Intervista a cura di:
Liceo scientifico "L. Da Vinci" (RC) - CLASSE 2 G
Docente: prof.ssa Giovanna Canale
SCHEDA PER LE INTERVISTE
I SEZIONE - DATI DELL’INTERVISTATORE
COGNOME E NOME
Coletta Angela
ETA’
14
SCUOLA DI APPARTENENZA
Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci”
LUOGO DI RESIDENZA
Reggio Calabria
II SEZIONE - DATI DELL’INTERVISTATO
COGNOME E NOME
Maesano Francesca
ETA’
78
PROFESSIONE
Commerciante
LUOGO DI RESIDENZA
Reggio Calabria
III SEZIONE – DOMANDE ALL’INTERVISTATO
1. Conserva oggetti antichi legati alle diverse sfere della vita quotidiana che hanno nomi in lingua greco-calabra?
2. Conosce la storia e l’origine linguistica dei cognomi più ricorrenti nel suo paese, o dei nomi dei luoghi, o delle vie?
3. Ricorda l’origine di alcuni soprannomi attribuiti a membri della sua famiglia o ad altre persone del suo quartiere o paese?
4. Potrebbe raccontare episodi di vita quotidiana o storie del paese, aneddoti, proverbi rigorosamente in lingua greco-calabra?
5. Parla quotidianamente in lingua greco-calabra? Se sì, che età hanno i Suoi interlocutori?
6. Considera la possibilità di esprimersi sia in lingua greco-calabra che in italiano una opportunità o un handicap? Potrebbe dirmi nell’un caso e nell’altro per quale o quali ragioni?
7. Quale sarà, secondo lei, il destino della lingua greco-calabra nei prossimi decenni?
8. Ritiene importante lo studio di questa lingua oggi? Se sì, per quali ragioni?
Conserva oggetti antichi legati alle diverse sfere della vita quotidiana che hanno nomi in lingua greco-calabra?
«Certamente, conservo lo stampino, detto “signo”, che la mia famiglia utilizzava per marcare il pane che produceva, veniva usato da tutti i venditori per far riconoscere al paese i produttori degli alimenti. È stato costruito da mio padre e inciso vi è il cognome e lo stemma della mia famiglia.»
Ricorda l’origine di alcuni soprannomi attribuiti a membri della sua famiglia o ad altre persone del suo quartiere o paese?
«Sì, il soprannome che veniva attribuito alla mia famiglia è “Cianciola”, risale ai tempi di mio nonno. Mi hanno raccontato che, durante il pascolo, usava richiamare così le sue pecore e ogni qual volta che i miei compaesani sentivano gridare questo appellativo, sapevano dell’imminente arrivo del gregge.»
Potrebbe raccontare episodi di vita quotidiana o storie del paese, aneddoti, proverbi rigorosamente in lingua greco-calabra?
«Una tradizione di Roghudi riguarda il capodanno, tutti i bambini usavano radunarsi e bussare ad ogni porta del paese, gli adulti regalavano loro pere cotte, mandarini, dolciumi al latte, fichi e noci. Durante questa ricorrenza adoravamo cantare una filastrocca per augurare la pace, la salute e la prosperità:
“dotetimi il calapodo,
mi t’ingria e mi t’impaci
poddha provta,
poddha chridìa,
poddha scidìa,
ma t’fa tastìa.”
Quando ero piccola adoravo giocare con le bambole, allora la mia anziana zia me le cuciva ogni qual volta che glielo chiedessi; faceva loro le treccine in lana e i vestitini di pezza. Quando me le consegnava, le battezzavo nelle acque del torrente e le rivestivo con la cera della provola che avanzava. Un giorno, mentre ne battezzavo una, vidi passare dei coloni per il fiume che raccoglievano i fichi in una sorta di gebbia, con una scopa di “lisi” li pulivano e li portavano in piazza. Dalle donne del paese venivano seccati e venivano fatti gli “schiocchi”, alimento tipico che mangiavamo per Natale. La mia amata zia, che insegnava alle ragazzine del paese l’arte del cucito e l’utilizzo del telaio, era conosciuta da tutti per le bianche lenzuola che produceva, per lavarle e renderle profumate utilizzava la cenere del focolaio e le vendeva agli abitanti per abbellire le case durante il periodo delle visite di Natale. Nell’autunno dei miei otto anni ho passato quindici giorni fuori casa per la raccolta delle castagne; io e mia zia eravamo assieme a cinque famiglie di coloni e abbiamo aiutato a selezionare le castagne da portare a Roghudi; le più grandi erano destinate ad essere cucinate sul focolaio, le piccole invece, venivano gettate in una fossa e ricoperte da felci. Siamo tornati al paese con i trenta asini che trasportavano i frutti, accolti dalla gente che festeggiava per il nostro arrivo. Da giovane ero incaricata alla preparazione della carne del maiale, durante il mese di maggio cucinavo il “salatuni”, un insieme di tutte le parti più richieste del suino: il grasso, l’orecchio, il gambone e la spalla. Successivamente lo mettevo in un cesto coperto e, nel periodo del raccoglimento delle fave, prendevo la carne e la accompagnavo alla salsa di pomodoro. La preparazione del sugo di allora è diversa da quella di oggi, setacciavamo a mano ogni pomodoro, mettevamo il risultato in sacchi e, quando la passata si asciugava completamente, venivano aggiunti l’olio e le spezie.»
Considera la possibilità di esprimersi sia in lingua greco-calabra che in italiano una opportunità o un handicap? Potrebbe dirmi nell’un caso e nell’altro per quale o quali ragioni?
«Inizialmente, come molti altri miei compaesani, nascondevo di saper parlare grecanico. Veniva visto da tutti come una lingua rozza e chiunque la utilizzasse veniva etichettato e mal visto dagli uomini di città. Successivamente ho compreso che avrei dovuto onorare il mio paese d’origine e il mio passato, senza preoccuparmi del giudizio altrui. Sfortunatamente la lingua greco-calabra si sta perdendo ma ogni qual volta che incontro un mio anziano parente o un mio compaesano colgo l’occasione per discutere in lingua e per ricordare ciò che per me ha rappresentato Roghudi.»
Quale sarà, secondo lei, il destino della lingua greco-calabra nei prossimi decenni?
«Secondo me, nei prossimi decenni, il grecanico scomparirà, sfortunatamente già al giorno d’oggi le persone in grado di comprenderlo e parlarlo sono pochissime, ma sono fermamente convinta che anche se lingua verrà meno, la nostra storia, i nostri strumenti, le nostre tradizioni e le nostre terre parleranno per noi, facendo conoscere alle generazioni future un frammento di storia fondamentale della nostra amata Calabria.»
Docenti interessati: Serranò Antonia Maria Gioia, Mesiani Mazzacuva Roberto, Iaria Maria Giovanna.
Amodeo Vincenzo Antonio
Campolo Vincenzo
Cannizzaro Melissa
Costarella Sofia
Curatola Antonino Pasquale
D'Andrea Maria Lubov
Labate Christian
Laface Alessia
Maesano Leone Salvatore
Mandalari Michela Sofia
Manti Giuseppe
Manti Immacolata
Marra Albino
Nelo Giovanni Pio
Panzera Nicholas
Pennestrì Gaia Filomena
Pezzimenti Daniele
Pezzimenti Mattia Fortunato
Praticò Domenico
Singh Gurshan
Singh Gurvinder
Strati Rebecca
Suraci Denise
Visalli Siria
Zampaglione Riccardo Pietro
Intervista a Stelitano Mario, originario di Roghudi vecchio, città fantasma alle pendici dell’Aspromonte, rimasta disabitata negli anni Settanta a seguito di due violente alluvioni, un borgo impregnato di mistero e inquietanti leggende. Stelitano Mario è nato a Roghudi 24/09/1951, era commerciante, adesso è in pensione.
L’intervistatore è Vincenzo Campolo.
Io: - Ciao nonno, ti posso intervistare sul tuo paese d’origine?
Nonno: - Certo.
Io: - Dove sei nato?
Nonno: - Sono nato a Roghudi, in provincia di Reggio Calabria, un piccolo paese alle pendici dell’Aspromonte, situato al centro di una fiumara, un paese molto caratteristico.
Io: - Hai fratelle o sorelle? Quanti eravate in casa?
Nonno: - Eravamo sei, io sono il più piccolo di quattro fratelli, quindi aiutavo poco; mio fratello e le mie sorelle invece, lavoravano per aiutare i nostri genitori.
Io: - Visto che era un paese grecanico, gli anziani parlavano il greco?
Nonno: - Sì, gli anziani parlavano il greco, i giovani poco.
Io: - Allora parlavate in dialetto?
Nonno: - Sì, parlavamo dialetto e qualche parola greca che sentivamo dai più grandi.
Io: - Cosa ricordi?
Nonno: - Ricordo: fatima, che veniva usato quando gli anziani chiamavano i bambini; capinta ovvero il bastone degli anziani; paddecu si usava quando si voleva indicare una persona un po’ ingenua. Io: - Hai ricordi della tua infanzia?
Nonno: - Ho tanti bei ricordi…
Io: - Cosa facevi quando eri bambino?
Nonno: - Giocavo, come tutti bambini, fuori all’aria aperta, le strade non erano asfaltate, erano di terra e ancora oggi lo sono a Roghudi, non è cambiato molto da quando abbiamo abbandonato quei luoghi. È come se il tempo si fosse fermato. Non c’era la televisione, ascoltavamo la radio Io: - Quali giochi facevate?
Nonno: - Tanti: moscacieca, nascondino, giocavamo con quello che trovavamo in strada: pezzi legno, corde, sassi…
Io: - Giocavate spesso fuori, vicino alla fiumara... Avevate paura della fiumara?
Nonno: - Giocavamo anche vicino alla fiumara; personalmente no, non avevo paura della fiumara. A quei tempi non c’erano le lavatrici, le donne lavavano il bucato alla fiumara e anche noi andavamo e giocavamo lì vicino.
Io: - Andavate a scuola?
Nonno: - Certo, la scuola c’era, ma non come la scuola di adesso. Stavamo tutti i bambini insieme.
Io: - È mai accaduto qualche episodio particolare alla fiumara?
Nonno: - Sì, sì, tanti episodi, io ricordo di una bambina che è annegata perché portata via dalle acque del fiume, tanta gente aveva cercato di aiutarla ma la corrente era troppo forte. Anche in passato ci sono stati episodi legati alla fiumara.
Io: - Sono vere o sono solo dicerie le leggende che si raccontano su Roghudi vecchio?
Nonno: - Alcune sono vere… altre no.
Io: - Per esempio quella dei catenacci che c’erano alle porte dove si legavano i bambini per non scappare.
Nonno: - Non è assolutamente vero.
Io: - Cosa è successo e perché vi siete trasferiti?
Nonno: per un’alluvione, che in realtà non ha provocato chissà quali danni. È stato più un caso politico, che ha fatto trasferire tutti. Io: - Sei mai ritornato in quei luoghi?
Nonno: - Tantissime volte, ogni anno torno a vedere cosa è rimasto. E poi mi piace raccogliere i cerasi (le ciliegie) e i cricopi (le albicocche). Io: - E adesso, ti piacerebbe tornare ad abitare lì?
Nonno: - No, perché non ci sono le condizioni per poter restare. Non c’è luce, acqua, non c’è più niente.
Io: - Se qualcuno investisse in quei luoghi ti piacerebbe tornare?
Nonno: - Ma non penso che qualcuno investirà, è lontano dalle zone abitate, e non ci sono servizi, le strade, le case sono tutte distrutte.
Io: - Hai una casa tua?
Nonno: - Sì, la casa di famiglia, dei tuoi bisnonni.
Io: - Roghudi era un piccolo paese?
Nonno: - Sì, piccolo, ma molto caratteristico.
Io: - Quali prodotti tipici c’erano?
Nonno: - La ricotta, i formaggi, le verdure coltivate.
Io: - Qual era il piatto tipico di Roghudi?
Nonno: - Le minestre, in particolare, a me piacevano i vaianeddi (fagiolini), i maccheroni con la carne di capra, i maccarruni a cordeddi… Io: - Quali erano le tradizioni tipiche?
Nonno: - Le feste, il Natale, con i dolci tipici. A Pasqua si facevano i ‘nguti. Si festeggiava, ricordo le lunghe giornate a cantare e ballare a suon di organettu e tambureddu. Stavamo svegli fino a sera e poi andavamo a letto.
Io: - Avevi qualche animale?
Nonno: - Io no, però la maggior parte dei paesani aveva gli animali.
Io: - È vera la diceria che gli animali si tenevano in casa?
Nonno: - No, non è vera. Gli animali stavano nei recinti, nelle stalle.
Io: - Grazie nonno!
Nonno: - Prego, grazie a te!
Intervista a Maesano Domenica, nata a Roghudi il 12/02/1949, casalinga. Intervistatore: Maesano Leone Salvatore.
Leo: -Dove si trovava il paese?
Nonna: - Il paese si trovava sopra una roccia, in mezzo a due fiumare: la Zavatta e l’Amendolea. Si racconta che nell'antichità l’Amendolea era molto profonda ed era navigabile. A Roghudi c’erano tre entrate: Agridea, Plachi e Pizzipiruni, lì c’erano tre cancelli che di notte venivano chiusi per non fare entrare le Narade.
Leo: - Nonna chi erano le Narade?
Nonna: - I miei nonni mi raccontavano che le Narade erano donne che al posto dei piedi avevano zoccoli di cavallo e cercavano di ingannare le donne del paese per uccidere i bambini.
Leo: -Nonna quali erano le vie di Roghudi vecchio?
Nonna: -Via Rizzari, Via Roma, Via Aggridea, Via Motta, Via Plachi, Via Pizzipiruni.
Leo: -Quali erano le contrade?
Nonna: -Le contrade erano: Mandra, Mesapotamo, Mesagorio, Cenderi, Vecchio, Bernardina, Lidhu, Parascigui, Muschiupiano.
Leo: -Nonna mi dici alcune parole in grecanico?
Nonna: -Ego pao sto spiti (io vado a casa), Ego pinno to crasi (io bevo vino), Ego pao to pianno to nerò (io vado a prendere l'acqua).
Leo: -Nonna, quali erano i piatti tipici?
Nonna: - si mangiava molto arnì (agnello) specialmente nelle festività come Pasqua e Pasquetta, to cuni (il maiale) era un animale allevato da molti per la carne fresca e i salumi tra cui il capicollo e il salame, nelle festività il maiale viene utilizzato per cucinare le frittole.
Infine c’era l’èga (la capra), mangiata spesso e anche usata per ricavare il latte di un’ottima qualità. Il latte veniva usato per fare la ricotta nei fasceddhi. Dagli avanzi del latte si faceva a musulupa con delle forme chiamate musulupare.
Disegni realizzati degli alunni