in questa sezione sono contenuti alcuni interventi a convegni e workshop, relativi alla moda, ai consumi giovanili e ai tatuaggi
Il gothic fuori dal gothic
Il gothic, come cultura giovanile nata nella galassia del post- punk, ha avuto una notevole proliferazione al di fuori della scena musicale e delle forme di ribellismo giovanile. Infatti ha decisamente influenzato l’Haute Couture e il cinema, che a sua volta hanno ispirato molta cultura gothic. Proprio perché i “materiali” di riferimento per la costruzione di una cultura giovanile nel frattempo, dai teddy boys in poi, sono diventati più articolati, i gothic fanno incetta da molti media tra cui, a partire dagli anni Novanta, internet che pullula di newsgroup e chat gothic. Il gothic, per la vastità dei suoi riferimenti iconografici, per la trattazione di alcune tematiche come la morte e per la sua visione fortemente estetizzante del vestire, ha costituito un costante rimando per la moda, per il cinema e per l’arte (basti pensare alla poetica di Damien Hirst ). In questo senso le affermazioni del fotografo Fred H.Berger – che con la rivista Propaganda ha contribuito notevolmente all’estetica gothic - sulla presunta ostracizzazione di questo genere (Steele 2008, p.46) corrispondono solo parzialmente alla realtà, fermo restando che alcuni personaggi della scena punk hanno completamente rigettato ogni associazione al gothic.
David Bowie, androginie glam e scena drag
Nei primi anni Settanta il make-up e i capelli ossigenati di Bowie e di Lou Reed o le pose dandy di Brian Ferry costituiscono un insieme semantico nuovo per il mondo del rock.
Orgoglio e pregiudizio: gli uomini in gonna
A partire dagli Sessanta, la moda maschile ha spesso preso a prestito dettagli o accessori che erano stati fino ad allora considerati propri esclusivamente della moda femminile, come i colori brillanti, i tessuti morbidi o qualche “vezzo” in termini di decorazione. Gli uomini si sono fatti le méches, si sono depilati, hanno cominciato a usare le borse, indossato bracciali e orecchini. Ma vestire in gonna continua a essere un tabù. A livello simbolico la gonna rimane a un caso a sé stante: è sistema di segni femminile completamente chiuso e quindi già costitutivamente è percepito come esclusivamente afferente al mondo delle donne.
Tuttavia nel corso degli anni Ottanta, in maniera completamente differente rispetto al power dressing femminile, alcuni uomini su un registro puramente ironico o provocatorio indossano la gonna. Se la donna in tailleur appare allora come una persona decisamente seriosa, che suscita timori e apprensioni soprattutto nel mondo maschile, l’uomo in gonna semplicemente non è una figura credibile o presa in considerazione.
Sono performer che costruiscono la loro immagine in maniera parodistica. Afferma a questo proposito Iain Chambers: “la loro definitiva profanazione della star era ostentata ironicamente attraverso la pura e semplice esagerazione dell’immagine costruita” (Chambers 1985, p.134). La distaccata ironia raffredda e rende sofisticati i numerosi riferimenti kitsch, le abbacinazioni commerciali, le commistioni pensose con il mondo dell’arte. David Bowie spazza via le ultime propaggini di un rock ritenuto sincero, senza comministioni con il volgare mondo dei soldi e del consumismo, tanto da scrivere di moda e di minuzie ancora ritenute femminee occhieggiando al mercato, al falso e all’ambiguità sessuale.
In ambito cinematografico il Dracula di Briam Stoker (1992) di Francis Ford Coppola è riconosciuto come un punto di riferimento fondamentale per l’intreccio tra horror, aspetti romantici e crepuscolari. Nel film Dracula viene rappresentato come un aristocratico, che fa parte di un mondo ormai svanito. La sua nobiltà e eleganza si combinano a una profonda solitudine, all’impossibilità di assimilarsi alla realtà circostante soprattuto quando, inseguendo Mina, la donna amata, arriva in una Londra vittoriana. La costumista giapponese Eiko Ishioka, che ha vinto il premio oscar per i costumi, si è ispirata ai pittori simbolisti, ai surrealisti, a Gabriel Rossetti e all’abbigliamento vittoriano. Il vestito alla turca di Dracula viene creato per alludere al carattere androgino del personaggio (Dworkin 1992), come se il suo essere soprannaturale rimandi inevitabilmente a una non distinzione di genere come l’”inumano” personaggio balzacchiano di Séraphîta, che nella sua vestaglia da casa, nella sua intimità, veste con codici maschili e femminili sovrapposti.
La gonna maschile (e già l’espressione si configura come un ossimoro, una contraddizione in termini) può rappresentare una oltraggiosa rivolta simbolica, un sovvertimento di segni e ruoli, ma è un oltrepassamento di confini tra maschile e femminile percepito come troppo ardito, almeno nella cultura occidentale. In ogni caso un uomo che veste la gonna suscita ilarità o un netto rifiuto, proprio perché è categoricamente esclusa dal vestiario maschile. Tra i pochi bravehearts rimane famoso Boy George, che nel 1983 canta “Do You Really Want to Hurt Me?” con una specie di miniabito, che può sembrare una t-shirt infinitamente grande (come d’altronde il nomignolo Boy lascia alludere). Truccato, infantileggiante, apertamente gay, Boy George emula David Bowie su un registro decisamente più leggero.
Nel 1972 la pop star viene delineata dalla rivista musicale Melody Maker, più o meno consapevolmente, come una vera star al femminile
[…] David Bowie appariva pieno di fascino.
Si muoveva elegantemente in una specie di tuta da combattimento, molto stretta sulle gambe, con la camicia sbottonata a rivelare la piena estensione del torso nudo. I pantaloni arrotolati alle caviglie permettevano di intravedere meglio un enorme paio di stivali di plastica rossi con almeno tre pollici di suola di gomma; e i capelli erano sistemati in modo così impeccabile che veniva da trattenere il respiro nell’eventualità che una leggera brezza dalla finestra aperta osasse scompigliarli (Watts 1972, p.37).
Solo alla fine della descrizione si capisce che lo sguardo di chi scrive è ironico anche se subisce una intensa fascinazione data dal personaggio e dalla mise decisamente femminile, in pieno stile glam. In “Oh! you, Pretty Things”, la canzone portata al successo dalla voce di Peter Noone e scritta da David Bowie, si afferma “non sai che stai facendo impazzire mamma e papà”, proprio perché sotto gli occhi di tutti c’è una strana razza di superuomini che sono arrivati sulla terra, caratterizzati da una ricercata ambiguità sessuale. La canzone apre quindi alle tematiche dell’omosessualità nella musica e nella società (Johnstone 1999, p.185). L’ambivalenza sessuale di David Bowie è volutamente posticcia, non a caso viene citato da Lady Gaga come uno dei miti a cui si è ispirata. David Bowie mette l’interlocutore in condizione di non credere alle sue affermazioni
Egli sa che di questi tempi è ammissibile comportarsi da checca, e che “scioccare” e oltraggiare, cosa che il pop si è impegnato a fare nel corso di tutta la sua storia, è un processo provocatorio.
E se non è un vero oltraggio, è per lo meno divertente. L’espressione della sua ambivalenza sessuale propone un gioco affascinante: lo è o non lo è? In un periodo di conflitti d’identità sessuale egli sfrutta acutamente la confusione che circonda i ruoli maschili e femminili (Watts 1972, p.41).
Se oggi essere gay non costituisce né uno scandalo né una macchia in termini di carriera per chi calca la scena musicale, tanto che per alcuni personaggi come Beth Ditto è addirittura un valore aggiunto, nei primi anni Settanta appariva ancora una scelta discutibile e comunque piena di risonanza nel mondo dei media.
Nel 1994, sull’onda del successo delle storie di vampiri, esce Intervista con il vampiro di Neil Jordan, basato su il primo romanzo di Anne Rice (e da lei sceneggiato), che gioca fortemente sulle ambiguità sessuali, sull’androginia e sulle pulsioni omoerotiche. I vampiri, giovani e belli per sempre, vivono tra la Francia ottocentesca, la Louisiana del tardo Settecento, la San Francisco alla fine del millennio scorso. Nella loro vita assetata di sangue sperimentano una ambigua morale e una sorta di azzeramento delle differenze di genere. Per la letteratura americana soprattutto New Orleans diviene una location ideale per le storie di vampiri, come nel caso del romanzo più famoso della scrittrice gothic Poppy Z.Brite, Lost Souls, in cui i personaggi subiscono una attrazione fatale per la città, tornando sempre là dopo inquiete scorribande in altri stati. La stessa serie tv True Blood è ambientata in una cittadina della Louisiana, in cui convivono vampiri e umani.
Un regista particolarmente apprezzato all’interno della cultura gothic, e che molto ne ha subito decisamente l’influenza, è Tim Burton, soprattutto a partire da Edward Mani di Forbice (1990), in cui viene messa in scena la disarmante alterità del personaggio, vestito e truccato in maniera decisamente gothic. Il film è una favola tenera e crudele su un personaggio creato da uno scienziato come macchina affettaverdure e che invece si ritrova a vivere una sua tragica vita con le forbici al posto delle mani. Il personaggio è interpretato da Johnny Depp. Nel film viene rappresentata una malinconia in stile gothic riportata entro un contesto suburbano americano, mentre come cultura giovanile era stata almeno fino a allora un fenomeno prevalentemente metropolitano. Edward Mani di Forbice descrive l’alterità adolescenziale, l’essere comunque fragili e sensibili. Il personaggio è disarmato, disarmante nella sua creatività e al tempo stesso distruttivo. Il modo in cui Edward è stato assemblato è un coacervo di vecchie e nuove tecnologie, con una attitudine nostalgica nei confronti dei film di serie B, dei vecchi film di Frankenstein, con un omaggio dichiarato al vestiario gothic, tramite l’utilizzo del latex, della pelle e dell vinile.
Tim Burton, al di là di due film su Batman, ha anche girato un altro caposaldo della cultura gothic, Ed Wood (1994), film ispirato al regista Ed Wood, sempre interpretato da Johnny Depp, che ama travestirsi con maglioncini da donna e riporta sul set una vecchia star del cinema horror, Bela Lugosi, interpretato da Martin Landau. È lo stesso attore horror di origine ungherese, che ha interpretato Dracula negli anni Trenta e Quaranta, prima di un lungo declino da morfinomane, a cui si ispirano i Bauhaus, con la canzone che statuisce l’inizio del gothic come genere musicale, “Bela Lugusi’s dead”.
Il cross-dressing di Boy George arriva a un decennio di distanza dalle performances di David Bowie in tacchi alti, in piena epopea glam rock. L’approccio di Boy George è più scanzonato, meno tormentato o pensoso rispetto a quello di David Bowie. “Io non mi prendo affatto sul serio, non prendo sul serio il modo in cui mi vesto o mi trucco” sostiene il cantante, che all’epoca fa parte dei Culture Club, continuando
Non credo che nessuno sia assolutamente eterosessuale. Deve essere noioso vivere una vita rigidamente etero o omosessuale, e in fondo non credo che sia importante […] ti dirò, comunque sia, non mi interessano né questa sessualità né l’altra ne quella “di mezzo” (Harari 1983).
Boy George si costruisce addosso un personaggio etereo, fanciullesco, che pure ha esperienza della vita e delle molteplici scelte riguardo la sessualità e il genere e soprattutto si presenta come candidamente innocente – anche se nei decenni successivi questa rappresentazione di se stesso rovinerà precipitosamente con un rumoroso processo per violenze a un prostituto che lo ha denunciato.
Il cantante negli anni Ottanta rimanda a un percorso in cui le sue scelte, il suo orientamento sessuale e il suo cross-dressing avvengono senza ostentare travagli interiori, senza eccessi in termini di stile o di costruzione di un personaggio tormentato. È semplicemente un ragazzo che sa divertirsi, che si traveste da suora in palcoscenico negli anni Settanta e che ha ripreso e rivisitato lo stile del costumista e gestore di pub Philip Sallow, che al primo incontro con il cantante ballava in un locale gay di Londra vestito con gonna, un collare egizio, stivaloni e il trucco con l’eye-liner (Rees 1998).
Nel gennaio del 1984 nella rivista musicale Rockstar si sostiene, osannando il cantante dei Culture Club,
Nulla è più ambiguo di ciò che appare definito, e nulla è più certo di ciò che appare ambiguo. La valenza dell’elemento glamour, nel macrocosmo del rock’n’roll, è stata radicalmente ridefinita dall’apparizione di Boy George. Una figura tutto sommato candida, disarmante, in armonia con se stessa. Un asteroide piombato all’improvviso sui mercati delle chiacchiere, dove tristi pagliacci cercano di imbonire le folle (Rockstar,s. a., s.t., gennaio 1984).
Boy George sembra piuttosto un adolescente che gioca con il maschile e con il femminile, senza assumere una posizione definitiva, che demanderà a un futuro a venire, stazionando per adesso in una sorta di isola-che-non-c’è, dilazionando il più possibile una condizione adulta, con relativa assunzione di caratteri sessuali certi, delineati una volta per tutte. Il cantante, che era stato un fan di David Bowie, ne adotta il travestitismo ma non la maschera tragica. Con passetti leggeri, a colpi di rossetto e con la linea dell’eye-liner spessa e definita sugli occhi, Boy George leviga ogni asperità concettuale, ogni intento pensoso e intellettuale che David Bowie aveva volutamente esaltato e performato. La figura del dandy, algido e tormentato, lascia il posto a un imberbe e giocoso preadolescente, che veste t-shirt troppo grandi.
Freddy Mercury, ad esempio, non afferma mai chiaramente di essere gay, seppure abbia attraversato, negli abiti e nella gestione del corpo, tutto l’immaginario omosessuale dagli anni Settanta in poi. In epoca glam David Bowie si sfila amabilmente sia da eventuali proseliti gay, sia da una precisa e definitiva presa di posizione sul suo orientamento sessuale. E in ciò si scopre un abilissimo comunicatore nel gestire la propria immagine pubblica e la sua capacità di far rimanere alta l’attenzione sul personaggio che si è cucito addosso.
Il film che ha goduto un maggior successo, fortemente impregnato di uno stile gothic nell’abbigliamento, è Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. I vestiti, i soprabiti lunghissimi, la prevalenza assoluta del nero e di una magrezza, che fanno supporre un atteggiamento spirituale, distaccato dal mondo, diventano una facile divisa che ispira anche molta moda dell’epoca e che soprattutto costituisce una vetrina per la moda già esistente (fosse solo per gli occhiali da sole che nel film tutti vestono indistintamente dai contesti in cui si trovano). In un certo senso il vestire gothic in Matrix è già una traduzione meanstream di uno stile che agli esordi era decisamente più trasgressivo. Se Matrix porta un gusto estetico al di là di un puro territorio di significazione gothic, il film Donnie Darko (2001) di Richard Kelly fa translare la sensibilità gothic, una certa morbosità e uno stato depressivo presenti nel personaggio principale, al di là di un determinato stile del vestiario o di altri codici visivi che hanno ispirato la cultura gothic. Donnie Darko veste come un normale ragazzo degli anni Ottanta, ma la sua visione del mondo è decisamente gothic.
Il genere vampiresco ha poi subito una vera deflafrazione a livello cinematografico, costituendo un territorio per successi notevoli apprezzati da un largo pubblico, come recentemente Twilight (2008), e i suoi sequel, diretto da Catherine Hardwicke, in cui una giovane ragazza, Bella, si innamora di un ragazzo che scopre essere un vampiro – seppure tutt’affatto particolare perché si nutre di animali e non di umani, ponendosi quindi su un piano di alterità maggiormente accettabile e condivisibile per il grande pubblico. La condizione di Edward, il giovane vampiro, è quella di essere insonne, di rimanere perennemente giovane e di provare pulsioni violente, di “appetito”, nei confronti degli umani, che deve dominare.
La stessa moda ha spesso attinto a piene mani al gothic, a quell’insieme di simbologie magiche, religiose, mediovaleggianti e ai rimandi correlati alla morte. Sicuramente il gothic estetizza e allegorizza il rapporto con la morte, facendolo diventare un serbatoio visivo particolarmente seducente per il mondo della moda.
D’altronde il rapporto tra moda e morte di per sé si fonda su un lungo e articolato connubio, come ricorda il dialogo sulla morte e sulla moda Giacomo Leopardi già nel 1824, in cui si sottolineano le affinità tra due mondi radicati nella caducità (Leopardi 1824, pp.33-40). La moda afferma Walter Benjamin citando lo stesso Leopardi “accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere i diritti del cadavere. Il feticismo, che è alla base del sex-appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale” (Benjamin 1954, p.152). In termini visivi ciò ha una traduzione decisamente innovativa con Elsa Schiaparelli che nel 1938 ha disegnato in collaborazione con Salvator Dalì lo skeleton dress, un vestito con visibile sulla schiena lo scheletro umano, come se il corpo fosse stato passato ai raggi X.
Nel 1984 alla consegna dei Grammy Awards, Boy George, truccatissimo, con parrucca e vestito in gonna, ringrazia il pubblico dicendo “Grazie, America, hai stile e gusto e sai riconoscere una buona drag queen quando ne vedi una”. Vestirsi, travestirsi: il cantante inglese mette sfacciatamente in discussione “maschile”, “femminile”, “gay” o “eterosessuale”. Boy George indossa la gonna con divertita lievità, parodiando se stesso e gli stereotipi riguardo l’omosessualità. Insolente e frivolo al tempo stesso, non ha bisogno di dimostrare nulla, né di rivendicare spazi pubblici o maggiore rispetto. È una epoca ormai decisamente lontana dalla rivolta di Stonewall, a New York nel 1969, quando gay e drag queen scendono in strada per protestare contro le angherie della polizia e per reclamare dignità e visibilità. Boy George può performare la parte di un ragazzino che indossa la gonna senza alcuna reazione eccessiva o turbata da parte del pubblico, senza temere alcuna censura o riprovazione. Il suo cross-dressing è gradevole, scanzonato e relativamente innocuo.
Afferma David Bowie “Dico bugie. È facilissimo da fare. Non c’è niente che abbia importanza eccetto quello che io sto facendo in quel dato momento. Non posso ricordarmi tutto quello che dico” si schernisce con un giornalista di Playboy (Crowe 1975, p.56) che cerca di entrare nel merito delle sue affermazioni e della sua vita privata. Ovviamente David Bowie è stato pieno di epigoni e di ammiratori, che hanno spesso avuto un rapporto di odio/amore con la star o che comunque hanno visto in lui anche l’artefice della fine di un certo sogno ingenuo del rock, in cui le rockstar volevano comunicare un loro mondo interiore, instaurando un rapporto sincero e autentico con il proprio pubblico. Bowie celebra di contro il mondo dell’innaturalità, glorificando insieme a Marc Bolan, paillettes e piume, tacchi alti e vestiti argentati.
Tuttavia le gonne maschili sono un caso relativamente isolato o perlomeno sostanzialmente confinato alla musica pop di Boy George, alla combat skirt gothic e a alcune collezioni maschili, tra cui spiccano quelle di Jean-Paul Gaultier. Infatti è più con un intento pubblicitario e provocatorio che con la finalità di creare una nuova moda, indossata da un vasto pubblico, che Jean-Paul Gaultier nel 1984 introduce il sarong e una sorta di panta-gonna nella sua collezione maschile, suscitando clamore e preoccupazione proprio perché viene prefigurato come un salto troppo in là, in un terreno che pertiene esclusivamente all’universo femminile e che quindi non può essere varcato da un uomo. Probabilmente proprio con l’intento di tranquillizzare i potenziali acquirenti, e soprattutto coloro che lavorano nel settore e che sanno di avere un capo molto difficile da collocare sul mercato, lo stilista afferma
non sto dicendo che uomini e donne debbano avere lo stesso aspetto. Non succederà come negli anni Sessanta, in cui uomini e donne avevano lo stesso taglio di capelli e indossavano le stesse cose nello stesso modo. Quello che avranno in comune sarà il guardaroba, ma lo indosseranno in modo diverso. Gli uomini manterranno la loro virilità e le donne la loro femminilità (Davis 1992, p.35).
Per una rivisitazione colta e seria sulla moda, con relativi richiami alla morte, un punto di passaggio epocale è costituito dagli inizi degli anni Ottanta, con l’emergere di nuovi stilisti, in particolare quelli giapponesi, come Rei Kawakubo, Yohji Yamanoto e Issey Miyake, che aprono nuove frontiere estetiche, ripensando il rapporto tra abito e chi lo indossa. All’epoca Yohji Yamanoto propone soprattutto vestiti neri, colore che rimanda a una forma di rappresentazione della spiritualità più profonda, quasi una sorta di nulla buddista come racconta lo stilista nelle conversazioni con Wim Wenders in Appunti di viaggio su moda e città (1989).
A metà anni Ottanta la moda scopre l’estetica gothic tramite la rivista inglese The Face, decisamente interessata allo street-style e alla musica. Alcuni stilisti influenzati direttamente dal gothic, come Scott Crolla, che all’epoca vestiva anche Martin Kemp degli Spandau Ballet, trovano spazio nella rivista. D’altronde, negli anni immediatamente precedenti, la rivista aveva dato spazio a rockstar post-punk o vicini a una sensibilità new romantic, come Adam Ant, gli Spandau Ballet, i Madness con una attenzione molto puntuale alle connessioni tra identità, scelte di abbigliamento e gusti musicali.
Face in un servizio del di dicembre 1984, “Apparitions”, mostra alcuni abiti con una sensibilità fortemente gothic, dalla scelta dei tessuti, dalle trine e alla seta, dall’uso del nero, dall’insieme complessivo che rimanda a una percezione eterea dell’identità. Nel servizio vengono citati come riferimenti diretti una sensibilità gotica e l’immaginazione visionaria di Edgar Allan Poe. In “Veiled Threats”, un servizio di Face del gennaio del 1985, sono invece presenti Scott Crolla, John Galliano, Jean-Paul Gaultier e Richmond-Cornejo con una serie di vestiti di velluto e di damasco ispirati al gothic. Il testo che accompagna il servizio recita “la caccia per le polverose reliquie ammassate nella cultura museale con polverosi artefatti del declino europeo e del liricismo anglosassone” (Jobling 1999, p.43). La moda ha sempre attinto ciclicamente dal passato rivisitandolo. Il gothic costituisce in quel momento una angolazione trendy, in chiave rétro-chic, di cui viene proposta una connotazione sostanzialmente estetizzante, “raffinata”.
Nel corso degli anni Novanta i riferimenti nei confronti del gothic diventano maggiormente evocativi in termini di suggestioni religiose, magiche e storiche, che trovano il loro apice nel video di Madonna Frozen (1998) diretto da Chris Cunningham, in cui la cantante è vestita da Jean-Paul Gaultier, che aveva appena fatto una collezione autunno/inverno 1997 ispirata al gothic. I tatuaggi di henné sulle mani danno un leggero accento etnico, evocando anche le trine vittoriane, mentre il suo corpo come per magia viene trasformato in uno stormo di corvi e poi lievita in cielo alludendo alla tradizione delle sante o delle vampire, a scelta.
In un certo senso David Bowie mette in scena e fa conoscere al grande pubblico la realtà e il mondo drag queen che apparteneva al circuito di Andy Warhol, epurandolo dagli aspetti più indigesti e meno commerciali.
Nel romanzo Breakfast on Pluto, il travestito “Pussy” Braden che intraprendende una altinelante carriera di prostituto, naturalmente impazzisce per Ziggy Stardust e per il glam rock, non tanto per la musica ma per i vestiti (Mc Cabe 1998, p.44). Braden ama suscitare attenzione e sgomento, di cui si nutre avidamente, anche tramite il suo abbigliamento glam
E – segretamente – pensai: “In altre parole, a quelli che non conosceranno mai il piacere di essere distolti dall’acconciarsi i capelli o dal truccarsi gli occhi!”.
Cosa in cui ora stavo diventando un grande esperto, sfoggiando giacchette satinate da glam rock e insignificanti (bleah!) jeans e attirando in ogni caso l’attenzione. Raccogliendo complimenti senza sforzo: “guarda quello! È vestito da donna!”, “Gesuuù! Guarda che roba!”, e varie cretinate! “Stai davvero peggiorando!” disse Irwin quando feci una piroetta e gli chiesi: “Allora, secondo te è meglio il rosa o il blu?”, parlando dell’ennesima giacchetta satinata! (Mc Cabe 1998, p.45)
Tra glamour, vestiti e sesso da scegliere rispetto a quello ascritto alla nascita, la vita è in realtà un gioco complesso. Il personaggio del romanzo, da cui Neil Jordan ha tratto un film, si ritrova poi in cura da uno psichiatra. È una esperienza troppo marziana la sua, le colazioni su Plutone non esistono se non nell’immaginazione.
Malgrado una comunicazione decisamente sensazionale, la gonna maschile non ha nessuna ricaduta pratica in termini di richieste e di fatturato, seppure sia una strategia di comunicazione del brand decisamente innovativa, tanto che lo stilista propone nelle collezioni maschili autunno-inverno 1985-1986 la quilted skirt. Nel 1984 vengono vendute solo 3.000 gonne da uomo (Crane 2001, p.219). È un mercato praticamente inesistente. Se la strategia non fosse stata prevalentemente quella di dare una sferzata innovativa in termini di comunicazione, la gonna maschile sarebbe ricordata solo come un flop.
La rivista Dazed & Confused nel 1996 nel servizio “Neverland” mostra i gioielli a forma di denti vampireschi di Naomi Filmer realizzati per il designer Hussein Chalayan. Nel collezione autunno/inverno del 1997/1998 Sarah Harmanee realizza per Alexander McQueen delle dita a forma di corna, che sembrano una rivisitazione colta di un gusto satanistico. Altri servizi del 1997 mostrano uno stile che si ispira liberamente al gothic (che a sua volta aveva attinto altrettanto liberamente da più fonti). “Taste of Arsenic” e “The Clinic” esibiscono visi emaciati con un trucco eccessivo sugli occhi e una atmosfera inquietante, che è influenzato anche dalle modifiche sul corpo che in quegli anni cominciano a divenire popolari anche tramite personaggi come Fakir Musafar, che trafiggono e rimodellano il corpo con oggetti e strumenti che lo comprimono. E soprattutto emerge una sensibilità estetica e culturale che si è posta all’attenzione tramite performances artistiche, che rimettono in discussione le frontiere tra organico e inorganico, come la chirurgia plastica di Orlan, le body suspensions di Stelarc o le sue incursioni nella biotecnologia, al vestito fatto di carne di Jana Sterbak, fino alle androginie postorganiche di Matthew Barney, in cui l’artista abita personaggi del football, drag queen, satiri, body builder.
Face, in “Taste of Arsenic”, rivisita l’epoca vittoriana in modo da decostruire l’opposizione binaria tra innocenza e esperienza, tra un insieme di corsetti e vestiti infantileggiante, come avverà soprattutto in Giappone a partire dallo stesso periodo per le gothic lolite. Soprattutto il servizio “The Clinic”, con le foto di Sean Ellis con la collaborazione di Isabella Blow, ha una ambientazione che ricorda un ospedale psichiatrico prima del passaggio di Franco Basaglia, con la scritta nella pagina iniziale “Welcome. We’ll tear your soul apart” parodiando la famosa canzone dei Joy Division (Steele 2008, p.78; Spooner 2007 pp.143-154). L’oppressione, la claustrofobia, la perversione aleggiano in ogni fotografia. In una immagine la modella è appesa a delle corde come fosse una bambola spezzata, per una sorta di crudele rito di iniziazione indiano o una installazione artistica. Anche Martin Margiela, Gucci, Dolce & Gabbana, Anna Sui e ancora prima Thierry Mugler hanno attinto dal gothic e dall’insieme di rimandi a esso connessi.
Si è addentrato in un terreno minato, senza sufficienti corazze. “Vai ovunque senza lasciare la tua sedia/e lascia i tuoi pensieri correre liberi […] sulla luna/ dove staremo tutti noi presto/guardando la terra giù in basso/viaggeremo su Marte/ e visiteremo le stelle/facendo colazione su Plutone” canta nel 1969 Don Patridge con un motivetto semplice semplice, spensierato che va in testa alle classifiche nel Regno Unito, e che dà il titolo al romanzo. Quel modo di vivere leggero, fantasioso e futuribile rimane per Braden una utopia inaccessibile. Il glam rock, soprattutto nella figura di David Bowie, ha costituito un terreno elettivo per la scena drag queen.
In virtù di ciò che aveva iniziato venti anni prima, Jean-Paul Gaultier è tra i promotori della famosa mostra “Bravehearts: Men in Skirts”, ospitata al Metropolitan Museum of Art di New York nel 2003. La mostra si addentra nella dimensione culturale che correla la gonna indissolubilmente a una modalità di vestire femminile. Proprio perché in altre culture la gonna, o ciò che può essere interpretato come tale, ovvero il kimono, il caftano o il sarong, non è associata esclusivamente al mondo femminile, l’uomo in gonna diviene un territorio di riflessione e di ripensamento riguardo ai codici visuali della moda e dell’identità maschile (Bolton 2003). La mostra, attingendo da una realtà globale che ha profondamente ridefinito la centralità della cultura occidentale, mette in scena una immagine maschile in gonna che, al di là del virile kilt scozzese, non ha mai avuto corso in occidente.
La rappresentazione glam è stata ripresa in Velvet Goldmine (1998) di Todd Haynes proprio per sottolineare il carattere ambivalente di David Bowie e le suggestioni drag. Nel film si ricostruiscono le vicende di una stronzissima rockstar glam, che inscena un finto omicidio in un concerto, all’apice del successo. Nel film si ripercorre cambiando il nome dei personaggi anche il rapporto tra Iggy Pop e David Bowie e il gusto per il kitsch, per le paillettes, per una scena che emulava le drag queen senza avere la corrosiva ironia drag.
In un sistema di segni eurocentrico la versalità della gonna ha un limite praticamente insormontabile nel genere. Gli sconfinamenti sono stati al massimo ironici, ribellistici, irriverenti, carnevaleschi. Anche qui, in maniera più o meno consapevole, tornano gli orientalismi riguardo ai mondi lontani da sé. L’oriente, con le gonne maschili, appare inevitabilmente femminizzato e passivo rispetto al virile e conquistatore occidente. Riflettendo sulla costruzione dell’identità maschile e esponendo le gonne da uomo utilizzate in altre parti del mondo si entra inevitabilmente anche nel merito del mito, a lungo discusso e tematizzato dagli antropologi, di un oriente rappresentato come subalterno e femminile, di contro a un occidente percepito implicititamente maschile, dominatore (Said,1978). La moda ripropone, rimescola gli assunti impliciti contemporanei riguardo la virilità e le idiosincrasie di genere, aggiungendo una nota profondamente sardonica alla riflessione riguardo le possibili identità maschili.
Alexander Mc Queen è il designer che maggiormente si è ispirato al gothic o comunque a una sensibilità, a una estetica molto vicina all’immaginario gothic, e questo al di là della sua tragica morte. La collezione “Eclect/Dissect” di Alexander McQueen per Givenchy autunno/inverno 1997/1998 appare quella che maggiormente rimanda alla cultura gothic, con la sua ridefinizione della bellezza in chiave inautentica e artificiale, del fetish, della rappresentazione della peste e dell’utilizzo di una sorta di “bestiario satanista”. Anche la “Joan Collection” ispirata a Giovanna d’Arco, in quanto eretica bruciata viva, evoca quello stesso territorio simbolico e quella fascinazione per il medioevo e per i sui aspetti più bui. Nella collezione “What a Merry-Go-Round” dell’autunno/inverno 2001/2002 Alexander McQueen incorpora l’inconografia della morte in una sorta di busto per un abito, introducendo altri dettagli che rimandano al mondo dellla stregoneria e del satanismo.
In piena epoca glam, si fanno avanti le prime riflessioni scientifiche sulla realtà dei locali drag. Esther Newton analizza i sistemi sartoriali drag in chiave strutturalista approfondendo gli incroci simbolici tra stili maschili e femminili, i rimandi contrapposti o sintonici tra abiti esterni e abbigliamenti intimi, tra parrucche, seni finti e corpo maschile vero. E ancora più in profondità si addentra tra le opposizioni complementari tra un sentire “femminile” e un corpo maschile. Simultaneità e contrapposizioni di codici maschili e femminili creano una tecnica sartoriale creativa, data dalla tensione tra i vari codici. In ogni caso, da questa angolazione, la drag mette in gioco una doppia e ambivalente affermazione identitaria, è maschile dentro e femminile fuori o è maschile fuori ma femminile dentro. O semplicemente è tutto più complesso, meno naturale e scontato di quanto in genere si ritenga. Le possibilità vestiarie e identitarie divengono molteplici, infrangendo e ricodificando vari confini tra la sfera maschile e quella femminile: il corpo/la mente, il vestire esteriore/la biancheria, i pezzi artificiali/le parti vere. La realtà fisica e l’immaginazione identitaria e erotica sono in continua tensione creativa, a partire da una segmentazione puntuale delle sfere del corpo e dell’abbigliamento.
Jean-Paul Gaultier afferma a questo proposito “non sto cercando di mettere la gonna a tutti gli uomini. Vorrei dare solo loro la libertà di vestirsi in gonna se ne hanno voglia. D’altronde la donna ha combattuto anni prima di infilarsi i pantaloni” (Bolton 2003). La mostra espone i lavori di alcuni stilisti, da Walter van Beirendonck, a Vivienne Westwood, a Dries van Noten e allo stesso Jean-Paul Gaultier e le mise di alcune rockstar come Boy George e il percussionista Adrian Young dei No Doubt. Sono coloro che, tra i pochi, hanno creato o indossato le gonne per uomo. In ogni caso il codice maschile occidentale si ritrae dall’utilizzo della gonna, malgrado abbia avuto una sua stagione di epica virilità nel kilt scozzese. La gonna maschile resta un gioco sartoriale, una colta operazione culturale o un piacevole divertissement, che funzionano molto bene se vengono circoscritte al puro livello comunicativo.
Lo stesso fashion show di Alexander Mc Queen a Londra, “Voss”, della primavera/estate 2001 evoca una poetica in cui la morte, il disagio e la decadenza vengono estetizzate, al tempo stesso erotizzate e de-erotizzate. La collezione viene mostrata tramite una sorta di installazione in cui le modelle sono chiuse, in cui si muovono in maniera claustrofobica come fossero in gabbia, con tanto di copricapi con uccelli impagliati. Le rassicuranti passerelle e i riti consolidati della moda lasciano il posto all’eccesso, all’horror, all’ansiogeno. Contemporaneamente il plexiglass con cui è costruita la struttura in cui sono racchiuse le modelle è riflettente, obbligando l’osservatore a vedere se stesso nella “gabbia”. “Voss”, con la sua rappresentazione inquieta di modelle e di panottici foucaultiani, raffigura una idea dell’identità centrata su un narcisismo che sembra psicotico e disfunzionale (Evans 2007, p.95)
Già Newton riferendosi alla retorica linguistica drag fa riferimento al camp, come delimitazione di un ambito discorsivo in termini estetici e culturali proprio del mondo gay. Sostiene l’antropologa
La brava drag queen possiede abilità largamente distribuite e apprezzate nel mondo gay: la facilità verbale e la prontezza alla battuta, un senso “camp” (di humour e gusto omosessuale) e l’abilità a essere una drag “glamour” e comica (Newton 1972, p.3).
In quanto operazione trasgressiva, che sovverte i codici culturali della maschilità, vestire in gonna diventa anche atto artistico. Recentemente Grayson Perry, interpretando una sorta di alter ego, Claire, mette in scena se stesso in gonna, attraversando i diversi topos delle mise femminili, dai tailleurini rosa alle gonne a balze, con calzettoni preadolescenti e nastrini tra i capelli che ricordano le gothic lolite. Già negli anni Ottanta, Grayson Perry sperimentava un modo di vestire trasgressivo e frequentava il locale new romantic Blitz, che aveva aperto a Londra nel 1979, insieme a Boy George, con cui aveva abitato per un certo periodo. “Mi piace semplicemente vestire in tutte le maniere in cui si suppone che un uomo non vesta, in tutta quella vulnerabilità, dolcezza, preziosità e impraticabilità” sostiene l’artista (Jeffrey 2003). Proprio per riflettere sull’identità vestita, sul travestitismo e sui codici impliciti della maschilità, l’artista realizza un documentario Why men wear frocks? (2005), chiedendosi perché gli uomini vestono in abiti femminili? Da un punto di vista antropologico invece è altrettanto interessante capire perché in occidente la gonna, per gli uomini, resti un tabù.
Lo stesso John Galliano ha spesso maneggiato tematiche e suggestioni gothic, nella sua collezione primavera/estate 2006 per Christian Dior Haute Couture realizza vestiti rosso sangue, con modelle dal trucco vampiresco e croci enormi al collo, con una l’iconografia quasi da Halloween della morte o presa in prestito dalle pratiche vodoo. Alla domanda di Valerie Steele a Galliano riguardo le peculiarità del gothic, lo stilista risponde “dark, vampiresco, misterioso, pericoloso” (Steele 2008, p.82).
In maniera più o meno implicita in base alla sensibilità dello stilista o maggiormente evidente in alcuni periodi, il gothic o alcuni suoi dettagli in termini di accessori, materiali, codici visivi hanno spesso punteggiato le sfilate della Haute Couture. Rick Owen è stato più volte definito gothic, per via della sua adolescenza da gothic in California. Lo stilista afferma oggi riguardo il gothic: “ha fatto davvero parte della mia crescita. Era esotico, stravagante. Sesso e morte”. La scena gothic è considerata dallo stilista “estrema - come il punk rock ma più glamour” (ibidem, p.91). In ogni caso entrambe le culture giovanili hanno costituito una fonte inesauribile per la moda, influendo fortemente sui codici estetici del vestire. In particolare il gothic nella spettacolizzazione e estetizzazione della morte, nel tradurre in chiave glamour l’intimità e le sollecitazioni sia spirituali sia depressive e “malsane”, ha costituito un costante punto di riferimento soprattutto per l’Haute Couture degli anni Novanta.
Nelle sue collezioni, a partire da metà del decennio scorso, Gareth Pugh ha spesso fatto riferimento all'immaginario simbolico relativo al gothic e al cyberpunk, mescolando l'idea di un retro-future con le suggestioni provenienti dalla scena post-punk.
Note bibliografiche
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Tuttavia negli anni Dieci qualcosa è cambiato...
La gonna inizia a entrare nelle collezioni maschili di diversi designer, da Frankie Morello a Riccardo Tisci.
Note bibliografiche
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Note bibliografiche
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