antropologia culturale (6 crediti)
accademia belle arti napoli
il corso attraversa le tematiche fondanti l'antropologia culturale e le tecniche di ricerca sul campo, in particolare l'osservazione partecipante, che intorno agli anni '20 e '30 diventa il metodo per eccellenza con cui vengono studiati popoli lontani, dagli aborigeni delle isole di Trobriand ai Dogon del Mali.
fenomenologia delle mode urbane I (6 crediti)
accademia belle arti frosinone
la finalità del corso è quella di approfondire alcuni processi identitari che emergono in determinati contesti storici, sociali e culturali. Particolare enfasi viene attribuita alle riflessioni di Dick Hebdige e Ted Polhemus riguardo la possibilità di analizzare le culture giovanili come forma di rivolta simbolica ai codici degli adulti e alla società, che in seguito vengono metabolizzate, ridefinite e riproposte dal mondo della moda. Da questa angolazione saranno presi in esame i zoot-suiters, i teddy-boys, i mods, i punks, gli skinheads, i rappers, le gothic-lolite, i cosplayers, gli hipsters e altre culture giovanili che hanno fatto da battistrada all'evoluzione di alcune tendenze sociali.
i libri di testo per l'esame:
A.Castellani, Pillole, dispense online presenti in questa sezione
A.Castellani, Estetiche dei ribelli per la pelle. Storia e cultura dei tatuaggi, Costa & Nolan, Milano 2005
A,Castellani, Mondo Biker. Bande giovanili su due ruote, Donzelli, Roma, 1997
D.Hebdige, Sottoculture, Costa & Nolan, Genova, 1983
i libri di testo consigliati:
G.Carpita, Gothic lolita. Storia, forma e linguaggi di una moda giapponese, Società editrice la Torre, Caserta, 2012
A.Castellani, I ragazzi di Tokyo, Liguori editore, Napoli 1997
I.Chambers, Ritmi urbani, Costa & Nolan, Genova, 1986
P.Colaiacomo,V.C.Caratozzolo, La Londra dei Beatles, Editori Riuniti, Roma, 1996
F.Fabbri, Lo zen e il manga. L'arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano 2012
S.Reynolds, Retromania. Musica cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Isbn edizioni, Milano, 2012
Pillola n.1: che cosa è la moda?
La moda non è semplicemente uno svago estetico, né una forma di creatività più o meno frivola, né un accessorio decorativo, ma costituisce una chiave di volta della vita collettiva.
fenomenologia delle mode urbane II (6 crediti)
accademia belle arti frosinone
Il corso ripercorre alcuni passaggi nodali della relazione tra moda, identità e genere. Si prende in esame il rapporto tra maschile e femminile, a partire dalla metà dell'800 fino ai primi anni '60 del secolo scorso, in cui sostanzialmente l'uomo attua “la grande rinuncia” vestendo sobriamente in nero, come rappresentazione simbolica di una etica pratica votata alla produzione, mentre le donne nello stesso periodo si abbigliano per apparire, per essere guardate, per consumare. Dai primi anni '60 del secolo scorso, con qualche avvisaglia tra i mods e poi in maniera decisamente più sfaccettata tra alcuni stilisti e soprattutto tra gli hippies (alla fine del decennio), si ridefiniscono in maniera più marcata i confini culturali e vestimentari tra maschile e femminile.
Inoltre vengono approfondite le definizioni concettuali relative all'etnocentrismo, al razzismo, alla trance, al totemismo, ai riti.
La factory di Andy Warhol e le rivolte di Stonewall nel 1969 costituiscono un interessante e irrompente laboratorio per la ridefinizione del genere e per l'emergere della rivendicazioni gay. A partire da ciò vengono analizzati diversi aspetti che, soprattutto dagli anni '80, smantellano e innovano i confini culturali e simbolici tra maschile e femminile, come il fiorire di modelli androgini dalle collezioni Armani fino alla cultura gothic del decennio successivo, o nel fenomeno riot grrrl, alle pussy riots, fino alle operazioni di cross-dressing, nel drag kinging e nel cosplay.
Particolare enfasi viene posta alla “rinaturalizzazione” del corpo femminile a partire dagli anni ’90 del secolo scorso.
i libri di testo per l'esame:
A.Castellani, Vestire degenere: moda e culture giovanili, Donzelli, Roma 2010.
J.Butler, Corpi che contano: i limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996, pp.114-184.
M.Garber, Interessi truccati: giochi di travestimento e angoscia culturale, Raffaello Cortina editore, Milano
1994.
Lipovetsky, L'impero dell'effimero, Garzanti, Milano 1989, cap.III (esaurito, chiedere fotocopie al docente).
i libri di testo consigliati:
L.Bovone, L.Ruggerone (a cura di), Che genere di moda?, Franco Angeli editore, Milano 2006
J. Jack Halberstram, Gaga Feminism. Sex Gender the End of Normal, Beacon Press, Boston, Massachusetts,2012
E.Kosofsky Sedgwick, Stanze segrete. Epistemologia e politica della sessualità, Carocci, Roma 2011
M.Foucault, Storia della sessualità, II, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984
M.Foucault, Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1992
M.Marzano, Sii bella e zitta, Mondadori, Milano 2010
N.K.Monen (a cura di), Riot Grrrl. Revolution Girl style Now, Black Dog Publishing Limited, London 2007
A.McRobbie, The Aftermath of Feminism. Culture Gender and Social Change, Sage, Los Angeles 2009
qualche argomento trattato:
Gli anni Sessanta e la moda unisex
Gli anni Sessanta rappresentano una cesura definitiva rispetto al passato. Improvvisamente alcuni cambiamenti radicali allontanano per sempre il presente e il futuro possibile dal passato più recente.
Viene posta un'attenzione particolare alle tematiche relative al tatuaggio e all'identità di genere.
i libri di testo per l'esame:
M.Augé, J-P.Colleyn, L'antropologia del mondo contemporaneo, Elèuthera, Milano 2006
A.Castellani, Vestire degenere: moda e culture giovanili, Donzelli, Roma 2010
A.Castellani, Estetiche dei ribelli per la pelle. Storia e cultura dei tatuaggi, Costa & Nolan, Milano 2005.
qualche tema trattato:
Il corpo tatuato tra nascondimento e alterità
Secondo la Genesi il primo tatuato della storia, più precisamente segnato, è Caino, la cui discendenza sarà maledetta. Tra i caratteri distintivi che costruiscono la percezione e la rappresentazione del tatuaggio in occidente c’è quello di essere un marchio maledetto. Un radicale ostracismo ha contraddistinto coloro che avevano impressi dei segni sulla pelle, su quel corpo che stando al cristianesimo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e quindi non va alterato. D’altronde, ancora prima della tradizione giudaico-cristiana, secondo l’ideale estetico dell’antica Grecia la verità e la bellezza sono nude, non nascoste o mascherate da decorazioni o infingimenti, tanto meno guastate da tatuaggi o da segni indelebili sulla pelle. In maniera categorica il bello viene vincolato al buono, in base al principio sia etico che estetico del καλὸς καὶ ἀγαθός. La bontà si rispecchia nella bellezza naturale, senza veli o filtri.
Il termine “moda” si riferisce al tempo stesso a un modello condiviso e a una tendenza innovativa, di per sé concetti contrastanti se non proprio opposti. Un modello condiviso può essere per esempio l’uso prevalente del jeans, portare gli stivali sopra i pantaloni, avere i capelli lunghi e lisci. È un canone estetico predominante, che è facilmente deducibile dall’osservazione di un luogo pubblico e da ciò che prevalentemente viene indossato da un gruppo di persone più o meno ampio in un dato periodo storico, in una determinata area geografica. In questo caso la parola “moda” corrisponde alla media, alla prevalenza di un gusto che consideriamo “normale”. Ci rendiamo conto di esso soprattutto quando cambia o in rapporto al passato: ad esempio, riguardando le riviste o i film degli anni Ottanta ci si accorge che il canone estetico prevalente erano i capelli corti o lunghi e mossi, ricci rispetto a quello contemporaneo, in cui spesso i capelli sono lisci.
Per moda si intende anche un gusto, una ricerca creativa, una tendenza innovativa (in contrapposizione quindi a un modello già approvato e partecipato). È l’uso, l’adozione o la promozione di codici estetici nuovi, particolari, non ancora condivisi che costituiscono una forma di mutamento rispetto al passato e di interpretazione della realtà contemporanea. Sono modelli e stili che possono essere creati da uno stilista, da un gruppo di persone, da soggetti che vivono in contesti sociali particolari.
In genere quando si parla di moda ci si riferisce al mondo dei vestiti e degli accessori, ma nel suo senso più ampio essa coinvolge anche molti aspetti della vita quotidiana, dall’arredamento, allo stile di vita, alla musica, alla cultura popolare e alle più svariate forme di consumo.
Per saperne di più:
Bovone, L., (a cura), 1997, Mode, Milano, Franco Angeli.
Codeluppi, V., 2002, Che cosa è la moda?, Roma, Carocci.
Lipovetsky G., 1987, L’empire de l’éphemère, Paris, Gallimard; trad. it. 1989, L’impero dell’effimero, Milano, Garzanti.
Simmel, G., 1895, Die Mode; trad. it. 1985, La moda, Roma, Editori Riuniti.
Pillola n.2: il rapporto tra identità e moda
La moda gioca in maniera più o meno consapevole, seria con l’identità individuale. Come afferma Umberto Galimberti “la moda scherza col tema più grave della coscienza umana, il tema dell’identità, incessantemente proposto dall’interrogativo ‘chi sono io?’”(U.Galimberti, “Moda. Quando l’abito diventa simbolo”, La Repubblica, 20 agosto 2005). L’abito e le forme di consumo contribuiscono a determinare
Solo in epoca relativamente recente ha preso piede la percezione di un corpo suscettibile di modifiche personalizzate, considerato come parte integrante nella costruzione di una identità non data in sorte una volta per tutte ma passibile di sperimentazioni e di cambiamenti anelati e ammessi, che ridefiniscono i confini tra esteriorità e interiorità, flettendosi all’instabile cambiare delle inclinazioni individuali e al desiderio di metamorfosi del sé.
Fino al XIX secolo il tatuaggio appare come un segno distintivo dei selvaggi, dei criminali, delle prostitute, ovvero di coloro che appartenevano ai sotterranei della storia, che abitavano i territori della marginalità, in genere senza possibilità di riscatto e di partecipare alle perentorie promesse del progresso. Le stesse teorie positiviste contribuiscono a avvalorare scientificamente l’idea che sia un marchio per diseredati, un chiaro e inequivocabile segno di criminalità. Il tatuaggio, come l’isteria per la psicoanalisi alla sua costituzione come disciplina, gode di un notevole interesse nei primi studi di antropologia criminale proprio perché la scienza naturale ritiene di poter vedere il male in modo ineludibile, intrecciando in maniera meccanica interiorità e esteriorità, natura e cultura. Nella seconda metà dell’Ottocento la tematizzazione della pazzia e della devianza ha la sua ratificazione certa in un corpo tatuato, nelle carni marchiate, segno evidente e indiscusso di perdizione fisica e morale.
Richard Hamilton, 1956 collage, ‘Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?’
L’attrice Julie Christie, intervistata insieme a altre giovani celebrità della Swinging London in Tonite. Let’s All Make Love in London (1967) di Peter Whitehead, afferma riguardo ciò: “mi sembrano tempi buoni; adesso tutto è molto più facile di quanto potesse essere prima”.
Il tatuaggio accomuna all’epoca i marginali “nostrani” e i primitivi, coloro che abitano luoghi lontani, entrambi confinati in una condizione di inferiorità. Le cause del tatuaggio, afferma Cesare Lombroso, vanno ricondotte principalmente all’
atavismo, come riproduzione d’un costume diffusissimo tra le popolazioni primitive e tra i selvaggi, con cui i criminali hanno tanta affinità […] per la violenza delle passioni, per la stessa torbida sensibilità, la stessa puerile vanità e il lungo ozio; e ancora l’atavismo storico come sostituzione di una scrittura con simboli e geroglifici alla comune alfabetica[1].
La giovinezza diviene un punto di osservazione privilegiato, misura di tutte le cose. Protagonisti di opportunità ancora mai sperimentate, ancora relativamente inconsapevoli delle contropartite date dai nuovi consumi, i Rolling Stones cantano in “Have you seen Your Mother, Baby, Standing in the Shadow?” (1966) “perché sei giovane (questo è il salto rivoluzionario dei Sessanta)/perché sei giovane (questo è il salto rivoluzionario degli Ottanta)” ipotecando precipitosamente anche il futuro, visto che le culture giovanili e i giovani in generale saranno certamente meno decisivi o percepiti come meno rilevanti nello scenario gli anni Ottanta e dei decenni a seguire (Savage 1982).
l’identità individuale.In un certo senso l’affermazione “l’abito fa il monaco” pone l’accento sul fatto che i nostri abiti esteriori raccontano molto del nostro habitus interiore, ovvero della affinità e della dialettica tra ciò che siamo interiormente e ciò che affermiamo di essere tramite i nostri vestiti e gli oggetti che scegliamo per rappresentare noi stessi, di qualunque natura essi siano (musica, accessori, ipod, cappelli, divani, ecc.) I consumi, le mode costituiscono inoltre dei “ponti” o delle “barriere” che, a livello simbolico, interpretano la realtà contemporanea e dichiarano anche agli altri ciò che siamo e ciò che non siamo, ciò in cui ci riconosciamo e ciò che rifiutiamo più meno indirettamente. Se indosso sempre le sneakers, dirò di me non solo ciò che mi piace, per esempio il fatto che mi piace vivere in maniera confortevole e camminare, ma anche il tipo di uomo o donna che non sono (non sono un tipo da Tod’s, non sono una donna con i tacchi a spillo, ecc.) Se indosso i Doc Martens, i jeans, le bretelle e una Fred Perry creo simbolicamente un ponte che mi unisce a altri skinheads e al tempo stesso tiro su una barriera con chi non è skinheads. Il vestire ci parla di uno stile di vita e rappresenta la nostra identità sociale, chi siamo a livello di gruppo. Al tempo stesso tramite i consumi che indossiamo, gli oggetti di cui ci circondiamo rappresentiamo, “mettiamo in scena” ciò che vorremmo essere, ciò che rappresenta il nostro ideale in termini di identità, come ci piacerebbe essere visti dagli altri. Se al lavoro mi metto un tailleur elegante, costoso e sobrio evidentemente voglio dare di me l’immagine di una professionista seria e quotata, oltre che adottare o interpretare il codice vestiario richiesto nel luogo in cui presto la mia opera.
Il tatuaggio rappresenta un marchio indelebile nel definire il destino di una persona. La correlazione con il malaffare appare immediata e incontrovertibile, avvalorata da perentori quanto vaghi e indimostrabili principi scientifici.
Incisione sulla carne non del tutto ignota in occidente, seppure praticata in maniera decisamente limitata o nell’antichità solo da alcuni i popoli, la diffusione del termine “tatuaggio” avviene tramite James Cook, di ritorno dal suo primo viaggio nei mari del sud. È una parola tahitiana che in maniera onomatopeica riproduce il rumore “tau-tau”, dato dal battere sulla pelle di uno strumento che viene utilizzato per incidere le carni. In italiano poi il termine viene mediato dal francese tatouage. Scrive James Cook nei suoi diari di bordo «uomini e donne si dipingono il corpo (tattow come lo chiamano) facendo penetrare del colore sotto la pelle in modo che rimanga indelebile»[2].
Prodigiosa avventura commerciale, marinara e scientifica, la prima spedizione di Cook è ricca di descrizioni, di diari, di annotazioni e disegni di coloro che devono raccontare a chi non può vedere cosa giace in luoghi così remoti. Differenti scritture costituiscono anche la tessitura di diversi punti di vista nei confronti delle popolazioni incontrate e di stratificazioni di versioni successive redatte dai curatori dei diari, vissuti anche in epoche posteriori, che contribuiscono alla mitizzazione di popolazioni e di paesaggi lontani.
Fatta eccezione per San Francisco e New York, i luoghi per eccellenza della moda e del ribellismo giovanile si spostano e tendono a coincidere nella Swinging London, là dove si propone una moda giovane e abbordabile, là dove si sperimenta un nuovo stile di vita. Per non parlare delle vere icone dell'epoca, i Beatles, star adolescenti sempre sorridenti, che simbolizzano un nuovo stile di vita emerso a Londra nei primi anni Sessanta: popolare, giovane, accessibile e decisamente mutevole nei modi di vestire e nei nuovi consumi, di cui molti sono appena apparsi sulla scena. Come l’uso dell’LSD, a cui i Beatles fanno spesso riferimento nelle loro canzoni, come in “Lucy in the Sky with Diamonds”. D’altronde i Beatles rappresentano un fenomeno perfettamente integrato di mode, costumi, canzoni, codici visuali che costituiscono il primo grande contenitore simbolico per i giovani di tutto il mondo. Esemplificano un universo nuovo.
Per saperne di più:
Calefato, P. 2007, Mass Moda. Linguaggio e immaginario del corpo rivestito, Roma, Meltemi.
Castellani, A. “Contaminati dalla merce”, in Massimo Ilardi (a cura), 1990, La città senza luoghi, Genova, Costa & Nolan.
Douglas, M,Isherwood B.,1979, The World of Goods, New York, Basic Books; trad. it. 1984, Il mondo delle cose: oggetti, valori, consumo, Il Mulino, Bologna, 1984.
Eco, U., 1972, “L’abito parla il Monaco”, in AA.VV., Psicologia del vestire, Milano, Bompiani.
Goffman, E., The Presentation of Self in Everyday Life, Garden City (N.Y.), Doubleday; trad. It. 1969, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino.
Qualcosa di interessante da vedere:
Appunti di viaggio su abiti e città (Notesbooks on Cities and Clothes), W.Wenders, Germania, 1989.
Pillola n.3: il rapporto tra moda e cultura
Ogni novità, cesura rispetto al passato non è mai neutra o effimera, ma esprime una visione del mondo, una scelta correlata alla società in cui si nasce e all’aria dei tempi che implicitamente si respirano. Da questa angolazione la moda è sempre una forma di interpretazione della società, sia avallandone modelli prevalenti o emergenti sia sovvertendoli.
Anche gli stilisti quindi sono condizionati dal mondo circostante, dalla cultura in cui sono cresciuti, dai modelli sociali predominanti, anche se spesso si ritiene la creazione un atto solitario, dato dal puro talento individuale. Rei Kawakubo ha sostenuto “quello che faccio non è influenzato da ciò che accade nel mondo della moda o della cultura. Parto da oscure immagini astratte, per creare un nuovo concetto di bellezza”. In realtà la stilista giapponese è diventata famosa a livello mondiale proprio perché ha smantellato il canone femminile e estetico predominante in occidente, che conosceva molto bene.
La moda quindi, come l’identità, si nutre della cultura in cui si sviluppa e diffonde.
Questi sono alcuni esempi in cui si vede la relazione tra moda, l’emergere di culture giovanili e il contesto sociale e economico in cui nascono e si diffondono:
· Le “armadillo” di Alexander McQueen, scarpe particolarissime con un tacco smisurato e improbabile, tanto difficili da indossare da essere rifiutate da un gruppo di modelle per evitare di cadere in passerella, corrispondono a una tipologia di donna iperfemminile tipica degli anni Zero e non a caso sono particolarmente amate da lady Gaga
· Le minigonne primi anni Sessanta di Mary Quant, che introducono un nuovo modello femminile, decisamente adolescenziale e ludico, meno austero e élitario rispetto alle proposizioni dell’haute couture dello stesso periodo, si correlano all’emergere dei consumi giovanili, della prima generazione di ragazze scolarizzate e della classe media nella Swinging London
· Il modo di vestire e di consumare dei mods, che nei primi anni Sessanta sono presenti a Londra, introduce uno stile di vita correlato ai consumi, ai divertimenti notturni, alle droghe sintetiche e a una mobilità accessibile anche ai giovani della classe operaia, tramite la vespa o la lambretta, rappresentando una inedita visione della modernità e della metropoli
· Gli hippies dei tardi anni Sessanta esprimono, tramite un modo di vestire pauperistico e casual, il rifiuto della società consumista e uno stile di vita fondato solo su valori materiali, centrati sulla vita lavorativa e sulla ascesa professionale, che costituiscono invece l’orizzonte valoriale della classe media, da cui essi prevalentemente provengono
· Il punk a metà anni Settanta mette in scena e interpreta simbolicamente la crisi economica che investe la Gran Bretagna e i Paesi occidentali e il nascere di una differente visione del mondo giovanile, che si esprime tramite l’uso di materiali quali il pvc, il latex (in netta contrapposizione rispetto ai materiali “naturali” usati dagli hippies) e tramite alcuni simboli che rimandano alla sconfitta e al ruolo di vittime, quali t-shirt stracciate, la grafica “rozza” tramite l’uso del collage, la lametta e la spilla da balia come ornamento, ecc.
· Il gothic nei tardi anni Ottanta rappresenta a livello simbolico lo stato depressivo dei giovani della classe media, che hanno avuto modo di coltivare molti interessi e che al tempo stesso vivono in una società in cui in fretta si sta logorando il ruolo della classe media e dei giovani stessi (che proprio in quel periodo cominciano a sperimentare una condizione di precarietà lavorativa e di dilazione dell’entrata in ruoli lavorativi rilevanti e stabili)
· L’hip-hop esprime una forma di rivolta simbolica afroamericana che nasce nel Bronx (un quartiere degradato di New York) nei tardi anni Settanta e che si pone in contrapposizione sia a valori prevalenti americani appartenenti alla classe media “bianca”, sia alla protesta politica afroamericana degli anni Sessanta e Settanta
· Le gothic lolite in Giappone, nate a metà degli anni Novanta, mettono in scena l’opulenza giapponese e un modello di donna bambineggiante, in netta contrapposizione con l’austerità asessuata dettata dai più famosi stilisti giapponesi e con la “bolla” economica che comincia a deflagrare proprio in quel periodo e che porta il Giappone a un decennio di stallo in termini di crescita.
Per saperne di più:
Barthes, R., 1967, Système de la Mode, Paris, Seuil; trad. It. 1970, Sistema della moda, Torino, Einaudi.
Colaiacomo P., Caratozzolo V.C. (a cura), 2002, Mercanti di stile: le culture della moda dagli anni '20 a oggi, Roma, Editori Riuniti.
Steele, V, 1996, Fetish: Fashion, Sex & Power, Oxford University Press; trad. It. 2005, Fetish. Moda sesso potere, Roma, Meltemi.
Qualcosa di interessante da vedere:
Il diavolo veste Prada (The Devil Wears Prada), D.Frankel, USA, 2006.
Pillola n.4: moda e genere
Proprio perché la moda è correlata all’identità, ai ruoli sociali e al contesto storico e culturale inevitabilmente mette in scena e ratifica anche i rapporti di genere, la relazione tra maschile e femminile, e gli eventuali sconfinamenti rispetto a questo modello binario.
In maniera trasversale alle classi d’età e alle classi sociali si fa improvvisamente avanti un atteggiamento diverso nei confronti dei ragazzi. I giovani acquistano un ruolo sociale decisivo. David Puttnam, cresciuto nella Swinging London, ha raccontato recentemente che, pur dandosi molto da fare, i suoi superiori tendevano a tenerlo in disparte nella agenzia pubblicitaria in cui allora lavorava. Per sottolineare il periodo e i fulminei cambiamenti che lo caratterizzano ricorda del rapporto con i suoi capi
[. ..] di solito avevo un vestito bianco e i miei capelli erano piuttosto lunghi. E quando loro dovevano mostrare l’agenzia a un nuovo cliente, invariabilmente passavano piuttosto velocemente davanti alla mia stanza. Ma nel giro di un anno la mia stanza divenne una tappa fissa per fermarsi: “guarda questo pazzo ragazzo” (Levy 2002, pp.7-8).
L’emergere di un benessere diffuso crea un consumo di massa e nuovi bisogni prettamente giovanili. Il mondo degli adulti sembra arrancare, con il fiato corto, per adeguarsi ai tempi nuovi. La stessa televisione, nata nel decennio precedente, inizia a influenzare i gusti e gli stili di vita. Punto di snodo di passioni, desideri e passaggio obbligato di nuove star musicali è una trasmissione del sabato pomeriggio Ready Steady Go!, che diviene un mito per una intera generazione. Il critico musicale Paolo Hewitt riassume il ruolo svolto dal programma televisivo in una frase: “insegnò ai ragazzi di una intera nazione cosa vestire e come vestirlo” (Hewitt 2000, p.63).
Il resoconto più puntuale sui tatuaggi tahitiani viene dato da uno dei disegnatori di bordo della spedizione, Sidney Parkinson, che annota nei diari pubblicati postumi dal fratello Stanfield, «i nativi sono abituati a marchiarsi in maniera molto singolare, che loro chiamano tatuaggio (tattaowing); lo fanno con un estratto di una pianta; ed eseguono l’operazione con uno strumento che ha i denti come quelli di un pettine con cui perforano la pelle dopo averlo immerso nell’estratto»[3].
Parkinson è anche tra i primi occidentali a disegnare quei mondi sconosciuti, che all’epoca non si sa ancora se appartengano a un arcipelago o a un continente tutto da esplorare, raffigurando scenari esotici e popoli tatuati, che in seguito costituiranno un riferimento culturale e visuale che ha alimentato un articolato immaginario esotico riguardo il tatuaggio e gli elementi decorativi da tatuare in occidente.
Il cambiamento sociale è così repentino che lo stesso mondo della moda si ritrova a ridefinire i propri punti di riferimento. Chiosa Time nel 1966:
Harper's Bazaar di solito sapeva dire “quest'anno si vestirà di verde” o quant'altro, dice il suo direttore, Nancy White, “ma ora non più”. Il direttore di Vogue, Diana Vreeland, concorda che ciò che dà alla nuova moda un'aria fresca e vitale è la giovinezza: “questa generazione sta via, fuori casa, e fa le cose a modo suo”. Come risultato, nota la Vreeland è che “nessuno si sente obbligato a vestire ciò che non vuole” (Time 1966, December 1)
Le ragazze di allora incarnano una nuova immagine femminile, al tempo stesso più popolare e più vicina al mondo dei coetanei, meno ingessata nei ruoli di madre o di futura signora. La stessa Mary Quant riassume la tipologia di ragazza che rappresenta l'aria dei tempi
la Chelsea girl, quella originale, che indossava stivali di cuoio e calze nere, e arrivava dalla King's road con l'aria di un allegro moschettiere dei nostri tempi, cominciò a essere copiata dal resto di Londra e a essere osservata con interesse da altri, in tutta la nazione. Ben presto il suo look sarebbe stato copiato su scala internazionale. Il provocante modo di vestire di questa ragazza fu accettato come una sfida. Fu lei a stabilire una volta per tutte che la seconda metà del XX secolo appartiene alla Giovinezza (Quant 1966, p.231).
È a partire dai quei primi viaggi nei mari del sud e dai mirabili resoconti di viaggiatori del Settecento, come James Cook e Auguste de Bougainville, che si sedimenta una rappresentazione esotica riguardante remote etnie dislocate in arcipelaghi del sud-est asiatico, in cui i tatuaggi svolgono un ruolo rilevante nel definire l’alterità di popoli sconosciuti e lontani, nella costruzione di ciò che Edward Said definisce orientalismo. Scrittura del paradiso per alcuni, chiaro marchio dell’inferno per altri, il tatuaggio costituisce tra gli europei un elemento di edificazione e di rappresentazione del selvaggio, pensato di volta in volta secondo le categorie del buon selvaggio o dell’irrecuperabile primitivo.
Bougainville, approdato a Tahiti nel 1768, pochi mesi prima di James Cook, è colui che maggiormente contribuisce all’idealizzazione dell’isola e alla tessitura di un immaginario esotico, in cui i popoli del sud-est asiatico riproducono e convalidano il mito di una umanità felice al suo stadio primigenio. Afferma l’esploratore francese «Venere è là la dea dell’ospitalità, il suo culto non ammette misteri, ed ogni godimento è una festa per tutti […] mi credevo trasportato nel giardino dell’Eden»[4].
Di fronte all'emergere della Swinging London atavici confini di classe, che identificano, circoscrivono e al tempo stesso separano, subiscono uno scossone che ha una sua immediata traduzione nella moda. Biba, riferendosi alla sua clientela, afferma “Le classi si mescolavano [...] non c'erano distinzioni sociali. Il denominatore comune era la giovinezza e la ribellione contro l'establishment” (Hulanicki 1983, p.249).
L’orientalismo e la costruzione mitizzata dell’altro riproducono sogni implicitamente maschili, in cui l’oriente appare femminilizzato e passivo, di contro a un uomo occidentale, conquistatore, virile, dominante.
L’occidente descrive l’oriente e l’incontro con l’altro tramite una rappresentazione funzionale al potere coloniale, in cui gli oggetti e le persone sono implicitamente “curvati” alla dominazione e a una percezione maschile dell’autorità.
Nel 1960 il matrimonio della sorella della regina Elisabetta, Margaret, con un borghese fotografo di moda e di teatro, ribattezzato Lord Snowdon, all'epoca ne è un vistoso esempio: la faglia culturale ha toccato anche i Windsor. Si è consumato un profondo cambiamento rispetto al passato fatto di steccati precisi e invisibili che separano per sempre i destini delle singole persone. È una onda propulsiva che genera un rimescolamento complessivo, scardinando alcuni aspetti maggiormente tradizionali e gerarchici della vita sociale, tanto che i mods, quei adolescenti inglesi della classe operaia, di cui il protagonista di Principianti assoluti di Colin Mc Innes è un precursore, sembrano contaminare nello stile anche la casa reale inglese “persino i pari del regno diventano mods” proclama “Life International” nel 1966 in un articolo intitolato “Spread of the Swinging Revolution” (Steele 1990, p.202). Mod, da modernist. “Moderno”, parola magica da cui nessuno, quasi improvvisamente vuol rimanere escluso.
Laddove il popolo tahitiano sembra accondiscente e disponibile, anche in termini sessuali, l’incontro con altre popolazioni è meno paradisiaco. I maori, con i loro volti tatuati, appaiono orribile visu ai primi occidentali che approdano in Nuova Zelanda, suscitando paura e apprensione, anche per la bellicosità con cui gli occidentali vengono accolti. Se i tahitiani e altri popoli del sud-est asiatico si tatuano il corpo, ma non il viso, i maori hanno invece anche il volto tatuato, tramite il cosiddetto moko. Ciò costituisce un elemento di forte repulsione e preoccupazione per gli occidentali. Joseph Bank, altro personaggio di spicco e uno dei finanziatori del primo viaggio di James Cook, annota nei suoi diari «le loro facce sono davvero eccezionali; su di esse c’è una qualche arte a me sconosciuta, essi scavano solchi di una linea profonda a dir poco, come spiccata, i cui margini sono spesso dentellati, e decisamente nera. Ciò sembra fatto per farli sembrare spaventosi in guerra, certamente ha l’effetto di renderli enormemente ripugnanti»[5]. Anche quando il tatuaggio è praticato, tollerato o accettato in occidente, non riguarda mai il viso, una parte del corpo sempre scoperta, che costituisce l’elemento fisico predominante nel definire l’identità, l’unicità e l’inviolabilità di un individuo. “Intaccare” il viso è tuttora un gesto particolarmente deprecato.
La moda per un lungo periodo, dalla rivoluzione francese (1789) fino agli anni Sessanta del secolo scorso, ha rappresentato prevalentemente il mondo femminile. Gli uomini vestivano più o meno alla stessa maniera, in maniera egalitaria e sobria, secondo i dettami del codice borghese, mentre il corpo femminile costituiva un turbinìo di colori e decorazioni volti a esaltare una figura socialmente debole, il cui ruolo era sostanzialmente quello di rappresentare una sorta di trofeo, in termini di gradevolezza estetica e di opulenza economica, in una società fortemente patriarcale. Mentre l’uomo occulta il corpo in un vestito che nasconde l’individualità e i vezzi (cari esclusivamente ai dandies), la donna rappresenta in maniera evidente lo status sociale del suo accompagnatore. E la moda esprime quindi sia la fragilità di un ruolo femminile, l’opulenza, le gerarchie sociali, la caducità e la mutevolezza effimera (che sembravano proprie del mondo femminile).
Mentre l'Haute Couture si ripensa in termini strategici, in concidenza con la nascita del prêt-à-porter, indirizzato specificatamente alla classe media, si affaccia alla ribalta una moltitudine di giovani che non ha precedenti. Nella Londra presto incoronata come la Swinging London si fa avanti un mondo che fino a allora era rimasto ai margini o che semplicemente non aveva avuto in termini numerici così tanta visibilità. Non senza una enfasi approssimativa un ristoratore italiano, Alvaro Maccioni, emigrato a Londra molto giovane afferma ricordando l'atmosfera di allora “era qualcosa da impazzire! Il nuovo secolo è cominciato nel 1960. Dopo di ciò è stato solo un perfezionamento di quello che avevamo iniziato” (Levy 2002, p.3). Pur dimenticando un paio di guerre e quant’altro, ciò che è interessante in questa affermazione è l’emergere della centralità della propria esperienza di vita per una determinata generazione - tanto da sussumere o almeno ricalibrare gli eventi nodali della storia contemporanea - e la consapevolezza che questa ha influenzato fortemente gli anni futuri: è l'imporsi di un gusto nuovo, di consumi fino a quel momento solo vagamente abbozzati, che a partire dagli anni Sessanta cambiano notevolmente il mondo. Se il tempo libero fino a allora era stato percepito e bollato come un allontanamento dagli aspetti più importanti della vita, ora diventa progressivamente una forma di conoscenza, uno degli elementi costitutivi della cultura popolare.
Sin dalle prime esplorazioni e durante l’imperialismo coloniale, l’orientalismo ha trovato molte traduzioni e interpretazioni a fior di pelle. A partire dalla fine dell’Ottocento una élite, soprattutto britannica, si è lasciata affascinare dai tatuaggi esotici, in particolare dalla finezza dei tatuaggi giapponesi, divenuti comuni nei porti franchi di Nagasaki e di Yokohama. Molti militari e funzionari di stanza in oriente cominciano a farsi incidere le carni, come peculiare souvenir di un periodo trascorso nel sud-est asiatico, trasformando ciò che in occidente era percepito come un marchio per diseredati in un segno distintivo, in qualcosa di glamour da esibire. Tra questi anche il viaggiatore francese Pierre Loti, che descrive con una certa leziosità, in La signora Crisantemo, quando lasciando Nagasaki si è fatto tatuare, «in seguito alle mie frequentazioni tra gli esseri primitivi, in Oceania e altrove, ho preso il deprecabile gusto dei tatuaggi; così ho deciso di portare via come curiosità, come gingillo, un saggio della maestria dei tatuatori giapponesi, che hanno una finezza nel tratto senza uguali»[6].
Dagli anni Sessanta del secolo scorso la moda e le mode scoprono e vengono scoperte dal mondo maschile, contribuendo a una profonda innovazione e a un radicale cambiamento che nel frattempo coinvolgono tutta la società, sia a livello economico che culturale. Pierre Cardin crea la prima collezione maschile prêt-à-porter; i mods a Londra cominciano a scoprire i colori, vestendo in maniera meno anonima, apprezzando le mèches e lo styling dei capelli; Geri Gernereich realizza il monokini, un costume da bagno indossabile da entrambi i sessi.
“Unisex” diviene una parola magica, i ragazzi e le ragazze si inseguono nel paradigma dell’assimilazione. I pantaloni e i jeans vengono indossati anche dalle donne, non senza resistenze da parte di molti (tanto che in alcuni ristoranti esclusivi non venivano accettate, nella New York degli anni Sessanta). In questo periodo la moda rappresenta, mette in scena la condizione giovanile, che diviene una categoria assoluta, idealizzata; ciò si traduce anche in una parziale sospensione delle tradizionali distinzioni di genere. A questo proposito Roland Barthes, famoso semiologo francese, afferma: “nella moda è l’età che è importante, non il sesso”.
Molte ragazze diventano protagoniste della scena londinese. Vera icona della Swinging London, Jean Shrimpton, raffigura con i suoi grandi occhi quello stile fragile, da monella, in linea con la collezione in stile spaziale di André Courrèges e con le minigonne di Mary Quant. Si accompagna al fotografo David Bailey e a Terence Stamp, coloro che contribuiscono a inventare la Swinging London, con un loro stile giovane e da classe operaia, che ha appena rifondato il mondo tramite l’adozione di un gusto proprio. Anche la giovanissima modella Twiggy raffigura una acerba adolescenza tale la sua magrezza. Ricorda Biba
erano le figlie del dopoguerra, con una infanzia priva di proteine, e crescendo erano diventate delle meravigliose creature pelle e ossa. Il sogno di uno stilista. Non gli ci voleva molto per apparire eccezionali. Bastava una cosa semplice e corta. Le loro gambe sembravano infinite. All'improvviso Londra si riempì di ragazze e ragazzi dalle gambe lunghe, che furono l'invidia del mondo intero (Hulanicki 1983, p.249).
La moda in quel periodo flirta molto con l’androginia e dà vita a una parola magica, di per sé una contraddizione in termini: unisex. I confini tra maschile e femminili si smussano; ai ragazzi è concesso indossare capi più frivoli e colorati, alle ragazze vestiti più comodi e pratici. I codici estetici dell’assimilazione sessuale all’epoca sono decisamente innovativi, anche se non sempre risultano affascinanti per l’altro sesso.
Malgrado il fascino tra una cerchia ristretta di occidentali, sviluppatosi anche per la creazione della macchinetta elettrica, che ha reso agli inizi del XX secolo i segni sulle carni meno imprecisi e con un maggiore surplus estetico, la diffusione a livello di massa del tatuaggio avviene in epoca decisamente successiva. Infatti in occidente il tatuaggio, praticato e interpretato come una forma simbolica di ribellione giovanile, raggiunge una notevole popolarità solo con la scena punk a metà degli anni Settanta del secolo scorso. Improvvisamente il tatuaggio comincia a essere in voga nelle culture giovanili, tra quei movimenti che contestano la società adulta, in un periodo in cui si fa avanti anche un rapporto più “laico” con il corpo, che non viene più percepito come un territorio inviolabile ma maggiormente modificabile, in genere per ragioni di salute o prettamente estetiche. Per la prima volta i tatuaggi costituiscono un vero e proprio orizzonte di riferimento per una cultura giovanile, anche se vi erano state alcune avvisaglie negli Stati Uniti con i pachucos, negli anni Trenta e Quaranta, che si tatuavano la croce o l’immagine della Madonna di Guadalupe, e a partire dai primi anni Sessanta con gli hells angels, che si facevano incidere la svastica o il logo dell’Harley-Davidson.
Il punk ha dato un notevole contributo alla diffusione e alla reinterpretazione dei codici simbolici e estetici del tatuaggio, soprattutto tramite il tribale, che costituisce una peculiare combinazione di orientalismo e di invenzione della tradizione. Creato come genere stilistico da un tatuatore punk rock americano di origine filippina, Leo Zulueta, il tribale si ispira ai tatuaggi polinesiani ridefinendo e fondendo differenti aspetti culturali e estetici dell’area del sud-est asiatico in un unico stile. È una forma di rivisitazione dei tatuaggi tradizionali dei mari del sud, che evoca e amplifica l’immaginario relativo al selvaggio, che si era sedimentato a partire dalle prime esplorazioni occidentali. Lunghe e flessuose macchie nere fatte con una punta spessa per tatuare cominciano a decorare le carni di molti giovani; infatti, come i tatuaggi polinesiani o maori, il tribale è esclusivamente nero e non figurativo. L’immigrato Leo Zulueta inventa le radici culturali del suo passato riproducendo e trasformando una tradizione che appartiene a un mondo a lui ormai lontano, inserendola nella cultura punk e nelle forme di ribellismo simbolico contemporaneo alla sua generazione.
Se i mods si phonano per ore i capelli e usano il mascara in maniera poco evidente, è soprattutto a partire dalla cultura hippie nei tardi anni Sessanta con l’utilizzo di capelli lunghi e di accessori tradizionalmente femminili (come braccialetti e collanine) e poi dal glam rock nei primi anni Settanta, in particolare con le figure di David Bowie e di Marc Bolan, che i generi vengono fortemente messi in discussione tramite l’adozione di un codice androgino, artefatto, volutamente ambiguo, che si esprime tramite uno stile vestiario decisamente femmineo. Nel glam rock l’utilizzo di tacchi alti, di paillettes, di un make-up evidente e curato genera uno sconfinamento di genere davvero innovativo, rappresentando una notevole rivolta simbolica nei confronti del mondo degli adulti e soprattutto dei codici maschili.
Il punk riprende dal glam rock lo sconfinamento dei generi, l’adozione della artificialità, di contro le ingenuità e la purezza anti-consumistica del rock degli anni Sessanta e degli hippies. A ciò si aggiunge una sensualità e una visione del corpo decisamente irruenta. Se gli uomini si truccano, si tingono i capelli stilizzandoli in maniera “femminile”, le donne adottano i codici iperfemminili delle donne perdute, dalle calze a rete rotte, al latex. Lo stile fetish, epurato dai toni più provocatori, viene ripreso dalle ragazze gothic in chiave più raffinata e colta, con molte commistioni con le grisaglie vedovili vittoriane, con aspetti mediovaleggiante, vampireschi e quant’altro. I ragazzi gothic rispetto a quelli punk mettono in scena invece una sensibilità, una visione del mondo più intimistica e depressiva (termini un tempo riferiti esclusivamente al mondo femminile) e adottano un codice vestiario decisamente androgino.
Proprio perché la condizione adolescenziale detta nuove leggi e mescola i confini, anche gli stessi protagonisti di allora a volte avevano difficoltà a trovare attraenti le loro coetanee, coloro con cui condividevano gli stessi gusti. Il mod Richard Barnes ricorda quanto trovasse poco seducenti le modettes, le ragazze mod, affermando
Come i ragazzi diventavano più femminili, così le ragazze diventavano più maschili. Portavano le scarpe basse, i capelli corti e gonne senza forma a maglioni che non lasciavano vedere le curve femminili. Sembrava che cercassero di apparire sempre più mascoline [butch] (Barnes 1979, p.16).
Ribaltare il canone maschile/femminile diviene una sfida per molti. L’americano di adozione Rudi Gernereich disegna le sue collezioni unisex sottraendo tutte le connotazioni di distinzione di genere dell’abbigliamento, suscitando molte reazioni negative. Per primo, lo stilista crea il monokini nel 1964, assimilando il costume da bagno femminile a quello maschile. Il designer afferma che lo stile unisex sarà lo stile del futuro. “Un ragazzo in gonna sarà meno ragazzo?” domanda provocativamente a un giornalista della rivista Time, ritenendo che vestire gli stessi abiti è un modo per esaltare le differenze date dal corpo. Gernreich sostiene che “la sessualità non dovrebbe essere giudicata in base ai vestiti. È una cosa spirituale – e una cosa fisica” (Time 1970, Jan.26).
La moda, le innovazioni, le reazioni sono quindi fortemente correlate all’identità di genere e ai suoi eventuali sconfinamenti, mettendo in scena e contribuendo alla diffusione di nuove forme identitarie. Il discorso sulla sessualità e sugli orientamenti di genere nel corso degli anni Novanta e nel decennio a seguire diventa maggiormente articolato e complesso, fluendo tra anatomia e ormoni, tra scelte chirurgiche e nuovi vocabolari, tra sessualità e identità, tra pratiche sessuali e performatività. Le stesse definizioni di “gay”, “lesbica”, “transessuale” diventano un territorio instabile, non dato una volta per tutte, non costruito in maniera monolitica. In ogni caso la mascolinità e la femminilità vengono maggiormente de-naturalizzate, diventando un territorio maggiormente culturale e performativo anche nella moda e nei media. Ciò che è implicitamente dato per naturale lo è molto meno di quanto sembra. E la moda, forse proprio in virtù del suo carattere effimero, poco assertivo, fluido e mutevole, ha contribuito fortemente anche a “sdoganare” comportamenti, codici espressivi che travalicano e che mettono in discussione i generi maschili e femminili. Seppure nello stesso periodo – tra gli anni Novanta e gli anni Zero - riemergano ossessivamente e pedissequamente anche modelli iperfemminili, in cui il ruolo delle donne torna a essere meramente decorativo e centrato su un corpo rappresentato sul modello di una bambola gonfiabile, che sia di una pin-up, di una velina, di una “bonazza” o ispirato al burlesque.
Per saperne di più:
Bovone, L., Ruggerone L. (a cura), 2006, Che genere di moda?, Milano, Franco Angeli
Butler, J., 1993, Bodies That Matter: On the Discoursive Limits of “Sex”, New York, Routledge; trad. It. 1996, Corpi che contano: I limiti discorsivi del “sesso”, Milano, Feltrinelli
Castellani, A., 2010, Vestire degenere. Sconfinamenti dell’identità di genere nelle culture giovanili e nella moda, Roma, Meltemi.
Halberstam, J. 1998, Female Masculinity, Durham (NC), Duke University Press.
Hollander, A., 1994, Sex and Suits: The Evolution of Modern Dress, New York, Alfred A.Knopf.
McRobbie, A, 2009, The Aftermath of Feminism: Gender, Culture and Social Change, Los Angeles, Sage.
Qualcosa di interessante da vedere:
Corpo delle donne, Il, L.Zanardo, Italia, 2009.
Videocracy, E.Gandini, Svezia/GB/Danimarca, 2009.
Paris is Burning, J.Livingston, USA, 1991.
Priscilla, la regina del deserto (The Adventures of Priscilla, the Queen of the Desert), S.Elliott, Australia, 1994.
Transamerica, D.Tucker, Usa, 2005.
Pillola n.5: moda e culture giovanili
Le culture giovanili (altre volte definite subculture giovanili) nascono all’incirca negli anni Cinquanta, con alcune avanguardie negli anni Trenta e Quaranta con i zootsuiters e i pachuco negli Stati Uniti. Le culture giovanili contribuiscono notevolmente a ridefinire la società nel suo insieme proprio per il carattere innovativo e trasgressivo che le caratterizza. In genere per culture giovanili si intendono: i teddy-boys, i mods, i punk, gli skinheads, l’hip-hop, gli skaters e altri. Le culture giovanili sono state definite come forme di ribellione simbolica alla cultura dominante degli adulti e della società nel suo insieme. Spesso le culture giovanili o lo street-style nascono come uno stile antagonista alla società per essere poi riprese dalla moda, che ne smussa i caratteri maggiormente eversivi o “indigeribili”. Ad esempio la stilista Zandra Rhodes, già nell’aprile del 1977, in una sua collezione si ispira al punk, creando abiti lacerati, accessoriati con catene e spille, ricollocando in fretta un sistema di oggetti marginale e “povero” entro il mondo meanstream della moda.
Per saperne di più:
Barile, N., 2005, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda: Moda e stili, Roma, Meltemi.
Canevacci M. et al., 1993, Ragazzi senza tempo. Immagini, musica, conflitti delle culture giovanili, Genova, Costa & Nolan.
Chambers, I, 1985, Urban Rhytms: pop Music and Popular Culture, London, Macmillan; trad. it. 1986, Ritmi urbani, Genova, Costa & Nolan.
Hebdige, D., 1979, Subculture: The Meaning of Style, London, Methuen; trad. It. Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1983.
Polhemus, T., 1994, Street Style: From Sidewalk to Catwalk, London,Thames & Hudson.
Pillola n.6: gli zootsuiters e i pachucos
Tra gli anni Trenta e i primi anni Quaranta del secolo scorso gli zootsuiters (pronuncia “zuutsiuters”) e i pachucos rappresentano le prime forme di contestazione giovanile a livello simbolico della comunità afroamericana e messicana negli Stati Uniti.
La moda maschile negli anni Sessanta diventa scanzonata e ironica. Mentre la moda femminile anche in altre epoche si poteva permettere di scherzare magari senza grande successo commerciale, come nel caso della bigiotteria di Coco Chanel indossata su abiti severi o il cappello disegnato da Salvador Dalì a forma di scarpa per Elsa Schiaparelli, il vestire maschile dopo la rivoluzione francese non ha conosciuto l'ironia, fatta eccezione per i dandies, che si potevano consentire vezzi e frivolezze. L'identità dell'uomo fondata sulla carriera e sul lavoro concedeva pochi spazi al gioco e al divertimento nel vestire, considerati spesso non appropriati a qualcuno che vuol essere considerato maturo e autorevole.
In occidente il tribale è uno stile che inaugura anche una differente percezione e costruzione del corpo. In generale il tatuaggio occidentale, come nella cosiddetta old school, recentemente tornata in auge, si fonda sull’idea che il disegno sia una sorta di quadro sul corpo del tatuato, seppure in rapporto a questo in termini di proporzioni e di scelta della parte da tatuare. Nei tatuaggi orientali invece, come nei tatuaggi giapponesi o maori, solitamente il tatuaggio è maggiormente esteso e segue le linee del corpo o addirittura del viso, come nel caso del moko, determinando notevolmente l’identità individuale e sociale del soggetto, tanto che nel trattato Waitangi del 1840 i maori “firmano” l’accordo stipulato con la corona inglese disegnando il proprio moko.
Una declinazione dell'unisex anni Sessanta è dato dall'immaginario spaziale e fantascientifico, in una chiave più o meno volutamente ludica, beffarda. Il decennio inizia con il primo volo nello spazio compiuto da un uomo, Yuri Gagarin, nel 1961 per arrivare allo sbarco sulla luna del 1969. Le nuove scoperte scientifiche, la possibilità di camminare sulla luna e di esplorare lo spazio rappresentano l’esemplificazione di un mondo ormai “moderno”, la certezza che il futuro sarà ancora più innovativo, con scenari inediti, semplicemente impensabili fino al decennio precedente.
Il tribale riprende l’idea di un tatuaggio che si conforma all’ossatura del corpo e alla sua muscolatura. Infatti è uno stile che enfatizza la costituzione fisica e la sua peculiarità, senza aggiungere una raffigurazione realistica o stilizzata della realtà esterna che a essa si sovrappone o “appende”, che sia una veliero o un fiore, come nella tradizione occidentale o giapponese. Inoltre a livello stilistico il tribale può essere più o meno grande, disegnando una piccola e sinuosa curva che mette in risalto un punto specifico o andando a incidere parti più ampie del corpo, contribuendo notevolmente alla ridefinizione e alla personalizzazione dell’aspetto fisico nel suo insieme. Ciò costituisce uno degli ingredienti del successo del tribale: può essere un segno più o meno esteso, in base a quanto una persona decide di farsi tatuare e di esporre il proprio corpo a una incisione definitiva. Altri stili, come quello giapponese, sono invece decisamente più impegnativi perché implicano un full body o comunque una area più vasta da tatuare, proprio perché chiamano in causa un intreccio complesso tra arte figurativa e morfologia del corpo umano. Il tribale consente invece di sentirsi selvaggi anche con un ridotto sacrificio e con una modesta messa in discussione di sé.
È interessante notare che proprio a metà degli anni Settanta, in una epoca di profonda crisi economica e di alto tasso di disoccupazione giovanile, il tatuaggio costituisca una materia “buona da pensare” per la cultura punk. A livello simbolico il tatuaggio diviene un segno che ribadisce il carattere costruito e inautentico del corpo. L’identità si profila come un territorio provvisorio e artificiale, non dato in natura. Gli hippies, o comunque molti esponenti della variegata galassia di contestazione giovanile che nasce a metà degli anni Sessanta soprattutto a partire dalla California, teorizzano e praticano invece una modalità di vivere, immaginata come la più autentica possibile, tramite l’adozione di codici pauperistici e anticonsumistici. Il movimento hippie manifesta l’ideale di una fuga dalla città e dalla modernità per sperimentare uno stile di vita più vicino alla natura. Anche la nudità, l’abolizione del reggiseno o l’abbigliarsi con materiali naturali e di poco conto sono alcuni tra i molteplici aspetti che negli hippies rimandano all’idea di una essenzialità, di una spontaneità e una autenticità conficcate nella natura. È l’assunto, ingenuo e radicale, di ricreare una condizione arcadica dell’esistenza. La nudità e la bellezza tornano temporaneamente a coincidere, in quanto ideale al tempo stesso etico e estetico.
I corpi punk statuiscono invece una forte reazione al movimento hippie e a uno stile di vita percepito come spontaneo, genuino, vero. L’innaturalità e l’adesione a codici artificiali vengono rappresentati abbigliandosi con il pvc, con la plastica, o con altri materiali di scarto, tingendosi i capelli con colori volutamente finti, usati ugualmente dai ragazzi e dalle ragazze. “My facade is just a fake” canta nel 1976 Poly Styrene, rapida icona punk, in I’m a Poseur. Tutto è falso, l’identità viene percepita come una facciata costruita. Essere veri non è possibile e neanche attraente o auspicabile[7].
La conquista dello spazio influenza fortemente gli stilisti francesi o che comunque lavorano a Parigi, fornendo suggestioni, immagini e un repertorio vasto di fascinazioni, che provenivano dalla fantascienza, dai fumetti e da altri aspetti della cultura di massa. André Courrèges nel 1964 crea una collezione ispirata all’era dei viaggi nello spazio. Le modelle sfilano sulla passerella a passo veloce con stivali bianchi senza tacco, pantaloni o completi dal taglio severamente geometrico di colore bianco splendente o argentato. Occhiali da sole enormi, inumani: l’identità rompe con il passato, la storia. Il futuro appare il protagonista assoluto della collezione, con vere creature extraterrestri, dall’incerta sessualità. Pierre Cardin nel 1967 crea un completo maschile “spaziale”, con le zip, colorato, rendendo davvero simile l’abbigliamento maschile a quello femminile. Stivali, vinile, plastica. I tessuti sono moderni, sono i materiali del futuro. Nel 1969 Pierre Cardin saluta lo sbarco sulla luna con una ironica cappa di plastica rossa da abbinare a stivali bianchi, con un cappello da astronauta. L’anno dopo sarà la volta di una altra collezione maschile ispirata allo spazio.
Sono anni in cui la fantascienza è una fonte inesauribile di ispirazione. D’altronde è dello stesso periodo 2001. Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, che rappresenta la punta di diamante della fascinazione di un mondo moderno che si sta avvicinando vorticosamente a conquistare lo spazio. Hardy Amies, che disegna i costumi del film, molti anni dopo sarà nominato baronetto dalla regina Elisabetta per il suo contributo all’industria della moda.
Nel futuro, così come viene immaginato, le donne appaiono più maschili e gli uomini più femminili o comunque i vecchi steccati sembrano superati. Barbarella, nel film del 1968 di Roger Vadim interpretata da Jane Fonda, vestita da Paco Rabanne è una donna atletica, guerriera, sensuale ma in maniera diversa. C’è qualcosa di maschile in lei, di un futuro femminista, con un retrogusto castrante e con un vago ricordo delle amazzoni, di donne virili.
Se gli hippies fanno una scelta poveristica in una società all’epoca percepita come opulenta, i punk adottano a livello di costruzione e rappresentazione del corpo il linguaggio retorico della crisi economica a loro contemporanea. A metà degli anni Settanta la percezione del progresso e del futuro come fulgido orizzonte individuale e sociale si incrinano e i punk mettono in scena l’oscura precarietà dei tempi. È una visione apocalittica e estrema. “Io appartengo a una generazione vuota” cantano i Television. Addosso i punk portano i segni visibili della sconfitta e dell’autoesclusione. I giovani, che negli anni Sessanta raffiguravano la modernità e la fiducia nel futuro, improvvisamente mettono in scena la fine di una ragionevole promessa di felicità data dal benessere. La teatralizzazione della precarietà avviene incarnando il ruolo di vittime, anche tramite i tatuaggi, quali segni autoinflitti, in cui si ribadisce una condizione selvaggia e marginale.
Il piacere di essere oggetto di ostracismo, abbigliandosi di simboli discutibili o che suscitano aperta riprovazione diventa uno degli elementi dominanti del punk. Insieme a spille da balia, a catene fetish usate come accessorio, a calze a rete stracciate indossate impropriamente, si colloca anche il tatuaggio, che allora gode di una aura negativa non ancora messa in discussione. Marchiati come diseredati o selvaggi, stracciati come miserabili, con il vestiario di una prostituta di strada, i punk adottano il punto di vista degli oppressi tramite la martorizzazione del corpo, mettendo in discussione alle fondamenta il comune senso della normalità e il ruolo sociale assegnato alle generazioni più giovani.
Strana parabola quella punk. Rappresentata al suo esordio come qualcosa di fortemente rozzo, perturbante e osceno, è stata anche la cultura giovanile che ha maggiormente contribuito al rutilante mondo della moda e dello stile. Vivienne Westwood e Zandra Rhodes trasformano immediatamente l’irruenza punk in mainstream. Quest’ultima già nel marzo del 1977 crea una collezione piena di lamette e spille ricollocando in fretta il contenitore simbolico punk, nato come rinunciatario e volutamente miserabile, in una scintillante passarella di moda al grido di “Choccare è chic”, come commenta allora la rivista Cosmopolitan[8].
Gli zootsuiters nascono nell’ambiente dell’urban jazz culture, soprattutto a Harlem, uno dei quartieri afroamericani di New York. “Suit” in inglese significa “completo” giacca e pantaloni, mentre “zoot” probabilmente è una storpiatura di “suit” che raddoppia e enfatizza l’idea di un completo da “elegantoni”. Ciò che caratterizza la loro identità è un modo di vestire oversized (che si ritroverà in seguito nell’hip-hop) e la riscoperta in chiave afroamericana e popolare della moda dandy, nata per rappresentare le élites “bianche”. Inoltre nel 1942 negli Stati Uniti viene approvata una legge che limita la quantità di stoffa che si può usare per confezionare un vestito, per sottolineare un criterio di sobrietà e austerità, vista l’entrata in guerra del Paese a fianco degli alleati (1941), e quindi l’adozione di vestiti esageratamente oversized costituisce una sorta di rivolta simbolica nei confronti di una nazione in cui non ci si riconosce. Gli zootsuiters sono considerati la prima cultura di strada, dato che il loro luogo privilegiato di espressione è appunto la strada e la scena musicale.
I costumi di Star Trek sono disegnati da Rudi Gernreich, lo stesso che aveva inventato il monokini. Nel 1965 la serie televisiva Avengers è disegnata da John Bates, con la protagonista vestita in catsuit di nero lucido. I telefilm e i film di fantascienza consentono una notevole libertà espressiva per una generazione di designer, che fanno vivere o rivivere tramite gli abiti l’immaginario riguardo il futuro, il rapporto con la tecnologia, le relazioni tra uomini e donne. L’identità futura viene interpretata e raffigurata a colpi di plastica, di metallo, di corazze, di tute aderenti per entrambi i sessi, sottraendo e assimilando la differenza di genere.
Dall’altra parte della costa, sul Pacifico, soprattutto intorno agli inizi degli anni Quaranta acquistano gli onori delle cronache i pachucos. Sono immigrati di prima o seconda generazione che vengono dal vicino Messico, e che più o meno legalmente sono arrivati in California. Anche loro vestono in maniera simile agli zootsuiters, ovvero in maniera oversized e con una eleganza esagerata e con un gusto decisamente “popolare”; si tatuano la croce o la Madonna di Guadalupe e diventano famosi per alcuni fatti di cronaca che li vedono protagonisti. Infatti nel 1942 per un omicidio a Sleepy Lagoon, vicino a Los Angeles, vengono imputati 13 messicani e nel 1943 i pachucos ingaggiano alcuni scontri con i militari americani di stanza a Los Angeles. Questi fatti contribuiscono a creare un notevole panico morale nei loro confronti. A questi eventi, ripresi dai giornali con grande enfasi,
L’unisex è la traduzione tra anni Sessanta fino ai primi anni Settanta di compositi miti che rimandano all’androgino, alle figure angeliche come il nudo di Yves Saint-Laurent, per reclamizzare il suo futuro, alle amazzoni in corazza e plastica di Paco Rabanne, che fanno uno spogliarello integrale in mancanza di gravità, alla nudità primigenia del monokini, allo stile safari, che obnubila l’identità di genere. Le ragazze iniziano a indossare liberamente i pantaloni, mentre fino a allora non erano considerati un capo appropriato al genere femminile, tanto che alcuni ristoranti americani ancora negli anni Sessanta rifiutavano l’ingresso alle donne così vestite.
È proprio tramite la moda che inizia una sorta di progressivo sdoganamento dell’alone maledetto che avvolge il tatuaggio, che diviene maggiormente accettato e praticato da molti giovani. Da segno distintivo di chi abbraccia volutamente o meno il codice dei reietti e di chi è escluso dalle progressive sorti della storia, esso si evolve in qualcosa d’altro. Entrando nel territorio della moda, il ribellismo e l’immaginario del selvaggio, evocati dal tatuaggio, si mitridatizzano in una modalità di ridefinizione puramente estetica della propria identità. L’orientalismo a fior di pelle diventa semplicemente una opzione in termini di stile.
seguono molti arresti e una violenza eccessiva da parte della polizia nei loro confronti. Soprattutto nei decenni successivi la figura del pachuco è stata rivalutata dalla comunità messicana per l’orgoglio e la ribellione che rappresenta nei confronti della società americana, che ha invece per lungo tempo rifiutato e disprezzato i messicani immigrati. Proprio perché oggetto di aggressioni da parte della polizia o di attacchi dell’opinione pubblica dell’epoca, lo scrittore messicano Octavio Paz scrive “il pachuco è preda della società, ma invece di nascondersi si adorna per attrarre l’attenzione del cacciatore. La persecuzione lo redime e spezza la sua solitudine: la sua salvezza dipende dal far parte di una società che lo rifiuta”.
Per saperne di più:
Cosgrove, S., 1984, “The Zoot Suit and Style Warfare”, in A.McRobbie (eds), 1989, Zoot suits and second-hand dresses, London Mcmillian.
Qualcosa di interessante da vedere:
L.A. Confidential,C.Hanson, USA, 1997.
Qualcosa da ascoltare:
Cab Calloway.
Pillola n.7: i teddy boys
I teddy boys sono giovani della classe operaia degli anni Cinquanta. In questo periodo si affacciano i primi segni di benessere e di modernizzazione, dopo le asperità e la tragedia della seconda guerra mondiale, che aveva profondamente danneggiato i Paesi in essa coinvolti, in termini di vite umane e di distruzione di industrie, abitazioni e infrastrutture.
Il fenomeno dei teddy boys nasce in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma ha avuto una diffusione in tutti i Paesi occidentali, come la Francia (in cui vengono chiamati blouson noirs) e l’Italia. La definizione “teddy boys” viene dalla cosidetta divisa edoardiana, dal re inglese Edoardo VII, confidenzialmente chiamo Teddy. In un certo senso quindi i teddy boys imitano o si ritiene che imitino l’eleganza del figlio della regina Vittoria, che per lungo tempo aveva goduto di una vita spensierata e senza responsabilità visto il lunghissimo regno della madre.
Gli elementi distintivi dei teddy boys sono l’adesione ai tempi nuovi in termini di consumi, con oggetti come gli scooter e le moto (le prime forme accessibili, in termini economici, di mobilità) e un vestiario identificativo della loro condizione giovanile. I gusti che li contraddistinguono sono decisamente “popolari”, come il rock’n’roll, e jeans e le prime forme di divertimento nei locali notturni. Spesso sono stati associati a forme di teppismo, a piccoli furti e hanno suscitato molta apprensione e preoccupazione nel mondo degli adulti nel corso degli anni Cinquanta, proprio perché i teddy boys rappresentano uno stile di vita non più correlato esclusivamente alla vita familiare, al lavoro e ai tradizionali luoghi di aggregazione (fabbrica, chiesa e casa) ma a nuove forme di consumo, che all’epoca rimandano a un modello di vita “americano”, “moderno”. In Italia per un certo periodo vengono addirittura proibiti i jukeboxe e i flipper perché associati ai teddy boys e considerati diseducativi.
Per saperne di più:
Castellani, A., 1997, Mondo biker, Roma, Donzelli.
Hebdige, D., 1979, Subculture: The Meaning of Style, London, Methuen; trad. It. Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1983.
Qualcosa di interessante da vedere:
Selvaggio, il (The Wild One), L.Benedek, USA, 1954.
Qualcosa da ascoltare:
il primo Elvis Presley.
Pillola n.8: i mods
I mods (porre attenzione: “mod” è un aggettivo e un sostantivo singolare, “mods” è un sostantivo plurale) nascono in Gran Bretagna alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. La parola “mod” viene da “modernist”. Sono giovani che aderiscono pienamente all’emergere dei nuovi consumi e della moda nella swinging Londra, che improvvisamente diventa la capitale della moda giovanile e della musica pop. È un fenomeno fortemente metropolitano: sono i primi dandies della classe operaia, che vestono in maniera curata, attenta, prendendo a prestito oggetti e consumi da altri Paesi, come la vespa o la lambretta (dall’italia), il taglio dei capelli (dalla Francia), la musica (dalla Giamaica e dagli Stati Uniti).
Ovviamente l’unisex fa tramite il movimento hippies fa un salto ulteriore, introducendo i capelli lunghi per gli uomini, l’uso di collanine e braccialini, decorazioni floreali anche per abiti maschili, alla ricerca di una sorta di arcadia americana. Jerry Rubin, protagonista di quella stagione, afferma
I capelli lunghi sono la nostra pelle nera. I capelli lunghi trasformano in negri i figli della borghesia bianca. L’Amerika è un Paese diverso, quando si hanno i capelli lunghi. Noi siamo dei fuorilegge. Noi, i figli della borghesia bianca, ci sentiamo gli indiani, i vietnamiti, i fuorilegge della storia amerikana (Rubin 1970, pp.93-94).
Eliminare gli elementi di distinzione di genere convenzionali dati dalla società rimanda a una soggettività spoliata da quei segni sociali che descrivono e circoscrivono la sessualità. È l’allargamento dei confini identitari tramite il contatto con la natura, il desiderio di un ritorno all’indifferenziato e alla ricerca di un mondo primigenio.
Soprattutto a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, il tatuaggio, da segno maledetto che evoca la fascinazione per un mondo esotico e selvaggio, è trasmigrato progressivamente verso i codici prettamente decorativi della moda. Non più simbolo di ribellione, magari scelto consapevolmente per ribadire un proprio mondo altro, irriducibile alla normalità imperante, diventa una delle tante possibili modificazioni estetiche che contribuiscono all’abbellimento del corpo, senza che ciò chiami in causa una messa in discussione radicale dei canoni estetici e dell’identità individuale e sociale. Lo stesso atto del tatuarsi è vissuto oggi come un rito di passaggio minimalista, seppure alluda ancora a una condizione liminale, che rimanda all’esplicitazione dell’esistente tramite la condensazione di valori sociali e culturali nell’azione del tatuarsi e nel disegno scelto come forma di rappresentazione di sé. Non più stigmatizzato, se non a volte in una lotta di codici tra genitori e figli, il tatuaggio, e con esso le modifiche del corpo in generale, viene promosso, auspicato senza la graffiante tragicità del rito di incidersi le carni e senza ribadire una identità irriducibilmente altra.
Da una angolazione puramente ornamentale è stato anche scelto e rivisitato da geniali e famosi couturiers, come John Galliano, Jean-Paul Gaultier o Thierry Mugler che hanno ripreso i codici stilistici e estetici provenienti dal tatuaggio e dai numerosi materiali visivi che hanno fondato l’orientalismo e la cultura marinara, con la proposizione di uno stile grafico o di un textile quasi fosse il derma stesso. Nella società contemporanea l’esotismo costituisce un enorme serbatoio simbolico e visivo da rivisitare in chiave squisitamente estetica, tramite il mobile fluire della moda, che divora e ripropone stili nati in altri contesti e con altri intenti.
Il vestiario, se si pensa ai legging, alle t-shirt indossate una sopra l’altra o agli indumenti che rimandano agli stilemi estetici del tatuaggio, gioca continuamente con il nascondimento e lo svelamento del corpo e dei codici che lo contraddistinguono. In ogni caso l’identità individuale viene vestita addosso in maniera più o meno permanente; tramite strati successivi si sceglie a quali codici aderire, quale pelle scoprire, quale parte tatuata del corpo nascondere o mostrare solo a certe condizioni. O semplicemente nel textile e nel disegno si allude all’incisione delle carni e alla percezione di un corpo tatuato. In un tempo in cui non esiste alcuna remora o tabù alla modificazione, più o meno chirurgica, del corpo il tatuaggio diventa un segno normale – senza il vissuto trasgressivo e delinquenziale che lo aveva caratterizzato fino a intorno gli anni Ottanta. La pelle decorata si traspone e sovrappone alla stoffa o al drappo che orna e completa l’aspetto fisico.
Le modifiche al proprio corpo appaiono quindi maggiormente accettate, in alcuni casi vengono anzi addirittura promosse, anche quelle virtuali, fosse solo un banale photoshop che “ricostruisce” e idealizza la rappresentazione di sé, senza che ciò susciti preoccupazione o riprovazione. Il corpo non appare più un territorio inviolabile. Si può intervenire su di esso in maniera più o meno provvisoria. La pelle evoca una rete che connette e scommette sull’identità. Il tatuaggio rappresenta a livello visivo un corpo vissuto come incrocio spaziale di significati e esperienze ribaditi sotto la pelle, a fior di pelle, come seconda pelle. Il corpo appare suscettibile di cambiamenti scelti per conformarsi agli ideali estetici desiderati senza che ciò venga percepito come una alterazione del sé o un attentato alla sua intangibilità e unicità. Oggi il tatuaggio a livello simbolico enfatizza la pelle come identità, come punto di intersezione tra interiorità e esteriorità, tra pura datità fisica e scelta in termini di raffigurazione di sé. Il tatuaggio ripropone l’imprescindibile gioco dello specchio “chi sono io?”, “chi siete voi?” che diviene più radicale in una società in tumultuoso cambiamento, in cui ci sono meno certezze su cui fondare l’identità individuale e sociale. E al tempo stesso, proprio in virtù di una notevole flessibilità e mutevolezza sociale, si possono scegliere in maniera più soggettiva e personalizzata i propri percorsi figurativi e culturali riguardo il linguaggio e la costruzione del corpo, senza anatemi o tremori per un eventuale ostracismo sociale.
A proposito degli hippies il semiologo Barthes sostiene
[…] a causa dei capelli lunghi e degli ornamenti (collane, anelli, orecchini) portati da ragazzi, i sessi si confondono, non tanto nel senso di un’inversione quanto di una cancellazione: a essere ricercato, attraverso l’oscillazione continua dei tratti ordinariamente distintivi, il neutro, la sfida all’antagonismo “naturale” dei sessi (Barthes 1969, p.58).
Sono gli anni in cui si fa avanti una maggiore libertà sessuale, che non riguarda più esclusivamente il mondo maschile. Canta Marianne Faithfull in “Come My Way” (1965) “amanti tutt'intorno, vi auguro gioia/felicità a ogni ragazzo e ragazza”.
Amare, liberamente, diviene un imperativo. Costumi sessuali più aperti, l’abolizione in Gran Bretagna del reato di omosessualità, la diffusione della pillola, i primi vagiti del femminismo e dei movimenti gay, a partire dalla famosa rivolta newyorkese di Stonewall, il movimento del Sessantotto cambiano alle fondamenta la società dell’epoca. La moda diviene un interprete e una cassa di risonanza di quei vorticosi mutamenti.
Sul finire degli anni Sessanta la moda, in particolare quella femminile, ha già ribaltato i canoni tradizionali e proposto e divorato molti stili. Antonia Byatt, critica letteraria e scrittrice, ricorda in La vergine nel giardino, un romanzo pubblicato nel 1978, come si vestiva esattamente dieci anni prima. In un evento alla National Gallery la multiforme folla londinese viene descritta nella seguente maniera
ragazze sode con calze d'argento e stivali d'argento, e gonne d'argento palpitanti sui fianchi torniti. Ragazze sottili in velluto nero, che facevano dondolare borsette di maglia metallica e sfoggiavano fiori di carta tra le cortine e i boccoli delle loro capigliature artificiali. Numerose George Sand e Mademoiselle Sacripant in pantaloni, bluse con volant e berretti di velluto. Esseri asessuati che si trascinavano in vesti informi [...] (Byatt 1978, p.4).
In questa rivisitazione dell’epoca da parte della Byatt vengono elencati i gusti di allora e i diversi modi di inglobare elementi tradizionalmente considerati maschili, anche ispirandosi a noti personaggi femminili che vestivano in abiti da uomo in una epoca precedente, in cui i pantaloni erano banditi alle donne. D’altronde come afferma nello stesso periodo Roland Barthes nella moda femminile è più facile fagocitare il mondo maschile e i suoi codici.
I mods sono rimasti nel tempo famosi per il loro stile nel vestire e per la notevole attenzione dei dettagli, decisamente inedita tra i ragazzi, che fino allora erano rimasti lontani dalla moda e da una eccessiva cura per il corpo. Inoltre è la prima cultura giovanile a usare in maniera sistematica l’LSD, che permette ai mods di stare in piedi fino a tardi, nei locali in cui si ascolta la musica e si balla. Come i teddy boys, immediatamente precedenti a loro, concentrano la loro attenzione e i loro interessi sul tempo libero più che sul lavoro, considerato solo una pura necessità per avere soldi da spendere. Rispetto ai teddy boys, spesso rappresentati come “rozzi”, grezzi, i mods sono sempre stati visti come ragazzi raffinati, eleganti, con interessi variegati, dal modern jazz alla musica ska giamaicana. Sono il prototipo dei primi nomadi metropolitani: sono giovani che si spostano velocemente in base ai luoghi che amano frequentare e che cambiano spesso gusti e consumi, senza radicarsi a un contesto.
Note bibliografiche
Barnes, R., 1979, Mods!, London, Plexus
Barthes, R., 1967, Système de la Mode, Paris, Seuil; trad. It. 1970, Sistema della moda, Torino, Einaudi
Barthes, R., 1969, “Un cas de critique culturelle”, in <<Communications>>, 14; trad. It.1998, “Un caso di critica culturale: gli hippies”, in Scritti: Società, testo, comunicazione, Torino Einaudi
Byatt, A.S., 1978, The Virgin in the Garden; trad. It., 2004, La vergine nel giardino, Torino, Einaudi
Hewitt, P. 2000, The Soul Stylists: Forty Years of Modernism, London, Helter Skelter; trad. it. 2002, Mods. L’anima e lo stile, Roma, Arcana
Hulanicki, B., 1983, “Da A a Biba” in Colaiacomo, P., Caratozzolo V.C., (a cura), 2002, Mercanti di stile: le culture della moda dagli anni '20 a oggi, Roma, Editori Riuniti
Levy, S., 2002, Ready, Steady, Go! Swinging London and the Invention of Cool, London and New York, Fourth Estate
Mac Innes, C., 1959, Absolute Beginners, London, MacGibbon & Kee; trad. it. 1991, Principianti assoluti, Milano, Mondadori
Quant, M.,1966, “Quant di Mary Quant”, in P.Colaiacomo, V.C.Caratozzolo (a cura), 2002, Mercanti di stile: le culture della moda dagli anni '20 a oggi, Roma, Editori Riuniti
Rubin , J.,1970, Do it! ; trad. it. 2008, Fallo!, Mimesis, Milano
Savage, J.1982, “’Do you Know How to Pony?’: The Messianic Intensity of the Sixties”, in McRobbie, A. (eds), 1989, Zoot suits and second-hand dresses, London, Mcmillian, London 1989
Steele V., 1990, “La moda rétro” in Colaiacomo, P., Caratozzolo V.C., (a cura), 2002, Mercanti di stile: le culture della moda dagli anni '20 a oggi, Roma, Editori Riuniti
Time, “Modern Living: Finale for Fashion?”, 1970, Jan.26.
Il disegno tatuato a pelle, marchio scelto e indelebile, corrisponde a ciò che non si può cambiare e contemporaneamente soggiace oggi alle regole della moda, al desiderio di autorealizzazione, al piacere della trasformazione praticato tramite codici puramente estetici, all’aspirazione alla metamorfosi dell’io nella foresta simbolica della contemporaneità. A volte dimenticando che il tatuaggio resta comunque un segno irrevocabile su di sé. Eppure questa cicatrice sulla pelle non è più percepita come tale. Non rimanda più a una generazione perduta o a un mondo perdente. La stessa alterità convogliata dall’esotismo si traduce esclusivamente in gradevolezza estetica, svuotandosi di qualsiasi valore che non rimandi alla pura decorazione.
Nell’ultimo decennio, il territorio simbolico per mettere in discussione e ribaltare, tramite la pelle e il corpo, i ruoli sociali e ciò che viene percepito e rappresentato come normale e civile, si è spostato dal tatuaggio in sé in un ambito considerato più estremo e radicale. La body modification sembra ormai aver sostituito, in termini di sovversione e di ribellismo, un tatuaggio “addomesticato” dalla moda. Diventata una incisione non più stigmatizzata, altre forme di intervento sulle proprie carni hanno assunto il ruolo simbolico di ribadire una propria condizione selvaggia, ricorrendo a tecniche e a rituali che rimandano a un immaginario esotico o esotizzato. Prendendo a prestito dalla tradizione dei nativi americani, dei popoli della Polinesia e dell’Africa, e dalla stessa cultura occidentale, le frontiere culturali tramite cui reinterpretare l’orientalismo sono cambiate.
Molte pop star hanno notevolmente contribuito a diffondere la cultura mod dotandola di un fascino particolare, dagli Who, a Rod Steward, a Paul Weller che afferma “per me quel look era semplicemente fantastico, una immagine che spesso ricordo come autentico segno di stile: nitido, preciso, elegante, affusolato, pulito, duro e totalmente espressivo”.
Per saperne di più:
Barnes, R., 1979, Mods!, London, Plexus.
Castellani, A., 1997, Mondo biker, Roma, Donzelli.
Hebdige, D., 1979, Subculture: The Meaning of Style, London, Methuen; trad. It. Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1983.
Hewitt, P. 2000, The Soul Stylists: Forty Years of Modernism, London, Helter Skelter; trad. it. 2002, Mods. L’anima e lo stile, Roma, Arcana.
Mac Innes, C., 1959, Absolute Beginners, London, MacGibbon & Kee; trad. it. 1991, Principianti assoluti, Milano, Mondadori.
Qualcosa di interessante da vedere:
Absolute Beginners, J.Temple, GB, 1986.
Quadrophenia, F.Roddam, GB,1979.
Qualcosa da ascoltare:
the Who
the Small Faces
the Kinks.
Pillola n.9: gli hippies
Gli hippies (da notare: il singolare, sostantivo o aggettivo, può essere sia “hippie” sia “hippy”) sono una cultura giovanile che nasce nei tardi anni Sessanta negli Stati Uniti. Mentre il consumo di massa e il benessere costituiscono la tessitura della vita quotidiana e delle attese private e sociali della maggioranza delle persone in quel periodo storico, soprattutto a partire dall’America e in particolare dalla California, si fa avanti un controcanto hippie. D’altronde già la cultura beat dal decennio precedente era stata fortemente ancorata a un ideale poveristico, di spartana sobrietà, che viene ripreso dagli hippie. Dick Hebdige sostiene che “[…] il beat, deliberatamente vestito di stracci, in jeans e sandali, esprimeva il magico rapporto con la miseria che costituiva nella sua immaginazione una essenza divina, uno stato di grazia, un sacro rifugio”. Alla stessa maniera il movimento hippie si fonda su una visione del mondo pauperistica, profondamente anticonsumista. Il termine “hippie” o “hippy” viene dato dalla stampa e si riferisce in realtà a una galassia di atteggiamenti, stili di vita piuttosto vari, genericamente anticonformisti, che emergono tra i ragazzi a metà degli anni Sessanta e che spesso sono correlati a una rivoluzione nei costumi e al rifiuto della guerra, più in particolare all’impegno di truppe americane in Vietnam – inviate dal governo statunitense per arginare l’influenza sovietica in quell’area del sud-est asiatico. La prima volta che viene utilizzata la parola “hippie” per definire un giovane avviene nel San Francisco Chronicle nel 1965 a indicare i ragazzi sregolati che si sono stabiliti a Haight-Ashbury, un quartiere degradato di San Francisco. Non è certa neanche l’origine della parola che per alcuni sta a significare la storpiatura di un termine inglese che sta a significare “saputello”, chi crede di saperla lunga senza avere esperienza. Tuttavia di per sé è solo un nome caricaturale dato dalla stampa per descrivere una tipologia di giovani; è uno stereotipo che difficilmente corrisponde a individui in carne e ossa. A Haight-Ashbury in quel periodo si respira una atmosfera unica a livello sociale, fatta di grandi sommovimenti e sperimentazioni di modelli di vita ma meno centrata su un approccio dialettico di contestazione politica, proprio di molti ragazzi dell’epoca (come avviene nella vicina università di Berkeley, in cui è molto più forte e decisa la protesta contro la guerra in Vietnam). Jerry Rubin, uno dei protagonisti della contestazione dell’epoca e fondatore degli yippies (Youth International Party) riferendosi a Haight-Ashbury scrive:
Golden Gate Park:
Musica Rock.
Droga.
Sole. Bei corpi.
Colori.
Estasi. Arcobaleni. Nessun estraneo!
Tutti sorridono. Nessun cartello, niente insegne politiche.
L’unica bandiera era la nostra nudità.
Alcune forme di modificazione del corpo come il piercing, il branding, il tight-lacing, la scarificazione o gli stessi tatuaggi, se praticati in maniera estensiva, o sul volto, si pongono attualmente come una sfida radicale ai canoni statuiti della bellezza e dell’identità. A partire da ferite fisiche e simboliche sulla propria pelle anche la categoria del femminile costituisce un territorio di riflessione e di sovversione di ciò che implicitamente viene considerato naturale. Tuttavia, seppure vissuta in termini libertari, di esplorazione di sé e come una differente forma di autonarrazione, la body modification appare spesso in bilico tra emancipazione dallo sguardo altrui, magari maschile (che appare turbato o infastidito da un corpo femminile completamente tatuato o ricoperto di piercing) e riproposizione di modelli di potere già consunti. Adottare il punto di vista del marginale, della vittima, del selvaggio è qualcosa di decisamente ambivalente a livello simbolico.
Ciò è particolarmente evidente neI tight-lacing, che riprende l’idea del corsetto, come forma di definizione e costruzione del corpo femminile abbandonata, senza rimpianti, nel primo novecento. Costrizione creata per definire l’ideale di bellezza femminile, già rivalutata come oggetto dalla moda a partire dagli anni Ottanta, l’attuale pratica del tight-lacing evoca una sorta di iperfemminilizzazione ironica dei modelli femminili dominanti e contemporaneamente una accettazione di una forma di costruzione del corpo in cui volutamente si aderisce al codice estetico dei dominati. Il corpo mette in scena il sovvertimento del controllo sociale[9] e al tempo stesso, più o meno consapevolmente, ribadisce la vittimizzazione delle carni femminili, e un ruolo subordinato dato, di nuovo, per naturale. Il tight-lacing rappresenta anche, insieme a altre tipologie di intervento più o meno chirurgico sul corpo femminile, una silenziosa disfatta del femminismo e la tipizzazione di una identità femminile fondata sulla conformità ai dettati estetici prevalenti.
Le modificazioni del corpo, di cui il tatuaggio ha costituito uno degli elementi più noti, mettono continuamente in discussione il limite tra ciò che si ritiene naturale o no, tra ruoli sociali attribuiti o anelati, tra ideale estetico dominante e rappresentazione dell’alterità e della subalternità. Il corpo, spogliato della sua supposta nudità, narra in maniera simbolica e prettamente visiva la contemporaneità, le scelte di genere, le passioni sociali e individuali, i mutamenti e anche le battaglie perdute.
Note
Riferimenti bibliografici
J.C.BEAGLEHOLE, The Journals of Captain Cook on His Voyages of the Discovery, voll.4, Studies of Cambridge Press, London, 1961.
L.A. de BOUGAINVILLE, Voyage autour du mondepar la frégate du roi La Boudeuse et la flûte L’Etoile 1766, 1767, 1768, 1769; vol.1, Saillant & Nyon, Paris, 1771 (trad.it. L.Sozzi, Viaggio intorno al mondo, Il Saggiatore, Milano, 1983
A.CASTELLANI, Ribelli per la pelle. Storia e cultura dei tatuaggi, Costa & Nolan, Genova, 1995
A.CASTELLANI, Estetiche dei ribelli per la pelle. Storia e cultura dei tatuaggi, Costa & Nolan, Milano, 2005
A.CASTELLANI, Vestire degenere. Moda e culture giovanili, Donzelli, Roma, 2010
J.COOK, in J.C.BEAGLEHOLE, The Journals of Captain Cook on His Voyages of the Discovery, voll.4, Studies of Cambridge Press, London, 1961 (trad.it. di F.Invrea e F.Marenco, Diari di bordo, TEA, Milano, 1994)
Diari di bordo, TEA, Milano, 1994
D.HEBDIGE, Subculture: The Meaning of Style, Methuen & Co., London, 1979 (trad. It. P.Tazzi, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova, 1983)
J.D.HOOKER, Journal of the Right Hon. Sir Joseph Banks, The Mac Millian and Co., London, 1896
D.LE BRETON, Signes d’identité. Tatouages, piercing et autres marques corporelles, Éditions Métaillé, Paris, 2002
D.LE BRETON, La Peau et la Trace. Sur le blessures de soi, Éditions Métaillé, Paris, 2003 (trad.it. di A.Perri, La pelle e la traccia : le ferite del sé, Meltemi, Roma, 2005
P.LOTI, Madame Crysanthème,Calmann-Levy, Paris,1887 (trad. it. Di D.Cinti La signora Crisantemo, Muzzio, Padova, 1948)
C.LOMBROSO, Palinsesti dal carcere: storie, messaggi, iscrizioni, graffiti dei detenuti delle carceri alla fine dell’Ottocento; Ponte alle Grazie, Firenze, 1996
A.McROBBIE, The Aftermath of Feminism, Sage, London, 2009
V.PITTS, In the Flesh, Palgrave Macmillian,New York, 2003.
E.SAID, Orientalism, Pantheon Books, New York, 1978 (trad. di S.Gallo, Orientalismo, Feltrinelli, Milano, 2001).
Note
[1] C.LOMBROSO, Palinsesti dal carcere: storie, messaggi, iscrizioni, graffiti dei detenuti delle carceri alla fine dell’Ottocento; Ponte alle Grazie, Firenze, 1996, p.178
[2] J.COOK, in J.C.BEAGLEHOLE, The Journals of Captain Cook on His Voyages of the Discovery, voll.4, Studies of Cambridge Press, London 1961 (trad.it. di F.Invrea e F.Marenco, Diari di bordo, TEA, Milano, 1994, p.168)
[3] J.C.BEAGLEHOLE, cit., voll.2, p.68 (trad.d.A.)
[4] L.A. DE BOUGAINVILLE, Voyage autour du monde par la frégate du roi La Boudeuse et la flûte L’Etoile 1766, 1767, 1768, 1769; vol.1, Saillant & Nyon, Paris, 1771 (trad.it. L.Sozzi, Viaggio intorno al mondo, Il Saggiatore, Milano, 1983, p.227)
[5] J.D.HOOKER, Journal of the Right Hon. Sir Joseph Banks, The Mac Millian and Co., London, 1896, p.232 (trad.d.A.)
[6] P.LOTI, Madame Crysanthème,Calmann-Levy, Paris, 1887 (trad. it. Di D.Cinti La signora Crisantemo, Muzzio, Padova, 1948, p.238)
[7] Cfr. A.CASTELLANI, Vestire degenere. Moda e culture giovanili, Donzelli, Roma, 2010
[8] D.HEBDIGE, Subculture: The Meaning of Style, Methuen & Co., London, 1979 (trad. It. P.Tazzi, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova, 1983, pp.105-106)
[9] V.PITTS, In the Flesh, Palgrave Macmillian,New York, 2003, p.49
Gli hippies nel quartiere camminano a piedi nudi, mimano una vita comunitaria, con accenti precapitalistici o millenaristici, sperimentando un modello di convivenza inedito, che molto presto diviene oggetto di attenzione e di preoccupazione da parte delle autorità e dei media, fosse solo per l’uso di sostanze stupefacenti. Gli abiti, gli accessori, la musica mimano e enfatizzano il rifiuto di valori consumistici, della violenza e il ritorno a una sorta di mito della Old America e la riscoperta, con relativa rivalutazione, degli indiani d’America. A ciò si accompagna una notevole sfida simbolica nei confronti del pudore e delle convenzioni sociali e sessuali dell’epoca che vengono rumorosamente rigettate tramite ciò che viene riassunto nella formula “peace and love”. La stagione hippe è associata anche alla nascita dei primi grandi concerti rock, che diventano dei veri monumenti simbolici al clima culturale e sociale dell’epoca per la partecipazione di rockstar famosissime e per una affluenza in termini di pubblico enorme. I più famosi sono la cosiddetta “Summer of Love” nel 1967 a Haight-Ashbury, Woodstock a Bethel (un’area rurale nello Stato di New York) nel 1969 e il concerto che mette la pietra tombale al movimento e all’idea di poter organizzare in maniera spontaneistica tali eventi, Altamont Speedways a dicembre del 1969, in cui viene ucciso un ragazzo di colore, colpito a morte dalla security (che improvvidamente era stata affidata agli hells’ angels). In ogni caso il profondo rinnovamento sociale e politico degli anni Sessanta, a cui partecipano anche gli hippies, influenza fortemente le generazioni successive e la società nel suo insieme.
Per saperne di più:
Guarnaccia M. 2001, Hippies, Roma, Malatempora.
Hebdige, D., 1979, Subculture: The Meaning of Style, London, Methuen; trad. It. Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1983.
Pivano, F., 1977, Beat hippie yippie, Milano, Bompiani.
Proietti, S., 2003, Hippies! Dall’India alla California la road ma del ’68, Roma, Cooper & Castelvecchi, 2008
Rubin , J.,1970, Do it! ; trad. it. 2008, Fallo!, Mimesis, Milano.
Wolfe, T. 1968, The Electric Kool-Aid Acid Test, London, Black Swan Edition, London 1989
Wolfe, T., 1970, Radical Chic Mau-Mauing the Flak Catchers & Ragcracker, New York, Farrar, Straus & Giroux; trad. It. 1973, Lo chic radicale, Milano, Rusconi editore.
Qualcosa di interessante da vedere:
Gimmi Shelter, A.Maysles, D.Maysles, USA, 1970.
Hair, M.Forman, USA, 1979
Motel Woodstock (Taking Woodstock), A.Lee, USA, 2009.
Woodstock ,M.Wadleigh, USA, 1970.
Qualcosa da ascoltare:
Missione impossibile: molta musica rock degli anni Sessanta è stata più o meno impropriamente associata agli hippies perché era vicina al country o al pop psichedelico. In ogni caso qualche modestissima indicazione:
Arlo Guthrie
Greatful Dead
Joan Baez
Jefferson Airplane (o Starship)
Mamas & Papas.
Pillola n.10: i punk
A partire dalla crisi energetica del 1973, a metà anni Settanta si profila, dopo due decenni di crescita, un colpo di arresto economico a livello internazionale, che in Inghilterra si mescola con l’amaro sapore del dubbio che ciò corrisponda al declino storico di una nazione che aveva dominato il mondo, più che agli effetti temporanei di una congiuntura negativa.
La vita non appare più un pic-nic spensierato, come a volte lasciavano intendere gli hippies. Gli scenari futuri, visti con gli occhi della scena punk, che nasce proprio allora, diventano particolarmente oscuri. I punk traducono e interpretano a livello iperbolico l’aria dei tempi e la percezione di un avvenire fortemente compromesso. E lo fanno a partire da un territorio privilegiato di espressione, quello musicale. Mentre le precedenti culture giovanili avevano avuto un rapporto più articolato e indiretto con il rock, a eccezione del glam rock, la scena punk trae alimento vitale soprattutto dalle band e dal mondo che ruota intorno alla musica punk per tradursi poi in stile di vita che coinvolge una fascia di giovani più ampia. In questo senso, se si pensa alla cultura hippie possono venire alla mente molteplici aspetti di cui Woodstock o la Summer of Love sono elementi non essenziali seppure importanti, se invece si fa riferimento al punk per prima cosa si fa riferimento ai Sex Pistols o in misura minore ai Clash, ai Ramones e a uno stile di vita che emerge soprattutto a partire dalla scena musicale. I punk addosso cominciano a indossare i segni di una sconfitta, di una accezione negativa nei confronti del futuro, traducendo in chiave simbolica e sottoculturale la retorica della crisi economica e sociale dell’epoca. Le spille, la colla da sniffare, le t-shirt stracciate, le catene come accessori, la grafica sul modello “lettera da riscatto”, i volti bianchi e malaticci, i corpi emaciati e antipalestrati traducono e rappresentano visivamente l’atmosfera plumbea che sembra avvolgere i giovani e la società nel suo insieme. I personaggi più famosi della scena punk conducono vite rumorosamente disperate, appaiono degli anti-eroi volutamente negativi. Si pensi a Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols, che muore giovanissimo per eroina, dopo essere stato incriminato per la morte in circostanze poco chiare della sua fidanzata, Nancy Spungen. La metropoli, il mondo artificiale fatto di plastica, pvc, latex (tutti materiali “poveri” e non naturali) sono gli scenari privilegiati dei punk. Per la prima volta con il punk le ragazze non sono semplici accompagnatrici, figure di sfondo ma autentiche protagoniste. La più famosa icona punk, Siousxie, si veste in maniera trasgressiva, truccandosi eccessivamente, cambiando continuamente colore e styling dei capelli, dando di sé una immagine fortemente perturbante, fosse solo per l’utilizzo di fetish (che l’esordiente stilista Vivienne Westwood aveva contribuito a lanciare, insieme a Malcom McLaren, manager dei Sex Pistols, con cui gestiva a Londra un negozio chiamato “Sex”). Sull’onda del femminismo, l’adozione del fetish da parte delle ragazze punk costituisce una rivolta simbolica decisamente graffiante. A questo proposito Dick Hebdige afferma: “l’intero armamentario del bondage – le cinture, le cinghie e le catene - fu tirato fuori dal boudoir, dall’armadio e dal cinema pornografico e collocati nelle strade dove conservarono la loro connotazione proibita […] Naturalmente il punk fece qualcosa in più che buttare all’aria il guardaroba. Minò ogni discorso che lo riguardasse”.Pur essendo una cultura giovanile che ha avuto un stagione di per sé molto breve, se si correla ad esempio alla vita del gruppo dei Sex Pistols, che si esibisce la prima volta nel novembre del 1975 e si scioglie a gennaio del 1978, l’influenza del punk è stata decisamente duratura avendo fatto germogliare una galassia post-punk ampia e multiforme, dal gothic, al cyberpunk, alle gothic lolite.
Per saperne di più:
Castellani, A., 2010, Vestire degenere. Sconfinamenti dell’identità di genere nelle culture giovanili e nella moda, Roma, Meltemi.
Chambers, I, 1985, Urban Rhytms: pop Music and Popular Culture, London, Macmillan; trad. it. 1986, Ritmi urbani, Genova, Costa & Nolan.
Hebdige, D., 1979, Subculture: The Meaning of Style, London, Methuen; trad. It. Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1983.
Home, S., 1995, Cranked up Really High: Genre Theory And Punk Rock, Codex; trad. it. 1996, Marci, sporchi e imbecilli 1976-1996: la rivolta punk non si è fermata, Roma, Castelvecchi.
Kureishi, H. 1990, The Buddha of Suburbia, London, Faber and Faber Ltd; trad. It. 2007, Il budda delle periferie, Milano, Bompiani.
Laing, D., 1985, One Chord Wonders: Power and Meaning in Punk Rock, Buckingham, Open University Press; trad. It. 1991, Il punk. Storia di una sottocultura rock, Torino, EDT. 1991.
Savage, J., 1991, England's Dreaming: Sex Pistols and Punk Rock, London, Faber and Faber Ltd; trad. It. 1994, J.Savage, Punk!: I Sex Pistols e il rock inglese in rivolta, Milano, Arcana.
Qualcosa di interessante da vedere:
Grande truffa del rock’n’roll, La (The Great Rock’n’Roll Swindle), J.Temple, GB, 1980.
Jubilee, D.Jarman, GB, 1977.
Oscenità e furore (The Filth and the Fury) ,J.Temple, GB, 1999.
Sid e Nancy (Sid and Nancy), A.Cox, GB, 1986.
Qualcosa da ascoltare:
Sex Pistols
The Clash
Ramones
The Slits