L'acquaiolo

L'acquaiolo

Don Luciano era l'acquaiolo del quartiere. Lo si vedeva tutte le sere a sistemare bottiglie e damigiane sul suo lungo carretto e dirigersi verso la fonte detta “acqua rossa”, nel comune di Belpasso, una piccola fonte dalla quale sgorgava acqua leggermente frizzante e di gusto ferroso che tanto piaceva alle famiglie benestanti del quartiere. Salutava senza sorridere, soltanto alzando la mano, mentre passava davanti casa; si sarebbe rivisto l'indomani mattina, perché il viaggio di andata e ritorno durava tutta la notte, e non c'era altra possibilità, col passo lento e flemmatico del cavallo i tempi erano quelli, non altri. Tutto il quartiere, a quell'ora della sera, era seduto davanti l'uscio di casa a prendere un po' di fresco dopo la cena, a riposare le ossa stanche di un intero giorno di lavoro, mentre noi ragazzi correvamo da un capo all'altro della strada o ci accovacciavamo per terra, in un angolo, a raccontarci storielle, a fantasticare. Gli adulti scambiavano qualche parola con i vicini o anche affrontavano piccoli problemi quotidiani che ognuno risolveva a modo proprio, a volte senza una logica, ma soltanto guidati dall' esperienza, come si suole ancora fare nelle piccole comunità popolane, dove l'istruzione è vista soltanto da lontano. Ma si vive, ho visto, anche così, con i propri mezzi messi a disposizione dal padreterno, e si vive spesso davvero bene, senza la necessità di volare alto, ma mantenendosi ad un livello consono, a noi stesso possibile e accettabile, senza affanni, né rischi di cadere e farsi del male. Ciò che rende felice molta gente è di saper accettare il proprio destino, qualunque destino, con una naturalezza disarmante, e di stare bene dove madre natura l'ha posta. Anche don Luciano era figlio di questa terra e di questi principi. Era un uomo solitario. In gioventù non si era sposato, e adesso abitava da solo in una piccola casa in fondo alla via, con la stalla confinante, il cui accesso era separato, ma si supponeva, perché nessuno è mai entrato a casa di don Luciano, che ci fosse una via di comunicazione tra la stalla e la sua camera da letto. Nessuno si è mai posto, nel quartiere, come don Luciano gestisse la sua solitudine, il silenzio che doveva accompagnarlo necessariamente durante le notti lungo la strada di San Vito che portava all' “acqua rossa”, tra il rumore delle ruote del suo carretto e il frinire ininterrotto delle cicale, cullato dalla luce delle stelle o dal pallido chiarore della luna. Il silenzio dell'uomo, e la sua solitudine, sono argomenti che nessuno sembra avere la tentazione di conoscere, forse perché già fa paura la propria solitudine e il proprio silenzio, quando questi esistono, perché ci sono uomini a questo mondo che non sanno cosa sia né l'uno né l'altra, questi regali incommensurabili che l'uomo si è dato per mettere al proprio posto le cose giornaliere che lo stimolano o lo affliggono. Se non ci fosse questo bene immenso dentro di noi, che vita distorta saremmo costretti a vivere, di troppo rumore ma anche di molte contraddizioni che ci sovrasterebbero. Ma come si vede (e tutti di questo abbiamo esperienza) ad ogni male la vita ha trovato il suo rimedio.

Don Luciano probabilmente aveva trovato da solo, nei lunghi viaggi notturni sul suo carretto, tutti i rimedi di un'esistenza apparentemente senza i furori della gioventù, e adesso accettava la pacatezza di un'età che non possiamo dire vecchia, ma che certamente vi è già al confine.

Alla sua vita don Luciano permetteva una sola eccezione durante l'anno, e tutti noi ragazzi lo aspettavamo con ansia ma anche con gioia, perché sapeva colorire a modo suo una festa particolare, un momento che solo lui sapeva imprimere nella memoria, almeno nella mia. E sappiamo come le immagini dell'infanzia dirigono e influenzano tutto ciò che segue nella vita, dalle scelte più semplici alle decisioni inappellabili.

E questo momento era la festa dell'Ascensione. Era, in paese, una festa particolare, perché era una festa di quartiere, con una certa rivalità tra confinanti. Ad inizio settimana per don Luciano cominciava il rito della questua in ogni famiglia, per poter acquistare una quantità adeguata di fascine per il falò del giovedì sera. La catasta di legna veniva posta in un angolo del crocevia principale già nel primo pomeriggio, appoggiata al muro, e tenuta sotto controllo, a turno, da noi ragazzi, per impedire che altri, dai quartieri vicini, venissero a dar fuoco e vanificare così la festa tanto attesa. Era tutto un rito, con i suoi tempi, le sue usanze, le solite parole che si perpetuavano di anno in anno, come se il tempo, per quella occasione, avesse l'obbligo di fermarsi. In fondo era proprio quello a cui eravamo affezionati, l'immutabilità, la tradizione, il ritrovarsi e vedersi sempre uguali. Era in questa occasione che si sentiva parlare don Luciano, e le sue parole risuonavano come quelle di un profeta o di un patriarca. Io avevo, ricordo, la sensazione di ritrovarmi di fronte ad un uomo uscito dalle pagine della Bibbia che mi parlava. Ricordo di averlo sentito pronunciare, quando venne a casa mia per la questua, le due parole che mi ritrovo oggi a riesumare con una certa serenità. La vita è fuoco e gelo, disse a mia madre, come ogni anno faceva per l'occasione, e questo è finalmente il periodo del fuoco, la nostra festa del fuoco. Una visione molto semplice e quasi casalinga dell'intera vita, ma a don Luciano tanto bastava. Non aveva voluto una donna accanto a sé che potesse perpetuare magari questi giorni di fuoco nella sua vita, e chissà se avesse già intuito da giovane la difficoltà di vivere accanto ad una donna, per quella sovrannaturale capacità che essa ha di sapersi ritagliare uno spicchio nell'anima in cui nessuno mai entrerà, chissà se don Luciano, accettando la sua solitudine, aveva accettato il male minore.

La vita è fuoco e gelo, e con queste parole pronunciate al cielo della sera, con le mani alzate, quasi a voler dare a quelle parole la solennità di una preghiera, don Luciano si avvicinava alla catasta di legna e dava inizio al falò, a quella che noi chiamavamo “la luminaria”. Per quella sera sarebbe stato lui e lui soltanto il sovrano assoluto del fuoco, lui ad aggiungere, con parsimonia, di volta in volta, le fascine per ravvivare il falò, e prolungare così le fiamme sino a tarda sera, lentamente, con maestria e sapienza. Sparsi nei quattro angoli sostava tutto il quartiere, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti rischiarati nel viso dal fuoco della luminaria e nell'anima dalla concordia, mentre noi ragazzi sfidavamo con temerarietà, con la vicinanza, la forza e la violenza del falò.

Cosa vedeva don Luciano in quelle fiamme che si allungavano nel buio, verso il cielo, contorcendosi, lamentandosi? Perché quel fuoco le era così caro, cosa vi scorgeva tra quei colori cangianti che s'innalzavano turbandosi e sfilacciandosi verso l'alto?

Vedeva scorrere la semplicità dei suoi giorni, magari faceva, chissà, un breve riassunto della sua vita, o cos' altro? Io vedevo danzare mille dannati che nudi gridavano al cielo buio, sorretto in quelle fantasie dai racconti di mia nonna, mille dannati che affogavano nella pece bollente, tra le urla di un dolore infinito, eterno. Erano immagini di attimi; bastava spingersi l'uno con l'altro che si ritornava alla realtà della baldoria, al girotondo attorno al falò, a questo totem a cui dedicavamo i gesti propiziatori, di chissà che cosa poi.

Quando le fiamme si stancavano e mostravano la loro debolezza, quando la festa ci aveva infuocato l'anima, e la legna stava per finire, don Luciano si poneva davanti alla pira morente e pronunciava le parole di fine messa, Il fuoco ha vita breve, diceva, come la nostra del resto. E con queste parole da unico e solenne officiante, la festa finiva, ognuno si ritirava nelle proprie case, e soltanto noi ragazzi rimanevamo a giocare con la cenere calda e qualche tizzone rimasto ad esaurirsi.

Qualcuno invitava don Luciano a bere un bicchiere di vino, quasi a volerlo ringraziare di aver officiato la festa con la solita prudenza, ma la sua risposta era sempre uguale, fedele alla sua immagine di uomo schivo, Lasciatemi solo, a che serve parlare, quello che dovevo dire l'ho detto, come ogni anno.

Noi, pensavo, troviamo il calore di una famiglia, le parole calde, con una sua vibrazione, di mio padre, desideroso di andare a dormire per riprendere all'indomani il carico di lavoro lasciato nel pomeriggio, mentre don Luciano andava a dare da mangiare, chissà, al suo cavallo e poi si sarebbe messo a letto, in quel tiepido pagliericcio, a dormire, almeno quella notte, nel suo letto e non sul carretto diretto all'“acqua rossa”.