L'ULTIMO NATALE

L’ultimo Natale

Avevamo cenato tutti insieme nel casolare di Pietro, in piena campagna, come era tradizione in Sicilia, poi avevamo trascorso la notte a giocare a carte fino allo sfinimento, col camino sempre acceso e una sola lampada al centro del tavolo che illuminava l’unica stanza. Era tradizione allora che si andasse in drogheria e dal macellaio a fare spesa, e poi una volta giunti in campagna si dava inizio alle baldorie, prima cucinando, compito che toccò a me e Orazio che qualcosa eravamo abituati a fare anche a casa nostra, poi cenando e bevendo fino alla mezzanotte, quando ci si scambiava gli auguri di buon natale e ci si preparava a trascorrere la notte giocando a carte, senza però mai eccedere con le puntate; essere squattrinati aveva il suo peso anche nei giorni e nelle notti di festa.

Era già quasi mattino, avvertivo un po’ di stanchezza, quando senza dire una parola mi alzai dalla sedia, feci un paio di flessioni in avanti fino a toccarmi la punta delle scarpe con le dita, quindi uscii a prendere una boccata d’aria fresca. Era ancora buio, il gallo nel recinto iniziò a cantare, come presagio dell’alba. Mi appartai vicino ad un arancio e urinai lungamente lanciando lo sguardo verso l’infinito. Sentii un brivido attraversarmi la schiena. Avevo davanti a me tutto il buio del mondo, e le stelle alle quali non sapevo dare un nome.

A levante iniziava un lieve chiarore, uno squarcio nel buio che si ripeteva ogni mattina, una lama affilata di luce che incideva l’orizzonte quasi a farlo sanguinare. Il colore rosso vivo di certe aurore sembra a volte davvero sangue, quel sangue che l’orizzonte paga ad ogni giorno come prezzo alla vita che riparte, un biglietto d’ingresso nel teatro millenario della terra.

Mi girai e vidi tutta la comitiva che mi aveva seguito con passi lenti e incerti; ognuno aveva scelto una zolla dove liberarsi di liquidi e di alcol. Nel buio le sagome si confondevano con gli aranci, ma nel buio è facile confondersi. Nel buio si è tutti uguali. L’aria era fresca, odorava di antico e di zagare. Il silenzio quella notte era tappezzato di stelle in bilico sui rami.

Eravamo in mezzo alla piana di Catania, in prossimità del fiume Simeto che conoscevano come le vene sul dorso delle mani.

- E’ bello stare insieme - disse Pietro - succede solo la notte di Natale di poterci sfogare senza remore, senza l’assillo di tornare a casa. E’ bello, poi, scrutare l’alba e sapere di avere voi accanto.

- Ed è bello anche sognare, disse Orazio.

- Sì, è un sogno vedere l’alba con gli amici, tutti insieme.

- Ma non c’è alba senza nuvole attorno, aggiunge Orazio

Ognuno di noi ebbe l’impressione di stare racchiuso nella gioia inesplosa che la riunione natalizia ci stava regalando. Non erano, infatti, tante le occasioni che avevamo per stare molto tempo assieme; soltanto durante le feste di Natale potevamo ritrovarci tutti, da soli e spensierati, visto anche le lunghe vacanze che ci attendevano. Pietro chinò il capo e col piede scostò una zolla di terra, poi lentamente ci girò le spalle, fece alcuni passi, come se volesse allontanarsi, guardò l’orizzonte e inspirò a pieni polmoni l’aria fredda di dicembre, ebbe un attimo di pausa, come se stesse per riporre le proprie idee in un cassetto, poi si rigirò verso di noi e decise di dire due parole, che ebbero il sapore del commiato e il tono di un’omelia, almeno così lo percepimmo nell’umidità di quel mattino. Pietro era il leader della compagnia, un ruolo che gli amici gli riconoscevamo sin da subito, fin dai primi giorni di scuola delle elementari, quando lo conobbi. Iniziò già allora quell’amicizia che ancora perdura senza tentennamenti, senza segni di stanchezza. Quell’amicizia che ti dà coraggio e non ti fa sentire solo al mondo, quel legame che va sempre avanti, nutrito dalla fiducia reciproca, dalla certezza che niente potrà scalfirla e nessuno potrà mai dubitarne, perché solo l’amicizia nata nell’infanzia non verrà mai tradita.

- Ragazzi, alla fine di quest’anno scolastico sosterremo la maturità. C’è chi di noi proseguirà gli studi all’università, chi cercherà un impiego, nessuno di noi sa ancora qual è il proprio destino.

Ebbe ancora un attimo di pausa. Poi ricominciò a voce bassa, come se non volesse che lo ascoltassimo, come se stesse parlando a se stesso o a qualcuno che fosse nascosto dietro gli aranci, o solo dentro la sua anima. Pietro aveva non di rado di questi momenti ieratici - e in questo assomigliava molto ad Orazio - perché era uno che già sapeva guardare al futuro, anche se il futuro era piuttosto nebbioso, come sempre.

- Chissà dove saremo fra qualche anno, se ancora passeremo un Natale insieme o se questo sarà l’ultimo. Ognuno di noi sceglierà una strada diversa dagli altri, forse saremo lontani da questi posti che ci sono cari e che ci hanno visto crescere. Avremo dialoghi d’amore, un giorno saremo capaci anche di questo, saremo adulti e inevitabilmente invecchieremo. E chissà se ci dimenticheremo l’uno dell’altro. Possiamo programmare il nostro futuro fino ad un certo punto, adesso che siamo poco più che ragazzi, ma verrà il giorno in cui ci troveremo di fronte ad un bivio, e in quel bivio non saremo noi a scegliere, ma il caso, Dio per chi ci crede. Ho paura di certe scelte, paura di sbagliare, paura di innescare un errore dietro l’altro. Spero solo di acquisire qualche certezza in più con gli anni, ma non vi nascondo che la paura dell’ignoto, del tempo che verrà, rimane ancora intatta. Solo un uomo insensato non ha mai paura.

Il gallo cantò ancora, noncurante del buio che svaniva con lentezza esasperante.

Pietro sembrò stanco, quelle sue stesse parole nate dal profondo dell’anima sembravano avere steso sul suo volto un senso di smarrimento, che vi si leggeva ora che il chiarore dell’alba incominciava a illuminargli leggermente il viso. Proseguì guardando le ultime stelle, forse anche ascoltandole.

- La nostra amicizia, che stasera sembra indistruttibile, forse finirà sotto le martellate del tempo o semplicemente della fatalità. Sarebbe bello però non dimenticarsi di questi profumi. Qui anche la notte profuma. Non sfioreremo mai più, nell’alba, questi aranci e questi ulivi secolari, non prenderemo più tra le mani questa terra scura e friabile di casa nostra. Di una cosa però sono certo, che ci ricorderemo di questa notte finché vivremo: non c’è posto migliore del luogo dove si è nati per ritornarci almeno coi ricordi.

- La terra è uguale ovunque, come la sera, come la morte, replicai tra gli alberi con un senso di realismo che anche a me parve inaspettato e inusuale. Parole profetiche, perché in seguito un’altra terra mi avrebbe accolto e una morte mi avrebbe segnato irrimediabilmente.

Faceva freddo, Pietro e tutti noi c’eravamo chiusi nelle spalle, forse un po’ di freddo aveva raggiunto la profondità delle nostre fibre, forse c’eravamo persi nella verità di quelle parole.

Rimanemmo lì ancora per poco, come a voler raccogliere quelle parole e conservarle nella propria memoria. Roberto si accostò ad un albero e cominciò ad accarezzare un’arancia, senza coglierla, si portò la mano al naso per vedere se qualcosa gli era rimasto tra le dita. La luce dell’alba era già sufficiente per guardarsi negli occhi:

- Che giorno è oggi?

- Nelle feste non si contano i giorni, non si è avvezzi a contare ciò che passa velocemente.

- Io sono stanco, disse Orazio, avrei bisogno di dormire.

- Dormire per poter ricominciare, sarebbe questa la soluzione migliore, replicò Pietro

- Per ricominciare ci vorrebbe un colore diverso, che contrasti con questo mare di verde, aggiunse Roberto

- Ci vorrebbe il giallo delle ginestre, sì. O forse ancora l’odore del narciso

Pietro non era solo un amico. Era ed è rimasto un fratello.

Dalla prima elementare ad oggi sempre assieme, sempre vicini. Adesso che viviamo agli antipodi, almeno due volte l’anno ci telefoniamo e ci aggiorniamo. Una volta parlavamo sempre con più ironia e disincanto dei nostri tormenti amorosi, adesso dei nostri tormenti di salute; io gli parlo del mio cuore ballerino, lui delle sue patologie e del suo cortisonico divenuto amico inseparabile, come lo eravamo noi da giovani.

Pietro, con quel nome regale, potente, maestoso, autorevole, non poteva che avere la vita che ha avuto. Tutta colpa o merito di suo padre, don Memè, che volle imporgli quel nome non rispettando la tradizione che voleva venisse perpetuato quello del nonno paterno.

Appena conclusi gli esami di maturità le ragazzine, ma non solo loro, iniziarono letteralmente a spolparlo come una costina di vitello, ma di nascosto, perché in Sicilia alla luce del sole certe libertà non erano ancora consentite, e aver lavorato per qualche anno alla cassa di un bar, nella piazza principale del paese, lo favorì molto in questa invidiata attività, fu come un’operazione geniale di marketing, come essersi messo in vetrina e dire “sono qui, prendetemi, non dovete fare tante moine per avermi”. La sua ragazza pativa in silenzio, anche se Pietro non era uno smargiasso, ma in paese le voci circolavano anche allora, non solo adesso.

Per qualche tempo continuammo a fare la vita dei fricchettoni, io frequentavo già il primo anno d’università ma non avevo ancora trovato il metodo giusto per rendere come speravo, e iniziato la mia relazione platonica con Sandra da qualche anno. Pietro si atteggiava invece a scapolo d’oro, raccogliendo i dovuti frutti maturi che cadevano dagli alberi come foglie d’autunno. Per essere bello Pietro lo era davvero, e questo non passava affatto inosservato in paese. Era sicuro di sé, e spesso ieratico, specialmente quando trovava le parole giuste o aveva la giusta ispirazione. Come vedere san Pietro nelle iconografie o nelle chiese, con le chiavi appese alla cintura e un volto di patriarca inflessibile. Anche quel nome, insomma, gli conferiva quel pizzico di autorità che noi non avevamo e che non ci sognavamo nemmeno. Pietro era una spanna sopra di noi in tutto, aveva una marcia in più.

Generoso con tutti, sempre con le parole giuste al momento giusto, altre volte si atteggiava anche col petto in fuori, come a voler dimostrare d’essere un uomo sicuro, uno che non aveva bisogno di niente e di nessuno, ma dietro quella scorza sapevo che c’era ben nascosto qualche tratto misterioso del suo carattere. Mai una leggerezza in pubblico, ma quando eravamo noi due soli sapeva slegare ogni laccio, magari al cimitero, con un po’ di silenzio dopo tanto chiasso patito al bar, e lì metteva tra le mie mani qualche sua debolezza, le perplessità che si hanno in gioventù, e che lui voleva mostrare solo in mia presenza, per cercare di comprendere assieme a me ciò che da solo non poteva afferrare e assimilare. Si mostrava orgoglioso in compagnia, come voler essere fedele al nome che portava, quasi un impegno inderogabile, ma tra di noi due sapeva anche essere umile, disposto al dialogo, a scandagliare nel silenzio quei dubbi, quegli ostacoli che come tutti noi anche lui vedeva dinanzi a sé. Le inquietudini giovanili ci ribadivano un elemento essenziale e inconfutabile: che eravamo tutti figli della stessa madre, della stessa terra, un carattere genetico al quale non potevamo sfuggire.

Pietro si sposò con Maria molto presto, quella ragazza conosciuta quando ancora entrambi erano poco più che bambini, la sua “picciridda” – così la chiamava affettuosamente quando era tra di noi – che custodiva da buon siciliano come una reliquia. Maria insegnava italiano in un istituto di un paesino della cintura etnea, non si vedeva mai in giro anche da ragazza, probabilmente era una studiosa e adesso da sposata aveva il suo da fare con la famiglia e con i due figli che Pietro mise subito in cantiere senza troppe preoccupazioni.

Quando stava per arrivare il primo figlio, finalmente poté concorrere ad un posto di impiegato comunale. Certo, da noi più che concorso vero e proprio si trattava di avere le giuste conoscenze e Pietro, nel periodo dietro la cassa, di amicizie ne aveva avute tante, perché aveva fatto anche molti favori a coloro che erano meno dotati di lui in questioni di cuore. E si sa che in Sicilia, ancora oggi, “una mano lava l’altra…..e tutt’e due si lavano a vicenda”. Una regola, o meglio, un sistema di vita che non è ancora cambiato.

Con l’impiego in comune, Pietro dovette dire addio alle sue giornate passate dietro la cassa, o sulla soglia del bar quando i clienti latitavano nelle ore del pranzo. Addio al sole accecante della piazza, addio a tutti quegli amici che affollavano il bar al mattino per la colazione, addio alle fanciulle che si alternavano come ad una processione del venerdì santo, addio a tutti i miracoli che gli sono usciti generosamente dal cuore, addio a tutte le miracolate del paese, che furono tante in quegli anni, addio anche a me, a suo fratello Giacomo che andava al nord a riprendere gli studi di medicina.

La notizia gliela diedi un sabato mattina, quando era libero dal lavoro, tre giorni prima della mia partenza, quando in bicicletta andammo al Simeto a raccogliere asparagi e capperi selvatici.

Era la fine di aprile, e quell’angolo di Sicilia in quel periodo dell’anno è già una sterminata tavolozza di colori, dal verde dell’arancio, al bianco del mandorlo, al rosa delicato del pesco.

Avevamo il passo lento e cadenzato lungo le rive del fiume, non guardavamo più giù per terra, perché ci trovammo lì a far parte di quell’atmosfera, di quella natura, di quel cielo e di quegli odori, e più che cercare asparagi e capperi selvatici in un terreno incontaminato da millenni, preferimmo sederci in un angolo, riparati da un piccolo canneto che cresceva sulla riva. Fu lì che gli diedi la notizia della mia imminente partenza per il nord, accolta purtroppo come una stilettata, ancora più dolente perché inaspettata.

Fu come avergli dato la notizia di una morte inaspettata. Pietro non voleva rimanere da solo, non voleva che questo piccolo pilastro di nome Giacomo crollasse in così poche ore, in così pochi giorni; senza questo appoggio credeva lo attendesse un periodo oscuro, incerto, che poteva anche indurlo a chissà quali cambiamenti.

Perché Pietro aveva paura dei cambiamenti. A fianco a me non aveva bisogno di camminare petto in fuori o di mostrarsi sicuro e infallibile, sapeva che conoscevo molto del suo cammino, la nostra strada era illuminata dalla stessa luce e soffriva delle stesse ombre.

Se non lo vidi piangere con lacrime vere fu per decenza, ma sicuramente, conoscendolo a fondo, stava lacrimando. Mi sembrò vederlo contorcersi, dentro la sua anima si stavano aggrovigliando fili che non sapeva districare: aveva il presentimento che sarebbe stato ancora più solo.

Il giorno dopo quella memorabile notte di Natale ci svegliammo tardi, intorno alle tredici, pronti per il pranzo anziché per la colazione. Mia madre mi lasciò dormire avendo cura di non fare rumore per tutta la mattinata.

Il freddo gelido di tramontana quell’anno fu intenso, tuttavia non ci si lamentava affatto; un Natale senza freddo non era Natale, semmai avevamo desiderio di un po’ di neve, quella non l’avevamo mai vista in paese, perché quelle poche volte che compariva, non faceva in tempo a depositarsi sull’asfalto che si scioglieva nel breve giro di alcuni minuti.

La sera, come se non ci fosse stata alcuna soluzione di continuità, ci riunimmo ancora tutti gli amici. Roberto si offrì di mettere a disposizione la sua Fiat 500 bianca, così fece anche Pietro con l’auto di don Memè, quindi intorno alle 22 prendemmo la via di Nicolosi quasi senza alcun motivo. Ci eravamo ripromessi di andare a gironzolare per i paesini etnei, alla ricerca di che cosa non lo sapevamo nemmeno noi. Sapevamo solo che a casa erano disposti a concederci ancora qualche notte fuori dai canoni, quindi era un peccato oziare in paese o starsene a casa a giocare ancora a carte. Eravamo in tre sull’auto di Roberto e tre sull’auto di Pietro. Avevo freddo, sul sedile posteriore della 500 dove mi ero sistemato da solo, stavo scomodo. Avevo i piedi sotto le ascelle per evitare il congelamento, né Roberto né io sapevamo dove fosse la levetta del riscaldamento, non ne avevamo avuto mai bisogno, semmai era del raffreddamento che avevamo bisogno, perché nel caldo della Sicilia ci faceva comodo dieci mesi all’anno, ma del riscaldamento mai. Così mi toccò patire, tanto da trovarmi mezzo assiderato. Mi rigiravo continuamente alla ricerca della posizione migliore, ma non ci fu verso. Intanto anziché fermarci a Nicolosi, Roberto proseguì oltre; io dopo tante manovre per non morire di freddo, dovetti azionare inavvertitamente la levetta del riscaldamento che era posta, l’avevo finalmente scoperto, sotto il sedile posteriore. Nel giro di pochi minuti, girovagando senza meta, ci trovammo al cospetto del rifugio Sapienza, ultimo avamposto di quel vulcano mai silenzioso ma piuttosto infido, seguiti dall’auto di Pietro. Quando scendemmo in mezzo alla neve, io e i miei amici sembravamo indegni del genere umano, tutti smarriti, vestiti in modo inadeguato. Io avevo addirittura dei mocassini per colpa dei quali le mie estremità gridavano vendetta. Entrammo nel rifugio e vi trovammo, oltre a una giovane donna dietro al bancone, due uomini barbuti, forse erano due guide, e senza proferire parola - forse salutammo appena - ci mancò poco che abbracciassimo tutti insieme la stufa al centro della stanza. Io quasi infilai dentro i piedi ancora congelati, quasi a contatto col fuoco vivo, e lì rimasi sino ad un accettabile scongelamento del sangue che cominciò a circolare. Quando finì l’urgenza Pietro ordinò un bicchierino del “fuoco dell’Etna”, un liquore che a me sembrò dal solo odore alcol puro a 90 gradi. Noi altri ci accontentammo di un caffè. Non nascondo che fummo anche oggetto di qualche scherno da parte delle due guide, con le quali nel frattempo si era stabilito un clima di complicità, favorito anche dal periodo natalizio, quando ognuno si crede in dovere di essere migliore che negli altri giorni dell’anno.

Intorno alle due, uno delle due guide ci consigliò di uscire sul piazzale e di assistere allo spettacolo dell’alba. Ci guardammo increduli: ancora fuori, al freddo e senza un adeguato abbigliamento? I nostri sguardi furono un punto interrogativo scritto a carattere maiuscolo. La guida più giovane, avrà avuto non più quarant’anni, uscì per primo, come per dare l’esempio, ci fece strada e ci attese sul piazzale del rifugio, appoggiato alla ringhiera metallica, quasi sprezzante delle basse temperature. Roberto farfugliò qualcosa di incomprensibile e lo seguì, poi fu il mio turno e infine Orazio, Pietro e i tutti gli altri.

Era freddo. Ad ogni respiro mi sentivo bruciare i polmoni. Una sensazione di benessere e di dolore insieme: spesso le due cose camminano uno accanto all’altro, e non solo qui in alta quota.

Respiravo lentamente, i brividi mi scuotevano, come avere uno spasmo, una scossa elettrica intermittente. Tutto era calmo, il silenzio ci passò vicino e ci toccò ad uno ad uno. E ci riconobbe.

Pietro si strofinò il viso con le mani per scaldarsi, io invece mi asciugavo gli occhi sotto le lenti e Orazio stava con le mani incrociate sotto le ascelle. Forse sognammo, ma non lo sapremo mai.

L’orizzonte, giù al mare, era indistinto, nero, la notte sonnecchiava ancora. Forse trascorsero cinque minuti, forse qualche minuto in più, quando una linea sottile cominciò a separare le acque dal cielo. Diventò bianca, sempre più bianca, e mentre il cielo si schiariva a piccole strisce, le acque rimanevano nel sonno, nere. I colori mutarono rapidamente, in pochi minuti, al bianco si sostituiva un tenue rosa, poi il giallo tenue e il viola chiaro. Un pittore naif doveva essersi stabilito laggiù e stava piano piano colorando coi pennelli quel tratto di orizzonte. Niente ci separava da quello spettacolo, eravamo una sola struttura, noi, il cielo, il mare, il cratere centrale alle nostre spalle che tuonava come sempre. Eravamo noi soli, in silenzio, sbalorditi nell’assistere alla prima alba del mondo, al nascere del pianeta terra, un parto primordiale, e a qualcuno, forse a Orazio che tra di noi era il più mistico, sembrò che la mano di Dio, quella enorme mano michelangiolesca, stesse sostenendo quel mare e quel cielo. Ancora due minuti e il rosso carminio striato qua e là di viola disegnò un cono luminoso che si inabissò nelle acque e prese possesso di quel mare, lo fecondò con il suo calore e ci mostrò, in tutta la sua estensione, quella sottile striscia non del tutto orizzontale, curva verso i lati, a dirci che siamo ospiti di una terra senza spigoli, senza contrasti.

Intanto la luce invadeva piano piano anche il piazzale del rifugio, ci sembrò che quel freddo di pochi minuti prima fosse sparito del tutto. Le stelle cominciarono ad abbandonare il cielo, solo Venere era rimasta lì fuori a farci compagnia assieme alla guida. Adesso eravamo calmi, ammutoliti, nella tenue luce bianca perlacea di quell’alba primitiva trovammo il coraggio di guardarci negli occhi e capimmo di essere stati spettatori privilegiati e non casuali. Per Orazio era stato Dio a guidare la Fiat 500 di Roberto verso il rifugio Sapienza per donarci quello spettacolo primordiale, una riproduzione tutta per noi dopo milioni di anni.

Avevamo assistito per due notti consecutive al nascere del giorno, allo spettacolo della vita che rinasce, al mondo che inizia a respirare, la prima notte immersi nell’odore di zagare, stritolando zolle di terra, la nostra terra, la seconda sul palco del rifugio Sapienza, a conoscere l’età del mondo grazie a una guida sconosciuta.

Chiudemmo così le feste dell’ultimo Natale trascorso insieme, l’ultima di tante dove cementammo in modo indissolubile la nostra amicizia che divenne fratellanza, quel sentimento così tante volte cercato e costruito pazientemente come un mosaico bizantino, e che il tempo ha potuto soltanto affievolire ma non cancellare, perché nelle vene di ognuno di noi scorre lo stesso sangue e tale è rimasto nei decenni, a dispetto di un mondo che inevitabilmente ci sembra distante e quasi estraneo.