Dove non giunge la sera
Racconti
(seconda edizione)
“Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l’usata strada.
Nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada”
(E. Montale)
Lettera a Ilaria
Non sei nata forse per colpa mia.
Quel martedì 10 aprile 1990 mi trovavo a Torino, presso la Clinica Chirurgica, per motivi di studio. Tutto sembrava procedere bene. La tua gestazione non ci aveva dato dei grossi problemi in quegli otto mesi. Alla fine della mattinata, come ogni mattina, telefonai alla mamma e chiesi di te. Mi disse che gli esami ematici eseguiti in laboratorio non andavano bene. C’era una sofferenza fetale, la tua sofferenza espressa in un numero ormonale troppo basso. Mi precipitai a Novara in treno, quindi raggiunsi casa in macchina. Chiamai al telefono il ginecologo e ci incontrammo. Ti giuro che lo supplicai per oltre due ore di farti nascere col taglio cesareo, che l’avrei aiutato io stesso, che non ci sarebbero stati problemi. In fondo si trattava di te, della mia prima ed unica figlia. Lo specialista mi ripeteva invece che non c’erano timori, che già si era messo in contatto con la Clinica Sant’Anna di Torino per un ecodoppler da eseguirsi giovedì 12 aprile, il giovedì della Settimana Santa.
Cosa vogliamo attenderci da un esame, fra due giorni, se oggi un altro mi dice che non stai bene, che stai soffrendo, che non ti nutri più come una settimana fa? Quanti pensieri mi giravano in testa in quegli attimi! T’immaginavo chiusa nel tuo liquido amniotico col respiro affannoso, che mi tendevi una mano per chiedermi aiuto, ed io che mi facevo interprete presso lo specialista di farti nascere ad ogni costo, in qualsiasi maniera. Niente da fare. Quando si dice l’inflessibilità degli specialisti. Forse fu allora che cominciai a capire che la diagnosi e la terapia si concerta anche con l’ammalato e i suoi familiari.
Mi ricordo, a dodici anni di distanza, in coincidenza con la Pasqua che si avvicina, che me n’andai via da quel colloquio con la morte nell’anima, frustrato e impotente, con la certezza che qualcosa d’irreparabile stesse per accadere nella mia vita, una di quelle cose che non puoi più ripercorrere nemmeno con la mente. E, infatti, ne scrivo per la prima volta solo oggi, dopo un lungo interminabile e insondabile silenzio.
Tornando a casa mi ricordo che accarezzai il ventre di tua madre, come ultimo gesto illusorio per proteggerti, con la speranza che quella non fosse l’ultima carezza che ti facevo da padre non ancora padre.
Giovedì mattina, quel Giovedì Santo, ci svegliammo di buon’ora per metterci in viaggio per Torino. La mamma mi disse che durante la notte avevi smesso di muoverti, che da qualche ora non ti sentiva più. Col cuore in gola ci recammo in clinica in silenzio. In autostrada nessuno di noi disse qualcosa; eravamo già immersi come te nel silenzio assoluto, tu della morte e noi di chi si sente sull’orlo del precipizio, senza alcuna speranza. L’ecodoppler poco dopo confermò i timori. La tua mamma con lo sguardo sul monitor capì e in silenzio pianse. Non la sentii piangere. Sentii la mia mano poggiata sulla sua guancia bagnarsi di poche lacrime. Le due dottoresse non seppero come dircelo. Si guardarono e ognuna di loro sperava fosse l’altra a comunicarci l’irreparabile. Capii la loro difficoltà e venni loro incontro chiedendo se quelle immagini corrispondevano a quello che stavo immaginando. Poverette, mi dissero di sì all’unisono, come per liberarsi anche loro di un peso che stava diventando insopportabile per chiunque. Chiesero se eri la nostra prima figlia. Credo di aver risposto che saresti rimasta anche l’ultima. Ti lascio immaginare a questo punto il viaggio di ritorno, in quell’autostrada che si era trasformata in una interminabile striscia di dolore. Borgosesia non arrivava mai, si allontanava sempre di più, forse non ci voleva accogliere, forse era diventata ostile. La mamma entrò in sala parto attorno alle ore 21. I preparativi non furono concitati come al solito, le infermiere si mossero con i passi cadenzati dalla consapevolezza, dall’esperienza di un imminente parto di morte e non di vita. Sei nata alle ore 23. In quella piccolissima sala parto non risuonò nessun grido, tutto era silenzio, uno strano, inumano, silenzio. Avevo sognato i tuoi primi strilli, avevo sognato di tenerti subito tra le braccia e aiutare la nursey a lavarti, e invece tutto parlava di morte, di irrefrenabile dolore che sgorgava dal cuore mio e di tua madre. Poche lacrime solcarono il suo viso dolcissimo, accennò ad alzare il capo per guardarti e lì pianse davvero. Fu l’unica volta che tua madre ti vide. Io potei toccarti. Mi ricordo di aver supplicato in silenzio Dio “fa che respiri adesso, Dio mio”. Ma il tuo piccolo torace rimase immobile, le tue piccole labbra rimasero chiuse. Eri irrimediabilmente morta, e questo era in quel momento l’unico dato evidente. Eri nata senza gesti e senza pianto.
Per tutta la Settimana Santa c’era stata una dolce e tiepida aria primaverile, ma quel Sabato Santo, attorno alle undici del mattino, quando ti chiudemmo in quel tuo lettino bianco, anche il cielo versò le sue lacrime, come se Iddio stesso si fosse commosso o pentito di tutto ciò; da solo, e col cuore straziato, ti condussi, portandoti sulle mie braccia, nel posto dove ancora adesso riposi. Una piccola lapide di marmo freddissimo, con su scritta la data e il tuo nome, Ilaria, ci dice che li rimane colei che poteva cambiare il corso della mia vita, quel piccolo essere al quale volevo dedicare ogni mio respiro, ogni mio sforzo, ogni mia volontà, ogni mio desiderio, ogni goccia del mio sangue. E invece non è stato così. Non è così.
Perché non sei nata?
Quante volte mi sono posto questa domanda!
E chi può, a questo mondo, darmi una risposta esauriente?
Perché non mi è toccata la gioia di una figlia?
Il mosaico che compone il nostro destino, prevedeva il tuo sacrificio?
Con tua mamma non ne abbiamo mai parlato, e come ben sai veniamo a trovarti separatamente, perché tu sei, per ognuno di noi, un dolore esclusivo, individuale.
Niente accade senza un perché a questo mondo, e un giorno capiremo perché la tua nascita non si è avverata.
La stufa a gas
La littorina della ferrovia Circumetnea arriva in stazione alle 7,15 puntuale, sbucando da una curva a destra e sibilando a lungo prima di comparire. Le prime case del paese sono lontane poche centinaia di metri, separate da una tipica vegetazione mediterranea, attecchita tra le vecchie colate laviche di chissà quanti secoli. In stazione siamo quasi tutti ragazzi, pronti a saltare su, appena le porte si saranno aperte. Pochi sono gli operai che si spostano con la ferrovia. Due o tre muratori e qualche vignaiolo.
Alla ripresa della scuola, il 1° ottobre, ho appena compiuto i quattordici anni, e mi appresto anch’io a salire su questa sgangherata vettura che mi porterà in un altro paesino della cintura etnea. Al mio paese ci sono tutti gli istituti “di questo mondo”, ed io proprio uno sconosciuto dovevo scegliere, tra le proteste di mia madre che non vuole che questo figlio, piccolo e minuto, debba ogni giorno allontanarsi dalle sue gonne per frequentare una scuola quasi sconosciuta e lontana da casa più di venti chilometri. Ma questo paesino freddo sull'Etna, quasi misterioso, mi ha convinto, a fine agosto, ad andare direttamente in segreteria assieme a due amici, e saltare una volta per tutte il fosso, visto che siamo rimasti indecisi per troppo tempo su quale indirizzo scolastico intraprendere. A distanza di anni mi accorgo, ed è stupefacente, come le scelte compiute nell’adolescenza avvengano più seguendo l’istinto del momento che la vera attitudine. Eppure era una scelta vitale quella che stavo per fare; solo che non avevo - come tutti - la coscienza delle decisioni storiche, uniche e irripetibili. Solo il tempo avrebbe detto se la mia decisione fosse stata giusta. ( A dire il vero non sapevo nemmeno che ci sarebbero stati in futuro anche questo tipo giudizio e questa resa dei conti ). Da ragazzi si sceglie e basta. La storia personale, il tempo, non esiste niente. Nessuno di noi, del resto, aveva chiesto consigli ai genitori su quale strada seguire: semplicemente non era previsto. Loro ne sapevano quanto e forse meno di noi. Quelli della mia generazione, in Sicilia, non sono stati guidati alla vita, né educati. Ci siamo tutti, chi più chi meno, auto educati. E le scelte noi le abbiamo fatte tutte sulla nostra pelle, quasi sempre sbagliando. Le esperienze, i metodi, “il mestiere della vita” erano tutti degli ingranaggi che venivano tramandati verbalmente per strada e a voce bassa, velati da una sorta di mistero e da una connotazione personale. Era così e così sarebbe sempre stato. La vita in Sicilia bisogna costruirsela, e prima si inizia meglio è. Non c’è niente di sicuro, nessuno ti può garantire che un giorno sia uguale ad un altro.
Quella mattina, 1° ottobre 1964, iniziava una nuova vita: nuovi amici, nuovi insegnanti, un nuovo mondo, e soprattutto una nuova materia: la chimica.
“Non ho ancora capito cos’è questa chimica”, mi chiese tra lo sbigottito e l’incredulo mia madre quando finii di ripeterlo per la quarta volta! E’ una materia nuova, non preoccuparti. Sarà il mio mestiere da grande. Sì, un nuovo mestiere, ma io stesso non sapevo un giorno dove andare a lavorare, visto che dalle mie parti nessuno sapeva cos’era una fabbrica, né com’era fatta. Una cosa s’era capita in casa, e mia madre sembrava stare quantomeno in fase di allerta: che questo figlio non avrebbe fatto il mestiere che da decine di generazioni s’era sempre fatto, senza nemmeno fiatare, né opporsi al destino. Il muratore non l’avrei mai fatto. Chiunque aveva intuito che non era il mestiere adatto a questo figlio, che non voleva né crescere, né prendere quel po’ di peso come si conviene nelle famiglie a cui non manca il pane in casa. “Questo figlio mi sembra un rivoluzionario” sentenziava scoraggiata mia madre tutte le sere, allorché presentava il resoconto dell’intera giornata a mio padre. Ma era tardi, e mio padre troppo stanco, perché la stesse a sentire più del necessario. C’erano altri problemi che bisognava affrontare in quelle poche ore trascorse assieme e da svegli. I conti della famiglia che non quadravano mai, questi erano i veri problemi. Due figli da mantenere, la moglie e la casa, come diceva mio padre. Troppo su due sole spalle, ma lui non fiatava, e tirava la carretta come un somaro, sei giorni su sette per dodici mesi all’anno, senza soste previste o impreviste. Lavorava e basta. Lo stomaco dei figli non conosce soste, reclama tre volte al giorno, puntuale e inflessibile al tempo e alle mode. Già da piccolo cominciai a conoscere il valore della saggezza antica. E le sentenze dei genitori erano sentenze definitive.
Il 1° ottobre in Sicilia ci si veste ancora con una camicia o al massimo con un maglioncino. I libri sottobraccio tenuti assieme da una cintura elastica e via, alle sette del mattino.
I primi giorni tutti i ragazzi abbiamo il naso attaccato ai vetri della littorina, pronti a scoprire quel mondo che via via ci sarebbe divenuto familiare. Là le colate laviche, lì gli uliveti, là le ginestre, oltre la fermata di Scalilli i vigneti coltivati a terrazza. La piana di Catania, in lontananza, era una macchia verde di aranceti e sembrava di sentirne il profumo. Lontano, il cratere dell’Etna sempre fumante, con pennacchio ora bianco, ora grigio di sabbia. A noi il vulcano non ha mai fatto paura; la paura non ci è mai stata trasmessa da nessuno. Sulle colate laviche ci camminiamo, è vero, ma per noi sono lontane due o tre secoli e non ci trasmettono nessuna sensazione.
Un viaggio di venti chilometri dura circa un’ora. E’ davvero lenta questa littorina, si deve arrampicare, fa fatica, avrebbe anche voglia di sbuffare, e se avesse la parola potrebbe anche bestemmiare. Le fermate non sono poi così tante. Qualcuna in aperta campagna, una sola in una stazione, a Santa Maria di Licodia, dove iniziano gli uliveti che danno la ricchezza a questa gente di mezza costa. Il paesaggio è stupefacente, è come viaggiare dentro un quadro d’Autore. Il conducente parla e scherza con noi ragazzi, ci richiama come un buon padre, ci raccomanda di non sederci lì davanti accanto a lui, alla sua destra, dove c’è il motore, e di non fumare perché siamo ancora troppo giovani. Quel viaggio lento riesce anche ad essere movimentato; incomincia ad essere una palestra di vita, dove i più giovani ascoltiamo discorsi strani, e le dispute tra i più smaliziati ci vedono spettatori silenziosi. Quell'unico vagone della littorina ha l’aria e i toni di un mercato arabo. Chissà, tutto sommato lavorare un giorno per la ferrovia non sarebbe poi così male, penso. Ma non posso fidarmi dei miei pensieri e dei miei desideri momentanei: sono troppo volubile, ed è meglio non parlare troppo dei miei gusti fugaci.
Finalmente si scende. L’aria qui è davvero frizzante, mette qualche brivido se non si è coperti. Chissà come sarà l’inverno da queste parti, mi fa notare Orazio, un nuovo compagno di viaggio che verrà inserito nella mia stessa classe. E’ più alto di me, magro come me, con gli occhi più chiari dei miei. Occhi buoni, di quelli che non ti tradiscono, penso. E lo eleggo, in segreto, mio amico, quello che diventerà il mio migliore amico.
L’istituto è quasi adiacente alla ferrovia, al di là della stazione. Bisogna solo aggirare i binari, attraversare una stradina sterrata e ritrovarsi davanti al cancello imperioso, in ferro battuto, della scuola. Questa è una costruzione imponente; non saprei dire se è nata come scuola o se è stata adattata negli anni alle necessità. Il preside, ci dicono, non è mai in Istituto. La scuola è una sezione staccata di Catania, e a reggere il tutto è chiamato il segretario, un tipo corpulento, con forte accento di Adrano, un’inflessione tipica che a noi ragazzi suona come una litania, e difficilmente ci sottraiamo allo sberleffo. Il segretario Cipriani è un’istituzione. Inflessibile come il suo corpo, duro come le sue guance, deciso come la sua andatura. Stai a vedere che nella struttura di un uomo risiede anche il segreto del suo carattere, delle sue aspirazioni? Davanti al portone, come il duce sul balcone di Piazza Venezia, diritto sull'ultimo gradino chiede silenzio. E subito è silenzio.
“Iniziamo a fare l’appello con la 1^ A: Abate, Amato, Bertino…”
Ognuno dei chiamati si pone alla sua sinistra; finito l’elenco, il bidello ci conduce in una grande aula. Una cattedra, una lavagna, e poi banchi, decine di banchi di colore verde, di fòrmica, posti in tre file, così diversi dai banchi delle scuole medie, di legno, caldi, familiari. Tre finestre lasciano intravedere la pensilina della stazione ferroviaria. Anziché entrare il sole da quelle finestre, ho l’impressione che entri più il freddo. Qualche settimana ancora e avremmo indossato il cappotto in aula. Mi accorgo che sto crescendo, e che forse comincio a pagare il prezzo delle prime illusioni.
Passano i giorni e le settimane. L’unico elemento importante è la focaccia farcita che la mamma di Orazio prepara una volta la settimana. E’ una pagnotta di pane fresco con dentro i broccoletti “affogati” con formaggio, salame e olive nere. Peccato non avere anche un buon bicchiere di vino di san Vito, quello che consumiamo giornalmente a casa. Un gruppetto di amici riusciamo tutte le settimane ad assaggiare questa focaccia, ed è una vera magnificenza, un canto gregoriano che riesce ad innalzarsi nei cieli più alti. Con il nostro egoismo riusciamo quasi a non farlo pranzare, povero Orazio, decisamente il più buono di cuore, ma anche quello che dimostra tra di noi più saggezza, come se avesse vent’anni anziché quattordici. Come mai sia così assennato, immune dall’egoismo tipico dei ragazzi, nessuno se lo chiede.
A dicembre, ai primi di dicembre, ne parlo con Orazio. A scuola fa troppo freddo, batto i denti, sembro un castoro spelato. E come me anche i miei compagni non se la spassano. Decidiamo di fare richiesta di una stufa a gas, di quelle che sembrano le parabole delle telecomunicazioni. Non sarebbe certo bastata per un’aula così grande, ma se il bidello la accendesse alle sette del mattino, faccio notare, forse per le otto, o magari le dieci, ci sarebbe un piacevole tepore. Il segretario Cipriani, l’inflessibile Cipriani, ci fa sbattere quasi a pedate fuori dalla segreteria. Ci guardiamo attorno, increduli, silenziosi, quasi tremanti, e non solo per il freddo. Abbiamo la netta sensazione che c’è qualcosa che non coincide nel mondo. O forse non coincide solo nel comportamento di Cipriani? Ho imparato in quegli anni, a quattordici anni, a pormi delle domande, e ancora a molte non sono riuscito a dare una risposta. Le decisioni prese per equità e giustizia sono le meno adottate, e chi può ne fa volentieri a meno. Incominciavo a capire che tutto quello che sogni difficilmente si avvererà. Perché qualcosa si avveri non devi nemmeno sognarlo.
Siamo tornati “scornati” in classe, io, Orazio e Pietro. Eravamo tre pulcini bagnati, sconfitti pur senza andare nemmeno in guerra.
Qualche giorno ancora, e riunisco, durante la ricreazione - che aveva il sapore dell’ora d’aria dei carcerati – tutti i compagni di classe, intendi chi a mangiare un semplice panino, chi a consumare tutto ciò che la propria madre aveva loro messo nel sacchetto di carta. A dire il vero è una bellissima giornata di sole, e addosso abbiamo tutti la voglia e l’incoscienza di vivere felici.
Avanzo la mia richiesta e chiedo di metterla ai voti: scioperiamo se il Cipriani non ci compra una stufa. La nostra è una richiesta sacrosanta, legittima, è fin troppo evidente. La proposta passa senza colpo ferire, all'unanimità. Alcuni miei compagni dimostrano l’entusiasmo delle grandi occasioni – uno sciopero non era cosa di tutti i giorni – altri invece ci elargiscono il loro voto con distacco, quasi distratti. Ho incontrato altre decine di volte, nella vita, persone che preferiscono vivere ai margini, senza assumersi alcuna responsabilità, piuttosto che essere protagoniste o almeno tentare di lasciare una piccola impronta del loro passaggio. Ho imparato che l’ignavia è il male peggiore.
Lo sciopero è indetto per la metà di dicembre, quasi a ridosso delle feste natalizie. Sembra che ci facciamo il regalo di Natale, e non immagino nemmeno lontanamente che do’ l’inizio alle mie sventure.
Quel breve tratto di strada sterrata che separa la stazione dalla scuola non è granché, ma non è decente nemmeno il numero di scioperanti, una trentina, ovvero l’intera classe, che può far paura al Cipriani. Il nostro “potere contrattuale” è praticamente zero, ma nella nostra adolescenziale incoscienza quello che stiamo per attuare è motivo di orgoglio, da raccontare alle generazioni future. Uno sciopero all’Istituto Tecnico Industriale non s’era mai visto. Ci stiamo comportando insomma da grandi. Mi pongo alla testa di questo minuscolo corteo, a cavalcioni sulle spalle del compagno di scuola più mastodontico, certo Fùrnari, un ragazzone di chissà quanti anni più vecchio di noi, uno che aveva ripreso la scuola dopo aver provato che zappare la terra dal mattino a sera è molto più faticoso.
Giunto sotto il cancello in ferro battuto dell’Istituto, con slogan inventati al momento, scorgo i capi affacciati alla finestra del primo piano, la finestra della segreteria. Cipriani, il professore di lettere Fichera, l’insegnante di geografia, il bidello (anch’egli era un’istituzione).
Sono euforico. Abbiamo centrato l’obiettivo, tutti ci hanno visto e riconosciuto, e sicuramente ci daranno retta; ci avrebbero comprato l’agognata stufa a gas.
Gli effetti di quello sciopero non si fanno attendere.
Mia madre è convocata qualche giorno dopo. Devo dirglielo io stesso che è attesa in segreteria per comunicazioni.
“Suo figlio, mia cara signora, è un capopopolo” sentenziò Cipriani a mia madre, e sono le stesse parole che riporta la sera, fedelmente, a mio padre, nel dopocena, nel solito resoconto quotidiano. Mio padre sembra non preoccuparsi. I capipopolo non esistono più, fanno parte di un passato, sebbene ancora recente. E poi questo figlio non ha la statura, né la scorza del capopopolo, sebbene sia testardo e abbia una certa personalità.
Gli effetti non si lasciano attendere, perché nella pagella del primo trimestre appare un “sette” nel primo rigo, quello riservato alla condotta. Significa essere bocciato a fine anno, e se non riesco a rimediare, la questione diventerà quantomeno imbarazzante. Non si è mai visto un alunno essere bocciato per la condotta, non vorrai certo essere tu il primo in Italia.
“Certo che no, mamma” le dico senza nemmeno troppa convinzione. Non si è mai vista una bocciatura per motivi banali, ma tutto sommato per noi importanti. E’ giusto lottare per una stufa, quindi al momento opportuno anche il segretario accetterà la bontà delle mie lotte. Da allora non ho più perso il “vizio” di stare in prima linea quando le circostanze me lo hanno chiesto, né di lottare anche per gli altri, quelli che distrattamente ti dicono di stare con le tue ragioni e poi, anche molto cautamente, si girano dall’altra parte. Di gente così ne ho conosciuta a bizzeffe, ma ancora oggi continuo a fare gli stessi errori, a fidarmi incondizionatamente di oro, ad essere ancora testardo, come diceva mio padre.
A giugno arriva la resa dei conti.
E vince il segretario Cipriani. Ha semplicemente schiacciato come un moscerino quel piccolo alunno reo di stare in prima fila, sulle spalle di Fùrnari. Chi impugna il coltello dalla parte del manico non ha scampo: vince sempre, e senza nemmeno troppa fatica.
Mia madre diceva, nella sua saggezza, che chi mangia fa molliche, e questa è una delle verità in cui trovo spesso consolazione.
L’ultimo Natale
Avevamo cenato tutti insieme nel casolare di Pietro, in piena campagna, come era tradizione in Sicilia, poi avevamo trascorso la notte a giocare a carte fino allo sfinimento, col camino sempre acceso e una sola lampada al centro del tavolo che illuminava l’unica stanza. Era tradizione allora che si andasse in drogheria e dal macellaio a fare spesa, e poi una volta giunti in campagna si dava inizio alle baldorie, prima cucinando, compito che toccò a me e Orazio che qualcosa eravamo abituati a fare anche a casa nostra, poi cenando e bevendo fino alla mezzanotte, quando ci si scambiava gli auguri di buon natale e ci si preparava a trascorrere la notte giocando a carte, senza però mai eccedere con le puntate; essere squattrinati aveva il suo peso anche nei giorni e nelle notti di festa.
Era già quasi mattino, avvertivo un po’ di stanchezza, quando senza dire una parola mi alzai dalla sedia, feci un paio di flessioni in avanti fino a toccarmi la punta delle scarpe con le dita, quindi uscii a prendere una boccata d’aria fresca. Era ancora buio, il gallo nel recinto iniziò a cantare, come presagio dell’alba. Mi appartai vicino ad un arancio e urinai lungamente lanciando lo sguardo verso l’infinito. Sentii un brivido attraversarmi la schiena. Avevo davanti a me tutto il buio del mondo, e le stelle alle quali non sapevo dare un nome.
A levante iniziava un lieve chiarore, uno squarcio nel buio che si ripeteva ogni mattina, una lama affilata di luce che incideva l’orizzonte quasi a farlo sanguinare. Il colore rosso vivo di certe aurore sembra a volte davvero sangue, quel sangue che l’orizzonte paga ad ogni giorno come prezzo alla vita che riparte, un biglietto d’ingresso nel teatro millenario della terra.
Mi girai e vidi tutta la comitiva che mi aveva seguito con passi lenti e incerti; ognuno aveva scelto una zolla dove liberarsi di liquidi e di alcol. Nel buio le sagome si confondevano con gli aranci, ma nel buio è facile confondersi. Nel buio si è tutti uguali. L’aria era fresca, odorava di antico e di zagare. Il silenzio quella notte era tappezzato di stelle in bilico sui rami.
Eravamo in mezzo alla piana di Catania, in prossimità del fiume Simeto che conoscevano come le vene sul dorso delle mani.
- E’ bello stare insieme - disse Pietro - succede solo la notte di Natale di poterci sfogare senza remore, senza l’assillo di tornare a casa. E’ bello, poi, scrutare l’alba e sapere di avere voi accanto.
- Ed è bello anche sognare, disse Orazio.
- Sì, è un sogno vedere l’alba con gli amici, tutti insieme.
- Ma non c’è alba senza nuvole attorno, aggiunge Orazio
Ognuno di noi ebbe l’impressione di stare racchiuso nella gioia inesplosa che la riunione natalizia ci stava regalando. Non erano, infatti, tante le occasioni che avevamo per stare molto tempo assieme; soltanto durante le feste di Natale potevamo ritrovarci tutti, da soli e spensierati, visto anche le lunghe vacanze che ci attendevano. Pietro chinò il capo e col piede scostò una zolla di terra, poi lentamente ci girò le spalle, fece alcuni passi, come se volesse allontanarsi, guardò l’orizzonte e inspirò a pieni polmoni l’aria fredda di dicembre, ebbe un attimo di pausa, come se stesse per riporre le proprie idee in un cassetto, poi si rigirò verso di noi e decise di dire due parole, che ebbero il sapore del commiato e il tono di un’omelia, almeno così lo percepimmo nell’umidità di quel mattino. Pietro era il leader della compagnia, un ruolo che gli amici gli riconoscevamo sin da subito, fin dai primi giorni di scuola delle elementari, quando lo conobbi. Iniziò già allora quell’amicizia che ancora perdura senza tentennamenti, senza segni di stanchezza. Quell’amicizia che ti dà coraggio e non ti fa sentire solo al mondo, quel legame che va sempre avanti, nutrito dalla fiducia reciproca, dalla certezza che niente potrà scalfirla e nessuno potrà mai dubitarne, perché solo l’amicizia nata nell’infanzia non verrà mai tradita.
- Ragazzi, alla fine di quest’anno scolastico sosterremo la maturità. C’è chi di noi proseguirà gli studi all’università, chi cercherà un impiego, nessuno di noi sa ancora qual è il proprio destino.
Ebbe ancora un attimo di pausa. Poi ricominciò a voce bassa, come se non volesse che lo ascoltassimo, come se stesse parlando a se stesso o a qualcuno che fosse nascosto dietro gli aranci, o solo dentro la sua anima. Pietro aveva non di rado di questi momenti ieratici - e in questo assomigliava molto ad Orazio - perché era uno che già sapeva guardare al futuro, anche se il futuro era piuttosto nebbioso, come sempre.
- Chissà dove saremo fra qualche anno, se ancora passeremo un Natale insieme o se questo sarà l’ultimo. Ognuno di noi sceglierà una strada diversa dagli altri, forse saremo lontani da questi posti che ci sono cari e che ci hanno visto crescere. Avremo dialoghi d’amore, un giorno saremo capaci anche di questo, saremo adulti e inevitabilmente invecchieremo. E chissà se ci dimenticheremo l’uno dell’altro. Possiamo programmare il nostro futuro fino ad un certo punto, adesso che siamo poco più che ragazzi, ma verrà il giorno in cui ci troveremo di fronte ad un bivio, e in quel bivio non saremo noi a scegliere, ma il caso, Dio per chi ci crede. Ho paura di certe scelte, paura di sbagliare, paura di innescare un errore dietro l’altro. Spero solo di acquisire qualche certezza in più con gli anni, ma non vi nascondo che la paura dell’ignoto, del tempo che verrà, rimane ancora intatta. Solo un uomo insensato non ha mai paura.
Il gallo cantò ancora, noncurante del buio che svaniva con lentezza esasperante.
Pietro sembrò stanco, quelle sue stesse parole nate dal profondo dell’anima sembravano avere steso sul suo volto un senso di smarrimento, che vi si leggeva ora che il chiarore dell’alba incominciava a illuminargli leggermente il viso. Proseguì guardando le ultime stelle, forse anche ascoltandole.
- La nostra amicizia, che stasera sembra indistruttibile, forse finirà sotto le martellate del tempo o semplicemente della fatalità. Sarebbe bello però non dimenticarsi di questi profumi. Qui anche la notte profuma. Non sfioreremo mai più, nell’alba, questi aranci e questi ulivi secolari, non prenderemo più tra le mani questa terra scura e friabile di casa nostra. Di una cosa però sono certo, che ci ricorderemo di questa notte finché vivremo: non c’è posto migliore del luogo dove si è nati per ritornarci almeno coi ricordi.
- La terra è uguale ovunque, come la sera, come la morte, replicai tra gli alberi con un senso di realismo che anche a me parve inaspettato e inusuale. Parole profetiche, perché in seguito un’altra terra mi avrebbe accolto e una morte mi avrebbe segnato irrimediabilmente.
Faceva freddo, Pietro e tutti noi c’eravamo chiusi nelle spalle, forse un po’ di freddo aveva raggiunto la profondità delle nostre fibre, forse c’eravamo persi nella verità di quelle parole.
Rimanemmo lì ancora per poco, come a voler raccogliere quelle parole e conservarle nella propria memoria. Roberto si accostò ad un albero e cominciò ad accarezzare un’arancia, senza coglierla, si portò la mano al naso per vedere se qualcosa gli era rimasto tra le dita. La luce dell’alba era già sufficiente per guardarsi negli occhi:
- Che giorno è oggi?
- Nelle feste non si contano i giorni, non si è avvezzi a contare ciò che passa velocemente.
- Io sono stanco, disse Orazio, avrei bisogno di dormire.
- Dormire per poter ricominciare, sarebbe questa la soluzione migliore, replicò Pietro
- Per ricominciare ci vorrebbe un colore diverso, che contrasti con questo mare di verde, aggiunse Roberto
- Ci vorrebbe il giallo delle ginestre, sì. O forse ancora l’odore del narciso
Pietro non era solo un amico. Era ed è rimasto un fratello.
Dalla prima elementare ad oggi sempre assieme, sempre vicini. Adesso che viviamo agli antipodi, almeno due volte l’anno ci telefoniamo e ci aggiorniamo. Una volta parlavamo sempre con più ironia e disincanto dei nostri tormenti amorosi, adesso dei nostri tormenti di salute; io gli parlo del mio cuore ballerino, lui delle sue patologie e del suo cortisonico divenuto amico inseparabile, come lo eravamo noi da giovani.
Pietro, con quel nome regale, potente, maestoso, autorevole, non poteva che avere la vita che ha avuto. Tutta colpa o merito di suo padre, don Memè, che volle imporgli quel nome non rispettando la tradizione che voleva venisse perpetuato quello del nonno paterno.
Appena conclusi gli esami di maturità le ragazzine, ma non solo loro, iniziarono letteralmente a spolparlo come una costina di vitello, ma di nascosto, perché in Sicilia alla luce del sole certe libertà non erano ancora consentite, e aver lavorato per qualche anno alla cassa di un bar, nella piazza principale del paese, lo favorì molto in questa invidiata attività, fu come un’operazione geniale di marketing, come essersi messo in vetrina e dire “sono qui, prendetemi, non dovete fare tante moine per avermi”. La sua ragazza pativa in silenzio, anche se Pietro non era uno smargiasso, ma in paese le voci circolavano anche allora, non solo adesso.
Per qualche tempo continuammo a fare la vita dei fricchettoni, io frequentavo già il primo anno d’università ma non avevo ancora trovato il metodo giusto per rendere come speravo, e iniziato la mia relazione platonica con Sandra da qualche anno. Pietro si atteggiava invece a scapolo d’oro, raccogliendo i dovuti frutti maturi che cadevano dagli alberi come foglie d’autunno. Per essere bello Pietro lo era davvero, e questo non passava affatto inosservato in paese. Era sicuro di sé, e spesso ieratico, specialmente quando trovava le parole giuste o aveva la giusta ispirazione. Come vedere san Pietro nelle iconografie o nelle chiese, con le chiavi appese alla cintura e un volto di patriarca inflessibile. Anche quel nome, insomma, gli conferiva quel pizzico di autorità che noi non avevamo e che non ci sognavamo nemmeno. Pietro era una spanna sopra di noi in tutto, aveva una marcia in più.
Generoso con tutti, sempre con le parole giuste al momento giusto, altre volte si atteggiava anche col petto in fuori, come a voler dimostrare d’essere un uomo sicuro, uno che non aveva bisogno di niente e di nessuno, ma dietro quella scorza sapevo che c’era ben nascosto qualche tratto misterioso del suo carattere. Mai una leggerezza in pubblico, ma quando eravamo noi due soli sapeva slegare ogni laccio, magari al cimitero, con un po’ di silenzio dopo tanto chiasso patito al bar, e lì metteva tra le mie mani qualche sua debolezza, le perplessità che si hanno in gioventù, e che lui voleva mostrare solo in mia presenza, per cercare di comprendere assieme a me ciò che da solo non poteva afferrare e assimilare. Si mostrava orgoglioso in compagnia, come voler essere fedele al nome che portava, quasi un impegno inderogabile, ma tra di noi due sapeva anche essere umile, disposto al dialogo, a scandagliare nel silenzio quei dubbi, quegli ostacoli che come tutti noi anche lui vedeva dinanzi a sé. Le inquietudini giovanili ci ribadivano un elemento essenziale e inconfutabile: che eravamo tutti figli della stessa madre, della stessa terra, un carattere genetico al quale non potevamo sfuggire.
Pietro si sposò con Maria molto presto, quella ragazza conosciuta quando ancora entrambi erano poco più che bambini, la sua “picciridda” – così la chiamava affettuosamente quando era tra di noi – che custodiva da buon siciliano come una reliquia. Maria insegnava italiano in un istituto di un paesino della cintura etnea, non si vedeva mai in giro anche da ragazza, probabilmente era una studiosa e adesso da sposata aveva il suo da fare con la famiglia e con i due figli che Pietro mise subito in cantiere senza troppe preoccupazioni.
Quando stava per arrivare il primo figlio, finalmente poté concorrere ad un posto di impiegato comunale. Certo, da noi più che concorso vero e proprio si trattava di avere le giuste conoscenze e Pietro, nel periodo dietro la cassa, di amicizie ne aveva avute tante, perché aveva fatto anche molti favori a coloro che erano meno dotati di lui in questioni di cuore. E si sa che in Sicilia, ancora oggi, “una mano lava l’altra…..e tutt’e due si lavano a vicenda”. Una regola, o meglio, un sistema di vita che non è ancora cambiato.
Con l’impiego in comune, Pietro dovette dire addio alle sue giornate passate dietro la cassa, o sulla soglia del bar quando i clienti latitavano nelle ore del pranzo. Addio al sole accecante della piazza, addio a tutti quegli amici che affollavano il bar al mattino per la colazione, addio alle fanciulle che si alternavano come ad una processione del venerdì santo, addio a tutti i miracoli che gli sono usciti generosamente dal cuore, addio a tutte le miracolate del paese, che furono tante in quegli anni, addio anche a me, a suo fratello Giacomo che andava al nord a riprendere gli studi di medicina.
La notizia gliela diedi un sabato mattina, quando era libero dal lavoro, tre giorni prima della mia partenza, quando in bicicletta andammo al Simeto a raccogliere asparagi e capperi selvatici.
Era la fine di aprile, e quell’angolo di Sicilia in quel periodo dell’anno è già una sterminata tavolozza di colori, dal verde dell’arancio, al bianco del mandorlo, al rosa delicato del pesco.
Avevamo il passo lento e cadenzato lungo le rive del fiume, non guardavamo più giù per terra, perché ci trovammo lì a far parte di quell’atmosfera, di quella natura, di quel cielo e di quegli odori, e più che cercare asparagi e capperi selvatici in un terreno incontaminato da millenni, preferimmo sederci in un angolo, riparati da un piccolo canneto che cresceva sulla riva. Fu lì che gli diedi la notizia della mia imminente partenza per il nord, accolta purtroppo come una stilettata, ancora più dolente perché inaspettata.
Fu come avergli dato la notizia di una morte inaspettata. Pietro non voleva rimanere da solo, non voleva che questo piccolo pilastro di nome Giacomo crollasse in così poche ore, in così pochi giorni; senza questo appoggio credeva lo attendesse un periodo oscuro, incerto, che poteva anche indurlo a chissà quali cambiamenti.
Perché Pietro aveva paura dei cambiamenti. A fianco a me non aveva bisogno di camminare petto in fuori o di mostrarsi sicuro e infallibile, sapeva che conoscevo molto del suo cammino, la nostra strada era illuminata dalla stessa luce e soffriva delle stesse ombre.
Se non lo vidi piangere con lacrime vere fu per decenza, ma sicuramente, conoscendolo a fondo, stava lacrimando. Mi sembrò vederlo contorcersi, dentro la sua anima si stavano aggrovigliando fili che non sapeva districare: aveva il presentimento che sarebbe stato ancora più solo.
Il giorno dopo quella memorabile notte di Natale ci svegliammo tardi, intorno alle tredici, pronti per il pranzo anziché per la colazione. Mia madre mi lasciò dormire avendo cura di non fare rumore per tutta la mattinata.
Il freddo gelido di tramontana quell’anno fu intenso, tuttavia non ci si lamentava affatto; un Natale senza freddo non era Natale, semmai avevamo desiderio di un po’ di neve, quella non l’avevamo mai vista in paese, perché quelle poche volte che compariva, non faceva in tempo a depositarsi sull’asfalto che si scioglieva nel breve giro di alcuni minuti.
La sera, come se non ci fosse stata alcuna soluzione di continuità, ci riunimmo ancora tutti gli amici. Roberto si offrì di mettere a disposizione la sua Fiat 500 bianca, così fece anche Pietro con l’auto di don Memè, quindi intorno alle 22 prendemmo la via di Nicolosi quasi senza alcun motivo. Ci eravamo ripromessi di andare a gironzolare per i paesini etnei, alla ricerca di che cosa non lo sapevamo nemmeno noi. Sapevamo solo che a casa erano disposti a concederci ancora qualche notte fuori dai canoni, quindi era un peccato oziare in paese o starsene a casa a giocare ancora a carte. Eravamo in tre sull’auto di Roberto e tre sull’auto di Pietro. Avevo freddo, sul sedile posteriore della 500 dove mi ero sistemato da solo, stavo scomodo. Avevo i piedi sotto le ascelle per evitare il congelamento, né Roberto né io sapevamo dove fosse la levetta del riscaldamento, non ne avevamo avuto mai bisogno, semmai era del raffreddamento che avevamo bisogno, perché nel caldo della Sicilia ci faceva comodo dieci mesi all’anno, ma del riscaldamento mai. Così mi toccò patire, tanto da trovarmi mezzo assiderato. Mi rigiravo continuamente alla ricerca della posizione migliore, ma non ci fu verso. Intanto anziché fermarci a Nicolosi, Roberto proseguì oltre; io dopo tante manovre per non morire di freddo, dovetti azionare inavvertitamente la levetta del riscaldamento che era posta, l’avevo finalmente scoperto, sotto il sedile posteriore. Nel giro di pochi minuti, girovagando senza meta, ci trovammo al cospetto del rifugio Sapienza, ultimo avamposto di quel vulcano mai silenzioso ma piuttosto infido, seguiti dall’auto di Pietro. Quando scendemmo in mezzo alla neve, io e i miei amici sembravamo indegni del genere umano, tutti smarriti, vestiti in modo inadeguato. Io avevo addirittura dei mocassini per colpa dei quali le mie estremità gridavano vendetta. Entrammo nel rifugio e vi trovammo, oltre a una giovane donna dietro al bancone, due uomini barbuti, forse erano due guide, e senza proferire parola - forse salutammo appena - ci mancò poco che abbracciassimo tutti insieme la stufa al centro della stanza. Io quasi infilai dentro i piedi ancora congelati, quasi a contatto col fuoco vivo, e lì rimasi sino ad un accettabile scongelamento del sangue che cominciò a circolare. Quando finì l’urgenza Pietro ordinò un bicchierino del “fuoco dell’Etna”, un liquore che a me sembrò dal solo odore alcol puro a 90 gradi. Noi altri ci accontentammo di un caffè. Non nascondo che fummo anche oggetto di qualche scherno da parte delle due guide, con le quali nel frattempo si era stabilito un clima di complicità, favorito anche dal periodo natalizio, quando ognuno si crede in dovere di essere migliore che negli altri giorni dell’anno.
Intorno alle due, uno delle due guide ci consigliò di uscire sul piazzale e di assistere allo spettacolo dell’alba. Ci guardammo increduli: ancora fuori, al freddo e senza un adeguato abbigliamento? I nostri sguardi furono un punto interrogativo scritto a carattere maiuscolo. La guida più giovane, avrà avuto non più quarant’anni, uscì per primo, come per dare l’esempio, ci fece strada e ci attese sul piazzale del rifugio, appoggiato alla ringhiera metallica, quasi sprezzante delle basse temperature. Roberto farfugliò qualcosa di incomprensibile e lo seguì, poi fu il mio turno e infine Orazio, Pietro e i tutti gli altri.
Era freddo. Ad ogni respiro mi sentivo bruciare i polmoni. Una sensazione di benessere e di dolore insieme: spesso le due cose camminano uno accanto all’altro, e non solo qui in alta quota.
Respiravo lentamente, i brividi mi scuotevano, come avere uno spasmo, una scossa elettrica intermittente. Tutto era calmo, il silenzio ci passò vicino e ci toccò ad uno ad uno. E ci riconobbe.
Pietro si strofinò il viso con le mani per scaldarsi, io invece mi asciugavo gli occhi sotto le lenti e Orazio stava con le mani incrociate sotto le ascelle. Forse sognammo, ma non lo sapremo mai.
L’orizzonte, giù al mare, era indistinto, nero, la notte sonnecchiava ancora. Forse trascorsero cinque minuti, forse qualche minuto in più, quando una linea sottile cominciò a separare le acque dal cielo. Diventò bianca, sempre più bianca, e mentre il cielo si schiariva a piccole strisce, le acque rimanevano nel sonno, nere. I colori mutarono rapidamente, in pochi minuti, al bianco si sostituiva un tenue rosa, poi il giallo tenue e il viola chiaro. Un pittore naif doveva essersi stabilito laggiù e stava piano piano colorando coi pennelli quel tratto di orizzonte. Niente ci separava da quello spettacolo, eravamo una sola struttura, noi, il cielo, il mare, il cratere centrale alle nostre spalle che tuonava come sempre. Eravamo noi soli, in silenzio, sbalorditi nell’assistere alla prima alba del mondo, al nascere del pianeta terra, un parto primordiale, e a qualcuno, forse a Orazio che tra di noi era il più mistico, sembrò che la mano di Dio, quella enorme mano michelangiolesca, stesse sostenendo quel mare e quel cielo. Ancora due minuti e il rosso carminio striato qua e là di viola disegnò un cono luminoso che si inabissò nelle acque e prese possesso di quel mare, lo fecondò con il suo calore e ci mostrò, in tutta la sua estensione, quella sottile striscia non del tutto orizzontale, curva verso i lati, a dirci che siamo ospiti di una terra senza spigoli, senza contrasti.
Intanto la luce invadeva piano piano anche il piazzale del rifugio, ci sembrò che quel freddo di pochi minuti prima fosse sparito del tutto. Le stelle cominciarono ad abbandonare il cielo, solo Venere era rimasta lì fuori a farci compagnia assieme alla guida. Adesso eravamo calmi, ammutoliti, nella tenue luce bianca perlacea di quell’alba primitiva trovammo il coraggio di guardarci negli occhi e capimmo di essere stati spettatori privilegiati e non casuali. Per Orazio era stato Dio a guidare la Fiat 500 di Roberto verso il rifugio Sapienza per donarci quello spettacolo primordiale, una riproduzione tutta per noi dopo milioni di anni.
Avevamo assistito per due notti consecutive al nascere del giorno, allo spettacolo della vita che rinasce, al mondo che inizia a respirare, la prima notte immersi nell’odore di zagare, stritolando zolle di terra, la nostra terra, la seconda sul palco del rifugio Sapienza, a conoscere l’età del mondo grazie a una guida sconosciuta.
Chiudemmo così le feste dell’ultimo Natale trascorso insieme, l’ultima di tante dove cementammo in modo indissolubile la nostra amicizia che divenne fratellanza, quel sentimento così tante volte cercato e costruito pazientemente come un mosaico bizantino, e che il tempo ha potuto soltanto affievolire ma non cancellare, perché nelle vene di ognuno di noi scorre lo stesso sangue e tale è rimasto nei decenni, a dispetto di un mondo che inevitabilmente ci sembra distante e quasi estraneo.
All'inferno e ritorno
L’appuntamento era all’aeroporto di Fiumicino. Io proveniente da Milano Linate e Roberto da Torino Caselle. Non ci conoscevamo. Ci aveva messo in contatto un’organizzazione non governativa che opera nelle missioni del Kenya, il CCM di Torino. Avevo insistito io a non andare da solo poiché, non essendo completamente padrone della lingua inglese, temevo di trovarmi in difficoltà.
Andavo in Kenya a dare sostegno ad un amico fraterno, che fra l’altro in quel mese di gennaio si sarebbe trovato a fronteggiare, oltre agli ammalati indigeni, anche la nascita del suo primogenito. Roberto, invece, era un veterano di questi viaggi umanitari, ed era inviato a Sololo in qualità di economo, a sostegno di Gianfranco e della moglie che invece si occupavano della parte più squisitamente operativa, essendo lui un chirurgo e lei un’educatrice.
All’aeroporto chiesi ad una hostess di poter annunciare che il signor Roberto era atteso all’uscita 22. Io ero lì ad aspettare. Quando comparì al bancone, poco dopo, fui io a presentarmi. Ci stringemmo la mano cordialmente, io visibilmente sollevato, e lo invitai a prendere un tè al bar. Mentre sorseggiava, cominciò a raccontarmi dei suoi innumerevoli viaggi, che era sposato e senza figli, e che la moglie si era sempre rifiutata di accompagnarlo. Non chiesi il motivo di questo comportamento; ci conoscevamo da qualche minuto, e in ogni caso scavare nella vita degli altri non era mai stato il mio gioco preferito.
Mi spiegò, con dovizia di particolari, quale sarebbe stato il nostro itinerario. Io conoscevo solo dalle cartine del Touring il Kenya, e mi ero già tracciato quello che supponevo il tragitto ideale per arrivare a Sololo. Roberto fu invece molto più preciso.
Alle 20 fummo chiamati per l’imbarco. Ci aspettavano 10 ore di viaggio, il mio primo viaggio a lunga percorrenza.
Il Boeing 767 dell’Alitalia atterrò sulla pista di Nairobi all’alba.
Sarà stata la suggestione di trovarmi in un nuovo continente, ma quell’alba la ricordo ancora come una delle cose più belle mai viste in tutta la mia vita. Un’altra alba era stata straordinaria, molti anni prima, durante una freddissima notte di Natale, quando avemmo la poco felice idea, Orazio, Salvo ed io, di andare alle due del mattino al rifugio Sapienza, sull’Etna, a bordo di una Fiat 500 L, della quale non conoscevamo nemmeno l’esistenza del riscaldamento, posto sotto il sedile posteriore e costituito da una piccolissima levetta che bisognava girare nell’unica direzione possibile. Rischiammo davvero l’assideramento. Sul piazzale del Rifugio godemmo della vista del sole che sorgeva dal mar Ionio, lentamente, con i colori tenui e dolci della natura. Ci sembrò la prima alba del mondo, come se Dio stesse lì con noi a costruire l’universo.
All’aeroporto di Nairobi c’era John, il driver, ad aspettarci.
Salutò calorosamente, con un abbraccio, Roberto, dandogli delle pacche sulle spalle, felice di rivederlo. Roberto ricambiò la cordialità, e cominciò a scambiare le ultime novità: chiese come stavano i due frati di Sololo che mandavano avanti la missione, chiese della situazione generale – che significava politica – ovvero se c’erano rifugiati come l’ultima volta o se le cose stavano migliorando. John era di etnia kykuyo, e aveva la pelle che sembrava spalmata con il lucido delle scarpe, da fare impressione. Era piuttosto piccolo, muscoloso e dava l’idea di saper fare tutto, se necessario.
Ci portò prima dai Padri Comboniani, in un lungo viale alla periferia di Nairobi - dove speravo di incontrare padre Alex Zanotelli - e dopo all’ostello gestito dalle suore della Consolata, dove si fermavano tutti i missionari in arrivo o in partenza dal Kenya e dove anche noi prendemmo alloggio. La stanza era spoglia, arredata con meno del necessario, i servizi igienici e le docce in comune; in compenso però si pagava pochissimo ed era inclusa la colazione del mattino. La sosta prevista era di due giorni, il tempo utile per fare delle spese che Roberto aveva in una nota, e saremmo ripartiti. In quei due giorni ebbi modo di assaporare Nairobi, le sue strade di periferia in terra battuta e rossa, come dei campi da tennis, un immane via vai di gente che correva in tutte le direzioni, i suoi sporadici bus municipali stracarichi di passeggeri aggrappati alle portiere. Tutto mi sembrava strano, anche insensato, eppure dovevo per un mese abituarmi a questa gente, accettarla così com’era, senza fare domande. Ero venuto per prestare la mia opera di chirurgo, ma anche per conoscere le abitudini, le esigenze, la cultura, così lontana dalla nostra da fare paura. Credevo di essermi preparato adeguatamente e adesso mi sottoponevo alla prova del nove.
Ci rechiamo al Nazareth Hospital, a circa trenta chilometri da Nairobi, che è già pomeriggio. Mi accorgo piano piano che qui in Africa il tempo ha una dimensione diversa che in Italia. Qui niente viene scandito dall’orologio, tutto sembra precario, ma la giornata non è meno lunga e impegnativa di altre parti del mondo. Il Nazareth sorge in mezzo ad una coltivazione di caffè, in un paesaggio collinare, e per arrivarci, lasciata la superstrada proveniente da Nairobi, bisogna avventurarsi in un sentiero sterrato e pieno di buche da entrarci l’intera Toyota. Ai bordi della strada, e nel piazzale antistante l’ospedale, troviamo accampate centinaia di persone semi nude, magre da fare spavento, che cercano di fermare la nostra auto nella speranza di racimolare qualcosa da mangiare. Bambini nudi, soli, nel caldo irrespirabile del pomeriggio, danno all’intera scena un tocco di squallore e di inumana debolezza da far pensare di aver sbagliato itinerario, e di essere precipitati nell’inferno. All’interno ci accoglie Pinuccia, una giovane donna, minuta, che sta lì da diversi anni a sopportare sulle sue piccole spalle il peso dell’intera attività chirurgica, essendo una ginecologa in aspettativa perenne dal suo ospedale di Santhià, in Piemonte. Mi porta in giro per i reparti, e mi accorgo che non esistono né i comodini né le sedie sulle quali le pazienti possano sedersi qualora decidano di non rimanere a letto. Le corsie sono piuttosto buie, ognuna con quattro letti, col pavimento in cemento, senza mattonelle. L’intonaco alle pareti è colorato di un azzurro stantio. C’è un forte odore sgradevole al quale non sono abituato, ma devo stare attento a non arricciare il naso per non urtare la sensibilità delle ragazze ricoverate. Pinuccia mi mostra un ecografo, che è riuscita a farsi mandare dal suo ospedale, luogo in cui era ormai in disuso, e con il quale si può permettere una buona attività diagnostica. Decidiamo, dietro suo invito, di rimanere a cena e di pernottare. Per ricambiare la sua cordialità mi offro di aiutarla qualora in nottata ci fosse l’eventualità di un’urgenza chirurgica, e le dico di non avere quindi alcun timore a svegliarmi anche in piena notte. Alle sette del mattino squilla il telefono. Era lei che mi avvertiva di un’urgenza, una gravidanza extrauterina, e se avessi voluto, avrei potuto raggiungerla nel blocco operatorio, in cui era già tutto pronto. Non me lo faccio ripetere due volte che salto giù dal letto come uno scoiattolo. Raggiungo la sala e vedo la paziente già sul lettino e una suora che inizia l’anestesia con una maschera. Una volta eseguito il suo compito, la suora lascia tutto in mano ad un’allieva indigena e scompare nel nulla. Anche il ferrista è un indigeno, un ragazzone che può competere sicuramente su qualche ring di New York senza sfigurare. Vedo che prepara una bottiglia vuota con un imbuto, ricoperto all’interno da una banale garza. Chiedo a Pinuccia cosa significa quel rituale, se fa parte di una stregoneria o se è un’abitudine che io non conosco. Mi dice che qui in Africa il sangue che si trova nell’addome dei pazienti – come nel caso che stavamo per affrontare - non va aspirato e buttato via, ma viene raccolto con un mestolo da cucina e filtrato, in modo da praticare, nell’eventualità in cui ce ne fosse bisogno, un’autotrasfusione. La necessità acuisce l’ingegno, è proprio vero. Inizio a scoprire queste piccole verità facendo anche la figura dell’ignorante occidentale. Al ritorno in Italia, quando ebbi l’opportunità di comprare un volume sulla chirurgia nei Paesi in via di sviluppo, mi resi conto che non si trattava affatto di un rito magico, ma la bottiglia col sangue da raccogliere e l’imbuto e il mestolo erano tutte cose ben descritte e disegnate.
L’intervento, a pensarci, non diede particolari preoccupazioni, anche se devo ammettere con umiltà che mi feci trovare impreparato da alcuni imprevisti. La giovane donna presentava una grande quantità di “aderenze”, come se fosse stata operata decine di volte. In realtà, mi spiega Pinuccia con calma quando l’intervento ebbe termine, le aderenze erano dovute a numerose infezioni pelviche, guarite tutte spontaneamente, senza l’ausilio di antibiotici.
Qui, mi chiarisce Pinuccia, sopravvive chi ha una naturale resistenza alle infezioni. Tutti gli altri non hanno scampo. L’età media è infatti di 45 anni. Quindi la morte è considerata un evento naturale e come tale viene accettato, senza drammi né isterismi. Solo da noi ci si ostina a vivere anche oltre i novant’anni, e la morte è sempre vista come una punizione divina. Quando capiremo che la morte è la naturale conclusione della vita, forse allora riusciremo a compiere un vero salto di qualità.
Ci lasciamo con Pinuccia dandoci appuntamento al mio ritorno da Sololo, esattamente fra 25 giorni. Quell’incontro però non ci fu mai. Quando ritornai a Nairobi lei era ammalata, aveva la febbre e non mi fu possibile incontrarla; potei solo salutarla al telefono, la sera prima d el mio r itorno in Italia. Seppi qualche mese dopo, quando chiesi sue notizie, che era morta per una leucemia acuta. Mi sentii trapassare il petto da una spada tagliente. “Tu, piccola grande donna hai dedicato in segreto, senza clamori, la tua vita per i bisogni di tanti disgraziati, cercando di alleviarne i dolori e le fatiche quotidiane. A te, piccola Pinuccia, va il mio ricordo più caro, alla tua ostinata volontà di rimanere accanto alla gente di Nairobi, gente che vive la propria indigenza con estrema dignità, la cui unica sventura è stata quella di nascere in un paese povero, tenuto sotto il giogo dell’uomo più ricco d’Africa, il dittatore Daniel Arap Moi.
“Ricorderò di te il coraggio nell’affrontare l’ambulatorio nella missione di Kariobanghi, dove si vive ai margini di una discarica pubblica, dove la suora mi intimò categoricamente di non inoltrarmi nella bidonville perché non ne sarei uscito vivo, dove nove abitanti su dieci sono sieropositivi, dove esiste solo prostituzione, dove ogni notte avviene un omicidio e nessuno se ne preoccupa, dove esiste la negazione dell’individuo, di tutti gli individui. Eppure, guardando oltre la strada che separa quest’inferno dalla città, hai minimizzato e voluto dare un tocco di mondanità e di leggerezza; mi hai fatto notare che lì di fronte, in uno di quei palazzi ristrutturati, alcuni anni fa fu girato il film “La mia Africa”, con Robert Redford e Meryl Streep”.
Al mattino prendiamo la via verso nord. Sololo è ai confini con l’Etiopia. Bisogna viaggiare per ottocento chilometri, esattamente per due giorni, a bordo del fuoristrada Toyota in dotazione, e con John pronto e quasi impaziente di far ritorno a casa. Lasciamo Nairobi e le sue bidonville e ci dirigiamo verso Nanyuki, dove ci riforniamo di verdure e scatolame vario. La carne, mi rende partecipe Roberto, l’avremmo comprata a Marsabit, il paese sede anche di arcivescovado, e prossima nostra sosta.
Il monte Kenya è lì, a pochi chilometri. E’ imponente, con un cappuccio di nuvole bianche sopra, a mo’ di berretto. A Isiolo, l’ultimo villaggio, giungiamo alle undici, quando i militari aprono la strada rimasta chiusa per tutta la notte e buona parte del mattino. Durante il viaggio ho modo di conoscere popolazioni di diverse etnie, come i Samburu, con il viso dipinto di colori accesi, un piccolissimo slip per coprirsi e una lancia in mano. Due di loro sono accovacciati all’ombra di una costruzione che deve essere un luogo di sosta per chi si avventura da queste parti. E infatti John si ferma per fare rifornimento di una bevanda a noi sconosciuta. Roberto mi sussurra, dopo, che John ha una simpatia per gli alcolici.
Riprendiamo il percorso dopo venti minuti e con una temperatura che supera i 40 gradi. Il viaggio tutto sommato è monotono, non incontriamo animali se non alcune zebre, mentre avrei preferito imbattermi in qualche leone o elefante. Ma John ci spiega che questa è una stagione oltremodo secca, e che gli animali stanno migrando alla ricerca di qualche sorgente d’acqua.
Solo in prossimità di Marsabit la strada è asfaltata, finalmente. A sinistra c’è un cartello che indica il punto in cui idealmente passa l’equatore. Lì la strada si fa più larga per permettere la sosta ai pullman dei turisti. Anche noi non resistiamo alla tentazione di una foto ricordo.
Marsabit. Questa cittadina su un altipiano di oltre 700 metri sarà per questa sera la nostra culla. Una visita in parrocchia a salutare il missionario e poi a dormire. Siamo stanchi dal lungo viaggio. Io, oltre ogni cognizione, sono il più stravolto dei tre.
Al mattino l’aria sembra fresca. Usciamo, assieme a Roberto, e ci accorgiamo che il paese è avvolto nella nebbia. Tutto mi sarei aspettato venendo in Africa, tranne di trovare il clima della pianura padana. E’ proprio il mio destino avere a che fare con le nebbie taciturne e infide.
Anche a Marsabit, come a Isiolo, non possiamo metterci in moto perché la pista è chiusa dai militari. Si sussurra che in nottata ci sia stato un attentato, e che la milizia abbiano effettuato una retata di ribelli. La strada sarà aperta quando si formerà una carovana di auto sufficientemente lunga, che verrà scortata dai governativi, per scoraggiare eventuali imboscate. Siamo tutti in attesa, silenziosamente e in fila indiana. A poche decine di metri scorgo due militari, con i fucili puntati sulla schiena di un ragazzo che viene spinto oltre le ultime case, al sicuro da sguardi indiscreti. Chiedo a Roberto cosa stia succedendo, chi è quel ragazzo semi svestito, con le mani legate dietro la schiena, smunto e magro come un chiodo, infreddolito, che cammina con passo rassegnato e scompare nella nebbia. E’ un ribelle che i militari hanno catturato. Lo stanno portando lontano, e verrà sicuramente fucilato. Qui non esistono processi, puntualizza Roberto. A dire il vero non esistono nemmeno leggi scritte. In questa terra nessuno ha diritti. Se questa è l’Africa dei contrasti, penso, è meglio fare le valigie. Un ragazzo povero che probabilmente ama il suo paese più di qualcun altro, sta per essere fucilato da altri ragazzi, cui viene assicurato un pezzo di pane, ma ugualmente poveri. Ecco la stranezza di questo mondo: i poveri con la divisa uccidono altri poveri. Solo i ricchi non hanno nemici e rivali, e la ricchezza, in ogni caso, spiana qualsiasi montagna. E’ proprio vero che la storia si ripete in ogni angolo di mondo. Chi non ha niente da mettere in vendita diventa automaticamente un miserabile da evitare, al massimo da compatire. Chi porterà un po’ di speranza a queste popolazioni? Che futuro avranno? Saranno maledetti sino alla fine dei secoli? Troppe domande mi frullano in testa, e comincio ad avere il cuore gonfio di pena, di lacrime, di rabbia. Capisco, in quella mattina nebbiosa, che la povertà è uguale a tutte le latitudini, e il povero parla ovunque la stessa lingua. Mi chiedo se i fucili puntati sulla schiena di quel ragazzo non siano anche i nostri ostinati silenzi.
Dopo qualche ora lasciamo Marsabit, dopo aver conosciuto l‘amaro sapore delle ingiustizie. Cosa dovrò ancora vedere in questo mese di permanenza?
Sololo ormai è vicina. C’è da attraversare Sigiso plain e ci ritroveremo nella terra dei Borana. Potrò riabbracciare Gianfranco e Marcella, sua moglie. La strada prosegue per Moyale, ma John svolta a sinistra e già si vedono le prime capanne di foglie, esattamente come mostrano i documentari in televisione. La pianura sembra sterminata, senza vegetazione. In lontananza le montagne che separano il Kenya dall’Etiopia sono di colore grigio e sembra si debbano toccare con una mano.
All’ingresso del villaggio decine di bambini ci vengono incontro. Per loro che non hanno niente, mi dice Roberto, anche la vista della Toyota con nuovi missionari è un evento eccezionale, un motivo di festa.
L’Ospedale sorge accanto alla missione dei frati. L’intera area è recintata da una rete di fil di ferro, non tanto per delimitare la nuda proprietà, quanto per evitare l’ingresso di animali indesiderati durante la notte.
Gianfranco e Marcella sono davanti alla loro abitazione, all’interno dell’area ospedaliera, che ci attendono; lei barcollante col suo pancione, accanto ad una bouganville, sorridente. Gianfranco, già magro, è quasi evanescente, etereo.
Ci abbracciamo fortemente per diversi minuti. Non vogliamo staccarci da una stretta attesa e desiderata da troppo tempo.
A Sololo, mi dice Gianfranco a cena, ci sono pace e povertà. Qui potrai trovare, a sera, il cielo più stellato dell’intera Africa: è l’unica attrazione naturale di questo villaggio.
Alle nove in punto, infatti, quando il gruppo elettrogeno che tiene in vita tutto ciò di cui un ospedale ha bisogno, viene spento da John, ci sediamo sul portico di casa e rimaniamo soli e in silenzio, rischiarati soltanto dalla luna. Non è questo, il silenzio della nostra civiltà. E’ una quiete totale, che mette i brividi. Mi accorgo che non sono addestrato neanche al silenzio! Mi abituo presto a parlare a voce bassa e senza enfasi. Scopro che l’Africa non ha bisogno di rumore, né di magniloquenza.
Francesco, il primogenito di Marcella e Gianfranco, nasce a Meru il 14 gennaio del 1992. Lei era andata via da Sololo solo all’ultimo giorno, accompagnata da suo marito. All’Ospedale di Meru avrebbero trovato più assistenza, poiché c’erano sia gli ostetrici sia i medici pediatri.
Al loro ritorno tutto il personale dell’ospedale si pone pazientemente in fila davanti all’uscio di casa per conoscere il piccolo, “il figlio del doctor”.
Nei giorni in cui rimasi da solo a gestire il lavoro, non mi allontanai dall’ospedale nemmeno per un solo attimo. Solo un giorno, nel pomeriggio, uscii per andare in parrocchia a trovare don Mario, un padre comboniano che viveva in Africa da venti anni e un diacono che invece era li da cinquanta. Ero andato per pregare qualche minuto, e invece trovai modo di dialogare con don Mario di questa gente, che non ha – mi dice - nient’altro che la terra sotto i piedi e il cielo sulla testa. Solo terra e cielo. Qui le uniche proteine sono quelle che distribuiamo noi con i fagioli; e quest’anno di fagioli ce ne sono davvero pochi. In Italia voi siete troppo occupati, avete troppo benessere, non immaginate nemmeno che ci possa essere un popolo così povero. Voi avete molte cose a cui pensare: pagare le tasse, comprare l’auto, seguire la moda, scegliere cosa mangiare e dove mangiare; e poi, i sindacati, la politica, l’ascensore di casa che non va e le liti condominiali. Ebbene, qui tutto viene cancellato. Cancellato dalla miseria. Solo terra e cielo. E basta. Com’è possibile vivere senza niente che non sia terra e cielo? Non potevo concepirlo, ero confuso, la mia fede vacillava. E’ vero che il male e il bene, il benessere e la povertà, si compensano nell’intero universo, ma perché incanalare la povertà sempre dalla stessa parte?
Ritorno a casa frastornato. Temevo di conoscere altre realtà, ma così repentinamente, e senza mezzi termini, sinceramente mi lasciavano sconcertato.
Transito davanti ad una capanna, costruita di fango e foglie, a base circolare, e vedo, dritta sull’uscio, una donna magra, alta, di colore bruno tipico dei Borana, con gli occhi azzurri intensi. Ha il viso reclinato leggermente sulla spalla destra, le labbra che accennano ad un lieve sorriso, quasi fosse un timido saluto, e un bambino piccolo in braccio. Ho l’impressione di trovarmi di fronte alla Vergine con Gesù Bambino, tanto è la bellezza inusuale di questa donna. Sul suo volto sono disegnate la pace e la serenità, quelle che noi, nella nostra magnificenza, non conosciamo ancora. Quella donna non ha niente, come tutte le donne del villaggio, eppure è dolcissima e forse anche felice, chissà. Io, figlio del benessere, figlio della ricchezza e dell’opulenza, trascorrevo invece molti dei miei giorni nella totale inquietudine, sommerso dai conflitti e dai dubbi. Questo popolo ai confini del mondo, che non ha niente, che non conosce assolutamente niente, nemmeno il nome Europa o Italia, che forse a stento sa che la sua capitale si chiama Nairobi, è felice. Lo dicono gli occhi dei bambini che non mi stanco di guardare, lo dicono i loro gesti quotidiani. La risposta alla mia fede che vacillava non tardò. Oh, Africa di contrasti!
Qualche giorno prima di lasciare Sololo, Gianfranco contatta l’Amref con la sua ricetrasmittente, e chiede se per il 31 di gennaio è previsto un volo da Moyale per Nairobi. Riceve risposta affermativa e fa richiesta di uno scalo supplementare per venire a prendermi. Avrei evitato, così, il viaggio di ritorno in Toyota e soprattutto altri due giorni di pista sterrata da spaccarsi la schiena. In poco più di un’ora sarei stato a Nairobi, avrei raggiunto le suore della Consolata e incontrato al Nazareth Pinuccia.
I pilastri di cemento
Nessuno di noi ragazzi siciliani passava le estati nell’ozio. A maggior ragione io che ero stato bocciato a scuola. Mi aspettavo dai miei un trattamento consono alla situazione, ma tutto sommato speravo nella loro benevolenza; mi avrebbero mandato sicuramente, come l’anno precedente, nella bottega del falegname, sulla via principale del paese, da “Mallascio”. Questa era distante circa cinquecento metri da casa mia, ma dovevo percorrere tutta la via Piave, girare per via Fallica, quindi immettermi nella “strada dritta” del paese, la via principale appunto. Sarei arrivato dopo qualche centinaio di metri, dopo il negozio di mobili di Cavarra. “Mallascio” era un uomo sui settant’anni, basso di statura, di colorito roseo e aveva il portamento più da professore universitario che da falegname: era un uomo gentile nei modi e un vero maestro nel suo lavoro. Apparteneva ancora alla generazione di coloro che sentivano il peso della differenza di casta, tra essere o nascere operai, ed essere o nascere contadini. Egli apparteneva alla casta superiore, costituita non solo dai falegnami, ma da tutti coloro che si ritenevano anche degli artisti: rientravano in questa categoria, fra l’altro, anche i muratori. Per nascita, quindi, anch’io appartenevo ad una casta superiore, e mio nonno non faceva altro che ripeterlo ogni qualvolta ritenesse necessario: “Tu sei figlio e nipote di muratore”, e non aggiungeva altro per ritegno, o forse per timidezza.
Da “Mallascio” quell’anno non andai. La bocciatura a scuola, per motivi di condotta, non passò inosservata. Mio padre alla notizia non aveva proferito parola. Aveva incassato il colpo con maggiore signorilità di quanto non abbia fatto io stesso, ma non si lasciò sfuggire l’occasione quando, qualche settimana dopo, il consiglio di famiglia doveva decidere dove mandarmi a lavorare per i mesi estivi. Bisognava far conoscere a questo figlio cosa significasse lavoro e sofferenza, avere ogni sera le membra distrutte dalla stanchezza, sentire ogni attimo l’ineluttabilità del destino che ti soffia sul collo. Da sette generazioni eravamo muratori, quindi non sarebbe stato un problema proseguire su questo binario. Io avrei rappresentato l’ottava generazione, con gioia di nonno Turi che non desiderava altro che mettermi sotto la sua scuola e la sua protezione. Sì, tutto sommato ero sempre suo nipote, e risparmiarmi qualche lavoro duro, rimanendo sotto le sue ali, era quasi naturale per un uomo come lui, dolce fino all’inverosimile, buono fin dentro le ossa.
Nonno Turi, nato alla fine dell’Ottocento, era rimasto orfano di madre ch’era ancora fanciullo. Qualche anno dopo lo sarebbe diventato anche di padre. Cresciuto da una zia, conobbe mia nonna che era ancora, come lui stesso ripeteva nei pochi momenti di abbandono ai ricordi, un ragazzino. Dopo sette anni di vita militare e una guerra in mezzo, la prima guerra mondiale, decise di sposare la compagna che per tanto tempo l’aveva atteso senza chiedere niente. Assieme vissero per tanti anni; il nonno non alzò mai la voce nei confronti della donna che riteneva un vero angelo in casa. Mia nonna Enza, del resto, non amava parlare, e credo che le figlie siano tutte cresciute ascoltando qualche aforisma o qualche frase celebre che la tradizione voleva si ripetessero loro.
Adesso nonno Turi si trovava con questo nipote, il suo secondo nipote, che non voleva sentirne né di andare a scuola né di proseguire con la nobile arte del muratore. Mi portava nelle case signorili del paese e mi mostrava i pavimenti a disegno che decine di anni prima egli stesso aveva posato e ancora oggi erano al loro posto, non mostravano affatto la corrosione del tempo.. E non era cosa da poco. “Allora non si doveva lavorare come adesso, con questi pavimenti tutti uguali, che non sanno di niente e non mostrano la bravura del mastro muratore”, pontificava il nonno.
Il consiglio di famiglia decise, ma il verdetto rimase sospeso come ad un filo.
Solo qualche sera dopo, sabato sera, mio padre mi portò con sé in piazza Indipendenza, nel luogo in cui tutti i commercianti e gli operai e i contadini si ritrovavano per riscuotere la paga settimanale, altri per trovare lavoro. Una marea di gente che contrattava, che gesticolava, che contava le banconote. Ogni contratto veniva stipulato da una stretta di mano, da un sorriso o da una pacca sulle spalle. Il papà di Orazio si assicurava i viaggi col suo carrettino per l’intera settimana, trasportando calce e mattoni dalla fornace sino ai cantieri. C’era anche il papà di Pietro, immancabilmente, anch’egli muratore, don Emanuele, uno dei primi a possedere un’automobile per i suoi spostamenti quotidiani, una Bianchina, che non si riusciva a capire come potesse contenerlo, lui che era oltre la normale statura dei siciliani. E tutti quei visi scavati e disfatti dalla fatica, quelle rughe profonde sul viso che davano pienamente il senso di decenni trascorsi sotto il sole impietoso dell’estate e sotto il vento e la pioggia dell’inverno. Nessuno di coloro che popolavano piazza Indipendenza il sabato sera aveva mai lavorato al riparo dalle leggi universali delle stagioni.
“Luigino”, chiamò mio padre quando vide da lontano un suo allievo divenuto un piccolo imprenditore edile. Questi si avvicinò e salutò con un certo rispetto e devozione.
“Luigino, ti affido mio figlio per questa estate. Sai tu come regolarti.”
“Nessun problema, don Salvatore” furono le uniche parole di questo contratto che vedeva me al centro della trattativa.
“Lunedì mattina, alle sette, tròvati in via Emanuele Bellia, di fronte alla pompa di benzina di Attanasio”, mi chiarì con fermezza Luigino.
Il mio primo giorno di lavoro iniziò alle sette del mattino e rischiò di finire alle dodici, alla pausa pranzo. Si doveva iniziare a costruire un enorme capannone che doveva essere adibito a magazzino di prodotti alimentari. La famiglia Abate, nota in paese per essere l’unica ditta a rifornire i negozi di alimentari, aveva deciso di cogliere probabilmente l’occasione che si profilava all’orizzonte, di questa nuova moda dei supermercati che dopo molti anni avrebbe spazzato via i piccoli negozi di quartiere.
Questo capannone ai miei occhi appariva sconfinato, non finiva mai.
I carpentieri avevano già costruito l’impalcatura di tutti i pilastri che adesso noi ragazzi dovevamo riempire di calcestruzzo, arrampicandoci con la scala sino in cima con un secchio sulle spalle da svuotare. Per cinque ore questa litania di salire col secchio pieno e di scendere col secchio vuoto. E dopo? Ancora altre cinque ore, dopo la sosta del pranzo, e poi un altro giorno uguale e poi un altro ancora.
Incominciava a girarmi la testa.
Ritornai a casa che ero in viso il colore del cemento. Mi appoggiai sulle spalle di mia madre e piansi a dirotto, come se avessero aperto le cataratte del Nilo. Ero stravolto, non riuscivo ad alzare le braccia, né a parlare, tanta era la stanchezza. Avevo notato mio padre qualche sera che non riusciva a tenere in mano il cucchiaio della minestra, ma non avrei mai immaginato lo strazio di ogni fibra muscolare.
“Hai finito di fare il gagà” fu la paga di mio padre per quel memorabile giorno!
Quanti pilastri bisognava ancora riempire di cemento?
Ne avrò forse per un mese, ma solo per un mese. Manterrò la parola, dopo si vedrà.
Quei pilastri rappresentarono il primo bivio della mia vita.
Dovevo scegliere se continuare a riempirli per chissà quanto tempo, o se proseguire gli studi. E non c’era molto tempo a disposizione, i giorni correvano e non davano tregua. Quando occorre tranquillità, la vita ti mette sempre fretta e rischi di non imboccare la via giusta. Avevo ancora tanto da imparare, mi affacciavo alla vita, alle esperienze che pesano, ma già presagivo che non sarebbe stata una passeggiata.
L'acquaiolo
Don Luciano era l'acquaiolo del quartiere. Lo si vedeva tutte le sere a sistemare bottiglie e damigiane sul suo lungo carretto e dirigersi verso la fonte detta “acqua rossa”, nel comune di Belpasso, una piccola fonte dalla quale sgorgava acqua leggermente frizzante e di gusto ferroso che tanto piaceva alle famiglie benestanti del quartiere. Salutava senza sorridere, soltanto alzando la mano, mentre passava davanti casa; si sarebbe rivisto l'indomani mattina, perché il viaggio di andata e ritorno durava tutta la notte, e non c'era altra possibilità, col passo lento e flemmatico del cavallo i tempi erano quelli, non altri. Tutto il quartiere, a quell'ora della sera, era seduto davanti l'uscio di casa a prendere un po' di fresco dopo la cena, a riposare le ossa stanche di un intero giorno di lavoro, mentre noi ragazzi correvamo da un capo all'altro della strada o ci accovacciavamo per terra, in un angolo, a raccontarci storielle, a fantasticare. Gli adulti scambiavano qualche parola con i vicini o anche affrontavano piccoli problemi quotidiani che ognuno risolveva a modo proprio, a volte senza una logica, ma soltanto guidati dall' esperienza, come si suole ancora fare nelle piccole comunità popolane, dove l'istruzione è vista soltanto da lontano. Ma si vive, ho visto, anche così, con i propri mezzi messi a disposizione dal padreterno, e si vive spesso davvero bene, senza la necessità di volare alto, ma mantenendosi ad un livello consono, a noi stesso possibile e accettabile, senza affanni, né rischi di cadere e farsi del male. Ciò che rende felice molta gente è di saper accettare il proprio destino, qualunque destino, con una naturalezza disarmante, e di stare bene dove madre natura l'ha posta. Anche don Luciano era figlio di questa terra e di questi principi. Era un uomo solitario. In gioventù non si era sposato, e adesso abitava da solo in una piccola casa in fondo alla via, con la stalla confinante, il cui accesso era separato, ma si supponeva, perché nessuno è mai entrato a casa di don Luciano, che ci fosse una via di comunicazione tra la stalla e la sua camera da letto. Nessuno si è mai posto, nel quartiere, come don Luciano gestisse la sua solitudine, il silenzio che doveva accompagnarlo necessariamente durante le notti lungo la strada di San Vito che portava all' “acqua rossa”, tra il rumore delle ruote del suo carretto e il frinire ininterrotto delle cicale, cullato dalla luce delle stelle o dal pallido chiarore della luna. Il silenzio dell'uomo, e la sua solitudine, sono argomenti che nessuno sembra avere la tentazione di conoscere, forse perché già fa paura la propria solitudine e il proprio silenzio, quando questi esistono, perché ci sono uomini a questo mondo che non sanno cosa sia né l'uno né l'altra, questi regali incommensurabili che l'uomo si è dato per mettere al proprio posto le cose giornaliere che lo stimolano o lo affliggono. Se non ci fosse questo bene immenso dentro di noi, che vita distorta saremmo costretti a vivere, di troppo rumore ma anche di molte contraddizioni che ci sovrasterebbero. Ma come si vede (e tutti di questo abbiamo esperienza) ad ogni male la vita ha trovato il suo rimedio.
Don Luciano probabilmente aveva trovato da solo, nei lunghi viaggi notturni sul suo carretto, tutti i rimedi di un'esistenza apparentemente senza i furori della gioventù, e adesso accettava la pacatezza di un'età che non possiamo dire vecchia, ma che certamente vi è già al confine.
Alla sua vita don Luciano permetteva una sola eccezione durante l'anno, e tutti noi ragazzi lo aspettavamo con ansia ma anche con gioia, perché sapeva colorire a modo suo una festa particolare, un momento che solo lui sapeva imprimere nella memoria, almeno nella mia. E sappiamo come le immagini dell'infanzia dirigono e influenzano tutto ciò che segue nella vita, dalle scelte più semplici alle decisioni inappellabili.
E questo momento era la festa dell'Ascensione. Era, in paese, una festa particolare, perché era una festa di quartiere, con una certa rivalità tra confinanti. Ad inizio settimana per don Luciano cominciava il rito della questua in ogni famiglia, per poter acquistare una quantità adeguata di fascine per il falò del giovedì sera. La catasta di legna veniva posta in un angolo del crocevia principale già nel primo pomeriggio, appoggiata al muro, e tenuta sotto controllo, a turno, da noi ragazzi, per impedire che altri, dai quartieri vicini, venissero a dar fuoco e vanificare così la festa tanto attesa. Era tutto un rito, con i suoi tempi, le sue usanze, le solite parole che si perpetuavano di anno in anno, come se il tempo, per quella occasione, avesse l'obbligo di fermarsi. In fondo era proprio quello a cui eravamo affezionati, l'immutabilità, la tradizione, il ritrovarsi e vedersi sempre uguali. Era in questa occasione che si sentiva parlare don Luciano, e le sue parole risuonavano come quelle di un profeta o di un patriarca. Io avevo, ricordo, la sensazione di ritrovarmi di fronte ad un uomo uscito dalle pagine della Bibbia che mi parlava. Ricordo di averlo sentito pronunciare, quando venne a casa mia per la questua, le due parole che mi ritrovo oggi a riesumare con una certa serenità. La vita è fuoco e gelo, disse a mia madre, come ogni anno faceva per l'occasione, e questo è finalmente il periodo del fuoco, la nostra festa del fuoco. Una visione molto semplice e quasi casalinga dell'intera vita, ma a don Luciano tanto bastava. Non aveva voluto una donna accanto a sé che potesse perpetuare magari questi giorni di fuoco nella sua vita, e chissà se avesse già intuito da giovane la difficoltà di vivere accanto ad una donna, per quella sovrannaturale capacità che essa ha di sapersi ritagliare uno spicchio nell'anima in cui nessuno mai entrerà, chissà se don Luciano, accettando la sua solitudine, aveva accettato il male minore.
La vita è fuoco e gelo, e con queste parole pronunciate al cielo della sera, con le mani alzate, quasi a voler dare a quelle parole la solennità di una preghiera, don Luciano si avvicinava alla catasta di legna e dava inizio al falò, a quella che noi chiamavamo “la luminaria”. Per quella sera sarebbe stato lui e lui soltanto il sovrano assoluto del fuoco, lui ad aggiungere, con parsimonia, di volta in volta, le fascine per ravvivare il falò, e prolungare così le fiamme sino a tarda sera, lentamente, con maestria e sapienza. Sparsi nei quattro angoli sostava tutto il quartiere, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti rischiarati nel viso dal fuoco della luminaria e nell'anima dalla concordia, mentre noi ragazzi sfidavamo con temerarietà, con la vicinanza, la forza e la violenza del falò.
Cosa vedeva don Luciano in quelle fiamme che si allungavano nel buio, verso il cielo, contorcendosi, lamentandosi? Perché quel fuoco le era così caro, cosa vi scorgeva tra quei colori cangianti che s'innalzavano turbandosi e sfilacciandosi verso l'alto?
Vedeva scorrere la semplicità dei suoi giorni, magari faceva, chissà, un breve riassunto della sua vita, o cos' altro? Io vedevo danzare mille dannati che nudi gridavano al cielo buio, sorretto in quelle fantasie dai racconti di mia nonna, mille dannati che affogavano nella pece bollente, tra le urla di un dolore infinito, eterno. Erano immagini di attimi; bastava spingersi l'uno con l'altro che si ritornava alla realtà della baldoria, al girotondo attorno al falò, a questo totem a cui dedicavamo i gesti propiziatori, di chissà che cosa poi.
Quando le fiamme si stancavano e mostravano la loro debolezza, quando la festa ci aveva infuocato l'anima, e la legna stava per finire, don Luciano si poneva davanti alla pira morente e pronunciava le parole di fine messa, Il fuoco ha vita breve, diceva, come la nostra del resto. E con queste parole da unico e solenne officiante, la festa finiva, ognuno si ritirava nelle proprie case, e soltanto noi ragazzi rimanevamo a giocare con la cenere calda e qualche tizzone rimasto ad esaurirsi.
Qualcuno invitava don Luciano a bere un bicchiere di vino, quasi a volerlo ringraziare di aver officiato la festa con la solita prudenza, ma la sua risposta era sempre uguale, fedele alla sua immagine di uomo schivo, Lasciatemi solo, a che serve parlare, quello che dovevo dire l'ho detto, come ogni anno.
Noi, pensavo, troviamo il calore di una famiglia, le parole calde, con una sua vibrazione, di mio padre, desideroso di andare a dormire per riprendere all'indomani il carico di lavoro lasciato nel pomeriggio, mentre don Luciano andava a dare da mangiare, chissà, al suo cavallo e poi si sarebbe messo a letto, in quel tiepido pagliericcio, a dormire, almeno quella notte, nel suo letto e non sul carretto diretto all'“acqua rossa”.
Sulla riva del fiume
Scendendo da via Verga ci si ritrova fuori dal paese quasi senza accorgersi. Lasciando le ultime case si giunge, anche a piedi, al bivio delle “tre fontane”. Qui c’è ancora oggi una piccola cappella dedicata a San Giuseppe lavoratore, e ogni mattina i contadini che vi passano salutano, con la mano alzata, colui che loro stessi considerano un collega di lavoro. E la sera, al ritorno, lo ringraziano della buona giornata dandogli appuntamento a domani, se Dio vuole. Da ragazzi era quella la via più semplice per raggiungere la piana di Catania e incontrare il Simeto al ponte Barca. La strada è tutta pressoché in pianura, senza grossi pendii. Gli aranceti, per i quali eravamo diventati famosi nel mondo, iniziano proprio a ridosso delle ultime case, le case popolari della periferia. Iniziano, poco distanti, anche le ville di campagna di molti proprietari terrieri. Ville colorate e sfarzose, tanto da dare l’impressione di trovarsi di fronte ad abitazioni feudatarie.
Camminando in questo pezzo di terra, dove non si ha nessun limite davanti a sé, ci sembra di trovarsi al centro di un piccolo universo, dove ci piace ignorare tutto ciò che sta al di fuori, senza poi tanti rimorsi. Ci piace questa atmosfera di familiarità, di esclusività, come fossimo noi, e solo noi, i figli prediletti da Dio, cui è toccato in sorte questo lembo benedetto di terra. Ci siamo chiesti molte volte se Dio stesso, avendo un giorno creato l’uomo, lo abbia voluto stabilire da queste parti. In certe giornate, poi, la certezza che l’Eden fosse proprio qui era invincibile, contro ogni teoria.
Ci incamminammo una mattina, i soliti tre amici, per queste strade, verso il nostro caro fiume. Avevamo deciso di vivere alcuni giorni a contatto con la natura, con la nuda terra, nutrendoci esclusivamente di tutto ciò che il buon Dio ci offriva, perché sicuramente ci avrebbe donato qualcosa con cui sfamarci.
Avevamo avvertito i nostri genitori che per qualche giorno non avremmo fatto ritorno a casa. Manco a dirlo le nostre madri cominciarono ad allarmarsi, e qualcuna cominciò a dubitare di aver messo al mondo un essere normale. La mamma di Orazio e la mia concordarono che questi figli non sapevano fare altro che raccogliere “erba di vento”, e che nella vita si sarebbero trovati a mani vuote. I sogni non fanno la felicità degli uomini, sentenziò mia madre, sicura ancora che le avremmo dato ascolto. Solo quando perse ogni speranza di riportarmi alla ragione, si abbandonò sconsolata: Ho proprio un figlio scemo! Per conto nostro, quella mattina, avevamo addosso soltanto i vestiti, spogli di qualsiasi attrezzo o forma di denaro, ad eccezione di un solo amo con cui pescare, l’unica cosa che ci avrebbe permesso di continuare a vivere senza patimenti. Avevamo la piena coscienza di vivere immersi nell’Eden, e dall’Eden eravamo decisi a prenderci tutti i benefici. Salvo, il più esperto dei tre, un ragazzo biondo, con gli occhi azzurri, un mistico, diviso tra la filosofia e lo stato di puro ascetismo, spezzò una canna dal primo canneto che incontrammo sul greto del fiume, e si costruì un arnese per pescare. Si piazzò immobile su un grosso masso e lì rimase per alcune ore. Io e Orazio ci inoltrammo nella vegetazione, guadammo il fiume e ispezionammo l’altra riva, disabitata da chissà quanti secoli, arida e spoglia. Non presentava segni o tracce di essere umano. C’era solo silenzio, non udivamo nemmeno il fiume scorrere a poca distanza. Raccogliemmo alcuni asparagi selvatici, ma niente di più. Le ore passarono vagabondando tra quelle colline secche, di colore ocra .Il caldo ci stava martoriando da ore, e nessun albero nelle vicinanze che potesse offrirci un po’ d’ombra. Intorno era tutto selvaggio, un angolo di deserto circondato da un paradiso. Come poteva esserci tutta questa diversità, tutta questa contraddizione racchiusa in poche centinaia di metri di distanza l’una dall’altra.
Meglio far ritorno. Se non altro dall’altra riva sarebbe stato più facile raggiungere un aranceto e dissetarci. Trovammo Salvo abbarbicato sul suo masso come su un trono, leggermente contrariato, forse disilluso che un fiume così ricco come il Simeto non potesse offrirci neanche una tinca o un’anguilla.
Verificammo che nessuno dei tre avesse qualcosa da mangiare, e la certezza di essere invincibili e protetti da Dio svanì inesorabilmente, nel breve giro di mezza giornata. Avevo fame, ma me ne guardai bene dal confessarlo. Ero sicuro che anche i miei compagni di avventura avessero fame, ma me ne guardai bene dall’insinuarlo. Ormai erano le prime ore del pomeriggio, e bisognava decidere se rimanere per la notte, o se fare ritorno a casa; nessuno si sentì di dare per primo il proprio parere.
Alla felicità che provammo al mattino nell’incamminarci verso il Simeto, si sostituiva piano piano lo scoramento per la nostra debolezza e insipienza. Non potevamo cambiare il mondo, né il corso delle cose. Tutto scorre lentamente, come il Simeto, senza affanni.
Decidemmo, dopo breve conciliabolo, di ritornare alle nostre famiglie. Dovevamo però avviarci dopo qualche ora per non giungere casa al tramonto inoltrato. E ritirarci dopo una certa ora significava sottoporsi ad un lungo interrogatorio e a lunghe lotte con i genitori. Allora era proprio così, la patria potestà era in vigore sempre, senza eccezione alcuna, e senza deroghe.
C’era molta strada da fare, e per di più eravamo stanchi e non potevamo tenere un passo sostenuto.
Basta così poco per sentirsi soli e senza alcun sostegno? Si, bastò un solo giorno perché la nostra nudità venisse fuori impietosamente, l’immaturità di tre ragazzi che avevano soltanto voglia di crescere in fretta. In un solo giorno, infatti, avevamo attraversato l'intero arco delle sensazioni umane. Stavamo iniziando il tirocinio della vita e nessuno venne a comunicarcelo, nessuno ci preparò alle successive tappe.
Ancora oggi, dopo oltre trent’anni, amo ritornare a quel greto, a quei luoghi che mi videro incosciente e inesperto ragazzo, proteso alla vita.
La terra, la mia terra, è ancora lì. E negli anni non è cambiata. E’ rimasta immutata, sempre fresca. L’unica cosa che oggi mi rimane è lei, carica degli stessi profumi, colorata con le stesse tinte tenui che il tempo non può scolorire. Qui l’oleandro bianco e rosa, là il pesco, poi l’agave, e gli aranci, tappeti sterminati di aranci. Oh come sei ricca e bella, mia dolce terra. Da ragazzo avevo voglia di prendere una zolla e portarmela in bocca, assaporarla, sentirne l’aroma aspro, imbrattarmi le mani per potermi più facilmente impregnare l’anima.
Quando torno da te mi piace distendermi su questo greto, e in solitudine ascoltare l’eco dell’infanzia, tracciare un bilancio della mia vita, rubare un’arancia e verificare, mangiandola, se tutto è rimasto intatto.
Credevo di fuggire, trent’anni or sono. E invece tutto mi riporta in questi luoghi, la memoria del tempo, l’odore dell’aria tersa.
Cronaca di un amore breve
Tuccio era buono come il pane. Non c’era nessuno in paese che non gli volesse bene. Era il tipico ragazzo mediterraneo, con gli occhi neri come il carbone e la pelle già bruciata dal sole impietoso di Sicilia. Quando conobbe Chiaretta aveva 19 anni, e frequentava l’istituto commerciale per ragionieri di Catania, in piazza Roma. Nei giorni di vacanza, e durante il periodo estivo, aiutava suo padre nei cantieri edili, come manovale, per dargli una mano, diceva lui per giustificarsi con gli amici che lo reclamavano nella loro compagnia. Aveva mostrato in questi ultimi anni di avere buona volontà anche a fare il muratore, e pareva saperci fare abbastanza. Sembrava essere nato con la cazzuola in mano, diceva suo padre certe sere, tanta era la destrezza; lo aveva anche elogiato in pubblico, dicendogli che aveva la calce che gli scorreva nelle vene, e non il sangue. Si distingueva dai coetanei per la sua dolcezza ineffabile, soprattutto per quell’espressione sommessa delle labbra, che gli conferiva una connotazione di serenità e coinvolgeva, non raramente, chi gli stava accanto.
Conobbe Chiaretta durante la festa patronale a Dicembre, quando l’intero paese era sulla via principale a passeggiare, a mostrare i vestiti nuovi dell’inverno, e si erano trovati uno di fronte all’altro casualmente. Era stata Lavinia a salutare Tuccio e a presentargli la sua amica in mezzo a quella marea di gente intenta a godere del clima di festa. Tuccio le tese la mano per salutarla, ma quasi voleva sfuggire allo sguardo pungente di quella ragazza minuta e vivace. I loro sguardi si incrociarono solo per qualche secondo, il tempo per immortalarsi l’uno con l’altra su una pellicola fotografica. Chiaretta lo guardò con i suoi occhi verdi e sembrò lo volesse accarezzare, sfiorargli l’anima, distinguerlo da tutti gli altri come perla rara. Quell’istante, quella semplice stretta di mano, impresse la loro vita a fuoco, come un marchio indelebile. Quello che non succede in mille anni succede in un secondo, gli aveva detto una sera sua madre allorché si lamentava della monotonia dei giorni.
Quella notte, e le altre che seguirono, Tuccio non prese sonno. Quel primo amore, ora struggente come può esserlo solo un amore appena nato, ora leggero come le nuvole bianche, non lo lasciò dormire. Desiderava solo che quell’immagine si ripetesse incessantemente, che si ripetesse lo scatto fotografico della ragazza che lo aveva guardato negli occhi e gli aveva trapassato e sondato l’anima.
Il tempo sembrò fermarsi: le notti trascorrevano e un solo volto saliva al cielo, il volto di quella ragazza di nome Chiaretta.
Nei giorni seguenti Tuccio abbandonò l’abitudine di misurare il tempo e le sensazioni con il limpido metro dell’adolescenza; solo sua madre fu testimone del lento e continuo mutamento, e cominciò a stare sulle spine. Sua madre era l’unica persona che riusciva a placarlo e a dargli quel po’ di pace nei suoi molti giorni di inquietudine.
Con la complicità di Lavinia i due ragazzi cominciarono a frequentarsi con regolarità. Non avevano molto tempo a disposizione. In quegli anni, in Sicilia, le ragazze dovevano rincasare prima del tramonto, e non era pensabile contraddire gli ordini dei genitori. Né era pensabile ritagliarsi qualche ora per poter stare da soli. Le consuetudini non ammettevano deroghe: si era sempre in compagnia delle amiche, come una specie di mutuo controllo. Tutti erano abituati a queste usanze, e nessuno dei ragazzi osava sfidare le leggi immutabili della natura.
Quel primo anno trascorse serenamente, con Tuccio che aveva accettato ogni regola pur di sapere Chiaretta al suo fianco, e Chiaretta dal canto suo aveva accettato l’impegno con Tuccio con una maturità che aveva suscitato ammirazione da parte delle compagne di scuola.
Raramente Tuccio aspettava Chiaretta fuori dal Liceo, e raramente poteva sfiorarle le labbra per un timido bacio davanti alle sue compagne. Era consentito che potesse accompagnarla la domenica mattina, dopo la Messa, fino a casa. Per gli altri giorni della settimana era il telefono la via più sbrigativa che si potesse seguire per scambiare qualche parola e qualche pensiero. Stavano entrambi crescendo grazie alla società telefonica statale.
Alla chiusura dell’anno scolastico entrambi non ebbero strascichi di alcun genere.
Tuccio anche per quell’anno aiutò il padre nel cantiere edile, mentre Chiaretta trascorse il mese di agosto in un campo scuola di Milo, sulla pineta dell’Etna.
Si rividero a settembre, giusto un mese prima che Chiaretta riprendesse con il Liceo. Fu Lavinia, una sera, che prospettò a Chiaretta la possibilità di andare un pomeriggio in montagna, nella residenza estiva del suo fidanzato, Giuseppe, lasciata vuota dagli anziani genitori che avevano fatto ritorno in paese. La villa era in alta montagna, oltre i mille metri di altitudine, e anche se era metà settembre, faceva pur sempre abbastanza fresco per affrontare un pomeriggio e una serata in maniche di camicia. Lavinia aveva organizzato tutto in ogni minimo particolare: avrebbero detto alle rispettive mamme di passare un pomeriggio intero in biblioteca per un’importante ricerca storica, e di fare ritorno a casa intorno alle 8 di sera, in tempo per la cena in famiglia.
Le due ragazze si prepararono con la loro coscienza, mentre Tuccio, alla ventilata possibilità di passare un pomeriggio con Chiaretta, respirò profondamente, rimase un attimo in silenzio e si sentì tremare le gambe come un fanciullo.
L’intreccio riuscì alla fine di settembre.
Giuseppe giunse nel luogo stabilito con qualche minuto di ritardo, quando in Tuccio cominciava a mescolarsi l’irrequietezza con la paura. La sagoma della Fiat 600 bianca comparve in piazza dell’Annunziata. Iniziarono la salita sull’Etna rispettando le esigenze di un’auto non più giovane, ma tralasciando impietosamente le loro, le esigenze di due ragazzi che si avviavano con ansia a tagliare il loro primo traguardo. Il sole era ancora alto, e ci sarebbero state almeno altre quattro ore buone di sole. Sembrava avessero un’eternità davanti a loro! Giunsero a destinazione dopo oltre mezz’ora. La villa, ben conosciuta da Lavinia per esserci stata diverse volte con Giuseppe, era quasi un piccolo castello, di colore rosa antico, disabitata da due o tre settimane, con polvere nello spiazzo antistante e lungo le scale che portavano all’ingresso.
All’interno le stanze erano disadorne e spoglie. Entrarono in una di queste lievemente, come i loro passi. Tuccio socchiuse la porta dietro di sé, lasciando uno spiraglio. Si mossero con leggerezza, senza fare rumore, poiché entrambi avevano la sensazione che il mondo stesse lì ad ascoltare il suono fragoroso dei loro cuori. Il materasso era senza lenzuola, piegato in due e appoggiato alla spalliera del letto. Tuccio lo tirò giù e lo sistemò sulla rete. Si tolsero entrambi le scarpe e si adagiarono sopra, con i vestiti addosso. Il freddo nella stanza incominciava a pizzicare la schiena e ad irrigidire le mascelle.
Tuccio incominciò a svestire lentamente Chiaretta, con pudore, senza tradire quell’impellente urgenza che reclamava il suo giovane corpo. Lei capì l’imbarazzo in cui si trovava il suo amore, e lo aiutò nelle operazioni, dandogli sicurezza e mostrandosi lieta di farlo per lui, per il suo Tuccio. Con un semplice gesto, quasi per una consueta magia, si tolse il reggiseno e si mostrò in tutto il suo splendore ai suoi occhi. A Tuccio mancò l’aria: ammirò quel seno di mele acerbe, fragranti e vellutate, e ne conservò il ricordo nei posti più nascosti del suo cuore, al riparo da sguardi indiscreti, fino alla fine dei suoi giorni. Odorò fino a saziarsi la pelle chiara e profumata del suo amore, la accarezzò lievemente e si accorse di accarezzare un petalo di rose. Si accostò e baciò quella pelle in ogni anfratto, per meglio inebriarsi. La preparò con tenerezza a quel momento e le chiese se fosse disposta ad accoglierlo. Chiaretta non parlò. Con un lieve movimento delle labbra, come a mimare un tenue sorriso, acconsentì, noncurante del gelo della stanza. Chiaretta ebbe solo un grido secco e lacerante, poi si preparò a sopportare quel piacevole dolore sino a perdersi e a confondersi nel suo abbraccio. In quel momento un senso di pace cosmica aleggiò tra i lampadari e li trafisse. Gettarono allora gli ormeggi, credendo di essere giunti entrambi sulle vette inesplorate della vita, sicuri di rimanerci in eterno, ignari di ciò che il destino aveva loro riservato. Tuccio la coprì di parole che solo in certi momenti sfuggono e invadono l’aria attorno. In quei pochi minuti il tempo diventò impalpabile e lo spazio si restrinse sino ad avvolgere loro e solo loro, protetti esclusivamente dal maglione disteso sui loro corpi.
Non trascorse molto tempo da quel pomeriggio benedetto da Dio e dai suoi angeli e cherubini, che fu Lavinia stessa a telefonare e dare la notizia a Tuccio. Chiaretta era morta travolta da un automobilista mentre attraversava la strada, proprio davanti casa. Aveva iniziato da pochi giorni il suo ultimo anno di Liceo, e sembrava avviarsi verso un traguardo dal quale doveva necessariamente ripartire per altri orizzonti, altre mete da raggiungere e tutte assieme al suo amato Tuccio. Quel breve pomeriggio d’amore, come sia possibile che l’abbiano entrambi pagato a così caro prezzo? Tutto si paga a questo mondo, niente ti viene donato: è tutto quello che Tuccio si sentì ripetere da Lavinia, anch’essa irrimediabilmente affranta dal dolore. Alla notizia Tuccio non pianse, rimase semplicemente ammutolito, esterrefatto, incredulo che la sua Chiaretta lo avesse abbandonato così, e per sempre. Il suo cuore cominciò a vivere stretto in una morsa spietata, ed egli incominciò ad adagiarsi ad un destino pietrificato. Per piangere c’è ancora tempo. Una vita senza Chiaretta quante lacrime prevedeva? La terra gli aveva chiuso ogni via, il cielo gli aveva chiuso ogni porta, e qualcuno in paese mormorava che anche Dio si era dimenticato di questi suoi due figli.
Solo le parole di sua madre riuscivano a dargli un po’ di pace. Solo le parole dolci e accorate di una madre che abbia fede in Dio possono risollevare il proprio figlio, non esistono altre alternative a questo mondo: “Iddio manda il freddo per le coperte che si hanno,” gli ripeteva incessantemente per alleviarne il dolore. “Riuscirai a sopportare questa terribile prova, figlio mio, Dio non può darti questo dolore se non sei attrezzato a superarlo.” Solo nella fede, e con qualche preghiera, riusciva a passare delle giornate in apparente tranquillità, il resto era un deserto desolato davanti e dietro di sé.
I giovani sono meno preparati al dolore e non conoscono il valore del disincanto. Ogni pur minimo terremoto del cuore lo vivono con il senso della catastrofe. In gioventù, poi, non esistono le mezze misure, né i colori sfumati. Esiste solo quel corpo florido e quell’anima che vi lavora dentro, incessantemente, senza respiro e senza soste. La fragilità della gioventù di fronte alle insidie e alle trappole della vita si manifesta poi con le decisioni immediate e, spesse volte, definitive.
La settimana dopo il Natale si apprese l’altra temuta notizia.
Tuccio era morto, scivolando da una impalcatura, mentre aiutava il padre a ristrutturare la facciata di un palazzo signorile, in pieno centro storico.
Nessuno credette in quel momento, né negli anni successivi, alla disgrazia. Tutti però tacquero e ognuno, in paese, depose la propria verità nel fondo del proprio cuore.
In Sicilia il rispetto dei morti vale più di quello dei vivi.
Ed è per questo che nessuno parla più di Tuccio e Chiaretta, della loro breve storia d’amore.
L'apparizione
1°
Lasciai la Sicilia a metà primavera.
Fu mio padre ad accompagnarmi alla stazione centrale, in un giorno in cui il cielo era terso e l’aria della piana di Catania pungente e dolce, come al solito. Durante il breve viaggio non parlò. Mi parve immerso nel suo dolore di uomo semplice e mite, incapace di esternare tutta la pena che aveva nel cuore. Parlavano un linguaggio particolare le rughe del suo volto, che mutavano repentinamente la profondità dei loro solchi.
Ci abbracciammo serenamente, senza drammi. Nessuno pianse. Solo poche parole ci divisero, poi mi accinsi a salire e prendere posto sul treno che mi avrebbe condotto al nord, il mitico, lontano, inarrivabile nord.
Alle sedici, puntuale, il treno si mosse. Rimasi a guardare dal finestrino la costa orientale della Sicilia sino a Messina. Rividi Giarre e Riposto, la spiaggia di Naxos e di Sant’Alessio, dove qualche pescatore rifaceva le reti seduto sulla ghiaia e coperto dal sole, Roccalumera e Scaletta Zanclea.
Stavo abbandonando la mia terra e forse non me ne rendevo conto, tanto era l’ansia di fuggire. Seduto nel mio scompartimento cominciai, quasi inavvertitamente, a ripercorrere i giorni della mia infanzia, i momenti più dolci e intimi, a scoprire quali di questi avrei potuto classificare come unici.
Ero nato in un paese alle pendici dell’Etna, che guarda la piana di Catania.
Il quartiere era sorto nella prima metà del secolo, ed era abitato esclusivamente da contadini, coltivatori d’aranci, e da operai. Tra le famiglie non c’erano differenze. Si apparteneva tutti allo stesso strato sociale, quello che prevedeva solo la povertà, senza destino e senza nemmeno desideri, perché anche quelli costavano, e pensare troppo si poteva fare peccato mortale.
Furono quelle strade sterrate e polverose che mi videro crescere e sognare. Ho imparato con gli anni che nessuno sogna come un ragazzo; allora bastava affacciarsi all’angolo della strada per vedere l’orizzonte e guardare il mondo intero.
In quelle stradine si è plasmata la mia indole di uomo ora irascibile, come una vecchia scimmia, ora mite come un platano secolare. Lì ho imparato il linguaggio duro e spesso anche volgare del mio dialetto, ho imparato a riconoscere l’inquietudine della mia gente, il volto scavato dal sole, l’odore e le ansie quotidiane. A metà degli anni ’50 anche l’aria che respiravamo ci dava il senso della precarietà quotidiana.
Alla nascita mia madre pose un piccolo scapolare di stoffa, con su l’effigie ricamata della Madonna del Carmelo, sotto il letto. Lo fece benedire e lo sistemò con cura tra le doghe e il materasso di lana. Quello scapolare aveva l’inesplicabile compito di proteggermi da ogni piccola o grande malattia, o forse soltanto dal destino avverso. Credo si avesse uno scapolare in ogni famiglia, nella nostra comunità, a protezione non solo dell’infanzia. Dello scapolare ci si ricordava solo quando, in primavera, i materassi venivano rigirati e posti fuori di casa a prendere aria e rinfrescarli.
Le carrozze furono sistemate sul traghetto con mille manovre. Quando gli addetti delle ferrovie ci diedero l’autorizzazione, quasi tutti gli occupanti dello scompartimento uscimmo sul ponte a guardare il mare dello stretto, con il sole che cominciava a morire e illuminare tenuemente di rosa pallido la costa di Milazzo. Sentivo una leggera brezza sfiorarmi il viso. Rimasi pochi minuti affacciato sul ponte della nave, il tempo della traversata, col capo rivolto verso il basso a perdere il mio sguardo nel blu intenso del mare profondo.
Tra quelle onde vidi il volto di mia nonna, buono e ingenuo, come se la vita l’avesse attraversato senza lasciare alcuna impronta di malizia o di insoddisfazione. Io vi leggevo solo la stanchezza degli anni e la serenità del suo tempo. Vedevo tra le onde le sue piccole mani, leggermente piegate nel gesto rituale di benedire ogni forma di pane, tracciandovi su il segno della croce, prima di deporlo dentro il forno a legna. Era un rito che si ripeteva a casa nostra una volta la settimana, a cui tutti dovevano partecipare, ognuno con la propria mansione. Io e mio fratello eravamo troppo piccoli per avere un ruolo, ma le mani nella madia gliele mettevamo lo stesso; cominciavamo ad imparare a riconoscere l’odore del pane buono e la sua consistenza, gli odori propri e particolari che ci avrebbero detto, per tutta la vita, che quella era casa nostra. Il sapore del pane fresco, che la nonna condiva ancora caldo con un filo di olio d’oliva, una spruzzata di sale e di pepe nero, rappresentò per molti anni il tratto tipico non solo della mia casa, ma di tutta la mia terra. Sono stati i giorni di nonna Enza a imprimere, con fuoco indelebile, il marchio della famiglia. Non solo il suo pane o i suoi dolci di Natale e di Pasqua, ma le sue misurate parole, la sua dedizione esclusiva alla casa e alla famiglia diedero la particolarità, a tutti, della sua vita unica e irripetibile. Il solco da lei tracciato rimane ancora in casa, o almeno in quello che resta della nostra casa.
Era nata dolce la nonna, e morì dolce. Se ne andò nel ’76, l’anno dopo nonno Turi, e non potei vederla. La mia testardaggine mi impedì di salutare i nonni materni come meritavano e come io stesso avrei voluto. Avrei voluto vedere la loro vecchiaia esaurirsi e traboccare verso l’eternità, ripercorrendo il rito inevitabile della morte. Avrei voluto, per l’ultima volta, ripassare le mie mani sulla pelle sottile delle loro mani, sui tratti morbidi delle loro guance; avrei voluto vedere la serenità delle loro rughe, e baciarli come tutti i nipoti sulla fronte morbida. Avrei voluto, ma niente è stato. Ho perso stupidamente tanti giorni della mia vita, inutilmente, con l’incoscienza che mi ha contraddistinto. Ho ricominciato sempre ripartendo da dietro, come se dovessi scontare una penalità che Iddio mi aveva caricato sulle spalle. Questa è stata una dura legge che mi ha accompagnato per tutta la vita. A molti infatti riesce tutto facile, e molti non pagano nemmeno il prezzo della vita che vivono. Ad altri, invece, è dato pagare per tutti, senza pietà, senza nessuna equità, senza rimedio alcuno.
Mio nonno morì nell’ottobre del ’75, lentamente e in punta di piedi. Disse solo che era stanco, e se ne andò alle prime luci dell’alba. In pochi giorni il suo cuore cedette e non ne volle più sapere.
Mia nonna quel giorno era a letto da tempo immemorabile, chiusa irrimediabilmente nella solitudine e nel silenzio della sua vecchiaia, ma capì. Capì che qualcosa era successo dal via vai che c’era per la casa. Capì che il compagno della sua vita se n’era andato.
Non parlò. Non chiese niente, né poteva chiedere niente.
Emise solo un lieve lamento, la voce di un dolore che proveniva da lontano e che forse aveva attraversato tutti gli incroci dell’esistenza. Una sola lacrima le attraversò il viso e inumidì il cuscino.
Mi raccontarono, dopo tanti anni, che fu tutto in quella lacrima il dolore inesplicato di una donna, fedele compagna di un’intera vita di un uomo dal cuore gentile e la pelle di bianco avorio che profumava di rose.
Il treno partì da Villa San Giovanni che era già buio. I miei compagni di viaggio furono una donna anziana, con i capelli raccolti dietro la nuca e tenuti in ordine da due o tre fermagli, che andava a Milano a trovare il figlio, e una famiglia di tre persone, tra cui un bambino di sette-otto anni. Cominciarono a cenare con quello che si erano portato da casa. Tirarono fuori da un sacchetto un panino ciascuno avvolto in un tovagliolo di carta e alcune arance. Questa fu la loro cena, accompagnata dall’incessante rumore dei binari e da qualche bicchiere di vino, accovacciati sulle ginocchia.
Io avevo lo stomaco chiuso, e riuscii a mangiare solo una mela.
Intorno alle dieci spegnemmo le luci e ci apprestammo ad affrontare la notte.
La corsa ritmata sui binari avrebbe favorito il sonno, ma non ci fu verso di chiudere un occhio anche solo per qualche ora.
Ripensavo ai motivi che mi avevano indotto a fuggire senza alternative, senza ripensamenti. Lei, Sandra, mi aveva lasciato dopo molti anni, dove avevamo consumato il nostro primo amore di ragazzi, ma al quale avevamo entrambi dato una forma e una consistenza che avevano suscitato ammirazione tra gli amici. Eravamo una coppia salda e forte, eppure arrivò anche per noi il momento in cui uno dovette dire “basta”. A subire fui io. Ogni spiegazione fu inutile, ogni parola mi suonava indecifrabile e vuota. Le notti le trascorrevo in preda ad incubi e sogni strani: sognavo enormi tende da circo sul terrazzo di un grattacielo, gente che si affannava su e giù in un via vai incessante e io che scansavo tutti rifuggiandomi sui cornicioni ad altezze improbabili nonostante soffrissi di vertigini, e sotto di una di quelle tende c’era Sandra, vestita con un telo rosso che cambiava colore, che serviva ai tavoli una moltitudine di clienti col turbante, in un caldo infernale, mentre stormi di uccelli mi giravano attorno, ma solo uno si posava sul mio petto. E in lontananza, poi, volteggiavano strani ascensori appesi ad un filo metallico sottile, che giravano da un grattacielo all’altro, volteggiando, fermandosi, sparivano e ricomparivano, ma non andavano da nessuna parte; poi si arrampicavano su montagne scoscese e precipitavano a valle sfiorando le cime degli alberi, come dilettarsi in un giro di giostra. E poi c’era il sogno, che ancora oggi a distanza di molti decenni ripeto nelle notti turbolente, di un lungo corridoio piastrellato di bianco, come si trovano nei mattatoi o nelle sale operatorie degli ospedali. E quel corridoio dava adito a numerose stanze, sempre piastrellate di bianco, con dei ganci alle pareti dove uomini squartati erano appesi come vitelli. E distesi sul tavolo per le autopsie, al centro di ogni stanza, uomini nudi, senza la calotta cranica, col cervello e le meningi di fuori in attesa di chissà che cosa. Erano cadaveri ma non lo sapevano, forse non credevano ancora alla morte. Credevano ancora di appartenere allo spazio e al tempo. Vagavo fra quelle stanze bianche avvolto in un lenzuolo di sudore e di pianti. Ero sfinito, volevo che qualcuno venisse a salvarmi, ma nessuno venne, nessuno mostrava pietà. Ero fragile anche nei sogni. Uscendo da quel corridoio, ogni volta col cuore pesante, mi ritrovavo in un atrio dove stazionava una ragazza addetta alla biglietteria: pagavo la mia quota e mi immettevo in uno cortile delimitato da portici in rovina. Era un rudere di un vecchio convento dove un frate emaciato, dall’età indefinibile, con in mano una ciotola di latte, mi invitava ad entrare nelle varie cripte. Vedevo decine di scheletri e corpi mummificati ammassati senza alcun ordine (anche la morte dovrebbe avere un ordine). Le varie cripte erano strette, senza alcuna apertura all’esterno. Solo qualche lumino accesso sul pavimento. Questa processione non durò molto, fino a quando giunsi in una grande stanza con alle pareti affreschi in rovina, scoloriti e in preda all’umidità. Al centro di quella stanza una lapide commemorava il suicidio di un giovane venuto fin qui a perdersi nel nulla. Finalmente, non so come, uscivo all’aria aperta, ma ritrovavo ancora su di me i soliti ascensori dal percorso orizzontale che volteggiavano sopra la mia testa, ma che non portavano da nessuna parte.
Dove si annidano i sogni, dove vivono quei personaggi al nostro risveglio?
Al chiodo fisso di Sandra che avevo di giorno se ne aggiungeva un altro anche la notte, ed entrambi mi crocifiggevano senza pietà. Mi svegliavo al mattino sfinito e sudato, ma soprattutto dolente per quegli orrori che non riuscivo ad allontanare né a capire. Ero la loro preda notturna, e per questo al mattino preferivo tacere di quegli incubi e tenere tutto a debita distanza. Nessuno ha mai saputo dei miei uomini appesi, né di ascensori che volteggiavano su esili fili.
Una di quelle tormentate mattine mi alzai presto col fardello dei miei sogni strani e uscii a testa bassa per il paese, desideroso solo di solitudine e di silenzio. Era mio dovere mettere ordine se non ai sogni almeno a quei giorni, rileggerli e catalogarli, possibilmente senza drammi, con lucidità e senza cedimenti, ubbidendo al mio carattere sempre più pragmatico.
Mi avviai deliberatamente verso strade secondarie, piccoli vicoli deserti, perché di incontrare gente non ne avevo proprio voglia. Quando mi svegliavo con quello stato d’animo (e, infatti, non era la prima volta che mi succedeva, sebbene per motivi diversi) mi dirigevo sempre in periferia, verso la campagna a sud del paese, nei pressi dell’istituto scolastico che avevo frequentato da adolescente. Era come rifugiarmi in un periodo felice della mia vita, dentro una sfera di cristallo o un guscio protetto, un breve ritorno ai primi anni sessanta, quando avevo dinanzi tutto il mondo che mi attendeva, anche se a quell’età non si ha la percezione di essere attesi. Quella strada ai margini del paese aveva la piana di Catania sterminata davanti, un orizzonte infinito e il cielo blu, che insieme si frantumavano nel verde scuro degli aranceti. Mi sedetti sul muretto, appoggiai la testa tra le mani e lì, dopo lunghi dissidi e una miriade di domande, presi la decisione più importante della mia vita. Quella strada isolata e sconosciuta fu il mio Rubicone.
Ritornai a casa verso mezzogiorno. Avevo camminato lungo i muri, quasi senza vedere la gente che incrociavo, come perduto tra le nuvole, cosciente della natura imperiosa di quella decisione che dovevo adesso rivelare a mia madre. Entrai in casa e vidi kelly, la gattina a macchie bianche e grigie che tenevamo ormai da anni, venirmi incontro giù per le scale. Mia madre le aveva dato quel nome perché, diceva, aveva il portamento regale della principessa Grace di Monaco. La presi in braccio e la accarezzai, il pelo era come cachemire di prima qualità, poi si sistemò sulla spalla e insieme salimmo le scale mentre mi baciava con la sua lingua rugosa sulla guancia. Come sono astute le gattine, mi voleva bene e forse capiva anche le mie tribolazioni, aveva chissà voglia di aiutarmi, suggerirmi qualche soluzione, forse esistevano anche i patimenti felini ai quali lei non era stata immune, e magari ne sapeva già qualcosa su come accomodare questioni di questo tipo.
Mi scivolò dietro, lungo la schiena, lasciandomi qualche graffio, poi si accartocciò nel suo cesto di vimini ricoperto da un plaid. Si spazzolò con la lingua ruvida il pelo delle zampette e si preparò ad un sonno lungo e pesante.
Mia madre stava preparando il pranzo, racchiusa nella sua quiete e nelle sue faccende tra i fornelli, la salutai con un filo di voce ma evitai accuratamente di incontrare il suo sguardo. Lei aveva la capacità di capire molto di me, anche quando rimanevo in silenzio o mi trovavo in un’altra stanza. Per lei ero un libro sempre aperto, le bastava guardarmi negli occhi o soltanto ascoltare il mio respiro, e intuiva all’istante tutto di me. Era mia madre e basta.
C’era un calendario appeso al muro in prossimità della cucina, vi appoggiai l’indice della mano destra, sempre in silenzio, chiusi gli occhi e lo feci scorrere verso il basso. Quando il dito si fermò, indicando un giorno di quel mese di aprile del 1975, aprii gli occhi e lo rivelai a mia madre: mamma - dissi - giorno ventinove andrò via, fra diciassette giorni.
Era, infatti, il dodici di aprile.
Quello sarebbe stato il giorno della mia partenza. E così fu. Lo sgomento e la disperazione di mia madre furono in quel momento indescrivibili. Non capiva perché questo figlio, rimasto ormai solo in casa, dovesse andare a vivere al nord, chissà dove poi. Non tentò di farmi cambiare idea, tanto sapeva che sarebbe stato tutto inutile. La fermezza che mostrai allora la portai con me ancora per molti anni, finché piano piano la lasciai con il sopraggiungere di quel disincanto che la vita e gli anni ti portano a ridimensionare ogni cosa.
2°
Vivevo ormai a Novara da molti mesi. Avevo preso alloggio in via Dominioni, in un edificio della Curia arcivescovile che accoglieva gli operai e gli studenti di fuori sede. Pagavo davvero poco. Avevo a disposizione una piccola camera che si affacciava sul cortile interno, mentre i servizi erano in comune. Dalla finestra riuscivo a vedere soltanto l’enorme portone, nei pochi momenti in cui rimanevo in camera da solo. Trascorrevo le giornate tra la mia stanza e la biblioteca, a cercare di studiare, perché questo avevo detto ai miei: andavo a Novara a proseguire gli studi. In realtà non avevo né lo spirito, né le risorse sufficienti per affrontare un impegno universitario.
La città era grigia oltre ogni immaginazione. Sentivo l’aria stantia delle vecchie città sabaude. Il sole che aveva accompagnato la mia infanzia non lo vedevo per tutto l’inverno, e solo in primavera, quando le nebbie taciturne si dissolvevano, potevo ricominciare a respirare. Camminavo in una città estranea, tra vicoli lastricati di marmo e di porfido. Molta gente mi incontrava ma nessuno mi conosceva, nessuno che mi salutasse o mi rivolgesse la parola. Vivevo nella totale solitudine, immerso in una marea di gente, in un via vai incalzante che cessava miracolosamente alle sette di sera, quando chiudevano i negozi. Non potevo più fare alcun paragone con la mia città, era tutto inutile. La mia città ormai era questa, Novara, e ci vivevo e la accettavo, senza darmi alcuna spiegazione.
I ritmi della mia vita erano inesorabilmente mutati. Ogni attimo aveva un suo valore, non si doveva perdere tempo assolutamente. Dell’abitudine di far passare il tempo, tipicamente delle popolazioni del sud, non ne avvertivo nemmeno il più pallido sentore. Ma facevo i conti senza il tarlo che mi rodeva dentro. Il tarlo che mi induceva a conati di vomito ogni volta che aprivo, al mattino, il libro per iniziare la giornata. Una giornata che durava qualche ora, quando sfinito e prostrato mi ritiravo in buon ordine e aspettavo un altro giorno, inevitabilmente uguale a tutti gli altri.
Continuare sarebbe stato inutile, vano, senza una giustificazione che da vero uomo potevo darmi. Che senso aveva crocefiggermi ogni giorno, vivere col rimorso di ingannare i miei che si aspettavano un destino roseo per questo figlio fuggito sì, ma non certo perso per sempre?
Le ore le trascorrevo a lasciarmi vivere, come fossi al centro di un fiume in piena ed io su un canotto senza remi.
Cominciavo in quegli anni ad essere implacabile con gli altri e spietato con me stesso. Non perdonavo niente a nessuno, né chiedevo perdono a qualcuno. Ogni cosa passava sotto la lente inesorabile del mio temperamento polemico. E intanto continuavo a trascinarmi e a sopravvivere.
Stavo pagando una scelta a caro prezzo e quello che era peggio, non vedevo alcuna via d’uscita davanti a me. Navigavo di giorno in giorno, forse di ora in ora, senza meta, senza sogni. Non era questa la vita che volevo, no. Avevo sognato ben altro, studiando in inverno e lavorando d’estate, costruendomi mattone su mattone, sapientemente, come un certosino nel silenzio della sua cella. Ero invece costretto a sbagliare, ricominciare sempre dall’inizio come se niente fosse stato, mentre vedevo che intorno a me ognuno faceva le proprie scelte con naturalezza e semplicità, centrando sempre i propri obiettivi. Solo io andavo avanti sbagliando e inciampando sempre. E nessuno che mi consigliasse e mi seguisse, né quando ne avevo avuto bisogno in gioventù, né tanto meno adesso, che stavo crescendo infangandomi da capo a piedi. I poveri dovrebbero nascere due volte, avere la possibilità di un riscatto anche solo morale. E invece niente. Il giudizio finale avviene per tutti allo stesso modo, alla fine dei giorni, senza appelli, senza scorciatoie.
Diventavo sempre più come un terreno morbido d’argilla, dove chiunque poteva lasciare la propria impronta su di me. Mi accorgevo di avere la pelle scoperta, senza alcuna protezione, di essere indifeso, di diventare un barbone. Non basta mangiare per vivere, così come non basta guardarsi allo specchio al mattino e vedersi con i pantaloni per dire di essere un uomo.
Ormai ero alla deriva. Da oltre un anno.
Giunse l’autunno repentinamente, quasi senza preavviso. La città ripiombava nuovamente nel freddo e nella nebbia, con i suoi odori, i suoi ritmi lenti e miopi. Abituarsi a questi inverni non è difficile. Difficile è mutare la propria pelle come un camaleonte, ritrovarsi ogni giorno diverso e non potersi riconoscere. Avvertire l’amara sensazione di essere estraneo, non poter guardare negli occhi i passanti e camminare sapendo di avere nel cuore il peso di una donna e l’odore della terra. Questa fu la mia vera tristezza, questo velo invisibile che si adagiava sulla pelle e mi ustionava lentamente giorno dopo giorno, fin dentro le ossa.
La biblioteca mi aspettava al mattino, come sempre. E come sempre si esauriva la mia voglia di vivere in poche ore.
Intorno alle dieci, il dolore che mi squarciava l’anima diventò insopportabile; decisi allora di uscire, di fare ritorno a casa e di finire i miei giorni nella solitudine della mia stanza.
Avevo in un cassetto una buona dose di tranquillanti che avevo accumulato nei mesi precedenti, da quando mi trascinavo barbone senza meta. Sarebbe stato facile? Incominciavo ad essere divorato dall’ansia, ero irrequieto. Pensai a mia madre, alla sua dolce espressione di quando partii, tra la speranza e lo sconforto, indifesa anch’essa contro la mia determinazione. Sapeva che forse stavo fuggendo per non fare più ritorno, che forse era questa la vera ragione del mio viaggio. A niente valsero le sue suppliche, le interminabili discussioni serali con mio padre presente, anch’egli interdetto di avere un figlio incapace di reagire. Ma da giovani si vede il mondo in una dimensione particolare; lo si vede deformato, come un piccolo mostro che si avvicina sicuro, spavaldo, pronto ad afferrarti e trascinarti a suo piacimento. E questa dipendenza piace, e ci si abbandona con fede ai giorni, al tempo, alle illusioni. Finché poi gli anni, il trascorrere lento e inesorabile del tempo, non ci dice che poche verità rimangono, pochi sogni si avverano, poche gioie ci è dato godere. Ci rimane solo una certezza nella vita: quella di dissolversi e sparire, e non lasciare nessuna impronta, nessun ricordo.
Scesi dunque le ampie scale della biblioteca lasciandomi dietro una sala vuota, senza nessuno da poter guardare per l’ultima volta. Fu nell’ultima rampa di scale, negli ultimi gradini, che vidi entrare dal portone una ragazza piuttosto semplice, vestita con una gonna di colore chiaro, ampia fin sopra le caviglie, che si accingeva a salire appoggiandosi alla balaustra di marmo. Il suo capo era reclinato sulla spalla destra. Quando fummo uno di fronte all’altra, mi allontanai per cederle il passo, immerso ormai nel torpore di uomo che assapora la morte. Lei mi guardò lentamente e lentamente sentii sfiorarmi gli occhi da una carezza; abbassò gli occhi, accennò un sorriso etereo e mi sussurrò: “ciao”. Quasi non l’ascoltai. Uscii dal portone e fui investito da un’ondata di freddo intenso che mi risvegliò.
“Ciao”, pensai. Chi mi aveva salutato così dolcemente?
Chi era quella ragazza che si era rivolta a me pur non conoscendomi?
In città nessuno ti saluta se non ti conosce. Mi fermai un istante, guardai per terra, mi girai verso il portone della biblioteca e rimasi lì per qualche istante.
Chi era colei che mi aveva sussurrato quel saluto?
Posso tornare indietro – pensai - guardarla anch’io negli occhi.
No, non potevo, avevo un compito da assolvere. Se non si perde tempo le cose riescono meglio. Mi fermai ancora, volevo pensarci ancora un attimo. Avvertii come una mano che mi invitava, o forse mi spingeva, verso le scale della biblioteca. Le risalii di fretta, entrai nel salone delle letture e vidi che tutto era vuoto. Non c’era nessuno. Visitai le altre stanze (conoscevo bene la biblioteca) e non vidi anima viva. Dov’era andava a finire quella ragazza? Chiesi alle impiegate se avessero visto entrare una ragazza sui venticinque anni, con i capelli castano chiaro. Nessuno l’aveva vista. Eppure era entrata, era salita per le scale, mi aveva incrociato e salutato, non poteva essersi dissolta nel nulla, come fumo di sigaretta.
Adesso, comunque, potevo far ritorno a casa, assolvere con cura e meticolosità alle incombenze che mi ero dato. Il giorno prima della mia nascita un altro aveva compiuto questo ufficio allo stesso modo, senza fare drammi, lasciando solo un piccolo biglietto sul comodino della sua stanza d’albergo. Io non avrei lasciato nessun biglietto, nessuna lettera. Non dovevo spiegazioni a nessuno. Avevo solo la mia nuda coscienza davanti a me, il mio Dio a cui ancora credevo e che forse anelavo raggiungere, anche se mi avrebbe sgridato per quello che stavo per fare. Ma confidavo nella sua clemenza, nel suo smisurato senso del perdono.
Camminavo ormai col capo chino, guardando solo il marmo dei portici di via Cavour. Attraversai Piazza del Rosario e salii le scale. Il corridoio era buio come sempre. Accesi le lampadine. Giunto davanti alla porta della stanza la aprii senza incertezze, sicuro, sereno. Avevo deciso. Non sarei tornato indietro. Mi chiusi la porta alle spalle, aprii le finestre e la stanza si illuminò. La luce della tarda mattina entrava placidamente in quella piccola stanza con un letto e un piccolissimo tavolo. Qualche foglietto sparso e niente più. Qualche verso accennato nei frequenti momenti di solitudine e basta. Non volli leggere niente. Non ne avevo voglia. Volsi lo sguardo verso il letto: sul copriletto di ciniglia beige che avevo comprato per pochi soldi, vidi un’immagine strana. Mi avvicinai, la guardai incredulo e incominciai a piangere. Era lo scapolare della Madonna del Carmelo, lo stesso che mia madre aveva deposto sotto il materasso alla mia nascita, e che io conoscevo bene, il vero simbolo della mia infanzia.
Piansi a lungo e senza soste, fino a sentire i crampi nei visceri e nell’anima.
Sapevo che qualcuno mi aveva ormai preso per mano e condotto fuori dal tunnel, finalmente verso la luce, verso un giorno di cielo chiaro.
Un uomo semplice
Don Salvatore, come ho già detto, era il carrettiere del quartiere, l'uomo al quale ci si rivolgeva per qualsiasi lavoro che prevedeva il carico e il trasporto di materiale, fossero mattoni da andare a caricare alla fornace di Ciccitto, chiamato col diminutivo di Ciccio perché era davvero piccolo di statura, o qualche carico di ghiaia per i muratori della zona, o ancora per qualche trasloco. Tutto era alla sua portata, tutto offriva, e per nulla cosa al mondo avrebbe mai rifiutato un solo viaggio col suo cavallo e il suo carretto. Lo si vedeva al mattino presto appoggiato al muro dell'unica osteria, nella piccola piazzetta che negli anni cinquanta era stata aperta da un immigrato da un paesino vicino, pronto a ricevere l'ordine di un viaggio, mettersi sul suo carretto e recarsi sul luogo del carico. Solo se i viaggi erano stati programmati la sera precedente don Salvatore non lo si vedeva al mattino, ma puntualmente compariva al ritorno, a qualsiasi ora del giorno, e molte volte anche a sera inoltrata. Era un uomo senza tempo, in simbiosi con il suo cavallo che accarezzava sul muso o lo spazzolava lungo i fianchi e la schiena perché l'attesa a volte era lunga e frustrante.
Aveva due piccoli baffi limitatamente sotto il naso, come un noto dittatore, ma a chi glielo faceva notare, rispondeva con un sorriso appena accennato, alzava le spalle e si limitava a guardare il cielo, come a dire che molta diversità si interponeva fra loro.
Era un uomo semplice, la cui esistenza era votata alla moglie, donna Rosa, e ai suoi tre figli. Per loro non aveva parole, ma solo uno smisurato amore, di cui sapeva di trasmetterlo solo con la dolcezza del suo viso, con i suoi silenzi, con i suoi misurati e timidi sorrisi, quasi dovesse pagare anche quelli, ma mai con parole, perché le parole non erano nel suo bagaglio, non previsti dalla sua semplicità estrema.
Non ho mai incontrato nella mia vita un uomo che mi abbia insegnato tanto pur senza mai parlare di alcunché, voglio dire la semplicità allo stato puro, che nella vita è forse l'unica cosa degna d'essere coltivata, perché al di fuori dall'essere genuino e semplice, esiste solo un mondo di incertezze, di paure, che rendono la vita un'incognita, o nella migliore delle ipotesi un rincorrere inutile di quella stabilità che oggi ci appare e domani ci sfugge come un'anguilla.
Ebbi la fortuna di essere compagno di scuola di uno dei suoi figli, e grazie a questa evenienza, e studiando assieme, ora a casa mia, ora a casa sua, frequentai quella casa con assiduità per molti anni, e fui trattato come il quarto figlio di questa famiglia unica. Le sere d'inverno, spesso, dopo la cena, sedevamo tutti attorno al braciere a riscaldarci e dove don Salvatore ci raccontava alcuni episodi della sua gioventù, della guerra sul fronte russo, mostrandoci anche, una volta e con una certa riluttanza, le dita dei piedi congelati. C'era insomma una dolce atmosfera di calore umano e di estrema serenità, dove noi ragazzi non davamo alcun motivo di inquietudine, ma assecondavamo, e partecipavamo, con la nostra comprensione, a che i giorni scorressero quieti e senza affanni ulteriori.
Avvenne che una mattina don Salvatore non lo si vide nella piazzetta, né comparì al pomeriggio. Un’assenza nelle piccole comunità si nota, eccome, e ci vuole poco perché giri la domanda uno con l'altro, Si è visto oggi don Salvatore?, oppure, Come mai don Salvatore non è ancora arrivato, si sarà forse addormentato? Sarà ammalato? Nel tardo pomeriggio si vide il veterinario attraversare la piazzetta e recarsi a casa di don Salvatore. Gli sguardi girarono tra i visi smarriti, qualcosa sarà successo. La morte improvvisa del cavallo fu vissuta come la perdita di un figlio, ma anche come la perdita di chi permetteva un piccolo ma indispensabile reddito. Morto il cavallo non si sapeva più come guadagnare e mantenere la famiglia. Il dramma aveva inizio con tutte le sue implicazioni, un mondo disperato attraversava la mente semplice di don Salvatore, problemi più grandi che il suo cuore potesse sopportare.
Tutto questo lessi al mattino seguente sul volto del figlio, reso pallido dall'insonnia, dalla stanchezza e dalla visione di un futuro nero come la pece.
Mi raccontò della morte improvvisa del cavallo, la sua sezione praticata dal veterinario per poterlo trasportare, la ferita lacerante che sembrava non potesse più rimarginare. E' sempre così, quando il dolore ti sovrasta in modo improvviso, inatteso, è un macigno che non riesci a muovere, ti schiaccia, ti toglie il respiro, ti annienta, ti lascia solo con te stesso, con quelle poche forze che madre natura ti ha donato e basta. Lo smarrimento è totale, l'impotenza e la solitudine la senti cosparsa su tutta la pelle, e niente, nessuna parola di consolazione potrà mai risollevarti. In certe occasioni non è facile essere lucidi e guardare oltre il dolore.
Donna Rosa, la moglie, prese le redini della situazione, sono sempre le donne le prime a rialzarsi, emanò le sue disposizioni nel giro di qualche giorno e tutto ciò che venne stabilito fu puntualmente messo in atto. Si compri un altro cavallo da cui ripartire, senza un'altra bestia che tiri quel carretto, non ci sarà futuro per questa famiglia. Non si può cambiare mestiere dall'oggi al domani, e poi ad una certa età tutto è più difficile, le incognite si sommano, non finiscono più, sembrano danzarci attorno. Non dobbiamo permettere che tutto ciò avvenga, che si dissolva ciò che abbiamo costruito negli anni col sudore e la fatica.
Un altro cavallo fu acquistato nel giro di una settimana, una speranza entrava in quella casa, un nuovo figlio veniva accolto, sistemato nella stalla accanto.
Fu mia nonna, in famiglia, a commentare con la saggezza antica e chiudere definitivamente questo evento: bel tempo e maltempo non dura tutto il tempo, disse.
La variabilità dei giorni, la vastità del tempo, saranno forse la salvezza del genere umano: credo che mia nonna avesse ragione.
Ami la tua terra
Ami la tua terra. L'hai sempre amata. Di quell'amore cieco, emotivo, irrazionale se vuoi, come quello che si nutre per un'amante nonostante questa si dimostri abitualmente “capricciosa”, di quell'amore che non ti chiedi perché o come mai. C'è e basta. Quell'amore proveniente da quello che oggi, con termini moderni, chiamiamo imprinting, ma che nella realtà, e con parole semplici, diviene dall'infanzia, da tutte le immagini che hai accumulato tra le strade polverose del tuo quartiere, agli odori che provengono, come nel tuo caso, dagli agrumeti, dal sole, dal mare, e dalla vita semplice e piuttosto lineare che la tua famiglia ti ha offerto nei periodi cruciali dell'esistenza. Quell' amore che ti ha “costretto” spesso a farvi ritorno per immergerti, come in un bagno catartico, irrinunciabile, in quel mondo che nel bene e nel male hai dentro l'anima e che ti rimarrà per tutta la vita. E non può essere diversamente, perché non è una questione epidermica che puoi togliere o lavare quando ti pare, ma è un'impronta indelebile che ti accompagnerà per il resto dei tuoi giorni. E rimarrà anche quando inizierà il periodo “razionale” della vita, quando all'amore cieco subentrerà la riflessione sulla società e le sue ingiustizie, sul tuo popolo, i suoi vizi, le virtù, e allora riscoprirai che non tutto ciò che ami e amerai ha un fondamento “logico”, un senso, riscoprirai che la tua vita scorre in senso opposto alle abitudini e alle finalità di quella terra. Eppure, ora, ti intestardisci a considerare “tua” questa terra, anche se l'età e le vicissitudini ti stanno portando ad un leggero ma costante distacco. Ed ecco che quando sei in volo per la Sicilia ti senti emozionato se scorgi in lontananza le sue coste, e ti ripeti in silenzio “questa è la mia terra, la sola che ho dentro l'anima”, ed entri in sintonia subito dopo sbarcato, già nell'aerostazione, ti impregni subito degli odori che riconosci perché li hai nell'archivio del cuore.
Basta poco, pochi respiri, guardare la costa, la lunga piana di Catania, voltarti e sapere che l'Etna è lì, quasi a proteggerti, ad accarezzarti se occorre, e ritorni a sentirti figlio indissolubile di questa terra, la stessa che hai lasciato a ventiquattro anni alla ricerca di un futuro migliore. Ma spesso senti che quasi più nulla ti appartiene, sei in bilico tra chiamarla “la mia terra” o spingerti oltre e accettare che “era la tua terra”, che quasi non ti riconosci più, perché quell'equilibrio che hai reso instabile con gli anni della lontananza, ha ceduto, non è più un equilibrio, si è dissolto, e dentro di te questa frattura l'avverti come un dolore tragico, che a volte ti lacera e a volte ti annienta. Un sentimento altalenante credi si sia impossessato di te. Tu ora ami altre montagne, lontano da queste movenze, si direbbe un altro mondo. Hai lasciato, è vero, gli amici, ma non sei riuscito ancora a sradicarli dai recessi più remoti del cuore, sono rimasti intatti, immacolati, tutti, e sai ancora scorgerli, basta chiudere gli occhi e li riconosci tutti, i loro visi, i loro sorrisi, la loro cadenza dialettale; e fanno parte di te, non puoi affidarti al tuo cuore mutevole per scordare quello che nemmeno il tempo è riuscito a cancellare. La memoria ha una sua vita, che si protrae oltre, quasi non ha confini. Siamo noi che cataloghiamo tutto, inscatoliamo, definiamo ogni cosa, mentre nella realtà nessuna coercizione è conosciuta, ogni cosa vive della sua libertà, del suo spazio, e anche se i nostri limiti vorrebbero non avere un proprio confine, non sempre ciò che ingenuamente chiediamo la vita ci concede. Per fortuna.
L'altalena dei tuoi sentimenti ti ha condotto, se ricordo bene, a chiedere un lavoro a Piazza Armerina, solo un incarico, in quell'Ospedale posto sulla cima della collina, in prossimità della cattedrale, nei locali di un vecchio monastero. Ci sei rimasto solo sei mesi, perché in soli sei mesi si era esaurita quella carica viscerale, quell'amore smisurato che ti aveva condotto a lasciare la casa, i tuoi affetti, per venire a vivere in questo lembo di terra, nella completa solitudine, quasi a cercare un spazio di silenzio tutto per te, come un desiderio di ristrutturare la tua esistenza partendo dalle fondamenta, e quindi, inevitabile, dalla tua terra, un ritorno alle origini, un ricostruirsi utilizzando ancora gli stessi materiali, gli stessi profumi, la stessa aria o vento che fosse.
Sei partito da casa che era un pomeriggio piovoso. Appena pochi chilometri e in autostrada hai incontrato il sole, che ti sei portato dietro sino al porto di Genova, da dove ti sei imbarcato per Palermo. Quello squarcio tra le nubi lo avevi vissuto quasi come un buon presagio. Lasciavi la tua vita piatta e inconcludente, dicevi, e ti avviavi verso un periodo di serenità, di lavoro riconosciuto. La tua vita stava cambiando. E chissà in che direzione si stava incanalando. Impossibile saperlo in anticipo. Bisogna vivere per sapere che giorni hai trascorso. Fantasticare non serve. E' un esercizio inutile che solo nell'adolescenza è consentito. Non dopo. Non alla tua età.
A casa hai lasciato la tua compagna, quasi a volerla punire per i contrasti che ti porti dietro dall'infanzia, quasi a considerarla il capro espiatorio di un'anima, la tua, fatta di mille recessi e non tutti facilmente esplorabili. Lei, mi hai detto, si è opposta con la sua solita discrezione - anche allora, anche se il tema di un abbandono, benché limitato nel tempo, le offrisse materia adatta per una ribellione che assumesse tutti i crismi della battaglia vera e propria - senza alzare mai la voce, ma piangendo, e non solo in silenzio, ma anche quando ti abbracciava e ti supplicava di ritornare sui tuoi passi, ti scongiurava di evitarle questo duro esercizio; le lacrime erano fiumi che in ogni momento della giornata ritrovavano il loro percorso con naturalezza, in un viso che stava invecchiando di giorno in giorno. Le stavi procurando una ferita non più rimarginabile, ma la tua inconcludenza, la testardaggine che pure sembrava in un certo periodo non ti appartenesse più, non ti hanno consentito di fare un passo indietro, un ripensamento, fosse solo per non ferirla mortalmente, quella donna che ti aveva scelto e posto tra le mani tutta la sua vita. Non un minimo di coerenza, ma puro egoismo. E' vero, come hai detto più volte, era un tentativo che andava fatto, per non rimpiangere un giorno la mancanza di coraggio, la possibilità di trovare nuovi stimoli alla tua vita. Non hai mai amato la staticità, l'inerzia, il male peggiore dei siciliani, e avere l'opportunità di dare una sterzata decisa alla tua vita era una occasione troppo ghiotta per lasciartela sfuggire. La somma andava fatta dopo, non c'è dubbio, ma bisognava pur sempre mettere in fila gli addenti, magari pentirsene un giorno, ma è meglio pentirsi di aver agito, anche sbagliando, che piangere della propria immobilità, se non della propria ignavia.
In quei lunghi mesi hai avuto modo di pesare ogni cosa, ognuna con la sua vera consistenza, ogni angolo della tua mente e del tuo cuore, hai sviscerato, aperto, sfogliato la tua vita giorno per giorno, hai potuto guardare in faccia ogni errore, ogni successo, i tuoi tentennamenti e i momenti di coraggio, hai potuto capire da dove viene la tua vita e dove stava andando, a spanne, perché nessuno saprebbe dire con certezza che giorno sarà domani. E, ammettilo, hai avuto modo in quel silenzio a volte inumano e lacerante, di fare il bilancio, sebbene solo momentaneo, della tua vita; hai dato il giusto valore alle cose e alle persone che ti circondano, hai iniziato il percorso definitivo della tua vita, quello che ti condurrà alla fine dei tuoi giorni; adesso ti ritrovi un uomo diverso, indissolubilmente legato a coloro che prima respingevi quasi senza accorgertene, ti sei legato a queste montagne della Valsesia che pochi anni prima quasi odiavi, e adesso senti tuo ogni angolo di questo paese, il rumore del fiume che sotto casa scorre sereno o impetuoso, all'aria che ti brucia i polmoni ad ogni respiro nei tanti mesi di freddo. Adesso sei figlio di questa terra. Sì lo sei, anche se porti ancora il profumo degli aranci e dei gelsomini, dei narcisi che spuntano sulle rive del Simeto.
La prima donna
Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto perpetuare le gesta di una generazione, di un popolo, di una casa; immaginava che anche il padre e il nonno avessero a loro volta assecondato quei riti, quindi anch'egli, prima o poi, avrebbe attraversato quegli eventi che agli occhi degli adulti, e nella considerazione degli amici, danno quel marchio e quell'aureola di normalità, senza trasgressioni, senza mutazioni percepite come pericolose. Ma certi eventi, anche se in apparenza possono sembrare accaduti per caso, quasi voluti dal destino, in realtà sono quasi sempre preparati da noi stessi, e molte volte con dovizia di particolari. Forse nulla accade senza la nostra volontà, tant'è che anche la sua prima donna era stata immaginata tante volte, era stata preparata a quell'evento così primordiale con scrupolo come fosse un copione cinematografico che aspettava solo il ciak perché si avverasse davvero, con tutti gli attori consci di quello che dovevano dire o fare.
Aveva solo quindici anni quando si congiunse per la prima volta ad una donna, e tutto ciò che avvenne in quella stanza, e fuori, lo racconteremo in queste poche righe, per dare testimonianza al mondo di come in Sicilia, o meglio, a Catania, i ragazzi si preparavano a diventare uomini, seguendo le ritualità ancestrali di un popolo con una serenità e una predisposizione inusuale per molti, ma fluida, millenaria, naturale, per loro che sin da bambini sognavano di giungere a quelle età per saltare il fosso, scavalcando anche i pregiudizi e dimostrare a tutti, ma principalmente a se stessi, che il marchio di fabbrica era salvo e potevano perpetuare certe tradizioni. Allora sì che i giovani potevano andare in giro a testa alta, mischiarsi agli adulti, partecipare ai loro discorsi, sentirsi definitivamente uomini.
Anche per il nostro adolescente, di cui taceremo il nome, era giunta l'ora di saltare il fosso. L'avvenimento era stato programmato per il pomeriggio di una domenica, una qualsiasi domenica di primavera. Nei preparativi era stato coinvolto da due amici occasionali, di cui adesso nemmeno lui ricorda più i nomi, perché la loro amicizia finì quel giorno, dopo la celebrazione di quella messa cantata, messa solenne. Furono loro che organizzarono l'evento; per loro due ormai era una consuetudine, che si ripeteva da mesi se non addirittura da anni; loro due erano usciti da un pezzo da quell'età considerata zona amorfa, quella post-adolescenza dove non si è più ragazzi ma nemmeno ci si può considerare ancora adulti. Quella zona limbo che si vive in trepida attesa per superare, appunto, il fosso, costituito ancestralmente dalla donna, dal possesso della prima donna.
Sebbene avesse solo quindici anni, certe inquietudini quel ragazzo le conosceva molto bene, sapeva a cosa si stava preparando, cosa avrebbe dovuto affrontare non solo in quei momenti, ma soprattutto nei giorni seguenti, quando sarebbe rimasto solo, a tu per tu con la sua coscienza, con gli insegnamenti della madre che avrebbero reclamato quella coerenza mancata, e lui non avrebbe saputo dare una risposta. Sì, avrebbe racchiuso tutto in un recondito angolo nascosto della propria mente, e lì sarebbe rimasto sino alla fine dei suoi giorni, senza rimescolare niente negli anni: sarebbe rimasto un evento solo suo, sepolto definitivamente, quindi inutile sarebbe stato anche rimuginarci su, e poi, a che scopo?
Prese la corriera per Catania subito dopo pranzo. Usciva senza dare nessuna spiegazione ai suoi, tenendo lo sguardo abbassato, quasi un'ammissione di colpa prima ancora che il reato fosse compiuto. Salutò i suoi che ancora erano a tavola e si avviò con passi leggeri, ma frenetici, verso la fermata, dove ad aspettarlo c'era uno degli amici, l'altro era già salito al capolinea.
Quel viaggio si sarebbe concluso un'ora dopo in Piazza del teatro Massimo, e di lì sarebbe bastato girare l'angolo, immettersi in via delle Finanze, oltrepassare via di San Giuliano per trovarsi nel quartiere “malfamato” della città, un groviglio di stradine che sono state scuola di vita ai giovani dell'intera provincia.
Bisognava adesso solo passeggiare tra la folla, guardare, scrutare negli occhi la possibile partner, alla ricerca di qualche elemento accettabile ai propri gusti, un qualsiasi tratto che rassicurasse, anche minimamente, il suo cuore ancora bambino, uno sguardo materno e protettivo di cui nonostante tutto aveva ancora bisogno.
Una donna che in quel momento fosse anche madre, comprensiva, che lo accogliesse tra le sue coperte nonostante la giovanissima età, e che avesse un minimo di comprensione, sapendo che in cambio le avrebbe offerto ben poco, forse solo l'odore di infanzia che ancora aveva appiccicato sulla pelle, l'estrema delicatezza che accompagna di solito tutto ciò che si compie per la prima volta.
Forse anche lei avrebbe rivisto, e ritrovato in quel ragazzo, la memoria della sua innocenza, avrebbe ricordato la sua prima volta, avrebbe rivisitato le tante brutture di amplessi feroci di tanti anni, di questo triste lavoro, antico e vituperato. Forse avrebbe avuto un riguardo per questo ragazzo che le chiede di entrare per stare qualche minuto tra le sue gambe, avrebbe anche, chissà, l'illusione di stringere tra le braccia un figlio che forse non ha e che avrebbe magari voluto.
Comunque una scelta sicuramente difficile. Non a tutte si può chiedere quello che si cerca, né tutte possono dare quello di cui abbiamo bisogno. Bisognava scrutare negli occhi delle centinaia di donne appoggiate allo stipite dell'uscio o sedute davanti casa, cercare un'espressione dolce da potersi riconoscere e accettare come familiare, allora sì che sarebbe stato tutto più facile, ma bisognava aspettare, pazientare, ripercorrere queste stradine decine di volte, fare dei paragoni tra l'una e l'altra, e poi finalmente decidersi, trovare il coraggio millenario, forse anche genetico, ed entrare con lei, spogliarsi, adagiarsi sul letto: e poi? Che sarà dopo? Sarà lei a guidarlo nelle operazioni, con cura, con la familiarità di cui ha bisogno? Avrà la delicatezza di non ferirlo, di non umiliarlo, se fallirà in qualche atteggiamento?
E' tardi, quasi sera. I due amici, esperti conoscitori di ogni anfratto dell'intero quartiere, avevano concluso da tempo le operazioni, si erano alleggeriti con una facilità impressionante di quel peso trattenuto per un'intera settimana. Loro non dovevano certo rispondere a tutti gli interrogativi che si poneva il ragazzo, loro ormai erano maestri, conoscitori benché superficiali di donne dozzinali, che potevano donare solo un attimo di piacere, non altro. Ma il ragazzo cercava qualcosa di diverso, forse qualcosa che somigliasse all'amore, pur sapendo che non era quello il posto più adatto. Bisognava tuttavia che si decidesse. Bisognava solo chiudere gli occhi, inspirare fortemente e presentarsi davanti alla donna prescelta per lanciarsi temerariamente in questa avventura unica, breve, ma che sapeva lo avrebbe marchiato per l'intera esistenza.
Sarebbe stato un evento da ricordare sino alla vecchiaia, e adesso, quell'evento, lo stava per vivere: le immagini si sarebbero impresse nella mente prima ancora che negli occhi.
Forse avrà molte donne nella sua vita questo ragazzo, ma questa, una donna che non ama, una donna che non vedrà mai più, una donna occasionale, sarà quella che ricorderà anche quando il tempo, il suo tempo, sarà finito. Il viso di questa donna reso impalpabile e pallido dal tempo, ora è quasi svanito, disperso nel tumulto degli anni. Quello che resta, come ogni cosa a questo mondo, è il ricordo, quel ricordo che dà il senso ai nostri giorni e all'intera vita, perché senza ricordi possiamo dire di non aver vissuto. Queste cose il ragazzo non le sapeva, non avendo ancora il bagaglio di esperienze, ma quello che sta per vivere farà parte della sua vita, sarà un primo granellino che andrà a costituire l'intera abitazione dove dimorerà da adulto. Sarà un evento che passerà al vaglio della coscienza, che filtrerà con gli anni, aiutato dal tempo che perdona tutto e appiana ogni asperità.
Questa donna, la donna che ha scelto, questa pietra miliare, ha già un prezzo: cinquecento lire. Non sono tante a dire il vero, molte altre chiedono il doppio, ma per il ragazzo questa ha le sembianze di una donna familiare, ed è stata questa caratteristica, infine, a far pendere l'ago della bilancia. Questa donna, dai tratti del viso dolci, conosciuti, aveva in se una sorta di serenità che trasmetteva con naturalezza. Quello che chiedeva il ragazzo nel lungo peregrinare di quel pomeriggio, era la mancanza di finzione. Voleva che il salto che stava per compiere fosse accompagnato da quella stessa sincerità e schiettezza cui lui stesso chiedeva e si attendeva dalla vita.
Fu preso per mano e condotto in una piccola stanza senza aperture. Un letto sommariamente rifatto e una fioca luce che veniva dall'abajour dei due comodini furono il palcoscenico di una rappresentazione che durò alcuni minuti. Lì si consumò un rito, quello atteso dalla mente e favorito dalla carne, un rito taciuto col dovuto pudore in famiglia, ma che tutta la famiglia avrebbe intuito appena rientrato a casa, e rivelato irrimediabilmente dallo sguardo basso e dalle poche parole di quella sera.
E quella sera tutti hanno capito e tutti hanno taciuto, per rispetto di quel ragazzo ch’era diventato uomo.
Un sogno ricorrente
Avevo assoluto bisogno di alzarmi dal letto, non resistevo più. Dovevo necessariamente andare in bagno. Ero andato a letto troppo presto e avevo bevuto una gran quantità di liquidi. Scendo giù dal letto come un automa, con gli occhi chiusi, tanto conosco già il percorso. Anziché trovarmi in bagno mi ritrovo in una strada del mio paese, al piano Cesareo, laddove inizia via Giovanbattista Nicolosi; c’è uno spesso strato di fango per le strade, è quasi sera, un buio ancora metallico, diffuso, si infiltra in ogni angolo, alcune persone si affrettano a tornare a casa ricurvi nelle loro spalle, come per ripararsi dalla pioggia o dal freddo. Sono inspiegabilmente nudo, incomincio a correre in mezzo alla via e presto sento il fiato corto. Come mai non sono nella mia casa, non dovevo andare in bagno?, che ci faccio ridotto in questo stato, e chi mi ha condotto qui, per quale misterioso maleficio ogni volta mi ritrovo a correre nudo. Chiedo ad un anziano passante dove posso soddisfare i miei bisogni, se c'è nelle vicinanze un luogo adatto. Mi indica un dedalo di viuzze, mi incammino ma inutilmente, non riesco a trovare ciò che cerco. Vago senza meta, col dolore al basso ventre; l’urgenza fisiologica si fa sempre più impellente. Ho vergogna di correre nascondendo con le mani le mie nudità; la gente si volta a guardarmi, i pochi ragazzini che incontro si girano e sorridono con ironia. Cosa mi succede? Sono sudato, le gambe mi tremano e il cuore mi batte in gola, lo sento scoppiarmi nel petto. Ho paura.
Apro gli occhi e mi sveglio. Dove mi trovo? Ah, si, adesso capisco, sono nel mio letto. Sto ancora sognando il solito maledetto incubo che mi terrorizza da anni. Non riesco a percepire il mio corpo nello spazio, né la stanza intera. E il bagno, dove si trova? Riesco a restare calmo e riflettere. Dunque: devo alzarmi, percorrere la lunghezza del letto e trovarmi di fronte alla porta. E’ aperta. A sinistra c’è il bagno. Ecco, adesso riesco a ricordare la mia casa. Continuo a tremare, le gambe non me le sento più. Ho ancora paura, ma non voglio svegliare la mia compagna che mi sta accanto. Allora, mi alzo? Riesco a fatica a scendere dal letto, al buio mi avvio in bagno, secondo un percorso già noto e rifatto da oltre dieci anni. Sono in bagno. La finestra dalla quale domino l’intera valle rimane sempre aperta. Ci sono le luci della città e come al solito non ho bisogno di accendere alcuna lampadina. Ci vedo benissimo. Mi scopro nello specchio insonnolito e col viso disfatto. Ma non dovevo urinare? Come mai quell’urgenza è passata? Ritorno a letto. Stavolta mi metto sotto le coperte, anche se fa caldo. Ho la sensazione che qualcuno mi debba da un momento all’altro afferrare per la gola e soffocarmi. Mi giro e mi rigiro nel letto senza trovare requie. Le campane del Santuario di Sant’Anna danno due tocchi. Siamo in piena notte. Come faccio a far passare altre cinque ore? Penso che sia fatto di niente, di troppe paure. Cerco di pregare ma non ci riesco. Viene spontaneo pregare quando si ha paura. Sono giorni questi che sono molto lontano dal mio Dio. Devo fare tutto da solo, senza il conforto di nessuno. Ho deciso di tenere in mano le redini della mia vita, senza delegare niente a nessuno.
Non ho bisogno di nessuno. Me lo ripeto sotto le coperte che mi fanno sudare. In oltre cinquant’anni, possibile che non ci sia niente di buono nella mia vita? Ripercorro i miei giorni, mi aiuto anche con i racconti che ho già scritto. Ripenso ai miei due migliori amici, Orazio e Salvatore, il biondino. Con Orazio siamo in contatto epistolare e ci incontriamo almeno una volta all'anno. Leggere le sue lettere mi da’ una straordinaria forza interiore, la voglia di affrontare la vita con serenità e fiducia. Insegna a Conegliano Veneto, ha la sua famiglia, mentre Salvatore è rimasto in Sicilia e ne ho perso le tracce. Non ha voluto emigrare e trovare un lavoro perché senza la visione quotidiana dell’Etna diceva di non poter vivere. A pensarci bene, non sapremo mai chi ha avuto ragione. E se anch’io fossi rimasto in paese, che uomo sarei oggi? Cerco di smetterla con questi “se” e mi convinco che ho un bel lavoro, che riempie tutti i giorni della mia vita, un lavoro che non mi da’ tregua notte e giorno. Eppure sto ancora sudando, ho paura. Cosa mi succede? Il sogno ricorrente di urinare e correre per le stradine del mio paese, in Sicilia, nudo come un verme, è un sogno che mi angoscia, ma non so spiegarmelo, né tento di andare da uno psichiatra o uno psicanalista. Che cosa devo raccontargli, le mie fobie, le mie ansie? A che scopo? E poi non credo che questa gente possa guarirmi dai miei turbamenti. Ci devo pensare da solo.
Sono già le cinque, le campane continuano a suonare ogni mezz’ora.
Il bilancio della mia vita è allora così fallimentare?
E perché, stranamente, quando penso che la morte mi possa raggiungere da un momento all’altro mi quieto e divento come un mare in piena bonaccia? Da dove mi giunge questo disincanto? Tutto ciò che rattrista gli uomini, a me fa l’effetto contrario, che strano! Forse perché la morte nella mia carriera l’ho vista in faccia decine di volte. Decine di volte ho visto morire uomini, spegnersi lentamente, respirare per l’ultima volta e chinare il capo. La morte è uno di quegli eventi che conosco meglio, so come si comporta, come mi potrebbe prendere, anche se non so con certezza dove mi condurrà. Ma sono un credente e spero un giorno, espiato le mie colpe, di camminare, se Dio vuole, su un immenso prato di luce variopinta, veleggiare su un arcobaleno. Se così non fosse sarebbe davvero triste.
Sono già le sette. La mia compagna si sveglia, crede che io dorma e come il solito si alza con la delicatezza di una libellula. Non la sento camminare per la stanza né percorrere il lungo salone.
Sta per iniziare una nuova giornata. Devo nascondere ancora una volta tutto, le mie debolezze e i miei dubbi, perché il mio lavoro non consente incertezze di nessun genere.
Avverto, come ogni mattina, che l’inquietudine mi divora la carne.
Finalmente mi alzo, accompagnato dal rumore del caffè che viene su.
Un giorno, in un sentiero
L'estate è alle porte, e in Sicilia il caldo non ha bisogno di giungere a questo punto del calendario per farsi sentire. Già al mattino, in certi giorni, il respiro è affannoso alle prime ore, e molta gente si prepara al calvario con santa pazienza, quasi ad una crocefissione continua, che spezza le gambe e la volontà. L'inerzia ha un suo motivo d'essere in Sicilia, e l'unico modo per ovviare e non sentirsi inutile e perditempo, è quello di mettersi in sella ad una bicicletta, o anche a piedi, e raggiungere il Simeto, dare uno sguardo al giardino, al proprio agrumeto, sentirne il polso, le pulsazioni del cuore, controllarlo come farebbe un medico col malato, sentire se ha ancora, come ieri, il profumo tipico di zagare e ritrovare il giusto respiro, che non sia affanno.
Le strade che portano fuori, verso la piana di Catania, sono tante, in tutte le direzioni, in leggero pendio che favorisce l'andatura. Quella mattina anche un ragazzo si avviò verso la piana, verso la diga di Pietralunga in costruzione, una centrale idroelettrica visibile da lontano per il colore verde della grande conduttura. Attraversò il quartiere e si avviò verso la discesa che porta alla stazione di San Marco, uno scalo commerciale dove vengono caricate le arance che raggiungeranno tutte le parti d'Italia. Al bivio doveva solo proseguire diritto e costeggiare il greto del fiume sino a Pietralunga, appunto, così gli aveva detto la mamma prima di consegnare il piccolo fagotto con il pranzo. Portava infatti con sé la gavetta che nella fretta del mattino, stavolta, suo padre aveva dimenticato sul tavolo della cucina, e non poteva, un uomo, lavorare otto o dieci ore senza mettere qualcosa sotto i denti. Spettava a lui portare il pranzo, anche se la centrale elettrica di Pietralunga era distante molti chilometri. Un paio di pantaloncini corti, aveva ancora l'età per indossarli, una maglietta e un paio di sandali e si avviò fischiettando, sapendo di fare un servizio meritevole, da buon figlio qual era. Costeggiò il sentiero appena al di là del canneto che chiudeva il fiume nel suo alveo, odorò tutti quei profumi, si fermò a raccogliere dei fili d'erba, qualche narciso e lentamente si avviò immerso nei suoi pensieri di ragazzo sveglio e vivace.
Ogni terra ha i suoi fiumi, pensò, e i suoi fili d'erba, che sembrano tutti uguali e invece niente, ognuno è diverso dall'altro, sono le apparenze che ci ingannano. Ogni terra, pensò poi, ha le sue pene e la sua quiete, ogni pianta, anche la più piccola, ha le sue radici. Chissà, ancora non lo sa per la giovane età, se anche gli uomini hanno delle radici dove trarre linfa vitale, il respiro per vivere giorni ora sereni, ora magari tribolati. Ebbe quasi paura di certi pensieri sparsi e favoriti dal silenzio, si accorse che stava andando oltre, in un terreno non suo, ma amava volare in alto per poi lasciarsi cadere senza rimorso, tanto non avrebbe sentito dolore, non si sarebbe rotto alcun osso, questo lo aveva già sperimentato. Sapeva che ancora aveva una vita da vivere, aveva solo undici anni, e molte erano le cose che doveva vedere e filtrare, molto doveva gioire e patire, come tutta l'umanità del resto, come ogni essere a questo mondo. Nessuno è immune al dolore e alla gioia. Anche se la sua mente viaggiava in un'altra dimensione, il ragazzo non aveva paura, si sentiva fiero di essere uno dei tanti, di trovarsi lì a respirare, a camminare, a fischiettare o a cantare, questo dipendeva da lui se fare una o l'altra cosa, a poter guardare la luce del sole e il fiume, le montagne dell'altra riva così arsa che sembra nessun uomo l’abbia mai calpestata. Chissà chi è che permette questa diversità, di qua l'erba verde e rigogliosa e di là le pietre nude e senza senso, chi permette che tutto muti e si ricominci sempre, chissà perché tutto ciò che oggi fa parte di noi, domani non debba esistere e ci si debba adattare ad un altro mondo, altro linguaggio, altro sentire comune. Cos'è questo continuo percorrere lunghi sentieri, affannarsi, cambiare: è la vita stessa che vive, che si nutre delle nostre contraddizioni e delle aspirazioni umane? E perché allora esiste il disagio della nostalgia, un giorno il ragazzo la proverà come tutti gli altri, considerata come l'anticamera se non della morte almeno di quel disincanto che toglie ogni risorsa alla volontà?
Scusate se mi intrometto. Voglio dire la mia, anche se sono un ragazzo, perché vedo che state parlando di me.
Avrò anch'io, un giorno, la nostalgia di questo breve tragitto, di questo sentiero, avrò nostalgia di questi odori, di questa luce abbagliante mitigata dai colori di questa natura così verde, avrò nostalgia della mia giovane età, di cos'altro ancora avrò rimpianto? Sono un ragazzo, è vero, ma vedo chiaramente come sarà la vita nei suoi tratti essenziali, perché vedo mio padre e mia madre, misuro ogni loro giorno, ogni loro pena, e non penso che la mia sarà diversa dalla loro, che è pura immaginazione il solo pensare che potrò uscire dall'alveo assegnato alla famiglia dal destino.
Qualcuno me lo dica già adesso per favore, se porterò queste immagini sempre con me, in qualche parte del mondo, i volti di questi contadini che incontro, di questi pescatori di fiume, i colleghi di mio padre, se mi accompagneranno per tutta la vita ovunque andrò o se mi verrà in aiuto la dimenticanza, quella che potrà placare un giorno questo cuore che già avverto di una carne diversa, più insanguinata. Vorrei, questo sì, essere un ragazzo come tanti altri, spensierato, desideroso di giocare e lavorare, essere accanto ai miei nei momenti di bisogno, collaborare, di vivere insomma la mia età senza troppi pensieri, accanto ai miei coetanei e crescere secondo le disposizioni della natura, senza forzature, come la terra richiede e pretende. Sono giovane, questo sì, lo sarò ancora per molto, avrei la forza, come dice mio padre, di fermare il tempo e il sole come Giosuè, ma non ne sento la necessità, o meglio non penso a queste allusioni, adesso i miei bisogni sono altri.
Se un giorno dovessi ritornare in questa terra, fors'anche in questo stesso sentiero, magari da solo come lo sono adesso, non so se guarderò ancora l'orizzonte, se ne avrò il coraggio, se sarà un vano rincorrere di sensazioni, solo percezioni, un rimescolare le carte per quietarmi uno o due giorni, o se nella realtà nulla cambia se non per i nostri occhi e il nostro cuore.
Il ragazzo giunse in tempo per il pranzo, consumato assieme al padre, poi riprese la via del ritorno. Si fermò al mulino juncho per riposarsi e mettersi al riparo dal sole cocente, entrò e salutò il papà di un suo amico che sapeva lavorava lì da molti anni, fece in tempo anche ad imbiancarsi i pantaloncini di farina, e con l'animo leggerò si avviò verso casa, la mamma lo aspettava per il primo pomeriggio. Rimase nella penombra della sua stanza, sdraiato sul letto con le braccia incrociate dietro il capo e gli occhi persi a guadare il soffitto. Aveva negli occhi le lunghe ore trascorse in silenzio, perché in silenzio si era affacciato, senza protezione alcuna, ad affrontare, capire, le prime vibrazioni che provenivano da quel piccolo cuore.
Vita di quartiere
Il bambino esce di casa appena sveglio, dà una fugace occhiata se gli amici sono già in istrada ad aspettarlo, in quel caso li raggiunge e inizia a giocare, il suo lavoro è questo, nell'attesa che compia i sei anni necessari per frequentare la scuola elementare, se non vede alcuno, allora fa ritorno in casa e aspetta che la colazione sia pronta, latte e pane raffermo oppure, adesso che sta per iniziare la primavera, granita bianca, alle mandorle. Preferisce però qualcosa di caldo, quel dolce piacere che gli rimarrà per tutta la vita, la voglia di tepore sempre e ovunque. Quest'ultimo anno di spensieratezza, quindi, se lo gode a piene mani, dalla mattina alla sera, sporcandosi dalla testa ai piedi, con le sole mutandine bianche cucite dalla mamma o con i calzoncini corti, non ha importanza, davanti casa, nella strada sterrata, dove ancora non ci sono auto, solo biciclette e qualche moto, e la mamma è serena in casa a riordinare con le finestre spalancate al primo sole di primavera, con l'aria fresca che rinnova ogni cosa, asciuga i muri e placa lo spirito. Ama inoltrarsi nella piccola macchia mediterranea che circonda le case di periferia, al di là del muretto, dove passa la ferrovia, ma non oltre la curva però (la mamma gliel'ha vietato), dove i binari scompaiono e si inoltrano chissà dove, in una terra lontana, misteriosa agli occhi del bambino, un mondo, ed è solo oltre la curva, che non sa e non può immaginare. E questo senso di smarrimento davanti all'ignoto gli rimarrà sempre, anche quando sarà con i capelli bianchi e avrà i nipotini che gli chiederanno di raccontare la sua giovinezza; questa sensazione, simile ad una debolezza, non la dirà mai a nessuno, quei binari neri, lunghi, infiniti, che ad un tratto scompaiono e non si sa dove finiranno, quali paesi attraverseranno, quali odori porteranno: tutto un mistero, sebbene piccolo, il primo che albergherà nella mente di questo bambino, il primo di una lunga serie.
Il sole non è ancora alto sull'orizzonte, ma la luce è già intensa, la luce del mattino in Sicilia ha i colori del diamante, soprattutto in questo periodo dell'anno, con gli alberi che sembrano stiracchiarsi dopo il lungo sonno dell'inverno, una luce non accecante però, com’è solita nelle prime ore del meriggio, quando ad aprire gli occhi si prova quasi dolore. La luce di queste ore del mattino ha ancora voglia di esplodere, ma è come incatenata, costretta ad aspettare, nell'attesa che giunga il momento buono per dire della sua forza, per lanciare l'urlo della sua potenza, quando, allora si, non darà più respiro all'umanità che si trascinerà radente ai muri in cerca di un filo d'ombra. Questa è l'ora in cui aprirà la sua bottega il falegname, all'angolo della via, metterà le assi appoggiate al muro, assieme alle porte e alle finestre che si appresterà, oggi, a completare. Lascerà però il bancale con le morse all'interno, al dolce fresco dove lavorerà con gli altri macchinari, mentre la colla il garzone la preparerà come tutte le mattine fuori, sul marciapiede. Si fermeranno gli anziani del quartiere a salutare il giovane falegname che da qualche anno ha rilevato la bottega di mastro Cirino, i vecchi sosteranno qualche minuto o qualche ora, per loro il tempo non ha importanza. A una certa età si vive nell'attesa della morte, anche se si vorrebbe non venisse mai, una contraddizione in termini di logica. La merceria invece è aperta dalle prime ore del mattino, forse c'è già buio, non si sa, quando donna Nunziata apre e si mette dietro a servire le donne del quartiere, latte e pane, e poi pasta e formaggi. Ci si va due o tre volte nell'arco della giornata, è come una continua preghiera, un rivolgersi continuamente a Dio per scandire così le varie fasi della giornata. Il mattutino, i vespri e la compieta, un susseguirsi di riti che scandisce la vita in questo quartiere, un quartiere comune come a tanti altri.
Il bambino adesso rientra piangendo, con le ginocchia ferite da una caduta accidentale, o forse da un salto inopportuno, forse ha litigato con qualcuno, meno probabile, ma pur sempre possibile che ad una certa età i contrasti divengano subito evidenti e difficili da risolvere. Il pianto si confonde con l'abbraccio della mamma, si risolve così ogni controversia, si fa ritorno in strada rinfrancati, con gli occhi che misconoscono le lacrime e con la voglia di riprendere il discorso lasciato in sospeso, ovvero l'insostituibile gioco.
Si vede passare il carrettiere con una quantità spropositata di mattoni che andrà a scaricare chissà dove, siamo circondati da piccoli misteri, ognuno nel suo piccolo custodisce qualcosa che altri non sanno, e molte volte vorrebbero non sapere. Solo i vecchi, quelli che nelle mattine d'inverno si vedono appollaiati al sole, in un angolo della via, ognuno con la propria sedia, a giocare a carte, mentre adesso ch'è primavera e fra poco sarà estate, la loro porzione di strada è là dove sosta l'ombra, solo i vecchi non hanno angoli da nascondere, nemmeno a volerlo, perché la vita di ognuno di loro è patrimonio comune di tutti, nel quartiere si è così, e non solo bisogna accettare queste regole per vivere serenamente gli ultimi giorni, ma bisogna fare di tutto perché sia così, perché il corso assegnato dalla storia sia vissuto senza intralci.
Davanti alla porta si presenta il venditore di olio, oggi è il suo giorno settimanale, si ferma davanti all'uscio, misura la sua porzione di olio d'oliva e lo versa nell'imbuto che sovrasta la bottiglia da un litro poggiata per terra, sulla nuda terra. Lo lascia scolare sino all'ultima goccia e nell'attesa fa i conti, intasca le poche lire e conserva tutto nel portamonete, nella tasca dietro dei pantaloni. Quest'uomo odora di olio sin dentro il midollo, lo si riconoscerebbe fra un milione di uomini pur ad occhi chiusi. Don Vito è un omone grande e grosso, così lo vede il bambino, che già comincia a misurare tutto ciò che gli si presenta, un rendere familiare le dimensioni di ognuno, ché un giorno servirà anche questo.
Anche il ciabattino, che questa mattina mette il suo banchetto per la prima volta davanti la soglia di casa, impreca che è già tardi e con questi ritmi non riuscirà a consegnare per stasera gli scarponi da lavoro ai contadini e ai muratori del quartiere, unici suoi clienti. Ha già pronto il banchetto, e sta piegato in avanti, con un grembiule di tela cerata, con lo stampo della scarpa appoggiato sulle ginocchia, e inizia a martellare il cuoio, a forarlo con la lesina, ad inchiodarlo e quindi ad annerirlo ai bordi con il lucido. Prende il giusto ritmo, sereno, e infatti lo si vede fischiettare, segno inconfondibile che tutto procede bene, e che forse potrà essere puntuale stasera nella consegna. Alza lo sguardo raramente, quando qualcuno gli passa davanti ed è costretto, ma lo fa volentieri, a salutare, mentre smette di fischiettare e un leggero sorriso gli sfiora le labbra, pago di essere al mondo e di avere un lavoro, e per di più nel proprio quartiere, senza doversi spostare se non davanti l'uscio.
Poco prima di mezzogiorno si vede passare un piccolo corteo, con una giovane donna in prima fila a braccetto di un signore altero, con i baffi, vestito di grigio e una cravatta color argento. E' una sposa accompagnata in chiesa dal proprio papà. Una sosta al gioco ne valeva la pena, questa volta, per l'occasione sono loro, i bambini vocianti, il notiziario che va in onda nel quartiere, gridano la notizia nella via e tutto rimbomba di una gioiosa armonia; tutte le donne prima affacciate all'uscio di casa si portano all'angolo della via, ad assistere al corteo, ricordandosi quando erano loro le regine in passerella, quanto tempo è passato da quel giorno! Ammirano la sposa e iniziano i commenti, oh sì la sposa è bella, vestita, inutile sottolinearlo, di bianco e con un mazzolino di zagare in mano. Tutte le spose sono belle, sussurra la mamma del bambino. A lui tutto ciò piace, ma lo sfarzo, quel mettersi in mostra, quella strettoia obbligata dalla quale bisogna necessariamente passare, e senza scampo, per sposarsi, non l'accetta, sebbene sia ancora troppo piccolo per affrontare certi argomenti, ma alcune inclinazioni sono evidenti, ben evidenti già all'inizio, come un DNA visibile a tutti. Il bambino giura alla mamma, mentre è ancora in braccio, che non si sposerà, lui non sfilerà mai nel quartiere, ha troppa vergogna, spera che le condizioni cambieranno nel frattempo. Più che le condizioni dovrebbero cambiare i costumi, e si sa quanto sia difficile sradicare dalle tradizioni ciò che i secoli hanno consolidato.
Oggi per la prima volta i bambini del quartiere gireranno l'altro angolo della strada, anch'essa sterrata e senza veicoli, gente che si affanna a piedi, è questa l'umanità che vive in questo quartiere, andranno a visitare la fornace di mattoni dove mastro Ciccitto, uomo mite e parco di parole, lavora da oltre sessant'anni, fortuna che adesso ha quattro dei sei figli che lo aiutano in questo lavoro pesante e quasi senza tempo, andranno a curiosare quant'è duro lavorare, vedranno il sudore colare giù dalla fronte degli operai, scopriranno che la vita non è il gioco quotidiano, no, ma una continua ed estenuante salita interrotta da qualche isolata discesa, loro non lo sanno ancora, ma l'effetto che ne avranno sarà proprio questo, un primo confronto con la realtà che fra non molto li investirà. Faranno ritorno tutti nel pomeriggio, dopo aver giocato con della creta residua a impastare piccoli mattoni anche loro, e si soffermeranno davanti l'uscio di una abitazione dove qualcuno sta piangendo. Hanno capito che dentro è morto qualcuno. Il bambino cerca di sbirciare dalle fessure della porta semichiusa, gli altri sostano in silenzio, nell'attesa di avere qualche notizia dal piccolo esploratore. Si, è morto un signore anziano, ed è dentro, al centro della camera, le sedie disposte attorno e alcune donne ai lati che piangono. A volerci pensare bene sembrerebbe strano che al mattino si sia celebrato un matrimonio con tanto di corteo, e dopo poche ore un uomo dello stesso quartiere ci lasci. Ma la vita in tutte le sue manifestazioni ha sempre dei pesi e dei contrappesi, il male si equivale al bene, le gioie ai dolori, sicché a fine giornata la bilancia risulta sempre in parità, qualunque cosa succeda. Il bambino che abbiamo preso in prestito da questo quartiere per raccontare un giorno qualunque va a letto pensieroso (piccoli pensieri, per carità), ma più che pensare agli sposi, si sofferma sulla immobilità di quell'uomo su quel talamo in mezzo alla stanza, e ci penserà per molto tempo, sempre con pensieri adeguati all'età, perché tutto debba finire così, con un pianto.
Cecilia
Qualche settimana dopo che Giacomo Martorana e Clara iniziarono la loro convivenza, Cecilia, la figlia quattordicenne di Clara, venne ad abitare da loro.
Il rapporto tra Giacomo e Cecilia si rivelò non facile fin dal primo giorno. Era un’adolescente, andava per i quindici anni, ma mostrava già la tenacia e la durezza per considerare Giacomo un intruso, un estraneo che s’era preso la sua mamma e lei, e li aveva ospitati a casa sua, e per questo si sentiva quasi una deportata. E come un intruso considerò Giacomo per molti anni; sembrava soddisfatta nel vederlo taciturno perché non voleva contraddirla, mentre lei lo punzecchiava continuamente con battute al veleno che Giacomo ignorava puntualmente per non offrirle altro terreno di scontro. Non poteva rimproverarla perché non era suo padre e perché temeva che ogni intrusione nella sua vita non potesse fare altro che peggiorare ancora la situazione. La subiva passivamente.
A Cecilia piaceva sciare, i giorni festivi della sua fanciullezza furono tutte dedicate alla sua passione per la neve. La mamma si era fatta carico di accompagnarla tutte le domeniche, già quando era ancora una bambina, su per le montagne intorno al paese, e, infatti, aveva imparato a sciare bene e ad essere anche una spericolata, soprattutto nei tratti ripidi, dove si svincolava dalle catene virtuali della famiglia, e creava da naif la sua discesa libera.
Libera come lo era lei. Non amava restrizioni, non amava le regole e non amava le imposizioni. Era come se il suo corpo sentisse il bisogno di confutare le parole, ogni parola, specialmente se fosse stato Giacomo a pronunciarle. Ascoltava solo Clara, le parole della mamma erano vangelo assoluto che rispettava, anche se molte volte le accettava con rabbia, ed era in questi momenti di contrasto le uniche volte che si lasciava andare a pianti brevi nella sua stanza, senza fare rumore, perché del pianto aveva vergogna.
Giacomo in quel periodo non interveniva nemmeno, sapeva che era un estraneo per lei, che non avrebbe accettato nemmeno le parole più sensate di questo mondo, quindi taceva, un silenzio che gli pesava perché era il timbro di una frustrazione di uomo e di padre adottivo insieme. Non essere riconosciuto nel suo ruolo fu il suo cancro per molti anni.
Quella diagnosi di cancro che inaspettatamente investì anche lei.
Fu nel magio del 2000, aveva appena quarant’anni, che un episodio imprevisto, oltre che doloroso, cambiò radicalmente il rapporto con Cecilia, e Giacomo iniziò, in quei mesi, a diventare davvero suo padre, come una pasta che lievita piano sotto le coperte calde.
Fu un episodio devastante per lei, la mamma, e non di meno anche per Giacomo, che durò anni sulla carta, ma che nella realtà perdura ancora e resterà forse per sempre come un’etichetta metallica o un tatuaggio. Si resero conto, nello spazio di pochi giorni, che nessuno a questo mondo è immune al dolore, e che quando ti sovrasta in modo improvviso, inatteso, è un macigno che non riesci a muovere.
Tutto avvenne il giorno programmato per il controllo clinico generale, cui Cecilia si sottoponeva scrupolosamente una volta all’anno, quando rientrava dal lavoro dall’estero, che prevedeva un’ecografia mammaria e gli esami ormonali. Quel mattino Cecilia venne accompagnata dalla mamma in una clinica privata della zona. Era un giorno primaverile, e quel tepore che li avvolgeva dava un senso generale di benessere e di quiete interiore. Benessere e quiete che si rivelarono un miraggio. Clara, infatti, rientrò a casa solo nel tardo pomeriggio, dopo aver accompagnato Cecilia nel suo appartamento, in centro città, e lì era rimasta per qualche ora, e quello che si dissero, e con quale stato d’animo, Giacomo lo ignorò per sempre. Rincasò seguendo delle scorciatoie nel traffico della città, percorrendo corso Torino e la rotonda di largo Leonardi e quella adiacente di largo Cantelli. Poi girò a destra per via Galilei e percorse il sottopassaggio della ferrovia; era già sulla via di casa, si lasciò il centro commerciale sulla destra mentre sulla sinistra, ad ovest, c’era la pianura e il riso era tutto un prato verde sconfinato. Quel verde non le suscitò, quella volta, nessun senso di pace. Quando arrivò la senti parcheggiare, era seduto sul divano ad ascoltare musica classica in penombra, ascoltava la Moldava di Smetana; quella sinfonia con note eteree, sfuggenti, come un canto proveniente da terre lontane, gli dava una sensazione di pace e di quiete. Aprì il portone di casa e si sentì felicemente predisposto a riabbracciarla.
- Ciao, disse, com’è andata?
Clara non rispose al saluto, com’era solito fare. Non era nel suo stile non rispondere. Si tolse le scarpe nello stanzino predisposto a sinistra dell’ingresso, indossò le pantofole e accese le luci delle scale. Quel suo silenzio cominciò a gridare forte, tremarono anche i muri, e un freddo gelido scese nell’intera casa. Molte cose che avvengono non hanno bisogno di parole, le parole sono vane, solo suoni indistinti e senza senso, quando il cuore ha già capito dall’odore dell’aria intorno. In quel preciso istante Giacomo ebbe la conferma che qualcosa era successo. La vide sbiancata in volto, insicura e instabile sulle gambe, invecchiata di anni in poche ore.
Salì appoggiandosi al muro mentre lui l’aspettava a braccia aperte, su per le scale, - Cecilia ha un tumore alla mammella sinistra, rivelò piangendo.
Poi continuò, mentre Giacomo non trovando la forza di rimanere in piedi, si sedette sull’ultimo gradino con la testa tra le mani. Mentre saliva le scale con passo incerto, sconvolta, cominciò a interrogarsi come fece dieci anni prima, e come dieci anni prima non ritrovò nessuna risposta che la calmasse.
- Perché, perché Dio non manda a me questo cataclisma che inizio ad invecchiare e lascia in pace mia figlia? Ne dobbiamo perdere un’altra, così giovane? Non basta aver pagato col sacrificio di Ilaria?
Come altre volte, anche in quel momento videro solo buio, le scale erano piene di nebbie e di fantasmi.
Clara si sedette sul gradino insieme a Giacomo, forse cercava riparo dalle cannonate che sentiva sibilare sulla sua testa, era distrutta, inquieta, le lacrime non erano altro che sangue svilito. In certe occasioni non è facile essere lucidi e guardare oltre il dolore.
Cercò di tenerla stretta a sé, passando il braccio destro sulla sua spalla, ma notò che Clara era lontano, irraggiungibile.
Passarono molti minuti, ognuno nel proprio silenzio, perduti nel vuoto, poi faticosamente raggiunsero la cucina e ci sedettero uno di fronte all’altro, entrambi frastornati, alla ricerca di una soluzione immediata che sapevano però di non poter trovare.
- Non illudiamoci più Giacomo. La cosa migliore sarebbe vivere giorno per giorno, disse Clara, sostenuta dal suo realismo nonostante la situazione obiettivamente difficile.
Avevano paura di affrontare un lungo percorso, paura di un calvario di cui nessuno dei due conosceva né il tragitto né le conseguenze.
Nei giorni seguenti Cecilia diede le dimissioni dal lavoro in Francia e si preparò a quel lungo percorso di terapia e di terrore, di continue ricadute e di depressioni, ma anche di altrettante consolazioni, spesso in momenti inattesi.
Cecilia in quei giorni dolorosi fu abbandonata dal suo fidanzato, il quale si mostrò incapace di portare con lei quel pesante fardello. Del resto non tutti riescono a condividere gioie e dolori, molti preferiscono condividere solo le gioie e i momenti di felicità, per il resto, se giunge un’ondata inaspettata in pieno viso come quella che subì Cecilia, si preferisce ignorare e tirare avanti per la propria strada. Non era l’unico e non sarebbe stato l’ultimo.
Per Cecilia fu un ulteriore colpo mortale, un'altra diagnosi di cancro associata. Ma aveva dentro di sé delle risorse coperte da uno strato di polvere e quindi non visibili. Quella diagnosi tremenda, e a quell’età, la ripulì di ogni sovrastruttura, mise a nudo tutto ciò che c’era da mettere a nudo e poterono così vedere coi loro occhi, sia Giacomo sia Clara, chi era veramente Cecilia, la forza inattesa di cui era dotata.
Seguì un iter diagnostico preciso, scrupoloso e all’avanguardia. E fu quello il periodo in cui cominciò a metabolizzare il nuovo stato e si armò di una corazza impermeabile.
Pianse solo in quegli attimi che precedettero l’ingresso in sala operatoria, esattamente un mese dopo la diagnosi. Giacomo si raccomandò con la dottoressa di fare un bel lavoro, lei lo calmò con parole dolci, era una ragazza giovane, piccola di statura, capelli neri e corti, e gli confidò che di quei casi ne vedeva purtroppo a cadenza settimanale.
Si accomodarono in sala d’attesa e lì rimasero in silenzio per circa due ore, poi Cecilia fece ritorno in corsia e poterono parlare con la dottoressa. Li ricevette nel suo studio, una piccola stanza con un lettino e un tavolo con un computer. Il sole estivo entrava dalla finestra, attenuato da due tende bianche.
Disse loro subito il dato più importante, e cioè che il linfonodo sentinella era risultato negativo all’esame istologico estemporaneo, e a quelle parole furono come risollevati da un peso, sebbene piccolo. Parlò anche di casi clinici identici a quello di Cecilia, dei tanti giunti alla sua osservazione, ed entrambi ebbero l’impressione che parlasse esclusivamente per donare loro un po’ di conforto.
Si salutarono con molta cordialità e uscirono dalla stanza..
Quando furono fuori, in corridoio, Giacomo prese Clara sottobraccio e la condusse in sala d’aspetto, dove rimasero entrambi in silenzio, in attesa che Cecilia si svegliasse totalmente dall’anestesia.
Giunse il momento che Clara si alzò e andò in corsia. Rimase in silenzio seduta accanto al letto di Cecilia ancora sotto narcosi. Giacomo rimase in corridoio, lo sguardo a terra, a misurare i passi, avanti e indietro per chissà quante volte, e chissà quante volte cercò di immaginare la fine di tutto, cosciente però che erano ancora all’inizio del percorso. Quel pomeriggio si rese conto che ad ogni male la vita trova sempre il suo rimedio.
Trascorsero due anni ininterrotti, tutti uguali, tra terapie e controlli clinici, tra corridoi d’ospedali e sale d’attesa. Il buio di certi giorni si alternava a sprazzi di luce, e così vissero in coabitazione con la malattia di Cecilia e capirono la semantica del lemma “cancro”, ovvero sofferenza quotidiana con un ostacolo sempre davanti da superare.
Paradossalmente, quando era in ospedale si sentiva protetto, ma a casa era un continuo calvario, fino a che dovette consultare un medico il quale gli prescrisse degli ansiolitici.
Quando usciva al mattino, infatti, spesso si scopriva con la voglia di gemere come un agnellino abbandonato per questa figlia che poteva trovarsi sull’orlo del baratro da un momento all’altro, perché nonostante tutto nessuno poteva dargli delle certezze. Clara invece puntualmente lo rimproverava, chiedendogli di smetterla di piangere, e soprattutto doveva evitare di farsi vedere da Cecilia in quelle condizioni. Non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, e di tutto aveva bisogno la ragazza, tranne di vederli afflitti e sconfortati.
Vedeva che Clara, per fortuna, non aveva perso la sua intransigenza, la sua dirittura morale, la forza di non abbandonarsi alle lacrime. Giacomo invece era un uomo inadatto a sopportare altro dolore.
Cecilia col tempo riusciva persino a calmarlo quando veniva a trovarli a casa, gli ripeteva che era inutile intristirsi e rovinarsi la vita, e che lei ormai stava avviandosi verso la guarigione, anche se le terapie per via orale prevedevano un protocollo di molti anni. Aveva una fiducia smisurata, o almeno quello era ciò voleva trasmettere.
In questo assomigliava alla mamma, mai un accenno di mancamento anche quando la brutalità della vita ti sbatte in faccia un corpo contundente con la violenza d’un uragano.
Da allora, il rapporto tra Giacomo e Cecilia mutò consapevolmente, e divenne il rapporto tra padre e figlia, quel rapporto cercato per tanti anni e mai avverato davvero.
Dopo tanti anni di convivenza, costellati da dissidi e tormenti, incominciavano a scorgere in lontananza la fine di un lungo tragitto che solo anni prima sembrava infinito. Vedevano tutt’e tre la fine del tunnel, l’uscita verso la luce, con un’altra cicatrice addosso, altro tempo perché tutto rimargini con calma, se rimarrà ancora del tempo.
Una sera, dopo qualche anno, quando Cecilia riprese il suo lavoro all’estero e tutto era ritornato pressoché nella norma, Clara stava mettendo in ordine la cucina, subito dopo cena, Giacomo la chiamò e la invitò a sedersi accanto a lui, sul bracciolo della poltrona; aveva una richiesta da farle, una di quelle a cui ci pensi per caso e poi ci rifletti per giorni e giorni, un pensiero che per anni non aveva mai nemmeno concepito.
Lei venne, si sedette vicino intuendo che aveva una richiesta particolare, intima.
- Cos’hai da dirmi di così importante?
- E’ da giorni che ci penso, Clara, da quando Cecilia è ritornata in Francia e noi due siamo ritornati ad essere sereni.
- Dimmi, e gli passò la sua mano sui capelli; Giacomo sapeva che quel gesto era un gesto affettuoso, una vera rarità per lei. Non avevano dimenticato il loro linguaggio fatto più di gesti che di parole.
- Sono ventisette anni che stiamo assieme, e siamo stati bene, davvero bene. Che ne dici se ci sposassimo dopo tanto tempo?
Ebbe un leggero sorriso, si alzò dal bracciolo della poltrona, si posizionò ferma davanti a lui, lo guardò, devo pensarsi, gli disse, lasciami un po’ di tempo. Poi aggiunse, quando era già ritornata in cucina, Come mai questa idea, non ne abbiamo mai parlato, perché proprio adesso?
- Mi avvio verso i sessant’anni, disse, me ne mancano ancora pochi, mi sembra giusto regolarizzare la nostra posizione. Non mi sembra poi un’idea così balzana. E poi finalmente sarai la signora Martorana, che non è poco, aggiunse con tono ironico.
Lei rise, vedeva che la sua proposta non le dispiaceva affatto, le leggeva in volto una nota di felicità che erano anni che non la distingueva. Giacomo Martorana era felice.
Quando finì di sistemare la cucina, pulire il parquet con uno straccio inumidito, si presentò dritta e ferma davanti al divano dove Giacomo era ancora seduto davanti al televisore, Si, ma ad un patto, disse decisa.
- Hai già deciso? credevo avessi bisogno di più tempo, disse stupito.
- Certe decisioni non necessitano di molto tempo, lo sai come sono io.
- Che patto dovrei accettare, riprese con tono scherzoso
- Ci sposeremo da soli, senza nessuno accanto, solo due testimoni e in un luogo lontano.
- Dimmi cos’hai in mente. Quando parli così vuol dire che hai già pensato a tutto.
- Si, rispose decisa
- Allora fai che dirmi le tue condizioni.
- Ci sposeremo il cinque di maggio sul lago di Garda, dai nostri amici di Malcesine.
- Malcesine, il cinque maggio? Proprio il cinque maggio?
- O così o niente, replicò decisa. E nessuno deve venirne a conoscenza, né Cecilia, né i parenti tutti. Quando ritorneremo ne daremo notizia.
- Allora ci sarà da fare un programma accurato, dissi. E in fretta. Siamo a fine gennaio, se iniziamo a parlarne con Germano e Marianna, e richiedere i documenti, forse potremo fare in tempo.
Telefonarono ai loro amici a Malcesine, i quali rimasero gratificati dalla richiesta di fare da testimoni. Loro li conoscevano da tanto tempo, erano amici fidati, e la possibilità di averli almeno una settimana loro ospiti li rese felici. Avevano una villa sul versante veronese del lago, sulla strada che giunge fino al monte Baldo, in una posizione panoramica davvero unica.
Il giorno dopo Giacomo aveva un giorno di riposo, così si recò in municipio e chiese qual era la prassi da seguire.
L’impiegata dell’ufficio fu molto gentile, una ragazza bassa di statura, con qualche chilo in più ma aveva un viso grazioso, coi lineamenti dolci e gradevoli. Quando ascoltò la sua richiesta, gli parve avesse voglia di dirgli confidenzialmente “finalmente!”, ma non replicò. Gli diede tutte le informazioni necessarie e cominciò la trafila burocratica del caso. L’impiegata lo assicurò che sarebbe stata lei stessa a spedire la documentazione al comune di Malcesine.
Alcuni giorni dopo Giacomo si preoccupò solo di telefonare in comune per prenotare la sala presso il Castello Scaligero, dove si svolgevano le cerimonie col rito civile.
Raggiunsero Malcesine due giorni prima, controllarono che tutto fosse a posto, Clara indossò il nuovo abito e lo mostrò a Marianna e a Germano, i loro due testimoni. Chiesero in quale ristorante sarebbero dovuti andare dopo la cerimonia, poiché erano stati loro a prenotare nelle settimane precedenti. Il ristorante prescelto era in riva al lago, con un prato all’inglese davanti, ben curato, e una sala all’interno molto elegante. La scelta di Germano piacque molto.
Al mattino del cinque maggio Clara sembrò un po’ agitata, Giacomo invece era calmo e di buon umore, e accettò di buon grado anche qualche sgridata di Clara, che gli ripeteva di non intralciarla.
Impiegò più del solito per sistemarsi un leggero trucco agli occhi, un tocco di rossetto opaco, che Giacomo contestò puntualmente, poi prese il suo bouquet di fiori e si avviarono verso il Castello, dove furono accolti dal sindaco e da un’impiegata dell’ufficio anagrafe.
Scambiarono cordialmente alcune frasi di rito, poi diedero avvio alla breve cerimonia.
Erano in piedi davanti ad un lungo tavolo di legno, dietro il quale stava l’officiante e l’impiegata. Dietro di loro una grande vetrata, dalla quale si scorgeva la sponda bresciana e i numerosi windsurf che solcavano le acque del lago, spinte da un vento regolare che al mattino soffia da Riva del Garda verso sud, verso Sirmione.
Il sindaco lesse alcune norme che Giacomo non ascolto nemmeno, pronunciò la fatidica frase se voleva Clara come moglie e lo stesso fece con lei. Poi infilò la fede al suo dito e lo stesso fece lei . Clara firmò per prima il registro delle unioni civili, poi toccò a Giacomo.
Alla fine della cerimonia ci furono le strette di mano con i due funzionari, i quali gli regalarono un acquerello del Lago, e quel quadro adesso sta accanto al camino con la sua cornice.
Rimasero ospiti degli amici ancora alcuni giorni, poi fecero ritorno a casa, dove la vita ricominciò come sempre, poco era cambiato.
Qualche settimana dopo ricevettero un pacco proveniente dalla Francia: era un piccolo regalo inviato da Cecilia. La mamma si commosse, mentre Giacomo gli diede il valore di una definitiva pacificazione.
Il treno
Oggi ho deciso, vado in città in treno. Utilizzare questo mezzo di trasporto ha i sui vantaggi: si risparmia, ci si riposa, si ha la possibilità di leggere, di scrivere se si è avuta l’accortezza di prendere qualche foglio di carta e una penna, e di guardare il paesaggio dal finestrino, che poi non è così male come lo si vuole dipingere. Sì, è vero, è piatto e quasi monotono, ma se è per questo anche il mare è piatto, quindi non mi sembra un buon motivo per considerare l’alta pianura padana indegna di qualche sguardo più approfondito. E poi in questo periodo le risaie, che incontrerò a metà percorso, sono di colore giallo oro, c’è il riso maturo, pronto per la raccolta, e il colpo d’occhio che offrono non è per nulla disprezzabile. Il verde di questa tarda primavera era un’altra cosa, ma si sa che la natura ha i suoi tempi e riserva le sue bellezze a poco a poco durante tutto l’anno.
Stamattina poi il sole splende in modo particolare, l’aria la trovo vivace, frizzante fino a bruciarmi nel petto ad ogni respiro, piena di vita, forse perché in cielo non si scorge una nuvola nemmeno pregando. Le montagne qui attorno emanano un profumo d’autunno incipiente, e il contrasto col verde che ancora permane, è uno spettacolo vivente, in attesa che le foglie sugli alberi diventino, già il prossimo mese, color porpora, giallo e rosso fragola.
La stazione qui nel mio paesino non ha una sala d’aspetto come si potrebbe immaginare, e nemmeno una biglietteria. Ragioni di budget, suppongo, della società ferroviaria hanno portato, anni fa, a ridimensionare le spese, rivoluzionando così il concetto che avevamo quando parlavamo di stazione. Ora l’emissione del biglietto è demandata ad una macchinetta o ai gestori del bar.
Al bar si accede direttamente dalla piazza, e ha l’altra uscita sul marciapiede, a ridosso quindi dei binari; un lungo bancone sulla sinistra, con la cassa e una varietà di sigarette alle spalle della commessa, e una piccola saletta a destra dove la sera ci si riunisce per guardare le partite di calcio su Sky. Chiedo un biglietto di andata e ritorno e aspetto: sono in netto anticipo sull’orario di partenza. Il profumo delle brioche fresche, che poi sono calde perché appena sfornate, da’ il colpo di grazia al mio proposito di non fare colazione. Chiedo anche un caffè schiumato e consumo il tutto con una calma davvero serafica, dando anche un’occhiata al giornale sportivo che stranamente non ha lettori a quest’ora del mattino.
Giunge il treno presentandosi con un fischio stridulo e prolungato, e ci disponiamo, io come gli altri viaggiatori, ai lati delle portiere che si aprono appena il treno sarà del tutto fermo, e aspettiamo che scendano le poche persone che sono arrivate a destinazione.
Salgo in treno assieme ad una decina di persone, un po’ di tutte le età; io mi avvio verso i primi posti, proprio dietro la cabina del macchinista, mi siedo sulla destra secondo il senso di marcia e faccio conoscenza con i miei compagni di viaggio: oddio, conoscenza! non proprio, perché mi limito a guardarli a uno a uno e poi mi chiudo nei miei confini, dove sto al sicuro, apro un libro e perdo il mio sguardo verso gli orizzonti che mi regalano le pagine ingiallite di questo romanzo.
In solo sessanta chilometri che ci separano dalla città, questo treno farà dieci fermate, praticamente in ogni piccola stazione di ogni piccolo paesino che attraversiamo. La voce registrata ce lo ripete già all’inizio del viaggio: benvenuti sul treno 4826 diretto a Novara. Il treno fermerà a ……
Penso che mi piacerebbe entrare nella cabina del conduttore, ma evito certamente di fare questa richiesta al capotreno; il desiderio che avevo da bambino, quando mi precipitavo a guardare dal terrazzo tutte le volte che sentivo fischiare il treno da casa mia, non l’ho ancora perduto. Quello che mi piacerebbe vedere, ancora oggi, sono i binari diretti verso l’infinito, senza ostacoli, senza storture, lineari, e io che vi scivolo sopra velocemente, alla scoperta di ciò che mi è ignoto dietro una curva, o uscendo da una galleria o oltrepassando un’altura, e ritrovarmi libero subito dopo in una vastità enorme, aperta al sole e alla vita. Una sensazione che avevo da ragazzo, andando a scuola in treno, e che mi rimane immutata ancora oggi. Questi binari, che nell’immaginazione non hanno un punto d’arrivo, non conoscono la parola fine: s’incrociano tra di loro, si stringono in un abbraccio nei punti prestabiliti ma restano indipendenti e, almeno per me, rappresentano il simbolo e la sintesi di ciò che apparentemente è inaccessibile o inarrivabile. Ma perché, mi chiedo, non si perdono con gli anni i sogni avuti da bambino, cos’è questo restare misteriosamente fanciulli in alcuni atteggiamenti della nostra anima, tratti che rimarranno nascosti, discreti, in una zona oscura di noi stessi, perché - questo è vero - spesso abbiamo vergogna di parlarne o di riesumarli e disporli in ordine.
Un susseguirsi di sensazioni quelle che ho stamattina, di scoperte, che spesso però non si risolvono in niente. Un po’ come in certi giorni, che ti aspetti chissà che cosa, magari rimani inquieto sino a sera e poi scopri che è stata una giornata come tante altre, e che solo l’ansia di novità ti ha portato a sognare ciò che è umanamente irrealizzabile o a temere ciò che difficilmente accadrà.
Lungo il tragitto scopro angoli di quei paesini che a malapena conosco; ognuno di loro ha caratteristiche proprie, in alcuni tratti il treno sembra entrare nelle case, di sicuro sfiora le fabbriche, altre volte si addentra nei boschi, affianca forre, gore o stradine sperdute dove si scorge qualcuno al mattino che corre per allenarsi. Oggi per fortuna si naviga in un mare di sole, e le risaie che attraversiamo sembrano cullarmi.
Si giunge in città ch’è ancora presto.
La piazza della stazione non è particolarmente grande: Il monumento di bronzo alla mondina, posto al centro della piazza, nella sua solitudine fa da contraltare al brulicare di una marea di gente, un via vai inimmaginabile, un incrocio di razze e di colori che solo pochi anni fa, in questa vecchia città sabauda, sarebbe stato impensabile. Mi chiedo dove può andare tutta questa gente, sembra un formicaio senza regole, chi entra e chi esce ininterrottamente dalle sale da gioco, chi da un albergo di quart’ordine, come ce ne sono tanti nelle vicinanze delle stazioni di tutte le città, mi sembra un’umanità senza destino, vite nate per caso e per caso votate a una morte senza spiegazione.
Attraverso il lungo corso che porta in centro, che mi porterà nella zona pedonale della città, e inizio il mio breve shopping, tutto un andirivieni, un guardare assorto in certe vetrine, trasognato in altre. E’ una città tranquilla, molto borghese, non c’è mai per le strade tanta gente, si può camminare senza timori di alcun genere. Qui sono sicuro, mi sento come tra le mura di casa, e le persone che incontro anche se non sono miei amici, non sono sicuramente dei miei nemici.
All’ angolo delle ore (chiamato così perché all’angolo del vecchio palazzo, c’è un grande orologio ancora funzionante, e in tempi ormai remoti quello era il posto dove ci si poteva dare appuntamento senza temere di non ritrovarsi) mi fermo, mi ricordo di avere un’amica che lavora in biblioteca e così, visto che ho molto tempo a disposizione, mi chiedo se non sia il caso di farle una visita di pochi minuti. Decido che è una buona idea, ma prima mi fermo al piano terra, nella “sezione periodici”, a leggere i titoli dei maggiori quotidiani nazionali, ma senza troppa convinzione, poi salgo l’ampia scalinata di marmo grigio e mi ritrovo nel salone delle letture. All’impiegata che sta dietro ad un bancone chiaro, con tutti la modulistica in primo piano da riempire per chi volesse portarsi un libro da leggere a casa, chiedo se oggi è al lavoro Mariella, la mia amica. Gentile e con modi garbati mi chiede di attendere che la chiama col citofono interno. Poco dopo la vedo arrivare dalla porta in fondo, e nel momento in cui rimane sbalordita nel vedermi, allarga le braccia come per mettersi in croce, ma anche nel gesto di abbracciarmi, e mi saluta baciandomi sulle guance. Le chiedo se può lasciare il lavoro per alcuni minuti, che chiameremo per l’occasione “pausa-caffè”, e vedo che accetta volentieri. Attraversiamo la piazzetta e entriamo in un piccolo bar che è oltremodo affollato. Non mi sembra un buon posto per stare tranquilli qualche minuto, così usciamo e ne cerchiamo uno che faccia al caso nostro. Stavolta io prendo un caffè d’orzo, mentre lei ordina il suo ristretto, che beve senza zucchero. Mi racconta degli ultimi avvenimenti, del posto di lavoro che la soddisfa e del tempo che rimane per andare in pensione. Ogni età ha i suoi problemi da risolvere. Quando iniziammo a lavorare, abbiamo messo sul piatto della bilancia tutte le nostre forze, tutto l’entusiasmo di cui eravamo capaci, poi la routine, la stanchezza che sopraggiunge fanno si che gli argomenti cambino di anno in anno, e adesso siamo al tema preferito, quello della pensione che verrà. Le faccio notare che sembra ieri quando lei prese servizio dietro al banco prestiti, la prima settimana di lavoro, e come era disorientata, parole sue che ricordo ancora, quando doveva scendere negli scantinati a cercare i libri che i lettori chiedevano per il prestito. Io me lo ricordo bene, ero uno di quelli che stazionavano in biblioteca giornate intere a studiare, sì, perché lo studio a casa, da solo, non rendeva a sufficienza. Invece in biblioteca potevo alzare lo sguardo e trovarmi in compagnia, sebbene una compagnia silenziosa. Spesso mi sono accorto che non abbiamo bisogno di molte parole per stare bene a questo mondo, ci basta sapere che per alcuni esistiamo, senza nutrire o alimentare sogni di gloria, può essere un frequentatore di biblioteca, come allora, o un semplice conoscente. Amici non ne ho mai avuti, voglio dire amici di quelli a cui puoi raccontare tutto, qualcuno che sappia tutto di te e al momento opportuno non rida di te.
Mariella è la stessa, sembra che tutti questi anni siano passati senza lasciare traccia. La trovo persino più bella, una signora distinta e piacevole, e glielo dico anche, perché so che le fa piacere. Ha ancora lo sguardo di quando era ragazza, non ha perso la vivacità di allora, quell’atteggiamento che quando parla sembra muoversi in tutte le direzioni, come se il suo corpo sentisse il bisogno di affermare o confutare le parole. Una donna deliziosa. Vorrebbe dirmi della sua famiglia, ma si accorge che la pausa-caffè è scaduta e fa ritorno nelle sue stanze. Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto, come si dice sempre in queste occasioni, ma che in realtà ci si dimentica di soddisfare, pur rimanendo duraturo il ricordo dell’incontro.
Riprendo la mia passeggiata e mi dirigo verso la libreria dove so che acquistando dei volumi accumulo dei punti su una card. Acquisto quattro libri, uno di uno scrittore giapponese, un italiano e due americani. A dire la verità sono venuto per lo scrittore giapponese, ma come spesso accade dò uno sguardo agli scaffali e finisco sempre per prenderne degli altri. Lo so, è più forte di me, ma quando vedo in bella mostra un libro di qualche autore che ho già letto, mi assale la voglia irresistibile di possederlo, di portarmelo a casa e disporne a mio piacimento. Capita spesso che non lo leggerò nel breve giro di qualche giorno, ma lo lascio deliberatamente ambientarsi tra i miei scaffali, che faccia conoscenza con gli altri che già stazionano da anni e sono i padroni della piccola biblioteca che ho al secondo piano di casa, e aspetto che sia lui a chiamarmi, che sia lui a chiedere la mia amicizia, che sia lui a chiedermi di essere letto. Si capisce che tipo di rapporto ho con i miei libri? Direi di amicizia profonda e di profonda gelosia.
L’ora di pranzo si avvicina, e nonostante la colazione di stamattina incomincio a sentire dei borbottii allo stomaco. Mi dirigo al centro commerciale e faccio il mio solito giro, magari per vedere se hanno aperto qualche altro negozio. Decido che un’insalata con acqua minerale e un caffè possono essere sufficienti, e mi siedo accanto a degli sconosciuti che consumano anche loro il pasto, in silenzio. Solo un brusio continuo viene dalle casse dove molti giovani fanno la fila per prenotarsi un panino caldo o una piadina.
Non posso non rendere partecipe la moglie rimasta in paese con una breve telefonata. Siamo degli abitudinari, e sentire la sua voce mi rincuora e mi tranquillizza. I nostri rapporti non sono eccelsi in questo periodo, ma nemmeno maldestri; ci rispettiamo e tanto basta. In un rapporto bisogna accettare anche i periodi di stasi, il minimo sindacale, senza pretendere di toccare il cielo ogni giorno; e forse è stato questo il nostro segreto, ricominciare quasi da zero tutte le mattine, anche se spesso sono io quello che vorrebbe uscire dalla monotonia con fantasticherie assurde e quindi sicuramente irrealizzabili; a lei, come a tutte le donne, appartiene il compito di gestire la metà razionale e sicura della coppia.
Nel tardo pomeriggio mi avvio non senza accusare un po’ di stanchezza, ho il mio sacchetto di carta con i quattro libri e un altro con una camicia, ritorno in stazione e aspetto di leggere sul monitor da che binario partirà il mio treno. Binario 6A.
Il treno parte lentamente, e stancamente si fa strada tra un groviglio di rotaie alla ricerca del binario giusto, quello che mi porterà a casa. Già fuori dalla città mi accorgo che i colori dell’aria e dei campi sono cambiati, la luce sembra stanca, ha perso quella fierezza che aveva stamattina, e forse per questo, visto che sono un umorale, quando siamo già in aperta campagna mi appoggio con la testa al finestrino e fantastico ad occhi aperti.
Suono il campanello di casa sua, aspetto qualche minuto e finalmente la rivedo. Scusa se non ti ho avvisata stamattina, magari con un sms, ma avevo voglia di vederti. So che è stata una sorpresa e che forse ti creerò qualche problema: venire a Venezia da te senza nemmeno pensarci più di tanto può sembrare insolito, ma a volte i tempi li detta il nostro umore e il nostro istinto. E io sono molto istintivo, a volte. Se ci ragiono in tutto ciò che faccio o penso, finisco sempre per sgonfiarmi, e ciò che prima consideravo eccitante dopo assume il volto amorfo del vuoto totale.
Mentre prepara un tè come segno di benvenuto (lei sa che amo il thè) mi sistemo alle sue spalle e non trovo ostacoli, infilo il naso tra i suoi capelli e mi inebrio, poi leggermente li sposto con una mano da una parte, e quasi senza sfiorarla la bacio sul collo, le faccio sentire il mio respiro, che sia anche il suo respiro, a questo bisogna tendere in un rapporto, e io questo lo so benissimo. Lei non rifiuta, così passo le mani sul davanti e le accarezzo il seno con tutto il palmo, lo stringo facendo di tanto in tanto un po’ di pressione, lei miagola un po’, ma io non ci faccio caso. Le mani sembrano avere una loro autonomia, disegnano figure con un ritmo che sembra prestabilito, quasi un riflesso atavico, s’intrufolano dentro il reggiseno, incrociati, sicché la mia mano destra prende possesso del seno sinistro e la mano sinistra del destro. La sento morbida, emana un piacevolissimo profumo agrodolce, come piace a me, poi raggiungo i capezzoli e cerco di avvitarli lentamente con due dita, come due bulloni. Lei adesso geme. Sì, non mi sbaglio, geme davvero. Ha già spento il gas del fornello, è sempre previdente lei, si gira verso di me e mi fissa negli occhi, quasi una sfida, o forse ha una domanda da pormi. Ma non fiata. Vedo che chiude gli occhi e si stringe ancor più contro di me. Adesso è lei che si alza sulla punta dei piedi alla ricerca affannosa delle mie labbra, poi prosegue e staziona sul collo, e da lì vorrebbe non muoversi più. Le mie mani non smettono di agitarsi, sento un caldo strano e la testa che mi scoppia.
No, così non va bene.
Ricomincio: suono il campanello, lei che non mi aspetta sembra felice di vedermi. Chissà se è davvero felice, sono diffidente soprattutto nelle grandi questioni, e le donne sono sempre argomenti difficili da trattare. Allora cambio l’approccio, cerco di essere sempre meno impulsivo e più responsabile. Ma lei è la mia amante e non posso deluderla, devo essere nello stesso tempo deciso e arrendevole, un po’ di qua e un po’ di là, come un equilibrista su una corda e con gli occhi bendati. L’amore nasce per un incidente e si nutre di piccole e continue riparazioni. Sento ancora caldo e la testa che mi scoppia peggio di prima.
La voce registrata del capotreno ammonisce Ultima fermata, fine corsa.
Il treno è giunto sull’unico binario e si ferma davanti al piccolo bar della stazione dove stamattina ho fatto colazione. E’ già l’imbrunire, la luce è tenue, quasi morente, i lampioni della strada che affianca la stazione incominciano ad accendersi di luce argentea. Come un èbete ho ancora lo sguardo che vaga nel nulla, perfora il vetro del finestrino e si perde chissà dove.
Mi sveglio ma sono ancora stordito, ho bisogno di tempo per riprendermi, non è mai facile lasciare un sogno.
Sono l’ultimo a scendere, dal marciapiede la lunga striscia gialla che calpesto per alcuni metri finisce poco distante, mentre i binari avanzano in agonia verso un prato incolto, dimenticato. C’è, infatti, una stradina che si interpone e lì i binari muoiono perché non sono in grado di scavalcarla, perché qualcuno ha deciso che così doveva essere la loro sorte.
Alfredo Caponnetto: acab.pequod@hotmail.it
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