La Fata che aspirava al sole
La Fata viveva felice in un posto incantato.
La natura rigogliosa dai colori sgargianti e dai profumi inebrianti rigenerava l’anima
e i corpi delle creature che avevano la fortuna di abitare in quel luogo carico di magia.
Lei aveva ali ampie e cangianti, e la sua pelle sottile, morbida e diafana,
rifletteva i bagliori ora dorati, ora argentei, degli astri che si alternavano in un cielo profondo e sempre limpido.
Con le altre della sua specie passava molto tempo a giocare gioiosa
tra le acque spumeggianti di ruscelli e cascate per le quali aveva una predilezione,
e si dedicava con paziente impegno a controllare la crescita dei fiori e delle piante,
avendo cura che l’energia dell’ambiente circostante provvedesse al loro nutrimento.
Armonizzava, nell’etere di cui era parte, il nutrimento che proveniva dal Cielo,
sotto forma di luce e calore solare,
con quello che scaturiva dalla Terra, e lavorava alacremente per eliminare ogni forma di limitazione,
impedimento o distorsione che potesse anche solo per un momento alterare gli equilibri
e indebolire la flora cui si dedicava.
Osservava e preservava l’equilibrio tra gli elementi della Natura,
operando per fornire supporto e sostegno alla Vita e, ovviamente,
per dispensare amore e guarigione, come fanno tutte le Fate.
Spesso le capitava, creatura in parte eterea e incorporea,
in parte quasi solida e tangibile com’era, di intrattenersi con creature più dense,
forme di vita animale, e addirittura aveva incontrato qualche essere umano particolarmente puro di cuore,
di quelli che sanno vedere oltre il visibile comunemente inteso tra gli umani.
Con gli animali era più facile intrattenersi, rispetto agli umani.
Gli animali non avevano pregiudizi, e lei poteva facilmente avvicinarsi loro e prendersene cura nel momento in cui necessitavano di aiuto e supporto.
Come tutte quelle della sua specie, nei momenti di spensieratezza
la Fata amava danzare e intrattenersi in compagnia dei Fatui, dei Fauni gaudenti e passionali,
e di qualche Centauro tra i meno solitari.
Tutti insieme si ritrovavano e celebravano la Vita in quei cadenzati riti d’amore
che scandivano il susseguirsi delle stagioni nel tempo che scorre sulla Terra,
e questo la faceva sentire ancor più viva in quei momenti,
viva e partecipe di un equilibrio sacro in cui tutto era Uno…
Eppure c’era qualcosa che turbava, dapprima sporadicamente, poi sempre più frequentemente, la sua felicità.
Un bel giorno, anziché mantenere come sempre il suo sguardo amorevole e protettivo
sulla superficie della Terra, aveva iniziato a guardare il cielo.
E da quando aveva iniziato a farlo, le sembrava di avere iniziato a perdersi.
Si perdeva a inseguire con lo sguardo il cammino degli astri,
e di giorno desiderava tuffarsi nel calore e nella luce del sole,
e di notte si sentiva divorare dall’ardente desiderio di smarrirsi e ritrovarsi tra le stelle…
E si perdeva nel seguire con gli occhi le evoluzioni di creature leggere e leggiadre come l’aria stessa….
quegli Elfi che la Natura aveva creato più sottili ed eterei di quanto lei non fosse…
quei Geni cui la Natura aveva donato una brillantezza solare,
carica di elettricità frizzante e luminosa, così veloci che a stento si riusciva
a star dietro alle loro mutevoli e imprevedibili traiettorie…
Quelle erano le Creature che più ammirava e dalle quali era fatalmente attratta,
e rimpiangeva che il suo corpo, le sue ali, la sua natura stessa non le permettessero di avvicinarsi ad essi più di tanto…
e perché, poi? Chi o cosa glielo impediva, in fondo in fondo?
Solo la paura di volare troppo in alto e di cadere malamente…o di bruciarsi le ali.
Decise quindi di tentare, di provare, di osare un avvicinamento.
Ogni giorno si spingeva più in alto col suo volo, e un poco più lontano dalla radura dove aveva casa e compagnia,
e dove solitamente operava.
Le sue ali e il suo corpo, già sottili, le gravavano tanto da rallentarla in ogni tentativo di approccio.
Una tra le Creature di luce che inseguiva le sembrava più raggiungibile delle altre,
le sembrava a volte rallentare e guardare indietro, in basso, verso di lei…
forse perché si incuriosiva vedendola ogni giorno sfidare le leggi
e le convinzioni che la trattenevano così vicina alla Terra.
Ogni tanto le sembrava che questa Creatura aerea, luminosa ed elettrica si lasciasse avvicinare,
e questo le dava coraggio e voglia di sfidare sempre più il limite della sua stessa natura.
Ma c’era un prezzo che, giorno dopo giorno, la Fata pagava senza nemmeno accorgersene.
Ogni giorno gli sforzi e la vicinanza stessa con il Sole e con le Creature che inseguiva verso esso
le piagavano il corpo diafano e le bruciavano la pelle e le ali.
Lei amava il Sole cosi tanto, e amava le stelle così tanto,
e così tanto amava le Creature dell’aria che si libravano nei raggi di Luce…
lei, creatura di terra e di acqua, ora innamorata del fuoco caldo dell’astro diurno,
della fiamma elettrizzante dei Geni che abitavano l’aria sottile e
sembravano rigenerarsi bagnandosi nei raggi del Sole più rovente…
lei, pur di raggiungerli, avrebbe consumato il suo corpo e la sua vita,
perché da quando aveva iniziato a percepire altro, al di fuori del suo mondo incantato,
rassicurante e avvolgente, aveva iniziato a sentirsi morire.
O forse si sentiva morire ogni volta che, stremata dopo l’ennesimo volo,
le toccava posarsi a terra e riposarsi, per riprendersi dall’aver osato tanto.
Le Creature, i Geni che amava e inseguiva, non si posavano mai.
Sempre in movimento come l’aria stessa…un moto incessante come il respiro,
come il viaggiare stesso della luce….così belli e luminosi erano, quando danzavano verso il Sole…
così leggeri…e mai le veniva in mente che forse avrebbero potuto manifestare verso di lei
un poco più di amorevolezza, prendendola per mano e accompagnandola in quei voli,
nelle profondità celesti per lei abissali…
Qualcuna delle sue compagne, da terra, nel vederla consumarsi così insinuava
che le Creature d’aria e di luce fossero in realtà spietate e senza cuore…
come potevano accettare che la Fata si torturasse così?
Eppure lei non poteva fare altro che seguire l’ordine potente che scaturiva
dal suo cuore come una voce imperiosa che le intimava, nonostante il dolore,
di continuare a sfidare i suoi limiti e il buonsenso di cui Madre Natura l’aveva dotata,
all’inseguimento di un sogno impossibile.
E così, incurante sia della propria sofferenza sia della morbida compassione e
delle obiezioni con cui le sue simili e i suoi compagni di giochi di un tempo
tentavano invano di contenerla, un giorno la Fata decise che non sarebbe più tornata sulla Terra,
non si sarebbe più posata o riposata…si sarebbe lasciata cadere, piuttosto,
nello sforzo di raggiungere le altezze in cui le Creature amate
si libravano e intrecciavano danze sottili nel chiarore diurno del Sole e notturno delle stelle.
E incominciò a salire, sempre di più, sempre di più nel bagliore sfolgorante del giorno,
inseguendo i raggi del Sole per giungere alla fonte della luce stessa,
inseguendo stremata il Genio brillante che ora non sembrava più nemmeno accorgersi di lei…
e mentre saliva si sentiva sempre più attratta e sempre più consumata nel bruciare della sua pelle e delle sue ali,
e nello stesso tempo sentiva che il suo cuore di Fata spossato diventava leggero, incurante della sua propria sorte…
e il Sole era così bello e ridente, sembrava la fonte stessa delle Creature di luce che a frotte,
incuranti di lei, salivano e scendevano come scintille vorticando velocissime nei suoi raggi…
e lei non desiderava altro più che estinguersi in quella Fonte,
lasciandosi consumare e finire per quanto ormai le era insopportabile
il peso di quello che era stato il leggiadro corpo di una Fata…
e salì, e salì ancora, sempre di più con uno sforzo immane,
fino a che si sentì come avvampare in un turbine di fuoco,
e poi percepì il suo misero e sfinito corpo esplodere in un dolore lancinante
e una miriade tintinnante di frammenti d’etere…
l’ultimo pensiero, in quella forma, fu che il Sole era ancora così lontano,
e lei nemmeno era riuscita a sfiorare la Creatura che tanto aveva inseguito…
Poi si sorprese a scoprire che il dolore era cessato,
e c’era solo più una leggerezza gioiosa e inebriante d’estasi…
e lei stava salendo ancora, senza più sforzo, trasportata da una corrente
di Luce purissima della quale faceva parte…
luminosa, brillante, perfetta come una piccola stella,
come una scintilla di quel Sole che troneggiava nelle profondità celesti e
sfiorava amorevole la Terra col suo respiro caldo e carezzevole...
e proprio attraverso un raggio di Sole, danzando e vorticando in esso,
si scoprì ormai essere parte di quella Luce che tanto aveva inseguito…
messaggera e portatrice di Vita, luce e calore rigenerante…dal Cielo alla Terra.
fonte http://www.laviadellefate.com/index.htm
La Fata Scura
Le Fate, si sa, sono esseri impalpabili e sensibili che vivono di preferenza nei boschi
e ovunque vi sia vegetazione di cui prendersi cura,poiché una tra le loro funzioni
è quella di seguire tutti i delicati processi di generazione e rigenerazione di piante, fiori e alberi.
Le Fate amano molto condividere le loro danze e i loro giochi con altri Spiriti della Natura
che abitano la Terra e gli altri Elementi, e in generale sono attratte da tutto ciò che è piacevole e leggero,
compresi i pensieri, mentre rifuggono le atmosfere cupe e tristi
che le appesantiscono togliendo loro luce e vitalità.
Queste Fate che presiedono alla vegetazione nascono generalmente
nelle notti di Luna Piena: quando un raggio di Luna incontra una goccia di rugiada,
si forma come una nuvoletta di vapore opalescente che si addensa fino a diventare
una sorta di minuscolo batuffolo,un bozzolo soffice e luminoso fatto dei sogni più belli,
dal quale con il primo raggio di Sole emerge una nuova Fata circondata dal suo alone luminoso.
Una notte nel Bosco, proprio mentre la Luna nutriva coi suoi raggi
il candido bozzolo nel quale si stava formando una Fatina vegliata dagli altri Spiriti della Natura,
passò una enorme nube nera che oscurò completamente l'astro e la sua luce.
Non era una nube qualunque, fatta di pioggia, lampi e tempesta.
Era una nube terribile che, passando sulle città degli uomini,
si era saturata di rabbia, gas e frenesia, di rancore e rumori assordanti,
di tutte le emozioni più dense e pesanti, di tutti i pensieri violenti.
In due parole, puro veleno. Al passaggio della nube davanti alla Luna, immediatamente il
bozzolo iniziò a sussultare e a contrarsi, e la sua luce cominciò ad affievolirsi.
Invano Fate, Elfi, Gnomi e Folletti si prodigarono intorno all'embrione di Fata:
una cosa simile non era mai accaduta, e nessuno sapeva cosa fare.
Non restava che attendere l'alba.
L'alba venne, e col primo raggio di Sole l'involucro,
ormai simile a un grumo di ragnatela rinsecchita, si ruppe.
Tutti trattennero il fiato, e alla vista della creatura che faticosamente
uscì dal bozzolo non riuscirono a trattenere un gemito di orrore:
era un essere informe e inquietante, senza contorni definiti, una Fata scura,
densa e stropicciata come non se n'erano mai viste prima,
dal viso e dal corpo segnati da solchi ancor più scuri che la rendevano simile ad un frutto avvizzito.
Ammutoliti dallo stupore e dal timore, le creature del Bosco indietreggiarono svelte di un buon passo,
allontanandosi dall'ultima nata.
Questa percepì il freddo e la distanza, e divenne ancor più informe e rinsecchita.
"E' proprio brutta, con quelle rughe!" mormorò una Fata Azzurrina,
e sul volto della Fata Scura comparvero immediatamente altri solchi.
"E' cosi scura e densa!" fece eco un'altra Fata,e Scura divenne ancor più scura e densa, e si accigliò.
"Sembra così goffa e contorta per essere una Fata..." disse uno Gnomo,
e Scura si sentì rattrappire le gambe già malferme, e finì carponi a terra.
Era appena venuta al mondo e non capiva cosa le stesse accadendo, ma di certo non era piacevole.
"E questo è niente! Guardate: senza luce com'è,e piante appassiranno al suo tocco!" gridò una Fata Verde,
allarmando tutta la comunità del Bosco.
"E i semi non germoglieranno!" terminò un'altra.
Scura, disorientata, si guardava intorno mentre il suo sguardo
si faceva sempre più torvo e, chissà perché, appannato.
"Una Fata con questo aspetto non può che essere malvagia o portare sfortuna..." sussurrò uno Gnomo,
sottovoce sì, ma non abbastanza: Scura si voltò dalla sua parte proprio
mentre una grossa ghianda si staccava dalla quercia sovrastante e colpiva lo Gnomo dritto sulla testa...
A quel punto fu un parapiglia generale: mentre alcuni Gnomi soccorrevano l'incauto sfortunato,
Fate e Folletti si abbandonavano ad animati commenti:
"Allora è vero che porta sfortuna!" faceva uno.
"E' lei stessa una sfortuna per la nostra comunità!" diceva un altro, e così via.
Scura sentiva dolore dappertutto mentre il corpo si raggrinziva ancora,
e un dolore al petto che si faceva sempre più acuto;il suo corpo si accartocciava
e il suo sguardo diventava sempre più annebbiato,
fino a che un liquido salato prese a scorrerle dagli occhi lungo il viso.
Poi qualcosa in lei si ruppe, e con un urlo che raggelò i presenti fece un balzo
e si trascinò barcollando nel folto del Bosco.
Mentre passava accanto ai ruscello, l'istinto le suggerì di specchiarvisi
per vedere cosa spaventava tanto chi l'aveva accolta,ma le Ondine stesse,
alla sua vista, indietreggiarono, così che l'acqua si ritirò.
Era davvero troppo per la piccola Fata Scura che,con un grugnito
insieme sdegnoso e rassegnato,sparì rifugiandosi in quell'angolo scuro del Bosco
dove il Sole non batteva mai.
Un Elfo dal cuore sensibile aveva assistito pensieroso alla sequela di avvenimenti
che avevano gettato il Bosco nel panico, panico che, come ben si sa,non si addice molto agli Spiriti fatati.
Gli Elfi, creature che amano la compagnia delle Fate,
sono fortunatamente molto rapidi nel captare l'essenza degli eventi e a formulare soluzioni.
L'Elfo aveva notato che la piccola Fata Scura era peggiorata a vista d'occhio dopo la sua nascita,
come se avesse dato corpo ai timori e alle previsioni dei suoi compagni sconcertati.
E certamente era stato l'influsso di quella nube a causare quello strano fenomeno.
L'Elfo si mise allora alla ricerca della Fata, certo di poter rimediare alla situazione,
e la scovò raggomitolata nel freddo e buio angolo del Bosco dove crescevano solo i funghi velenosi.
L'Elfo non aveva paura di Scura perché aveva il cuore leggero come l'Aria
e l'Aria non si può ferire,quindi le sì avvicinò e cominciò a soffiarle intono piccoli vortici leggeri come lui,
cercando di solleticarla per farla almeno sorridere.
Ma Scura non ne voleva sapere, e con uno "sgrunt" sì girò dall'altra parte.
Allora l'Elfo volò a raccogliere dal fiore più vicino una goccia di nettare dolcissimo
e lo offrì alla Fata intrufolandosi tra le foglie marce che la celavano.
Scura si irritò ancor di più e, per scacciare l'intruso, cercò di colpirlo,
ritrovandosi tutta impiastricciata di nettare che, suo malgrado, così assaggiò.
Tutta quella dolcezza sembrò placare il suo tormento, e finalmente Scura si addormentò.
Intanto l'Elfo aveva riunito l'assemblea, esponendo un piano che
aveva convinto tutti gli Spiriti della Natura abitanti nel Bosco.
Tutti quanti, dispiaciuti per essersi lasciati travolgere dalle loro paure
e per aver abbandonato a se stesso un membro della comunità del Bosco in difficoltà,
si misero all'opera cercando di aiutare quella piccola Fata Scura che forse essi stessi,
inconsapevolmente, avevano contribuito a far diventare un mostro.
Fate, Gnomi, Elf e Folletti lavorarono tutto il giorno per sfoltire la vegetazione che,nel luogo in cui Scura si era rifugiata,
ostacolava il passaggio ella luce.
Verso il tramonto, trasportarono nei luogo in cui Scura giaceva
una gran quantità di profumati petali di fiori dei più bei colori,
e senza svegliare la piccola, li sostituirono alle foglie marce che la nascondevano alla vista.
Poi la vegliarono tutta la notte e, mentre la luce della Luna che filtrava tra i rami
e le foglie la accarezzava dolcemente, cantarono per lei.
"Sei una Fata bellissima..." intonava un Elfo;
"...luminosa e leggera..." proseguiva una Fata;
"...Sei sensibile e flessuosa..." cantava qualcuno,
"...gentile ed elegante..." concludeva qualcun altro,
e così in coro, per tutta la notte, gli Spiriti fatati del Bosco tesserono gli elogi di quella piccola Fata,
inviandole dal profondo del cuore parole e pensieri accoglienti, pieni d'amore e di tenerezza.
Giunse l'alba, e la Fatina si svegliò con uno strano solletico nel petto.
Il dolore era un ricordo lontano, forse un brutto sogno.
Qualcosa in lei era mutato, e nello stiracchiarsi del risveglio percepiva il corpo trasformato, leggero.
Le Salamandre dei primi raggi di Sole la riscaldarono,
mentre timida faceva capolino tra bellissimi colori che non aveva mai visto.
Agli occhi della comunità del Bosco, che aveva vegliato tutta la notte,
apparve una bellissima Fatina Lilla e Rosa, luminosa,
titubante e stupita almeno quanto loro di un tale miracolo di trasformazione, operato dal potere dell'amore
e della fiducia trasmessi da tutti quei cuori riuniti insieme.
fonte http://www.laviadellefate.com/index.htm
C'era una volta tanto tempo fa in un bosco un regno incantato abitato dalle fate.
Il posto era bellissimo, sembrava quasi uscito da un dipinto di un pittore,
le case erano delle piccole capannine contornate di fiori e di stelle brillanti di
tutti i colori ed i loro vestiti erano azzurri come il cielo.
Di notte le fate si radunavano sempre per fare grandi balli al chiarore della luna
e dalle loro mani si spargeva una polvere magica che rischiarava il cielo.
Questo splendore rischiarava tutta la vallata e nel paese tutti erano felici di sapere
che c’erano quelle magiche creature nel bosco, anche se nessuno aveva mai osato andare a curiosare.
Una notte però durante il ballo la loro principessa cadde a terra come morta
e le sue compagne cominciarono a preoccuparsi e a chiedersi il perché e
decisero di andare al villaggio a chiedere aiuto.
Strada facendo incontrarono una ragazza che viveva nel bosco da tanto tempo
perché amava la natura e gli animaletti del bosco.
Si chiamava Rebecca ed era vestita di seta rosa;
i suoi splendidi capelli rossi erano tirati da una coroncina di fiori.
Non si allontanava mai dalla sua casetta perché doveva occuparsi del suo giardino
e del suo orto dove coltivava delle erbe medicinali con le quali a volte curava i piccoli amici del bosco.
Scoiattoli, uccellini, coniglietti, anatroccoli, tutti, proprio tutti le volevano un gran bene.
Quel giorno Rebecca era tutta presa a ricamare seduta vicino al torrente
e sentendo i passi da lontano alzò lo sguardo e vide le fate che chiedevano aiuto ad alta voce.
Lei si alzò da terra e andò loro incontro chiedendogli: “Che succede ? Perché urlate tanto?”
E loro risposero: “La nostra principessa è caduta come morta durante il ballo
e non riusciamo a capire cosa sia successo”.
La ragazza vedendole disperate decise di andare con loro.
Giunta vicino alla casina della Principessa Harlen si chiese come poteva
fare ad entrare in una casa così piccola, ma le fate le dissero di non preoccuparsi
perché loro sapevano come fare.
Così le si misero attorno e con il solo tocco delle mani
la fecero diventare piccola piccola, come un uccellino.
Ella entrò e vide la bella principessa sdraiata sul letto, quasi morente.
La ragazza allora disse loro che la principessa era in fin di vita perché
aveva perso la polverina magica che sprigionava dalle mani.
Le fate le chiesero come potevano fare per guarirla
e la ragazza rispose loro di andare vicino al ruscello per raccogliere dei fiori di loto pieni di rugiada.
Avrebbe poi pensato lei a preparare la medicina adatta per Harlen.
Le fate andarono vicino al ruscello e raccolsero una grande quantità di fiori di loto.
Quando ritornarono nel bosco, la ragazza preparò una miscela e
sollevarono il capo della principessa per fargliela bere.
Come per incanto la principessa aprì gli occhi e sorrise.
Mosse le mani e la capannina si inondò di una meravigliosa luce colorata.
Harlen era tornata ad essere quella di sempre.
Tutte felici le fate ringraziarono quella dolcissima ragazza che l’aveva riportata in vita
e la sera stessa ci fu un gran ballo in suo onore dove le fate si esibirono in canti e balli.
La ragazza ritornò nella sua casa felice e soddisfatta per quello che aveva fatto,
perché con la sua bontà e generosità aveva salvato la vita di quella creatura così speciale… la principessa delle fate.
©Valeria Zaccaria
fonte http://www.cittadiluce.net/citta-di-luce-f1.html
Il Canto del Cristallo
C'erano una volta due sorelline che vivevano in una valle incantata.
La valle era protetta da altissime montagne che d'inverno si rivestivano di neve soffice e candida,
e in primavera, al disgelo, cantava di freschi
ruscelli che si rincorrevano limpidi e spumosi lungo i pendii.
Le due sorelline abitavano in una piccola baita nel bosco, ai piedi della montagna più alta,
quella che - si diceva - aveva il Cuore di Cristallo,
e trascorrevano la maggior parte del loro tempo in mezzo alla Natura,
ascoltandone i suoni per i quali avevano una forte passione
e cantando e danzando con essa.
Una delle due sorelle sembrava poter vedere quello che agli occhi umani non era concesso,
cioè quelle creature che popolano il bosco e i luoghi in cui la Natura è incontaminata,
quegli esseri sottili ed impalpabili che la tradizione definisce "fate", "gnomi", "folletti"..
.il cosiddetto "Piccolo Popolo degli Spiriti della Natura",
e spesso danzava con loro.
L'altra sembrava che avesse il dono di ascoltarne le voci, e con loro intrecciava canti,
incantandoli con la sua stessa voce e con i suoni che scaturivano da tutto ciò che toccava.
Tutto sembrava sereno, nella valle, tutto sembrava scorrere in perfetta armonia.
Ma un giorno giunse loro notizia che strane cose stavano accadendo.
Le montagne non sembravano più così accoglienti, la valle intristiva e con essa i suoi abitanti.
La Terra sbottava di soprassalto più spesso di quanto facesse un tempo...
Forse la Natura manifestava i segni di quanto da tempo subiva dagli uomini...
Sembrava che la Terra volesse dire qualcosa - o, forse, chiedere.
Nei sogni delle due sorelline sempre più spesso la Montagna Alta, quella dal Cuore di Cristallo, compariva.
Sembrava chiedere loro di mettersi in viaggio fino alle sue cime
e da lì entrare nelle sue viscere, fino a raggiungere il centro del suo cuore cristallino.
Fu così che un giorno le due sorelline si misero in viaggio,
un po' incerte perché non sapevano cosa fare, una volta arrivate là.
Sul cammino incontrarono uno strano individuo,
un anziano dalla lunga barba bianca e dallo sguardo penetrante e azzurro come il cielo terso d'inverno.
"Dove state andando?"
"La valle sta soffrendo, e la Montagna Alta ci chiama fino al suo Cuore di Cristallo,
ma neanche noi sappiamo perché, né cosa dovremo fare là, una volta raggiuntolo."
"Benedette bambine!...Il Cuore della Montagna, un tempo puro e immacolato,
ora è offuscato dal dolore che gli uomini, col loro agire incosciente, hanno inflitto alla Terra.
La Terra soffre e la Montagna con essa...".
L'anziano, serio, proseguì:
"Dovete sapere che il Cuore di Cristallo della Montagna raccoglieva e
incanalava le energie purissime del Cielo inviandole al centro della Terra e,
viceversa, convogliava le forze della Terra verso il Cielo, creando un Ponte Sacro
essenziale alla vita e all'equilibrio della valle e di tutto il pianeta.
Chi ha creato questo mondo fa scendere le benedizioni dal Cielo sulla Terra
attraverso ponti come questo, e se il cristallo è offuscato il Ponte è interrotto...
Per ridare gioia alla valle e ai suoi abitanti bisogna ripristinare il ponte,
bisogna far tornare puro e immacolato il Cuore della Montagna, e per far questo bisogna farla cantare.
Il canto del
Cristallo scioglierà tutto il dolore e il cuore della montagna tornerà a risplendere puro,
riportando luce nel cuore della Terra e pace agli abitanti della valle."
"Ma come potremo far cantare la Montagna?" chiesero allora le bambine.
"Dovete fare in modo che il suo Cuore di Cristallo canti con voi."
"Ma cosa dovremo cantare, per far sì che la montagna canti con noi?"
"Dovrete cantare il Nome segreto di Chi ha creato ogni cosa e che risuona incessantemente,
da sempre, nel cuore di ogni uomo.
Le due sorelle si guardarono, ciascuna sperando che l'altra avesse capito,
e quando volsero lo sguardo sul saggio per farsi meglio spiegare, egli era già sparito.
Si rimisero in cammino ancor più confuse, incuranti del freddo e pensose.
Erano presso la cima quando si accorsero di non esser sole, bensì circondate da creature vitree,
sottili, che si confondevano con le nevi e coi ghiacci.
Erano gli Spiriti a guardia della Montagna, pronti a mostrare loro il passaggio,
altrimenti inaccessibile, per giungere al Cuore di Cristallo della Montagna stessa.
Le due sorelle si inoltrarono nel tunnel buio,
scorgendo appena il percorso che veniva loro illuminato dal pulsare
di quello che pareva il cuore di questi esseri non certo umani,
un cuore silenzioso come loro e come la Montagna.
Finalmente giunsero al centro del Cuore della Montagna,
e uno spettacolo meraviglioso apparve ai loro occhi.
Una fenditura dall'alto lasciava passare un raggio di luce che si rifrangeva
e moltiplicava se stesso sulle infinite sfaccettature di innumerevoli concrezioni cristalline...
il Cuore della Montagna era veramente di Cristallo,
di tanti cristalli stupendi che ne rivestivano le cavità silenziose,
pulsanti di luce ormai debole, offuscata, che lasciava immaginare quel che l'uomo aveva inflitto alla Terra.
Gli Spiriti della Montagna si erano radunati silenziosi attorno alle due sorelle, in attesa.
Il loro cuore luminoso pulsava col debole cuore della Montagna,
che sembrava potersi spegnere da un momento all'altro, per sempre.
Le due sorelle si guardarono, anche loro in silenzio.
In loro echeggiavano le parole dell'uomo incontrato sulla strada:
"...per far cantare la Montagna, bisogna cantare il Nome segreto di Chi ha creato ogni cosa,
un Nome che risuona incessantemente nel cuore dell'uomo... di ogni uomo...senza distinzione...."
...il Nome segreto racchiuso nel cuore di ogni uomo...un suono!...qui tutto è silenzio...
un suono che sia un canto... il suono del suo battito,
il suono del battito del cuore dell'uomo farà cantare la montagna!
Le due sorelle si presero le mani e le appoggiarono sul loro cuore,
e cercarono di dargli voce, per far sì che tramite la loro voce arrivasse al cristallo per farlo vibrare...
e il cristallo cantò, e cantò, e cantò di un canto sublime,
e il dolore si sciolse e con esso l'oscurità.
Man mano che si levava il canto, dal Cuore di Cristallo della Montagna
la luce sembrava inondare le viscere della Terra, e in men che non si dica tutta
la valle risuonava di quel canto, che si propagava da montagna a montagna.
Agli occhi e alle orecchie delle due sorelline sembrava un miracolo,
e danzarono di gioia, mentre continuavano a cantare quel suono che ciascuno,
ignaro, custodisce nel cuore e che faceva vibrare la montagna.
Forse gli uomini avrebbero continuato a devastare la Terra,
forse il Cuore della Montagna avrebbe sofferto ancora e ancora una volta si sarebbe offuscato,
interrompendo quel flusso di luce che dal Cielo giunge alla Terra....
Loro avrebbero comunque cantato e fatto cantare la Montagna,
e avrebbero insegnato quel canto ad altri, per riportare la serenità e la purezza del cristallo in ogni cuore, sempre.
Scritto da giovigio
fonte: http://www.tiraccontounafiaba.it/
I fiori della felicità
C’era una volta un bosco che non era un bosco qualsiasi,
ma un bosco nel quale gli alberi, i sassi e gli animali parlavano come gli esseri umani.
C’è anche da dire, però, che questo avveniva solamente di notte.
Di giorno era un bosco come tanti altri.
In quel bosco nessuno ci aveva mai messo piede in quanto
i suoi confini erano segnati da spessi rovi spinosi che scoraggiavano chiunque ad avvicinarsi.
Nel paese, in fondo alla valle, si diceva che in quel bosco crescesse
il fiore della felicità e che chiunque fosse riuscito a toccare tale fiore sarebbe stato felice per tutta la vita.
Come si potrà immaginare tantissime persone si erano messe
in cammino per entrare in quel bosco in cerca di quel fiore speciale.
Le persone arrivavano piene di entusiasmo e portavano con sé anche
delle falci e delle accette per abbattere i rovi, poichè sapevano quanto erano spessi, intricati e pungenti.
Il fatto è che nessuno riuscì mai ad aprirsi un varco per entrare
in quel bosco poichè nel medesimo istante in cui il rovo veniva violentemente reciso,
un altro più forte ed irto di spine si ergeva davanti a colui che tentava di passare.
Un giorno arrivò da quelle parti un giovane che amava molto passeggiare
in mezzo ai boschi ed era di temperamento mite e molto curioso.
Notò quei rovi spessi ed intricati e cercò fra di loro un passaggio
costeggiando quel luogo selvatico lungo il sentiero che lo circondava.
Cammina e cammina, il tempo passava, ma il giovane non trovò
proprio nessun varco per poter entrare in quel bosco che stava diventando per lui assai misterioso.
Si accorse che il sole stava tramontando e la notte cominciava
a stendere il suo scuro mantello sopra ogni cosa.
Pensò che doveva tornare sui suoi passi e correre velocemente verso il paese.
Per fortuna era una notte limpida e serena illuminata dalla luna piena che,
come una regina, troneggiava nel cielo stellato.
Mentre stava accelerando il passo girò il capo nuovamente
verso quel bosco inaccessibile e gli parve di udire delle voci. Si fermò di botto e rimase in ascolto.
- Felicità, ora canteremo per te - proferì una vocina lieve lieve.
- C’è la luna, possiamo starcene all’aperto - dissero altre voci.
Il nostro amico, che si chiamava Otto, non credeva alle proprie orecchie
e si alzò sulle punte dei piedi, allungando anche il collo, per vedere da dove provenivano quelle voci.
In quel momento perse leggermente l’equilibrio e, nel ricomporsi,
provocò un piccolo rumore sul sentiero sassoso.
- C’è qualcuno là fuori - sentì dire dall’interno dei rovi.
Siccome Otto era anche un giovane coraggioso, disse :
- Chi si nasconde fra i rovi? Non fatemi del male perché ho con me il fucile e sarà peggio per voi -
- oh, non temere - rispose una vocina squillante -
noi non facciamo male a nessuno, caso mai sono gli umani che spesso fanno del male a noi -.
- Gli umani? - chiese Otto.
- Si, gli umani, vogliono entrare nel nostro bosco e ci fanno tanto male con le loro falci ed accette. -
- Ma voi chi siete? - chiese il nostro amico.
- Noi siamo quello che vedi davanti ai tuoi occhi - risposero.
Allora Otto sgranò i suoi occhioni scuri e vide fra i rovi un’infinità di occhietti vispi puntati su di lui.
- Io non capisco chi voi siate - disse - posso entrare per vedere meglio? - chiese.
- Solo se poggi il fucile per terra e liberi le mani da ogni cosa - risposero.
Allora Otto poggiò il fucile per terra e cominciò a spostare delicatamente i rami spinosi,
facendosi largo, finchè giunse davanti ad una piccola radura.
Si guardò intorno, ma non vide anima viva, solo quegli occhietti vispi
che spuntavano da ogni tronco, ramo e sasso là intorno.
All’improvviso si levò nell’aria un coro che intonò una dolcissima canzone
mentre una brezza leggera muoveva i fili d’erba e le fronde degli alberi come in una danza.
In quel momento il prato fu illuminato da una miriade
di fiori bianchi che luccicavano ai raggi della luna.
Le voci del coro si smorzarono lentamente e intorno si levò un leggero brusio.
Allora, una vecchia quercia che stava di fronte al nostro amico, così parlò:
- Caro giovane Otto, questa notte hai visto dove vivono i fiori della felicità.
Sono gelosamente custoditi in questo bosco perché non vogliamo
che vengano sciupati nel mondo, là fuori.
Ora, se tu ne coglierai uno, potrai essere felice per tutta la vita
e così pure i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, ma ad una condizione:
dovrai sempre seguire la via del bene e fuggire dai sentieri del male.
La via del bene è quella che ti indicherà il tuo cuore,
quella del male quella che ti indicherà il tuo egoismo.
Potrai permettere di toccare il fiore della felicità a tutte le persone che lo desiderano
- continuò la vecchia quercia - ma dovrai precisare che l’effetto della felicità
svanirà se non osservano ciò che ti ho appena detto -.
Il giovane Otto allora si chinò e raccolse uno di quei fiori bianchi:
- Farò come dici tu, lo prometto, grazie - disse.
Nel frattempo stava ormai albeggiando e Otto sentì il desiderio di tornare alla sua casa;
si girò per vedere se c’era ancora il piccolo varco fra i rovi e,
riconosciutolo, si avviò con passo deciso.
Gli occhietti erano spariti e una brezza leggera lo accompagnava fin sull’orlo della stradina.
Era fuori. E aveva in mano il fiore della felicità.
Giunto al paese raccontò la sua avventura, ma non tutti gli credettero.
Taluni però vollero toccare quel fiore e promisero di osservare
le raccomandazioni che il giovane aveva ricevuto dalla vecchia quercia.
E si sa che furono loro, poi, ad assaporare il raro e squisito sapore della felicità.
La fata tradita
Una bella fiaba balcanica racconta la malinconica storia d'amore
fra un giovane principe e una piccola fata incontrata di notte
dentro una radura di tigli che profumano dolci sotto la luna.
A palazzo c'è stata una festa in onore del principe che compie vent'anni.
Il re suo padre ha invitato le dame più interessanti che esibiscono
la loro grazia in mille modi per ricevere l'attenzione del principe.
La fatina invece lo ha aspettato nel bosco, dove lui si reca al termine
dei festeggiamenti, annoiato e inquieto.
Vuole porgergli i suoi auguri lontano da palazzo, dove, dice,
non è degna di entrare a causa della minuscola statura.
Il principe resta invece catturato dalla sua speciale bellezza,
preferendola di gran lunga a quella delle altolocate dame di corte che ha appena conosciuto.
E anche la fata prova dell'attrazione per lui, perché, prima di lasciarlo,
gli lascia il suo guantino: un guanto che il principe non potrà mai indossare tanto è piccolo,
ma che ha un grande significato.
L'indomani il principe torna a cercare la fatina che gli ha toccato il cuore,
la incontra e parla con lei di cose che gli sembrano meravigliose e così i giorni successivi.
Si accorge intanto che la sua piccola amica ha una strana caratteristica:
giorno dopo giorno, accanto a lui che si sta innamorando di lei,
aumenta di statura fino quasi a raggiungerlo.
Una sera il principe prende coraggio e le chiede di essere sua sposa.
La fatina accetta chiedendo in cambio un amore lungo e fedele, nient'altro.
"Se ti innamorerai di un'altra donna" dice molto seriamente "non mi vedrai più".
Al principe sembra perfino troppo facile acconsentire a una richiesta
che collima perfettamente con le sue aspettative.
Perciò promette e la conduce a palazzo dove con il suo fine splendore entusiasma tutti.
I giorni, i mesi, gli anni si susseguono uno dopo l'altro e sembrano felici, finché...
Finché giunge il momento in cui il vecchio re muore e il principe si trova ad ereditarne il trono.
Prima di assumere i pieni poteri organizza ovviamente la cerimonia funebre per salutare il caro padre.
E lì, fra i molti notabili che partecipano al corteo funebre,
nota una bella donna dai capelli rosso fiamma che lo guarda sorridente
e per tutta la durata della cerimonia non gli stacca gli occhi di dosso.
Il nuovo re, camminando alla testa del corteo,
non cessa a sua volta di ammirarla e intanto si scorda della sposa che le cammina al fianco.
Non si accorge nemmeno che si va facendo via via più piccola,
inciampando nell'abito via via troppo grande.
Non la saluta neppure quando, giunta all'altezza del bosco, sparisce fra i tigli.
Il re si è abbandonato totalmente alla nuova inebriante esperienza d'amore.
Dimenticata la piccola fata presto sposa la donna dai capelli di fiamma e si dedica ai compiti del regno.
Ma un'amara sorpresa lo attende.
La nuova moglie rivela un carattere ambizioso e prepotente.
La vita mondana, il successo, la ricchezza sono le cose che l'hanno attirata a corte, non certo l'amore per il re.
Il quale adesso ha modo di pentirsi di averla sposata,
tanto che le intima di lasciare la corte e di andarsene.
Adesso sì che ripensa alla piccola fata e torna nel bosco a cercarla.
E' potente, ricco e il suo nome riempie di fama il mondo, ma la sua anima è infelice e affamata.
Cerca fra le vecchie cose del passato il guantino della fata.
Lo trova e torna a stringerlo sul cuore, consumandolo di lacrime e di baci.
Ogni giorno si reca nel bosco a supplicare perché la prima moglie ritorni. Invano.
Così trascorre tutto il tempo che gli resta da vivere, fino alla vecchiaia che rende bianchi e curvi, giorno dopo giorno.
La piccola fata però non torna più.
Il mondo di Amina
Quella che sto per raccontarvi è la storia di una bambina di nome Amina.Ella viveva in un piccolo villaggio immerso in una grande foresta.Amina era una bambina molto curiosa, le piaceva osservare tutto quello che la circondava e spesso si accoccolava sugli scalini della sua casa e si divertiva a vedere tutti gli abitanti che dalla mattina alla sera lavoravano per rendere il piccolo villaggio sempre accogliente, caldo e luminoso.Ognuno di loro aveva un compito ma la regola da rispettare perché il villaggio potesse sempre essere perfetto, era che tutti gli uomini e le donne che lo abitavano dovevano lavorare sodo per renderlo sempre più prestigioso e importante.
Non lontano dal villaggio, vicino al ruscello c’era la casetta di un vecchio saggio e spesso, senza chiedere il permesso alla mamma, Amina andava a trovarlo.Durante il tragitto che la divideva dal villaggio al ruscello,Amina raccoglieva fiori di tutti i tipi ed era molto attenta nel portarli perché non voleva che si sciupassero. Erano il suo regalo per il saggio che amava i profumi e i colori. Lui era dolce, amorevole come un padre e le raccontava storie fantastiche di principesse e draghi.
Il vecchio saggio sapeva che Amina non era molto considerata all’interno del villaggio; tutti erano più grandi di lei e la consideravano troppo piccola per qualunque cosa dicesse o facesse.Lei, nonostante quei suoi occhi così grandi che sapevano vedere, si girava dall’altra parte e non ci faceva caso a quello che diceva la gente e continuava a sorridere al sole, a volgere lo sguardo verso la grande montagna e a portare i suoi doni al vecchio.
Un giorno però la mamma, stanca delle lamentele dei grandi consiglieri del villaggio che consideravano Amina una bambina senza regole e troppo libera, decise di parlarle seriamente e uscì di casa, sapendo che l’avrebbe trovata come al solito a giocare vicino al ruscello. “Amina”- disse la madre appena la vide. Ho una grande notizia….da domani ci trasferiremo in una casa più bella, nel villaggio al di là della grande foresta. Vedrai come staremo bene, imparerai tante cose, e se diventerai brava potrai con il tempo costruire un villaggio tutto tuo, fidati di me! – Ma mamma- disse Amina un po’ spaesata. Io sto bene qui, non voglio andar via. Ma la mamma fu irremovibile e con uno sguardo severo concluse:- E’ deciso e faremo così-. Amina allora si voltò verso il grande saggio che era rimasto in silenzio seduto sulla roccia vicino al ruscello, posò i fiori ai suoi piedi e lui capì che non l’avrebbe più rivista. In quel preciso istante qualcosa si spezzò.
Passarono gli anni, Amina diventò una bellissima principessa. Era talmente bella e disponibile che tutti volevano stare con lei, parlare con lei; aveva lavorato sodo per ottenere tutto questo e ne era orgogliosa a tal punto che non si fermava mai un attimo, e faceva di tutto per rendere il suo villaggio ogni giorno più bello ed accogliente per tutti.
Come si sa, le voci corrono veloci nel vento e così, la fama della bella principessa raggiunse il piccolo villaggio al di là della grande foresta. Nessuno avrebbe mai pensato che quella piccola ragazzina che scappava sempre per andare a giocare e ad ascoltare le fantasticherie di quel vecchio, sarebbe diventata così importante. Un giorno, mentre passeggiava nel suo villaggio fiera di tutto quello che la circondava, Amina vide da lontano un uomo che si stava avvicinando molto lentamente.
Da buona padrona di casa, cominciò ad andare incontro al nuovo venuto per accoglierlo come solo una principessa sa fare.Mentre lui si avvicinava però, ella ebbe un malore;le manco improvvisamente l’aria e si dovette appoggiare su una roccia vicino ad un piccolo ruscello che attraversava il suo villaggio. Fece un gran respiro e riprese a camminare ma di nuovo si sentì che le mancava l’aria e sentendo che stava per svenire non riuscì più ad avanzare di un passo e cadde. Riaprì gli occhi e per un istante le sembrò che l’acqua del ruscello fosse diventata nera, che tutto intorno a lei fosse diventato nero, anche il suo bel vestito si era sporcato di terra e fango; nel frattempo, l’uomo in lontananza l’aveva raggiunta e si era fermato dinnanzi a lei rimanendo in attesa.
Con grande sforzo e con fare altezzoso si rimise in piedi pensando alla pessima figura che stava facendo. Non era così che avrebbe voluto accogliere il nuovo ospite ma guardandolo dritto negli occhi con fierezza, come solo una principessa sa fare, fece finta di nulla e chiese allo sconosciuto: “Chi siete signore e da dove venite?” L’uomo rispose con dolcezza:- vengo da un piccolo villaggio al di là della grande foresta. Ho saputo che qui regna una bellissima principessa e sono venuto a portarle un dono.
Amina sempre più stizzita per non essere stata riconosciuta e sempre più superba si rivolse all’uomo: -mio caro signore, sono spiacente ma in questo momento la principessa è molto impegnata e comunque la ringrazio per essere venuto fin qui per conoscerla ma, mi creda, la principessa non ha bisogno di doni- Tutto questo che lei vede è della principessae potrà constatare con i propri occhi quante meraviglie ci sono in questo grande villaggio.Il vecchio si guardò intorno e vide il paesaggio, il ruscello e tutto intorno completamente senza colori ma con dolcezza rispose: - Sì…lo vedo, però ho fatto tanta strada per portare questo dono; potrebbe essere così gentile da consegnarlo lei alla principessa? Io non posso restare- e dicendo questo tirò fuori da una grande tasca del mantello un piccolo mazzetto di fiori di tutti i colori.
Amina, nonostante fosse passato tanto tempo, riconobbe subito quei fiori e quel profumo così intenso…e riconobbe il vecchio saggio. Improvvisamente sentì una morsa alla bocca dello stomacoe un dolore così profondo da toglierle il respiro; abbassò lo sguardo che fino ad allora aveva tenuto alto e fiero e rimase in profondo silenzio. Con voce quasi muta, rispose al vecchio:- sono bellissimi signore…la mia principessa sarà felice di riceverli- Il vecchio allora alzandole delicatamente il viso e guardandola negli occhi le disse con un dolce sorriso: - Sono molto felice di vederti…principessa Amina.
Nessuno dei due aggiunse altro; si presero per mano, voltarono le spalle al grande villaggio e ripresero il cammino…insieme.
Parole d'Autore è lieto di essere il primo sito amatoriale italiano a pubblicare una traduzione di questa bellissima fiaba norvegese
C'era una volta un pescatore che pescava per la tavola del re, e viveva nelle vicinanze del palazzo. Un giorno che era fuori a lavorare, non riuscì a prendere neanche un pesce: fece di tutto, con l'amo e con l'esca, ma non ci fu niente da fare; ma quando la giornata volgeva ormai al termine, ecco affiorare in superficie una testolina di pesce, che disse: "Se prometti di darmi quello che tua moglie porta sotto il busto, pescherai pesce in abbondanza." Il pescatore rispose audacemente: "Sì!" poiché non sapeva ancora che sua moglie aspettava un figlio. Fatto sta che finalmente il pescatore riuscì a pescare tantissimi pesci di tutti i tipi, ma quando a sera, tornando a casa, raccontò alla moglie la fortuna capitatagli, lei cominciò a piangere a disperarsi, sconvolta a causa della promessa che il marito aveva fatto, e gli disse: "in grembo porto un bambino." E così, la gente cominciò a mormorare, finché la questione giunse alle orecchie del re, che seppe della disperazione della poveretta; così, decise di inviare un suo ambasciatore a fare sapere alla coppia che sarebbe stato lieto di prendersi cura lui stesso del bimbo, nella speranza di poterlo salvare. Passarono i mesi, e venne finalmente il tempo del parto, e la moglie del pescatore mise al mondo un bel maschietto; subito il re se lo portò via, e lo allevò come se fosse veramente figlio suo. Il bambino crebbe e un giorno il ragazzo chiese al re di lasciarlo andare a pescare con suo padre, perché lo desiderava molto. Sulle prime il re non ne volle sapere, ma alla fine lo lasciò andare, e il fanciullo e suo padre passarono l'intera giorniata a pesca. Andò tutto bene fino a sera, quando il ragazzo si ricordò improvvisamente di aver dimenticato il fazzoletto, e tornò indietro a cercarlo, ma non appena salì in barca, quella cominciò a muoversi a tal velocità che il mare mosso quasi gli impedì di remare, finché alla fine gli fu impossibile. Fu trascinato dalla corrente per tutta la notte, e alla fine giunse a una spiaggia bianca, lontano chissà quanto da casa sua. Sbarcò, e dopo aver camminato un po', incontrò un vecchio con una lunga barba bianca. "Dove mi trovo?" gli chiese il giovane; il vecchio gli rispose che si trovava nel paese di Bianca Terra, e poi gli chiese da dove venisse e perché si trovava lì, e il ragazzo gli raccontò com'era andata. "Ahi, ahi" disse il vecchio, "ora ascoltami. Non molto lontano da qui troverai tre principesse, immerse nella sabbia fino al collo; non appena ti vedranno, la prima, che è la maggiore, ti chiamerà e ti supplicherà di aiutarla, e la seconda farà altrettanto. Tu ignorale, e passa avanti; ti chiamerà la terza sorella, da lei potrai andare e farai quanto ti chiederà. Se farai come ti ho detto, la fortuna sarà dalla tua parte. Questo è tutto." Quando il ragazzo vide la prima principessa, quella lo supplicò gentilmente di aiutarla, ma lui la oltrepassò facendo finta di non vederla; poi fece altrettanto con la seconda, ma dalla terza andò subito. "Se farai quello che ti chiedo" disse la principessa, "potrai avere in sposa, a tua scelta, una di noi." Il giovane acconsentì, e la fanciulla gli spiegò che tre Troll le avevano intrappolate nella sabbia, ma che prima di allora avevano vissuto in un castello che si trovava nel bosco. La principessa gli disse: "Ora tu dovrai recarti al castello e dovrai farti frustare dai Troll per tre notti: se riuscirai a sopportarlo, noi saremo libere." Il ragazzo rispose che era pronto a farlo. "Al cancello troverai due leoni; tu sta' attento a passare nel mezzo, e non ti faranno alcun male. Poi cammina dritto fino a quando troverai una stanzetta buia, e lì organizzati un cantuccio per la notte. Sul tardi verrà il primo Troll a frustarti; sul muro troverai appesa una fiaschetta che contiene un unguento magico: spalmatelo ben bene e ti risanerà subito le ferite. Poi afferra la spada che è appesa accanto alla fiaschetta e infliggi un colpo mortale al Troll." Il giovane fece come gli aveva detto la principessa; passò incurante in mezzo ai due leoni, e si diresse verso la cameretta oscura, e si mise a dormire. La prima notte venne un enorme Troll con tre teste e tre verghe, e fustigò senza pietà il poveretto, ma egli resistette fino alla fine, poi si cosparse l'unguento, prese la spada e infilzò il Troll. Quando la mattina dopo uscì dal castello, vide che la sabbia che ricopriva le principesse si era abbassata fino al petto. La notte seguente le cose si ripeterono esattamente, con la differenza che questa volta il Troll aveva sei teste e sei verghe, e lo fustigò ancora più crudelmente del precedente, ma egli resistette e la mattina dopo la sabbia delle principesse era scesa fino al ginocchio. La terza notte venne un Troll con nove teste e nove verghe e fustigò il ragazzo così tanto e crudelmente che svenì; poi il Troll lo prese e lo scagliò con violenza contro la parete, ma il colpo fece cadere la fiaschetta e il contenuto si riversò sul giovane, e grazie all'unguento miracoloso tornò più forte che mai, poi, velocemente, afferrò la spada e uccise il Troll. La mattina dopo, quando lasciò il castello, vide che le principesse erano completamente fuoriuscite dalla sabbia, ed erano libere. Poi il giovane scelse in sposa la principessa più giovane, e insieme vissero felici e contenti per un lungo periodo. Ma alla fine egli cominciò a sentire nostalgia di casa e volle andare a trovare i suoi genitori. La sua fidanzata non voleva, ma lui era talmente sconsolato e pieno di nostalgia, che non si poteva più trattenerlo, che alla fine lei gli disse: "devi promettermi però una cosa, ed è questa: fa' pure tutto quello che tuo padre ti chiederà di fare, ma non acconsentire ai desideri di tua madre." Il giovane re promise; poi la regina gli diede un anello che aveva il potere di avverare due desideri per ogni padrone, ed egli desiderò di essere a casa. E quando arrivò, i suoi genitori non la smettevano più di lodarlo per essere diventato un uomo fatto e rifinito.
Si trovava a casa già da qualche giorno, quando sua madre desiderò che egli tornasse al palazzo, per far vedere al re che bel giovanotto era diventato, ma il padre disse: "no, deve restare qui con noi! Altrimenti non avremo più tempo da trascorrere insieme." Ma la madre disse che doveva farlo, e tanto pregò il figlio, che alla fine lui ci andò. Così, si presentò a corte tutto elegante e ben vestito nel suo abito di gala, e il re cominciò a vederlo come un rivale e a provarne invidia; e alla fine disse: "Vedo che hai fatto fortuna, ragazzo, e le cose ti vanno alla grande, ora. Ma non vedo la tua sposa. Perché non l'hai portata con te? Scommetto che la sua beltà non regge il confronto con quella di mia moglie." "Lo volesse il Cielo," rispose il giovane re, "che la mia regina fosse qui: potreste vedere con i vostri occhi quanto è bella." E nello stesso istante, la giovane regina si ritrovò innanzi a loro, ma affranta, e disse: "Perché non mi hai dato ascolto? Perché non hai dato retta a tuo padre? Ora io sono costretta ad andarmene, mentre tu hai consumato tutti e due i tuoi desideri." Così dicendo, gli fermò un anello tra i capelli con inciso il suo nome, poi desiderò di tornare a casa sua, e così se ne andò. E il giovane re rimase con il cuore spezzato, e non passò giorno senza che si struggesse al pensiero di come riconquistare la sua regina. 'Proverò a raggiungere Bianca Terra con le mie sole forze, anche se non ho idea di dove si trovi.' Pensò. Così, s'avventurò da solo nel mondo alla ricerca dell'amata. Dopo aver camminato per giorni e giorni giunse presso un'alta collina, e lì conobbe il signore della selva, che richiamava a sé tutte le sue belve al suono del corno; il re gli chiese notizie di Bianca Terra. "Non so dove sia" rispose, "ma lo chiederò alle mie bestie." Suonò il corno, e chiese loro se sapevano dove si trovasse Bianca Terra. Sfortunatamente nessuno di loro lo sapeva. Allora il signore delle bestie diede al re un paio di scarpe da neve e disse: "Quando le indosserai, arriverai da mio fratello, che vive a centinaia di miglia da qui; egli è il signore di tutti gli uccelli del cielo. Chiedi a lui. Appena sarai arrivato, rigira le scarpe in modo che puntino verso questa direzione, ed esse torneranno indietro da sole." Così, quando il re raggiunse la casa del signore degli uccelli, rimandò indietro le scarpe. Domandò nuovamente informazioni su Bianca Terra, e il signore degli uccelli chiamò a sé i suoi volatili con il corno, e chiese se qualcuno fra di loro sapesse qualcosa a riguardo, ma invano. Molto tempo dopo, arrivò anche una vecchia aquila che era stata via per vent'anni, ma neanche lei seppe dire di più degli altri. Allora il signore degli uccelli disse: "Bene, ora io ti darò delle scarpe da neve che ti condurranno da mio fratello, che vive centinaia di miglia da qui; egli è il padre di tutti i pesci del mare; chiedi a lui, forse potrà aiutarti. E non dimenticarti di rimandarmi indietro le scarpe." Il giovane re ringraziò il signore degli uccelli, e indossò le scarpe, e quando si trovò al cospetto del padre dei pesci, rigirò le scarpe, e quelle tornarono indietro come le altre. Poi chiese notizie al signore dei pesci, e quello, con un soffio di vento, chiamò a sé le sue bestie acquatiche, ma nessuno di loro seppe dire dove si trovasse Bianca Terra. Alla fine, dopo tanto chiamare (poiché si trovava molto lontano) giunse un vecchio luccio, che disse: "Io so dove si trova! Sono stato cuoco laggiù per dieci anni, e oggi devo tornarci, perché la regina di Bianca Terra, che è separata dal suo re, sta per sposare un altro." Il padre dei pesci disse al re: "Prima che te ne vai, voglio darti un consiglio; in una brughiera qui vicino ci sono tre fratelli, che combattono da cent'anni fra di loro per il possesso di un cappello, di un mantello, e di un paio di stivali: quello fra loro che li conquistasse, avrebbe il potere di rendersi invisibile agli altri, e potrebbe desiderare inoltre di andare dove vuole. Tu va' da loro e di' che ti lascino provare queste tre cose e che deciderai per loro a chi assegnarle." Il giovane re ringrazò l'uomo e se ne andò, e fece esattamente in quel modo. "Che cosa succede?" chiese ai tre fratelli, "perché ve ne state qui a litigare fra di voi? Lasciatemi provare questi oggetti, poi vi dirò io chi dovrà tenerli." Quelli apprezzarono l'idea del forestiero, ma appena lui ebbe indossato il cappello, il mantello e gli stivali, disse: "Quando ci incontreremo la prossima volta vi comunicherò la mia decisione" e detto questo, desiderò di svanire. Si sollevò da terra e volò per l'aria, fino a quando giunse presso il Vento del Nord. "Dove sei diretto?" gli chiese; "A Bianca Terra" rispose il re, e poi gli raccontò tutto quanto dall'inizio. "Oh, ma vedo che vai più veloce di me: tu puoi andare dritto, mentre io devo soffiare e sbuffare in lungo e in largo ad ogni angolo. Bene, quando arriverai laggiù, mettiti sulle scale al lato del portone, e poi arriverò io; infurierò tempestosamente, come se volessi soffiare via tutto il palazzo. E quando il tuo rivale verrà a vedere, prendilo per il bavero spingilo fuori: allora verrò io e lo spazzerò via." Ebbene, il re fece proprio come il Vento del Nord gli disse di fare: si nascose per le scale, ed aspettò che il Vento, soffiando impetuoso, facesse tremare le mura del castello. Il suo rivale venne a vedere cosa succedeva, ed il re lo prese per il bavero e lo spinse fuori dalla porta, e quando il Vento del Nord lo afferrò, se lo portò via in un soffio. Quando fu chiaro che non sarebbe più tornato, il re varcò la porta del castello e si presentò alla regina, la quale inizialmente non lo riconobbe perché era pallido e provato da tutte le fatiche e le privazioni che aveva dovuto sopportare per riuscire a ritrovarla; ma quando egli le mostrò l'anello, ella fu raggiante di gioia, e subito le legittime nozze furono celebrate e la fama di quel grandioso evento si diffuse in tutta la terra.
indietro continua
Copyright © 2012 Webmaster Celestegrafica