IL RISO FA BUON SANGUE
“Il mio cane Rhett soffriva di una patologia di cui c’era poco da stupirsi; definirla ingordigia sarebbe quantomeno riduttivo. Una foglia d’insalata cadeva per terra e lui ci si fiondava subito con un impressionante atterraggio in picchiata che terminava con una scivolata sulle zampe anteriori. Ingurgitava senza nemmeno masticare, temendo di perdersi chissà cosa, e sono sicuro che solo a cose fatte si rendeva conto del magro bottino. Il suo motto doveva essere: prima si mangia, poi si guarda! A volte pensavo di avere l’unico cane al mondo per cui fosse molto più importante il desiderio di mangiare dell’atto stesso di sfamarsi visto che la sua attività giornaliera consisteva perlopiù nel piazzarsi dove poteva sperare di sgraffignare una vivanda qualsiasi. Non era così ingenuo da inventarsi sotterfugi per arrivare al cibo, ma aveva il talento innato di sapersi appostare strategicamente nel punto esatto in cui una salsiccia abbandonata sulla griglia poteva essere trafugata, o una patatina spiaccicata poteva sfuggire all’attenzione dei padroni di casa. Questa insopprimibile passione per il cibo si manifestò chiaramente, ma in forma più grave – e con risvolti più drammatici – in occasione di un pranzo di Natale a casa dei miei nonni a Parigi. Da sempre, per consuetudine inveterata, il pasto si concludeva con un tronchetto preparato amorevolmente da mia nonna, semplice pan di spagna arrotolato farcito di crema al burro , al caffè oppure al cioccolato –sarà stato anche un semplice pan di spagna, ma era ricolmo delle opere riuscite. Rhett, in forma smagliante, faceva il pazzerello per casa mentre alcuni lo accarezzavano e altri gli davano furtivamente qualche ghiottoneria che lasciavano cadere sul tappeto con nonchalance, di nascosto da mio padre. Fin dall’inizio del pranzo il mio cane, dunque, effettuava ronde regolari ( corridoio, salotto sala da pranzo, cucina, e poi di nuovo corridoio, salotto ecc…). La prima a notare la sua assenza fu la sorella di mio padre. Tutti insieme constatammo che, in effetti, da un po’ non si vedeva più il bianco pennacchio agitato che spuntava da sopra le poltrone, segno inequivocabile del continuo passaggio del cane. In un batter d’occhio io, mio padre e mia madre capimmo cosa si stava tramando, balzammo in piedi come un sol uomo e ci precipitammo nella stanza dove, visto l’amore del mattacchione per le cucine, la nonna aveva messo al sicuro il prezioso dolce.
La stanza era aperta…Probabilmente qualcuno ( il colpevole non fu mai scoperto), nonostante tutte le raccomandazioni del caso, si era dimenticato di chiudere la porta, e il cane – dal quale non si può pretendere che sappia resistere di sua spontanea volontà agli istinti – ne aveva chiaramente dedotto che il tronchetto era tutto suo. Mia madre lanciò un urlo di disperazione: nemmeno un’aquila in pericolo avrebbe potuto esprimere tanto strazio. Rhett non reagì come al solito, ossia sgattaiolando tra le nostre gambe per raggiungere territori meno ostili, bensì, evidentemente troppo appesantito dal ladrocinio, ci fissava con occhio vitreo, senza allontanarsi dal vassoio vuoto che non aveva deluso le sue aspettative. Vuoto comunque non è la definizione esatta. Con metodica applicazione e sicuro di poter agire indisturbato per un bel po’, aveva intaccato il tronchetto destra a sinistra , poi da sinistra a destra, e così via in tutta la lunghezza, fino al nostro arrivo. Della prelibatezza al burro era rimasta solo una sottile striscia stiracchiata, del tutto irrecureperabile per i nostri piatti.
Mia nonna se la rise così tanto che da catastrofe immane l’incidente si tramutò in aneddoto gustoso. Scommise che il cane si sarebbe punito da sé: l’abbuffata di un dolce per quindici persone presto gli avrebbe di sicuro procurato una colossale indigestione. Si sbagliava. Nonostante la sospetta protuberanza che rimase ben visibile per qualche ora all’altezza dello stomaco, Rhett superò a meraviglia il pranzo di Natale, che coronò con una profonda siesta interrotta solo da qualche mugolio di piacere, e il giorno dopo contemplò nemmeno troppo indignato la ciotola vuota, penosa ritorsione imposta da mio padre che non aveva affatto digerito la sua bravata.”
Tratto da “Estasi culinarie” di Muriel Barbery