
Egli era in cerca della Sibilla, per chiederle notizie dei propri genitori, che aveva perso in età infantile.
I pastori decisero di chiedere aiuto al Guerrin Meschino,
il quale giunse dopo pochi giorni al cospetto della Sibilla, che si innamorò subito di lui.
La perfida maga gli sottopose 3 domande: se il cavaliere avesse saputo rispondere,
la donna avrebbe esaudito i suoi desideri.
Con grande astuzia, il Guerrin Meschino riesce a risolvere i 3 indovinelli
e a rompere l'incantesimo che affliggeva le fate.
La leggenda ci racconta inoltre che i pastori e le loro giovani donne,
fondarono un paese sulle rovine di Colfiorito, che chiamarono Pretare.
Ma il mito non finisce qui! Infatti alcune versioni narrano che la perfida Sibilla sposò il Guerrin Meschino e,
ancora oggi, a Pretare si possono incontrare i lontani nipoti; naturalmente, questa è solamente una leggenda...
La leggenda della Fata della Luna
(fonte:ilportalino.org/juanito-e-la-fata-della-luna.htm)
C’era, un tempo, un contadino di nome Juanito, che era padrone di dieci bufali e di molte risaie.
Un giorno accadde una cosa strana: la più grande
delle risaie di Juanito si trasformò in uno stagno dall’acqua profonda,
che per di più aveva lo stesso colore dell’oro.
Appena si seppe, tutto il villaggio corse a guardare, e ognuno diceva la sua:
era buon segno, Juanito sarebbe diventato ricco; no, era una cattiva magia,
e a Juanito sarebbe accaduta una disgrazia.
Alla fine la gente si stancò di chiacchierare e se ne tornò a casa.
Sulle rive dello stagno rimase solo Juanito che, seduto fra i cespugli,
guardava sconsolato le acque d’oro, pensando al raccolto rovinato.
A un tratto, però, gli sembrò di sentire delle voci sconosciute, voci di ragazze che ridevano e scherzavano.
Guardò a destra, guardò a sinistra: nessuno.
Poi alzò gli occhi, e vide un gruppo di bellissime fanciulle vestite di rosso,
con ali di farfalla sulle spalle,
che scendevano giù dal Cielo per tuffarsi nello stagno.
Juanito le guardò nuotare e giocare, spruzzando acqua tutt’intorno, e alla fine,
convinto che la sua disgrazia fosse opera loro,
balzò fuori dai cespugli e gridò:
«Chi siete? E che cosa avete fatto alla mia risaia?»
In un lampo, le ragazze uscirono dall’acqua e presero il volo, come uno sciame di farfalle rosse.
Solo una non riuscì a scappare: le ali di farfalla cucite al vestito si erano impigliate nelle canne della riva.
Juanito si avvicinò e la prese per un braccio, furibondo:
«Dovrei tagliarti la testa! Ora che la risaia è diventata uno stagno, chi mi ripagherà il raccolto perduto?»
«Lasciami!» lo supplicò la ragazza.
«Sono la figlia di Abigat, il re delle fate, e non puoi trattenermi sulla Terra.»
Juanito, invece di lasciarla andare, la portò a casa sua, perché adesso non era più arrabbiato, ma innamorato:
la figlia del re delle fate era cosi bella che lui aveva deciso di prenderla in moglie.
Alla ragazza l’idea non dispiacque.
Juanito era bello e forte, e sicuramente non le avrebbe fatto mancare nulla.
Così si sposarono, ma il contadino sapeva bene che non sarebbe durata:
gli spiriti celesti, infatti,
non possono restare troppo a lungo sulla Terra, e prima o poi sua moglie avrebbe dovuto andarsene.
Per allontanare il più a lungo possibile quel momento, però,
Juanito nascose il vestito rosso con le ali di farfalla in un angolo della dispensa.
Senza di esso, la piccola fata non avrebbe mai potuto volare sulla Luna,
dov’era la casa di suo padre e delle sue sorelle.
I due sposi vissero felici per qualche anno, ed ebbero una bellissima bambina che fu chiamata Bugan.
Juanito la adorava, e la piccola lo seguiva ovunque.
Ma un giorno, mentre il padre era nei campi, la bambina andò in dispensa
a cercare le spezie per il pesce ripieno che sua madre stava cucinando,
e siccome non le trovava frugò dappertutto.
Ed ecco, in un angolo c’era uno splendido vestito rosso ornato con grandi ali di farfalla.
La bambina lo prese e corse in cucina:
«Mamma, guarda cos’ho trovato!»
«Il vestito che portavo quando ho conosciuto tuo padre!» gridò la fata, e,
senza badare al riso che bolliva e al pesce che cuoceva, se lo infilò.
Quando Juanito tornò a casa, trovò la moglie che lo aspettava con la bambina in braccio,
vestita di rosso come la prima volta che l’aveva vista.
Le grandi ali di farfalla battevano piano.
«E ora che io ritorni da mio padre, marito» disse la fata, piangendo. «Prima o poi doveva succedere, lo sai.»
«Ma siamo stati tanto felici, insieme!» gridò Juanito. «Se proprio devi andare, portami con te!»
«Non posso, le mie ali non sono abbastanza forti. Porterò Bugan, che è piccola e leggera.
E adesso addio, non ci rivedremo mai più.»
«No! Lasciami almeno la bambina!»
E Juanito si slanciò verso la moglie, cercando di strapparle Bugan dalle braccia.
La fata, però, aveva già preso il volo e si allontanava nel Cielo.
Ben presto lei e Bugan arrivarono così in alto che Juanito non le vide più,
e non gli rimase che sedersi sulla soglia di casa, con il viso tra le mani.
Restò là, senza muoversi, finché non spuntò la Luna: e contro il suo candore luminoso
il contadino vide l’ombra di una donna alata che teneva in braccio una bambina.
Era sua moglie, la fata, che aveva appena fatto ritorno alla casa di suo padre.
E chi oggi guarda la Luna, chiedendosi cosa sia quell’ombra scura
disegnata sulla sua bianca superficie, ora conosce la risposta:
sono la moglie e la figlia di Juanito, che guardano la Terra
e si chiedono cosa starà facendo l’uomo che hanno dovuto abbandonare.
MITO DELLE FILIPPINE
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