estratto 1
Tracciati su carta millimetrata
Vienna 1906
La luce intensa della lampada colpì la piccola scatoletta
trasparente e attraversò la finissima polvere d’argento in sospensione,
incendiandola di bagliori. Sul lato opposto, allineato
ad angolo retto con il raggio luminoso incidente, il
microscopio raccolse quei bagliori focalizzandoli su una striscia
di carta millimetrata sostenuta dal supporto metallico
a cui Ehrenhaft l’aveva fissata con cura. Il tutto sembrava
una costruzione instabile: un sistema di specchi e lenti convogliava
la luce della lampada in un percorso che raggiungeva
la faccia scoperta della scatoletta e, sotto il tavolo, il
microscopio montato verticalmente proiettava l’immagine
– la stessa che avrebbe colto l’occhio umano guardando attraverso
l’oculare – sulla carta millimetrata destinata a rivelarla.
Quando un granello di polvere d’argento entrò nel
campo ottico del microscopio, sul foglio apparve un punto
nero che saltellò come una pulce ed Ehrenhaft, radioso, lo
seguì portandosi vicinissimo al foglio, quasi fosse convinto
che, se avesse agito con sufficiente destrezza, avrebbe potuto
acchiapparlo.
La pulce saltò di quadretto in quadretto, veloce e imprevedibile,
evitando la cattura, e infine scomparve un attimo
prima che un’altra entrasse sul lato opposto di quella
che era diventata una pista da circo. Anche quel punto nero
effettuò lo stesso numero, inaspettatamente scortato da un
compare, quindi i due si scontrarono ed Ehrenhaft si ritrasse
sorpreso. Ma sapeva benissimo che sul foglio apparivano le
proiezioni di movimenti solo in apparenza piani; in realtà
avvenivano nello spazio, perciò non si poteva sapere se i
puntini fossero l’immagine di due grani in movimento a livelli
diversi oppure se la collisione fosse avvenuta davvero.
Il tremolio browniano sembrava aver contagiato anche
lui: si diresse verso la porta per poi ritornare al tavolo, cercare
il quaderno di laboratorio sulla scrivania, tornare all’esperimento,
rimettersi a cercare la matita, scarabocchiare
una data. Solo dopo aver cozzato a destra e a sinistra si
calmò, prese posto alla scrivania per fare uno schizzo preciso
di ciò che aveva costruito e riassumere quanto osservato,
descrivendo le prime impressioni in un paio di frasi. Il sistema
escogitato per studiare il moto browniano pareva funzionare
meglio di ogni previsione.
Nelle settimane seguenti Ehrenhaft mantenne un mutismo
inflessibile nell’attesa di essere certo del fatto suo; l’idea
di come si dovesse fare scienza e del rigore proprio al metodo
scientifico erano già ben radicati nel giovane ricercatore
viennese.
Anche a von Lang non disse che poche parole in risposta
alle sue insistenti domande sull’esperimento. Da docente
non era più obbligato a riferire del proprio lavoro di ricerca,
ma la ragione che lo trattenne non fu quella, e nemmeno la
volontà di escludere ogni possibile errore. Vedeva il vecchio
professore seduto in ufficio, con la barba che sfiorava la scrivania,
e si faceva violenza per non fermarsi, entrare, annunciare
i suoi progressi, come a un padre che aspetta, pur
non alzando lo sguardo, che il figlio di cui è fiero giunga a recargli
la buona notizia. Indugiava pregustando il momento
in cui avrebbe potuto mostrargli il lavoro compiuto nella sua
totalità, lasciando accumulare la fiducia su cui sapeva di
poter contare e che per riflesso lo colmava di ottimismo.
Approntò una coperta sul pavimento, in modo da potersi
stendere comodamente sotto il pesante tavolo. Sistemò
un cronometro di precisione a fianco della striscia di carta
millimetrata per marcare a intervalli regolari, con una piccola
croce a lapis, la posizione corrente della pulce nera,
proiezione del granello in agitazione, tracciando poi ogni
volta un segmento dal punto precedente al successivo.
Dopo qualche minuto, la polvere d’argento in lenta caduta
si depositava sul fondo. Allora Ehrenhaft si alzava, la estraeva
aspirandola con una pompa prima di iniettare aria pulita
e una quantità fresca di materiale, poi si nascondeva di nuovo
sotto il tavolo e ricominciava da capo.
Sui fogli quadrettati che si accumulavano, la successione
di crocette e segmenti rettilinei disegnava un insieme confuso
di trattini, specchio di quei sussulti in tutte le direzioni,
imprevedibili guizzi, inattesi scarti laterali che von Lang
aveva osservato solo qualche mese prima.
Quei tracciati contenevano la risposta alla domanda che
aveva reso insonni le notti di tanti illustri pensatori: l’atomo
esiste? È oggetto, cosa, realtà? La lunghezza di quei segmenti,
misurata accuratamente con un righello, moltiplicata per se
stessa, addizionata e divisa per il numero complessivo dei segmenti,
poi messa sotto radice, era lo scarto quadratico medio
che appariva nella formula di Einstein. E ogni volta che
Ehrenhaft sommava, divideva, calcolava, scopriva quasi con
spavento quanto l’astratta formula del giovane fisico teorico
di Berna, costruita semplicemente immaginando il movimento
browniano – a occhi chiusi – coincidesse esattamente
con quanto lui vedeva nel microscopio – a occhi spalancati.
Quella corrispondenza fra pensiero e realtà, fra previsione e
osservazione, era un responso affermativo.
Boltzmann sorrise appena, facendo scorrere fra le mani
i fogli con i risultati sperimentali che Ehrenhaft aveva posato
sul tavolo. Conosceva quegli zig-zag, sapeva da anni
della loro esistenza. Non fu né sorpreso né eccitato nel vederli,
forse un po’ tediato dal tempo che c’era voluto affinché
un fisico sperimentale riuscisse a tracciarli, fiero di aver
scoperto l’alfabeto sconosciuto di una lingua che lui, invece,
parlava.
Scrutò gli occhi di Ehrenhaft attraverso le spesse lenti
che rendevano i suoi piccoli e lontani. Il giovane sembrava
in attesa di un incoraggiamento e Boltzmann si sentì obbligato
a dire: «Bravo».
Ma la questione della paternità della scoperta non lo interessava.
Era avvenuta a Vienna, come poteva avvenire in
quel medesimo momento in qualsiasi altro posto.
Prese una matita e un pezzo di carta da un quaderno, disponendoli
davanti a sé. Rovistò nel cassetto della scrivania.
Ne estrasse un compasso da una scatoletta di legno
annerita dall’uso, e con tranquilla precisione tracciò sul foglio
dei cerchi concentrici egualmente spaziati. Alzò gli
spessi occhiali e fece segno a Ehrenhaft di sedersi al suo
fianco.
«Vede, prendiamo ogni segmento che ha disegnato e riportiamolo
con la stessa lunghezza e la stessa direzione partendo
dal centro comune di questi cerchi». Boltzmann
effettuò personalmente una misura con squadra e compasso,
riportando con scrupolo un segmento dal foglio quadrettato
sull’altro. Ripeté l’operazione tre volte, per dare l’esempio,
prima di spingere il foglio con i cerchi concentrici verso il
giovane ricercatore.
«Vedrà che i punti si ripartiranno attorno al centro
come la rosa dei colpi sparati a un bersaglio lontano».
Ehrenhaft alzò le sopracciglia, con sguardo interrogativo.
«È un’altra maniera, più comoda della sua, di verificare
che la ripartizione dei segmenti avvenga secondo una legge
statistica normale», spiegò Boltzmann. «Contando il numero
dei punti compresi fra due cerchi consecutivi deve ottenere
una relazione precisa...», e riprese la matita per scrivere,
su una pagina nuova del quaderno, un integrale esteso
su un intervallo di corona circolare, iniziando un calcolo
che forse per lui era semplicissimo, ma che Ehrenhaft stentava
a seguire. Boltzmann non disse nulla: calcolava, era
come se la matita parlasse per lui.
«Grazie professore», disse infine Ehrenhaft. «Se permette
mi ritiro in laboratorio ad analizzare i dati come suggerisce
lei». Si alzò rimettendo la sedia al suo posto e
raccolse il materiale.
«Certo, arrivederci», rispose Boltzmann e, mentre seguiva
con lo sguardo Ehrenhaft avviarsi alla porta, aggiunse
sottovoce con amaro sarcasmo, in dialetto viennese: «Ha
forse visto degli atomi, caro collega?». Felix Ehrenhaft non
sentì la domanda, ma si affrettò a tornare in laboratorio per
rifare con calma i calcoli teorici.