Cecilia

Cecilia

Qualche settimana dopo che Giacomo Martorana e Clara iniziarono la loro convivenza, Cecilia, la figlia quattordicenne di Clara, venne ad abitare da loro.

Il rapporto tra Giacomo e Cecilia si rivelò non facile fin dal primo giorno. Era un’adolescente, andava per i quindici anni, ma mostrava già la tenacia e la durezza per considerare Giacomo un intruso, un estraneo che s’era preso la sua mamma e lei, e li aveva ospitati a casa sua, e per questo si sentiva quasi una deportata. E come un intruso considerò Giacomo per molti anni; sembrava soddisfatta nel vederlo taciturno perché non voleva contraddirla, mentre lei lo punzecchiava continuamente con battute al veleno che Giacomo ignorava puntualmente per non offrirle altro terreno di scontro. Non poteva rimproverarla perché non era suo padre e perché temeva che ogni intrusione nella sua vita non potesse fare altro che peggiorare ancora la situazione. La subiva passivamente.

A Cecilia piaceva sciare, i giorni festivi della sua fanciullezza furono tutte dedicate alla sua passione per la neve. La mamma si era fatta carico di accompagnarla tutte le domeniche, già quando era ancora una bambina, su per le montagne intorno al paese, e, infatti, aveva imparato a sciare bene e ad essere anche una spericolata, soprattutto nei tratti ripidi, dove si svincolava dalle catene virtuali della famiglia, e creava da naif la sua discesa libera.

Libera come lo era lei. Non amava restrizioni, non amava le regole e non amava le imposizioni. Era come se il suo corpo sentisse il bisogno di confutare le parole, ogni parola, specialmente se fosse stato Giacomo a pronunciarle. Ascoltava solo Clara, le parole della mamma erano vangelo assoluto che rispettava, anche se molte volte le accettava con rabbia, ed era in questi momenti di contrasto le uniche volte che si lasciava andare a pianti brevi nella sua stanza, senza fare rumore, perché del pianto aveva vergogna.

Giacomo in quel periodo non interveniva nemmeno, sapeva che era un estraneo per lei, che non avrebbe accettato nemmeno le parole più sensate di questo mondo, quindi taceva, un silenzio che gli pesava perché era il timbro di una frustrazione di uomo e di padre adottivo insieme. Non essere riconosciuto nel suo ruolo fu il suo cancro per molti anni.

Quella diagnosi di cancro che inaspettatamente investì anche lei.

Fu nel magio del 2000, aveva appena quarant’anni, che un episodio imprevisto, oltre che doloroso, cambiò radicalmente il rapporto con Cecilia, e Giacomo iniziò, in quei mesi, a diventare davvero suo padre, come una pasta che lievita piano sotto le coperte calde.

Fu un episodio devastante per lei, la mamma, e non di meno anche per Giacomo, che durò anni sulla carta, ma che nella realtà perdura ancora e resterà forse per sempre come un’etichetta metallica o un tatuaggio. Si resero conto, nello spazio di pochi giorni, che nessuno a questo mondo è immune al dolore, e che quando ti sovrasta in modo improvviso, inatteso, è un macigno che non riesci a muovere.

Tutto avvenne il giorno programmato per il controllo clinico generale, cui Cecilia si sottoponeva scrupolosamente una volta all’anno, quando rientrava dal lavoro dall’estero, che prevedeva un’ecografia mammaria e gli esami ormonali. Quel mattino Cecilia venne accompagnata dalla mamma in una clinica privata della zona. Era un giorno primaverile, e quel tepore che li avvolgeva dava un senso generale di benessere e di quiete interiore. Benessere e quiete che si rivelarono un miraggio. Clara, infatti, rientrò a casa solo nel tardo pomeriggio, dopo aver accompagnato Cecilia nel suo appartamento, in centro città, e lì era rimasta per qualche ora, e quello che si dissero, e con quale stato d’animo, Giacomo lo ignorò per sempre. Rincasò seguendo delle scorciatoie nel traffico della città, percorrendo corso Torino e la rotonda di largo Leonardi e quella adiacente di largo Cantelli. Poi girò a destra per via Galilei e percorse il sottopassaggio della ferrovia; era già sulla via di casa, si lasciò il centro commerciale sulla destra mentre sulla sinistra, ad ovest, c’era la pianura e il riso era tutto un prato verde sconfinato. Quel verde non le suscitò, quella volta, nessun senso di pace. Quando arrivò la senti parcheggiare, era seduto sul divano ad ascoltare musica classica in penombra, ascoltava la Moldava di Smetana; quella sinfonia con note eteree, sfuggenti, come un canto proveniente da terre lontane, gli dava una sensazione di pace e di quiete. Aprì il portone di casa e si sentì felicemente predisposto a riabbracciarla.

- Ciao, disse, com’è andata?

Clara non rispose al saluto, com’era solito fare. Non era nel suo stile non rispondere. Si tolse le scarpe nello stanzino predisposto a sinistra dell’ingresso, indossò le pantofole e accese le luci delle scale. Quel suo silenzio cominciò a gridare forte, tremarono anche i muri, e un freddo gelido scese nell’intera casa. Molte cose che avvengono non hanno bisogno di parole, le parole sono vane, solo suoni indistinti e senza senso, quando il cuore ha già capito dall’odore dell’aria intorno. In quel preciso istante Giacomo ebbe la conferma che qualcosa era successo. La vide sbiancata in volto, insicura e instabile sulle gambe, invecchiata di anni in poche ore.

Salì appoggiandosi al muro mentre lui l’aspettava a braccia aperte, su per le scale, - Cecilia ha un tumore alla mammella sinistra, rivelò piangendo.

Poi continuò, mentre Giacomo non trovando la forza di rimanere in piedi, si sedette sull’ultimo gradino con la testa tra le mani. Mentre saliva le scale con passo incerto, sconvolta, cominciò a interrogarsi come fece dieci anni prima, e come dieci anni prima non ritrovò nessuna risposta che la calmasse.

- Perché, perché Dio non manda a me questo cataclisma che inizio ad invecchiare e lascia in pace mia figlia? Ne dobbiamo perdere un’altra, così giovane? Non basta aver pagato col sacrificio di Ilaria?

Come altre volte, anche in quel momento videro solo buio, le scale erano piene di nebbie e di fantasmi.

Clara si sedette sul gradino insieme a Giacomo, forse cercava riparo dalle cannonate che sentiva sibilare sulla sua testa, era distrutta, inquieta, le lacrime non erano altro che sangue svilito. In certe occasioni non è facile essere lucidi e guardare oltre il dolore.

Cercò di tenerla stretta a sé, passando il braccio destro sulla sua spalla, ma notò che Clara era lontano, irraggiungibile.

Passarono molti minuti, ognuno nel proprio silenzio, perduti nel vuoto, poi faticosamente raggiunsero la cucina e ci sedettero uno di fronte all’altro, entrambi frastornati, alla ricerca di una soluzione immediata che sapevano però di non poter trovare.

- Non illudiamoci più Giacomo. La cosa migliore sarebbe vivere giorno per giorno, disse Clara, sostenuta dal suo realismo nonostante la situazione obiettivamente difficile.

Avevano paura di affrontare un lungo percorso, paura di un calvario di cui nessuno dei due conosceva né il tragitto né le conseguenze.

Nei giorni seguenti Cecilia diede le dimissioni dal lavoro in Francia e si preparò a quel lungo percorso di terapia e di terrore, di continue ricadute e di depressioni, ma anche di altrettante consolazioni, spesso in momenti inattesi.

Cecilia in quei giorni dolorosi fu abbandonata dal suo fidanzato, il quale si mostrò incapace di portare con lei quel pesante fardello. Del resto non tutti riescono a condividere gioie e dolori, molti preferiscono condividere solo le gioie e i momenti di felicità, per il resto, se giunge un’ondata inaspettata in pieno viso come quella che subì Cecilia, si preferisce ignorare e tirare avanti per la propria strada. Non era l’unico e non sarebbe stato l’ultimo.

Per Cecilia fu un ulteriore colpo mortale, un'altra diagnosi di cancro associata. Ma aveva dentro di sé delle risorse coperte da uno strato di polvere e quindi non visibili. Quella diagnosi tremenda, e a quell’età, la ripulì di ogni sovrastruttura, mise a nudo tutto ciò che c’era da mettere a nudo e poterono così vedere coi loro occhi, sia Giacomo sia Clara, chi era veramente Cecilia, la forza inattesa di cui era dotata.

Seguì un iter diagnostico preciso, scrupoloso e all’avanguardia. E fu quello il periodo in cui cominciò a metabolizzare il nuovo stato e si armò di una corazza impermeabile.

Pianse solo in quegli attimi che precedettero l’ingresso in sala operatoria, esattamente un mese dopo la diagnosi. Giacomo si raccomandò con la dottoressa di fare un bel lavoro, lei lo calmò con parole dolci, era una ragazza giovane, piccola di statura, capelli neri e corti, e gli confidò che di quei casi ne vedeva purtroppo a cadenza settimanale.

Si accomodarono in sala d’attesa e lì rimasero in silenzio per circa due ore, poi Cecilia fece ritorno in corsia e poterono parlare con la dottoressa. Li ricevette nel suo studio, una piccola stanza con un lettino e un tavolo con un computer. Il sole estivo entrava dalla finestra, attenuato da due tende bianche.

Disse loro subito il dato più importante, e cioè che il linfonodo sentinella era risultato negativo all’esame istologico estemporaneo, e a quelle parole furono come risollevati da un peso, sebbene piccolo. Parlò anche di casi clinici identici a quello di Cecilia, dei tanti giunti alla sua osservazione, ed entrambi ebbero l’impressione che parlasse esclusivamente per donare loro un po’ di conforto.

Si salutarono con molta cordialità e uscirono dalla stanza..

Quando furono fuori, in corridoio, Giacomo prese Clara sottobraccio e la condusse in sala d’aspetto, dove rimasero entrambi in silenzio, in attesa che Cecilia si svegliasse totalmente dall’anestesia.

Giunse il momento che Clara si alzò e andò in corsia. Rimase in silenzio seduta accanto al letto di Cecilia ancora sotto narcosi. Giacomo rimase in corridoio, lo sguardo a terra, a misurare i passi, avanti e indietro per chissà quante volte, e chissà quante volte cercò di immaginare la fine di tutto, cosciente però che erano ancora all’inizio del percorso. Quel pomeriggio si rese conto che ad ogni male la vita trova sempre il suo rimedio.

Trascorsero due anni ininterrotti, tutti uguali, tra terapie e controlli clinici, tra corridoi d’ospedali e sale d’attesa. Il buio di certi giorni si alternava a sprazzi di luce, e così vissero in coabitazione con la malattia di Cecilia e capirono la semantica del lemma “cancro”, ovvero sofferenza quotidiana con un ostacolo sempre davanti da superare.

Paradossalmente, quando era in ospedale si sentiva protetto, ma a casa era un continuo calvario, fino a che dovette consultare un medico il quale gli prescrisse degli ansiolitici.

Quando usciva al mattino, infatti, spesso si scopriva con la voglia di gemere come un agnellino abbandonato per questa figlia che poteva trovarsi sull’orlo del baratro da un momento all’altro, perché nonostante tutto nessuno poteva dargli delle certezze. Clara invece puntualmente lo rimproverava, chiedendogli di smetterla di piangere, e soprattutto doveva evitare di farsi vedere da Cecilia in quelle condizioni. Non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, e di tutto aveva bisogno la ragazza, tranne di vederli afflitti e sconfortati.

Vedeva che Clara, per fortuna, non aveva perso la sua intransigenza, la sua dirittura morale, la forza di non abbandonarsi alle lacrime. Giacomo invece era un uomo inadatto a sopportare altro dolore.

Cecilia col tempo riusciva persino a calmarlo quando veniva a trovarli a casa, gli ripeteva che era inutile intristirsi e rovinarsi la vita, e che lei ormai stava avviandosi verso la guarigione, anche se le terapie per via orale prevedevano un protocollo di molti anni. Aveva una fiducia smisurata, o almeno quello era ciò voleva trasmettere.

In questo assomigliava alla mamma, mai un accenno di mancamento anche quando la brutalità della vita ti sbatte in faccia un corpo contundente con la violenza d’un uragano.

Da allora, il rapporto tra Giacomo e Cecilia mutò consapevolmente, e divenne il rapporto tra padre e figlia, quel rapporto cercato per tanti anni e mai avverato davvero.

Dopo tanti anni di convivenza, costellati da dissidi e tormenti, incominciavano a scorgere in lontananza la fine di un lungo tragitto che solo anni prima sembrava infinito. Vedevano tutt’e tre la fine del tunnel, l’uscita verso la luce, con un’altra cicatrice addosso, altro tempo perché tutto rimargini con calma, se rimarrà ancora del tempo.

Una sera, dopo qualche anno, quando Cecilia riprese il suo lavoro all’estero e tutto era ritornato pressoché nella norma, Clara stava mettendo in ordine la cucina, subito dopo cena, Giacomo la chiamò e la invitò a sedersi accanto a lui, sul bracciolo della poltrona; aveva una richiesta da farle, una di quelle a cui ci pensi per caso e poi ci rifletti per giorni e giorni, un pensiero che per anni non aveva mai nemmeno concepito.

Lei venne, si sedette vicino intuendo che aveva una richiesta particolare, intima.

- Cos’hai da dirmi di così importante?

- E’ da giorni che ci penso, Clara, da quando Cecilia è ritornata in Francia e noi due siamo ritornati ad essere sereni.

- Dimmi, e gli passò la sua mano sui capelli; Giacomo sapeva che quel gesto era un gesto affettuoso, una vera rarità per lei. Non avevano dimenticato il loro linguaggio fatto più di gesti che di parole.

- Sono ventisette anni che stiamo assieme, e siamo stati bene, davvero bene. Che ne dici se ci sposassimo dopo tanto tempo?

Ebbe un leggero sorriso, si alzò dal bracciolo della poltrona, si posizionò ferma davanti a lui, lo guardò, devo pensarsi, gli disse, lasciami un po’ di tempo. Poi aggiunse, quando era già ritornata in cucina, Come mai questa idea, non ne abbiamo mai parlato, perché proprio adesso?

- Mi avvio verso i sessant’anni, disse, me ne mancano ancora pochi, mi sembra giusto regolarizzare la nostra posizione. Non mi sembra poi un’idea così balzana. E poi finalmente sarai la signora Martorana, che non è poco, aggiunse con tono ironico.

Lei rise, vedeva che la sua proposta non le dispiaceva affatto, le leggeva in volto una nota di felicità che erano anni che non la distingueva. Giacomo Martorana era felice.

Quando finì di sistemare la cucina, pulire il parquet con uno straccio inumidito, si presentò dritta e ferma davanti al divano dove Giacomo era ancora seduto davanti al televisore, Si, ma ad un patto, disse decisa.

- Hai già deciso? credevo avessi bisogno di più tempo, disse stupito.

- Certe decisioni non necessitano di molto tempo, lo sai come sono io.

- Che patto dovrei accettare, riprese con tono scherzoso

- Ci sposeremo da soli, senza nessuno accanto, solo due testimoni e in un luogo lontano.

- Dimmi cos’hai in mente. Quando parli così vuol dire che hai già pensato a tutto.

- Si, rispose decisa

- Allora fai che dirmi le tue condizioni.

- Ci sposeremo il cinque di maggio sul lago di Garda, dai nostri amici di Malcesine.

- Malcesine, il cinque maggio? Proprio il cinque maggio?

- O così o niente, replicò decisa. E nessuno deve venirne a conoscenza, né Cecilia, né i parenti tutti. Quando ritorneremo ne daremo notizia.

- Allora ci sarà da fare un programma accurato, dissi. E in fretta. Siamo a fine gennaio, se iniziamo a parlarne con Germano e Marianna, e richiedere i documenti, forse potremo fare in tempo.

Telefonarono ai loro amici a Malcesine, i quali rimasero gratificati dalla richiesta di fare da testimoni. Loro li conoscevano da tanto tempo, erano amici fidati, e la possibilità di averli almeno una settimana loro ospiti li rese felici. Avevano una villa sul versante veronese del lago, sulla strada che giunge fino al monte Baldo, in una posizione panoramica davvero unica.

Il giorno dopo Giacomo aveva un giorno di riposo, così si recò in municipio e chiese qual era la prassi da seguire.

L’impiegata dell’ufficio fu molto gentile, una ragazza bassa di statura, con qualche chilo in più ma aveva un viso grazioso, coi lineamenti dolci e gradevoli. Quando ascoltò la sua richiesta, gli parve avesse voglia di dirgli confidenzialmente “finalmente!”, ma non replicò. Gli diede tutte le informazioni necessarie e cominciò la trafila burocratica del caso. L’impiegata lo assicurò che sarebbe stata lei stessa a spedire la documentazione al comune di Malcesine.

Alcuni giorni dopo Giacomo si preoccupò solo di telefonare in comune per prenotare la sala presso il Castello Scaligero, dove si svolgevano le cerimonie col rito civile.

Raggiunsero Malcesine due giorni prima, controllarono che tutto fosse a posto, Clara indossò il nuovo abito e lo mostrò a Marianna e a Germano, i loro due testimoni. Chiesero in quale ristorante sarebbero dovuti andare dopo la cerimonia, poiché erano stati loro a prenotare nelle settimane precedenti. Il ristorante prescelto era in riva al lago, con un prato all’inglese davanti, ben curato, e una sala all’interno molto elegante. La scelta di Germano piacque molto.

Al mattino del cinque maggio Clara sembrò un po’ agitata, Giacomo invece era calmo e di buon umore, e accettò di buon grado anche qualche sgridata di Clara, che gli ripeteva di non intralciarla.

Impiegò più del solito per sistemarsi un leggero trucco agli occhi, un tocco di rossetto opaco, che Giacomo contestò puntualmente, poi prese il suo bouquet di fiori e si avviarono verso il Castello, dove furono accolti dal sindaco e da un’impiegata dell’ufficio anagrafe.

Scambiarono cordialmente alcune frasi di rito, poi diedero avvio alla breve cerimonia.

Erano in piedi davanti ad un lungo tavolo di legno, dietro il quale stava l’officiante e l’impiegata. Dietro di loro una grande vetrata, dalla quale si scorgeva la sponda bresciana e i numerosi windsurf che solcavano le acque del lago, spinte da un vento regolare che al mattino soffia da Riva del Garda verso sud, verso Sirmione.

Il sindaco lesse alcune norme che Giacomo non ascolto nemmeno, pronunciò la fatidica frase se voleva Clara come moglie e lo stesso fece con lei. Poi infilò la fede al suo dito e lo stesso fece lei . Clara firmò per prima il registro delle unioni civili, poi toccò a Giacomo.

Alla fine della cerimonia ci furono le strette di mano con i due funzionari, i quali gli regalarono un acquerello del Lago, e quel quadro adesso sta accanto al camino con la sua cornice.

Rimasero ospiti degli amici ancora alcuni giorni, poi fecero ritorno a casa, dove la vita ricominciò come sempre, poco era cambiato.

Qualche settimana dopo ricevettero un pacco proveniente dalla Francia: era un piccolo regalo inviato da Cecilia. La mamma si commosse, mentre Giacomo gli diede il valore di una definitiva pacificazione.