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La prima volta che l’idea aveva preso consistenza in forma esplicita, l’euforia lo aveva invaso come succede a un bambinetto mentre apre il regalo di compleanno. Aveva esclamato ad alta voce, parlando a sé stesso:
«L’elettrone non esiste!».
Non c’era voluto coraggio per pronunciare quella breve negazione, e nemmeno per pensarla. Era stato facile e leggero, proprio perché era ancora una pura ipotesi alla quale lui stesso non credeva. L’audacia necessaria per dire quelle quattro parole non gli faceva difetto, e in seguito aveva pensato la stessa cosa molte altre volte. Ma se all’inizio, appunto, era stato facile, il peso delle conseguenze generate dalla possibilità che quell’enunciato fosse vero aveva trasformato l’euforia dapprima in paura, poi in tristezza.
Proprio così, l’idea che l’elettrone potesse, in fin dei conti, non esistere, suscitò in Ehrenhaft pura tristezza. Diventando vera, quella negazione induceva per implicazione logica una serie infinita di effetti – molti dei quali minuti e dei quali lui stesso non poteva rendersi conto, che risalivano ai tempi in cui aveva costruito la sua coscienza razionale, sui banchi della scuola e dell’università – tali da minare la base stessa delle sue certezze. Mancando l’uno, crollavano l’uno dopo l’altro un’infinità di insospettabili legami che a loro volta, intrecciati in una finissima rete di cause e conseguenze, sostenevano tutto un mondo di conclusioni logiche. Lo stesso Io cosciente che costituiva l’uomo Ehrenhaft traballava. La paura, prima della tristezza, era venuta dall’immaginare il confronto con la comunità dei fisici e dei filosofi, dal timore di non trovare gli argomenti e le risposte. Ma non era durata che pochi momenti, per lasciar posto allo sfaldarsi del suolo sul quale il fisico viennese si era così a lungo illuso di camminare.
Ehrenhaft alzò di scatto gli occhi dall’oculare, come riscuotendosi dai propri pensieri. Estrasse l’orologio dal taschino e guardò l’ora; Olga lo aspettava per tornare a casa insieme a piedi, era in ritardo. Spense tutto in gran fretta, chiuse le valvole dei circuiti di aspirazione, disattivò i circuiti elettrici, verificò che tutti i recipienti fossero chiusi, coprì con il panno i delicati strumenti ottici, eseguendo una sequenza di operazioni ormai automatiche.
Abbandonò il laboratorio di corsa. Uscì dall’istituto di fisica senza incontrare anima viva, gli uffici erano vuoti, solo la luce nella stanza del guardiano era accesa. Camminò sul marciapiede fino all’angolo del giornalaio, attraversò il viale evitando un’automobile strombazzante. Percorse il parco tenendo discretamente lo sguardo a terra; la luce estiva della sera aveva trattenuto le coppie di innamorati sulle panchine appartate. Ne indovinò gli amori, le parole dolci.
Uno schiamazzo improvviso di cornacchie gli fece sollevare gli occhi sugli alberi in cima alla piccola collina e vide le torri del Municipio dietro le foglie. Nell’ala sinistra c’era l’ufficio di Ernst Mach. Mach… Ehrenhaft rallentò il passo, come nuovamente frenato dai pensieri. Mach sapeva dei suoi risultati negativi, Lampa lo aveva messo al corrente: non c’era più «denominatore comune», l’elettrone sembrava essere scomparso, dimezzato. Ehrenhaft non aveva ancora parlato di persona con il filosofo, ma ne sentiva comunque le frasi d’incoraggiamento; erano una voce lontana che a poco a poco era cresciuta per diventare chiara, assordante. Come una cascata. I dati sperimentali più recenti dicevano che l’elettrone non esisteva e, se esisteva, allora era divisibile, vanificando le certezze della teoria, dando ragione al vecchio.
Aveva ormai escluso la possibilità di un errore, ed era insorta quella tristezza. Per mesi aveva cercato di capire dove stesse la trappola, convinto che ci fosse lo zampino di un sofisticato artefatto sperimentale. Aveva cercato e ricercato, silenzioso, appartato, perdendo giorno dopo giorno la speranza di scoprire l’inganno. Si era sentito trascinare negli abissi del dubbio: che la sua ragione scemasse, che fosse debole, incapace di distinguere l’evidenza? Aveva rivisto gli occhi lontani di Boltzmann, la cattiva sorte di quei muri. Nessuno può immaginarsi il vuoto che emerge quando tutto si trasmuta in aria. È peggio che morire. Una ferita è nulla, semplice dolore che si propaga dai ricettori nervosi periferici e risale la spina dorsale. Cos’è il dolore fisico a confronto delle certezze che crollano?
In uno spiraglio fra il fogliame dove le cornacchie avevano i nidi, vide la luna nascente e pensò al lago Maggiore, a Olga. Si affrettò dando un’altra occhiata all’orologio. Il sentiero si allontanava dal Municipio, da Mach di cui risentiva in continuazione i discorsi celebri, le lezioni magistrali, il vecchio con il bastone che picchia, secco, il suolo davanti ai piedi per dimostrare che è solida roccia.
Forse quello era il prezzo da pagare per diventare uno spirito libero affrancato dalle ipotesi metafisiche, un vagabondo senza pregiudizi, come Mach. Non gratificante contentezza, ma la sua negazione. Forse era per quello che ora si sentiva solo.