Lavoro a cura di:
Liceo Scientifico "L. Da Vinci" (RC) - CLASSE 3^ I
Docente: Francesca Cilea
Boccafurri Elisa Polsia
Brigante Gabriele
Campolo Lorenzo
Cordova Lorenzo
Cotroneo Simone
Fallara Giada
Ferrante Mario
Ferrante Martina
Lenci Giulia Domenica
Mascioli Faustino
Morabito Gianluca Maria Pio
Napoli Francesco Bruno
Nocera Sara
Postorino Mariagrazia
Praticò Giulia
Princi Giuseppina Aurora Pia
Pucinotti Valentina
Rizzica Lucilla
Saladino Gabriele
Serpieri Dario
Siraci Rosy
Terrana Vincenzo
Lavoro a cura di:
Liceo Scientifico "L. Da Vinci" (RC) - CLASSE 3^ E
Docente: Valentina Macheda
Aragona Filippo
Benedetto Marta
Campolo Greta Maria
Chiocca Aurora
Festa Marialaura
Laganà Alessandro
Mariotto Riccardo
Passalacqua Myriam
Pizzi Chiara
Praticò Matteo
Richichi Giuseppe
Romeo Luigi
Sapone Federica
Tegano Luca Paolo
Analisi del testo”Il treno della morte” Filippo Violi
In questa poesia l’autore affronta il tema della morte causata dalla triste realtà della guerra. In particolare intende evidenziare quanto i bambini risentano di questa situazione, purtroppo ancora attuale. Tutto questo riapre la questione della violenza e della guerra su questa terra martoriata, dove le uniche vittime innocenti continuano ad essere i più piccoli. La morte viene paragonata a un maledetto treno che non lascia scampo e porta via chiunque salga. Persino i bambini, desiderosi di vivere in un luogo dove ci sia la pace, non vengono risparmiati dal travolgente treno della morte. Il destino delle persone, soprattutto dei più piccoli, che salgono su questo treno, è segnato dalla crudeltà della guerra che porta distruzione e non concede alcun sentimento di speranza. Si arriva perciò ad una tragica conclusione, in cui impotente sembra regnare la rassegnazione. Infatti, come l’autore afferma nel distico finale, non rimane più nulla ormai se non il vento gelido della morte che inonda la terra. Il testo presenta quattro strofe di versi liberi di varia lunghezza, più un distico finale di novenari che richiama nella parola “morte” il primo verso, dando quindi una struttura ad anello con questa parola- chiave; inoltre, è presente una significativa assonanza tra i termini “treno” e “vento”. Alla domanda iniziale viene data risposta diretta nei versi delle prime due strofe, come dimostrano le virgolette. Emerge la forte contrapposizione tra presente e passato, legata alla drammatica sorte del bambino che non vuole salire sul treno, ma è andato incontro al proprio destino non sapendo che “qualcuno” aveva già deciso per lui. Nella prima strofa possiamo notare un’allitterazione della p, nelle parole perché, passa, prenotare, posto e paese; l’autore ha poi inserito metafore come treno della morte (v. 1, 14, 19), grosso libro, (v. 9), vento della morte (v. 21). In particolare nel “grosso libro” ci sono tutti gli “indirizzi”, i nomi di coloro che non volevano salire e rappresentano il lunghissimo e tragico elenco delle vittime di guerra.
Analisi del testo “Sul selciato della vita” Filippo Violi
In questa poesia l’autore rievoca la sua infanzia ritornando nei luoghi del passato, descritti come itinerari deserti e silenziosi, che ripercorre poiché i ricordi non erano mai spariti, ma erano soltanto nascosti dentro la sua mente. Compie il percorso della vita ricordando il viso della madre marcato da rughe “antiche” per i tanti momenti di dolore vissuti e rivivendo il dolore del padre, segnato dal duro lavoro. Mentre avanza sul “selciato della vita”, torna quindi indietro con il pensiero, ricordando i momenti che hanno segnato la sua esistenza e quella delle persone a lei più care. Infatti, la strada che ricompone la memoria è la stessa di quella che ha percorso nella vita. Nel testo possiamo trovare il campo semantico del ricordo, che ci mostra come l’autore abbia una visione nostalgica del proprio passato. Mediante il parallelismo tra la vita e il selciato e con l'utilizzo di nette immagini visive, come quella del volto dei genitori, riesce a coinvolgere il lettore che partecipa con empatia alla sua storia. Il testo comprende quattro strofe di versi liberi brevi, due formati da un unico termine, ed è caratterizzato dall’ampio uso dell’enjambement che ha l’effetto di potenziare determinati concetti, come la lontananza dei ricordi passati dalla sua mente, lunghi itinerari ormai /siete (vv. 3-4) e il dolore vissuto dalla madre che si può notare guardando il suo viso rivedo le rughe/antiche (vv. 6-7). Nella prima strofa notiamo un’allitterazione della i e un’anastrofe, luoghi pieni di memorie io vi ritrovo. Nella seconda strofa è presente un’assonanza tra i termini itinerari e ormai, un’anastrofe, lunghi itinerari ormai siete, una ipallage, morti silenzi e una forte allitterazione di i e r, lunghi itinerari ormai siete, e morti silenzi. Nella terza strofa abbiamo un parallelismo mediante coordinazione tra i volti della madre e del padre, accomunati dal dolore, e l’allitterazione della e e della r, rivedo le rughe antiche, il dolore di mia madre e il volto dolente di mio padre. Nell’ultima strofa possiamo notare l’allitterazione di s, e, a, sul selciato della vita giacciono riverse le mie memorie e la metafora del titolo, selciato della vita (v. 11).
Analisi del testo “Vivere” Francesca Tripodi
Nella poesia “Vivere” l’autrice esprime la felicità che dà la vita, parlando della bellezza della natura. I magici raggi solari si infiltrano nella vegetazione, il sole accalda facendo sudare gocce perlate che cadono sulla terra amata, coperta di un verde velluto d’erba. Nella natura, poi, i nostri occhi incontrano alberi secolari che, guardandoci, vorrebbero raccontarci le memorie di un passato ormai lontano. Ad un certo punto, dentro di noi arriva un’emozione che “soffia” nei nostri occhi parole e ombre di un vecchio saggio, le quali si fermano nella nostra mente e ci fanno sospirare mentre guardiamo il cielo. Ad un tratto ci accorgiamo che lassù, nella profonda quiete dell’azzurro, anche il cuore tace, non avendo parole adatte a descrivere, forse, sensazioni così forti. Il testo presenta sei strofe di versi liberi, di varia lunghezza ma prevalentemente brevi. Domina il campo semantico della natura, tramite il quale l’autrice descrive la vita: l’infinito del titolo assume in questo senso un significato ampio. Già dalla prima strofa si susseguono singole immagini legate alla percezione della luce, al calore, al colore, potenziate dagli aggettivi, come ad esempio ricami di magici raggi di luce (vv. 1-2-3), gocce perlate (v. 10), terra avvolta in un verde velluto (vv.11-12-13). L’autrice inserisce anche personificazioni, che rendono gli elementi della natura soggetto attivo della poesia: alberi secolari ti guardano (vv. 14-15), gocce perlate che amano la terra (vv.10-11). Noi uomini siamo resi partecipi di questo mistero e reagiamo con l’emozione che giunge e soffia nei tuoi occhi (vv. 19-20), mentre lo sguardo verso il cielo fa tacere anche il nostro cuore (vv. 30-31). Altre figure, come l’allitterazione e la sinestesia di “verde velluto” oppure la possibile analogia tra gli alberi, che sono memoria del passato, e i messaggi di un vecchio saggio (strofe 4 e 5) arricchiscono ulteriormente il testo.
Analisi del testo “Cosa devo scrivere” Elisabetta Nucera
Nella poesia “Cosa devo scrivere” si nota, fin dai primi versi, l’io lirico che esprime dolore e profonda solitudine. La notte accende i ricordi e, nel buio, l’autrice ha impresso la sua sofferenza, che sembra essere l’unica compagna della sua vita. L’esistenza è diventata vuota, è come un universo pieno solo di macerie, così l’autrice si domanda che vita sia questa e come si possa vivere degnamente, dopo aver perso le principali fonti di felicità. Alla sofferenza per la solitudine si aggiunge uno stato di angoscia: la mancanza di Dio, il venir meno degli ideali in cui credere, la scomparsa dei propri cari e specialmente della madre, tutto contribuisce a disorientare col rischio di perdersi. Arriva tuttavia, nel verso finale, l’affermazione“combattiamo ogni giorno” che può avere duplice significato: negativo nel senso che la vita è davvero da vedere come una dura, continua lotta , oppure positivo, nel senso che siamo invitati appunto a combattere quotidianamente per resistere a una vita-non vita, nonostante tutto. E’presente nel testo, composto da tre strofe di versi liberi, il campo semantico del dolore, espresso nella seconda e terza strofa mediante proposizioni interrogative e negative. Notiamo nel primo verso la rima “dolore”- “cuore”. Nella seconda strofa si trova una figura etimologica, vivere (v. 4) vita (v. 5). Inoltre nella poesia notiamo due anafore, che vita è questa (vv. 6-7), e non abbiamo, non andiamo, non abbiamo (vv. 8-9-10) che è anche un parallelismo. Nell’ultima strofa, infine, l’autrice inserisce quella che possiamo considerare una climax discendente, Dio, chiesa, mamma (vv. 8-9-10) particolarmente significativa perchè sintesi dei valori che sono venuti a mancare.
Lavoro a cura di:
Convitto Nazionale di Stato "T. Campanella" Reggio Calabria
classe III A liceo di Ordinamento
Docenti coinvolti: prof. Francesca Foti, prof. Maria Francesca Massara
ALUNNI
Baccillieri Marco Maria
Ventura Samantha
Frangipane Christian
Anna Leone
Grazia Foti
Antonino Scopelliti
Ricciardi Trimboli Samuela
Demetrio Barreca
Noemi Bevilacqua
Veronica Rognetta
Sofia Silva
Rosario Grasso
Ilaria Latella
Jabnouni Maisa
Giulia Garganese
La cultura grecanica, fortemente radicata sulla famiglia e le interrelazioni tra i suoi componenti, esprime in parecchi testi poetici i sentimenti che animano e tengono unita questa struttura portante della società.
Dall’analisi delle diverse sfaccettature rilevate è emerso un modo di pensare che affonda radici molto lontane nel tempo, in stretto parallelismo, talvolta, anche con poesie della cultura classica grecoantica.
Molte volte vengono messi in evidenza i sentimenti che la donna suscita nell’uomo, come nella poesia “Lucia” di Francesco Antonio De Marco, vissuto a Bova intorno alla metà del 1600, in cui l’innamorato esprime le sue sensazioni, quasi riecheggiando i famosi versi saffici:
[…] Sa ti platègguo mu chlìji t’aptìa, […]Quando le parlo un calore mi prende alle orecchie,
ce sirma canunài ta catu ce anu[…] mentre lei guarda subito in alto e in basso[…]1
o nel testo “O faccia bella” di Angelo Maesano di Roghudi, serenata di un uomo in ansia sotto la finestra dell’amata:
O faccia magni, posso egò s’amèno O faccia bella, da quando ti attendo
o ìglio lèggio lèggio catevènni. e il sole piano piano se ne scende Se steki cràzzonda i chitàrra dikìmu Ti sta chiamando la mia chitarra ce i cardìa dikìmu astipài e il mio cuore batte forte.[…]
L’amore, fonte di immensa gioia, può essere anche causa di grande dolore, se si è lontani, come nei versi del bovese Bruno Casile:
Limbithìa Desiderio
I zoimmu ene chamèni La mia vita è perduta
an de s’echo m’emmèna, se non ti ho con me,
panda larga canunào guardo sempre lontano
na su ivro an condofèrri. per vederti arrivare
I cardìamu rigài Il mio cuore ha freddo
1 I testi e le traduzioni sono tratti da F. Violi, I nuovi testi neogreci di Calabria, Iiriti ed., Reggio Calabria 2005.
ce cammìa pleo ti chlèni […] e nessuna più lo riscalda[…]
e di Domenico Nucera di Gallicianò:
Agàpimu Amore mio
Larga asc’essèna en-i-scero ti na camo Lontano da te non so che cosa fare
i cardìamu ene mavri fola to scotìdi […] il mio cuore è nero come il buio[…]
Mia macherìa tis etàvriese me to machèri Un colpo mi hai dato con il coltello
Jatrò en echi pu ti ssònni jàni. e non c’è medico che lo possa guarire.
Nella poesia, invece, “Colui che va lontano”, di Francesca Tripodi (Chorio di Roghudi), sotto forma di scambio di battute tra i due sposi, è il lavoro ad allontanare l’uomo dalla moglie e i figli:
Egò su lègo “mi pàse, mi pàse, -Io ti dico “non andare, non andare,
pu mu afìnnise òde manachì” che mi lasci qui sola”-
Echo na pào jà fòrza -Devo andare per forza
Ècho na pào addhì devo andare altrove
An de cànnome òtu se non facciamo così
Emì ‘e sònnome zì. noi non possiamo vivere.
De su afìnno manachì, Non ti lascio sola
afìnno ta pedìa ti ddikìmu cardìa, ti lascio i figli del mio cuore,
an de su cànnu àddho, su cànnu sinodìa; se non ti fanno altro, ti faranno compagnia; su pensèo sti ccardìa sce mèra sce vradìa, ti penso nel cuore di giorno e di notte, ècho na choristò, devo partire;
Dìchi ti pào cuntènto Sembra che vado contento
ma sti ccardìa to cùnno ma nel cuore lo sento
sciafìnno ti gghinèka lascio la moglie
me òla ta pedìa con tutti i figli
ce mu pòni i cardìa e mi fa male il cuore.
In alcuni testi il pensiero corre alla caducità della vita e, quindi, alla necessità di vivere intensamente il presente e la passione che lega i due innamorati come ne “Il tempo della caduta” di Antonio Nucera (Gallicianò):
[…] Isso i dikìmmu cèddhi Sei la mia piccola
mega jinèka grande donna
ti jiomònni asce lùstro che riempie di luce
ulle tes oplèmmu. tutte le mie orme.
I pethamìa èchi ambròtte o kerò, La morte ha davanti a sé il tempo,
i zoì ène manachò mìa làmpada: la vita è soltanto un fulmine:
na ti zìme. viviamola.
L’uomo si sente molte volte trascurato e non compreso dall’amata; l’amore non corrisposto lo tormenta tanto che egli fatica a dormire e a lavorare. Molto efficace l’immagine presente nel testo “Come carne ai cani” che si legge tra i canti anonimi di Roccaforte:
Tin imèra de m’afìnnise na fao, Il giorno non mi lasci mangiare,
ti nìttha de mme kànni na ciumìo! la notte non mi fai dormire!
Fègo anu kàtu, ce pu pào? Fuggo su e giù, ma dove vado?
Den ècho ènan amblìci na mbicìo! Non ho riparo per entrarci!
Esù to scèri ti egò se gapào, Tu lo sai che io ti amo,
ce me rìtthi fòla to krèa to sciddhìo! e mi butti come carne ai cani!
Ce mìan imèra esù klèse c’egò ghielào: ma un giorno tu piangerai ed io riderò:
ecìn en imèra pu gapòmmaston i dìo. Sarà quello il giorno in cui ci ameremo.
Il matrimonio compare spesso tra le poesie. Come da tradizione, è l’uomo a dover fare la proposta, andando a casa della ragazza a chiedere la mano e, solo dopo un lungo “esame” da parte di tutta la famiglia, si potrà considerare fidanzato ufficialmente, come si legge nel testo “Ho visto una fanciulla” di Filippo Condemi (Gallicianò):
[…] m'èpire sto ngiùri […] Mi portò dal padre
na tu platèsso egò per parlargli io
eiàna magno mmàgno andai ben bello
ce tos ta ìpa ollò e glielo dissi a tutti
m'ecanunùan ùllo mi han guardato tutto
ce mu ìpasi manè e mi dissero di sì
art'immo zsìto-n-ossu ora son fidanzato dentro
c’e ssònno gghèi plè […] e non posso uscire più. […]
La donna è spesso vista come la padrona della casa e indispensabile nella vita dell’uomo, il quale è sempre al suo servizio. Nella poesia “Bel fiore” di Domenico Nucera (Gallicianò) si legge:
[…] Egò jassèna ìmmo enan garzùni […]Io per te sono un servo
fola ena scìddho immo san den èchi ti càmi come un cane sono che non sa che fare
mèni vviàta condà ando garzùni […] resta sempre vicino al servitore. […]
e in “A mia moglie” di Salvatore Siviglia (Roghudi):
Jinèka dikìmu, jinèka ti ccardìamu, Moglie mia, moglie del mio cuore,
plè jènese pallèa plè s’agapào. più diventi vecchia e più ti amo.
Isso pòse lulùdi sto cipùrimu Sei come un fiore nel mio giardino,
Isso pose to crisàfi stin cardìamu. sei come l’oro nel mio cuore.
Isso i màgni ti zoìmmu, Sei la bella della mia vita,
isso i gnùra tu spitìu, sei la signora della casa,
isso i jinèka ti cardìamu. sei la donna del mio cuore
L’uomo, infine, non desidera altro che stare assieme alla sua sposa fino alla vecchiaia come in “Vienimi vicino” sempre di Angelo Maesano:
[…]San i zoì dikìma ene palèa Quando noi saremo vecchi
parakalùme viàta ton Christò pregheremo sempre il Signore.
den thelo de na fao ce de na pio, Non voglio più mangiare né bere,
na ciumithò methèsu manachò. ma voglio solo riposare accanto a te
Una tematica molto ricorrente nelle poesie in neogreco, in riferimento ai rapporti familiari, è la gratitudine dei figli verso i genitori (gonèi).
Nel testo del Maesano “Sorge il sole” si legge:
[…] I chròni dikìma eperàsai I nostri anni sono passati
Pose ena fiso ston vorèa come un soffio di vento
Ce afìkai mia glicìa sinertìa e hanno lasciato un dolce ricordo
Ti ene i agapìa ce i charà che è l’amore e la gioia
Ti i mana mas èdike. che ci ha dato la mamma.
Nei versi di “A mio padre” (“Ston ciùrimu”) e “Quanta fatica ha fatto mia madre” (“Possi dulia ekame i manamu”), sempre del Maesano, “Mamma” (“Màna”) di Attilio Nucera (Gallicianò) e “A mio padre” (“Tu ciùrimu”) di Bruno Stelitano (Roghudi) si parla dell’amore che i genitori sono in grado di trasmettere ai propri figli fin dalla nascita e dei sacrifici che essi facevano per garantire alle loro creature un futuro migliore (“Mana, èkane thisie san ìcha na jelào…” / “Mamma hai fatto tanti sacrifici quando dovevo ridere…”). Emerge, inoltre, l’organizzazione della famiglia nell’area grecanica: i padri si recavano in montagna a pascolare il gregge e le madri rimanevano a casa ad accudire i figli (“Fègonda sta stenà mesèsu pàndote kondà ce o ciùri me ta zoà stin oscìa.” / “Correndo tra le vie con te sempre vicina e il papà con gli animali in montagna.”). I figli, una volta cresciuti, erano soliti mettere in atto gli insegnamenti impartiti dai genitori, ricordando i bei momenti passati insieme (“…ta sinertìmata dikàsu ola ta ècho stin cardìamu” / “…i tuoi ricordi li ho tutti nel mio cuore.”).
Uno scenario molto comune nella società grecanica, come si è già detto, era quello della lontananza degli uomini dalla famiglia, per cause diverse quali, per esempio, il lavoro. Essi erano, infatti, costretti ad andare lontano dalla propria terra per poter garantire alle loro famiglie una qualità di vita migliore come emerge principalmente nella poesia “Lontano da casa” (“Larga an do spiti”) di Bruno Casile in cui si dice
“O Chuma dikòmmu jatì mu èstile làrga? “ O terra mia perché mi hai mandato lontano?
Jatì ode se essèna den ìnsonna zisi?” Perché qui da te non potevo vivere?
In essa si percepisce sia la rabbia e il dispiacere dell’uomo nell’abbandonare i genitori, la moglie e i figli (“Chorìstina an do spìti cheretònda tin mana, tin jinèka ce pedìa, ce larga ejàina manachòmmu clònda…” / “Sono partito da casa salutando la mamma, la moglie e i bambini, e lontano sono andato piangendo…”) sia la nostalgia e la solitudine che caratterizzano il suo stato d’animo (“Ti spera sa edèlegga sto spiti den ìchorra canèna ecì me emmèna, to crevàtti manachò me ta tìchia” / “La sera, quando ritornavo a casa non vedevo nessuno lì con me, il letto soltanto con i muri.”).
Anche gli eventi luttuosi in famiglia sono particolarmente sentiti nella cultura grecanica e diversi componimenti si soffermano su questo tema con punti di forte pathos.
Nella poesia “Lamentazioni funebri”, tratta dai canti anonimi della Bovesia e della vallata dell’Amendolea si legge:
O pènamu, pedìmmu, O che pena, figlio mio,
ca epèthanese, càrromu, perché sei morto, mio cerro
cà m’àfikese manachì e mi hai lasciata sola
ce pu èrkome na se ìvro plèo e dove verrò a vederti più!
Risalta la figura di una madre (màna) addolorata, che piange la propria sventura per la morte del figlio (pedì), il quale era considerato un “cerro”, un albero robusto, che metaforicamente indica il sostegno della famiglia Oltre alla tristezza, all’abbandono e alla solitudine si può notare l’evidente smarrimento della madre dovuto alla perdita del suo pilastro (“…ca m’àfikese manachì…” / “…e mi hai lasciata sola…”).
Se nella poesia precedentemente analizzata è la madre a sentirsi persa a causa della morte del figlio, in altri testi è, invece, il figlio che non riesce a darsi una spiegazione in merito alla morte della madre come in “Dimmi: perché?” di Filippo Violi (Bova Marina) in cui la domanda del titolo, ripetuta alla fine di ogni strofa (“…jatì, zoì, pèmu, jatì?” , “…perché, vita, dimmi, perché?”), quasi come il ritornello di un lamento funebre, accentua il sentimento di profondo sconforto che l’autore prova, misto alla rabbia per l’ingiustizia di una morte incomprensibile.
Nella poesia “Le tue mani, madre”, sempre del Violi, invece, il figlio desidera la presenza fisica della madre nella sua vita, vorrebbe risentire nuovamente le sue mani delicate, che gli riuscivano a trasmettere molto di più di quanto si potesse fare a parole (“Efènondo platèzzi ta chèriasu, màna…” , “Sembravano parlare le tue mani, madre…”), e rivedere le rughe del suo volto, che raccontavano ogni sforzo e sacrificio fatto dalla donna (“se kàtha dìpla tu dermàtu dikùssu epìsteggua ton pòno jà ton perammèno kerò…”, “in ogni piega della tua pelle immaginavo il dolore passato…”).
Da ultimo, Elisabetta Nucera di Bova nella sua “Per voi”, seppur affermando di vivere nel dolore, trova nella preghiera quel trait d’union coi suoi cari scomparsi che le porta conforto e pace:
Ja ‘ssà Per voi
Catha nista ‘ssa pensègguo Ogni notte vi penso
ce de ssonno na ciumithò e non posso dormire
an prita egò en paracalào se prima non prego
jà essà to Christò. per voi il Signore.
Paracalào jà tin zzichì sa Prego per la vostra anima
na mi ene addhismonimèni affinché non vi dimentichino
ce arte ti iste ston àddho cosmo ed ora che siete nell’altro mondo
sònnite mas ivri ponimèni. potete vedere il nostro dolore.
Ssa paracalào na me cùete Vi prego di ascoltarmi
jatì panda m’essà platèggo perché io parlo sempre con voi
ce den iste plèo manachì e non siete più soli
ce egò den imme manachì. né io sono sola.
Alcuni componimenti, infine, in maggioranza tratti dai canti anonimi della Bovesia, parlano delle feste tradizionali come il Natale, il Capodanno, il Carnevale, la Domenica delle Palme, la Pasqua e il Due Novembre.
Nella poesia “Ninnarella” viene rievocato il periodo natalizio; è una novena che si cantava, girando di casa in casa, per festeggiare la nascita di Gesù. L’espressione che richiama l’evento più importante per i cristiani è: “Ajo Christojenna” che significa “Santo Natale”.
Subito dopo il Natale, si festeggia l’inizio del nuovo anno e la poesia “L’augurio di Buon Anno” rievoca un’antica tradizione di alcuni paesi calabresi come Roghudi e Gallicianò che ormai è scomparsa2: la sera della vigilia di Capodanno veniva buttata una pietra dentro casa e trascinata per le stanze in segno di prosperità. Successivamente, la pietra veniva messa dietro la porta e buttata via il giorno dopo. “Eriscia to lithàri mesa sto spìti”, “ho buttato la pietra dentro casa”, così inizia la poesia che ricorda l’azione che veniva fatta in segno di fortuna.
La festa allegra del Carnevale appare nel componimento intitolato “Carnevale”. Esso è quasi una piccola filastrocca, che racconta in poche righe la pazzia del Carnevale: in questi giorni è consentito mangiare tanto, bere e fare qualche piccola pazzia. Finita la festa, si ritorna alla vita normale e ad accontentarsi di poco: “chorto ce cardùgna / ce den plèo maccarùgna “ , “… erbe e cardi, / e non più maccheroni”.
“Oggi è festa” è un canto dedicato al giorno delle Palme, ma non esprime allegria poiché la poetessa, Jolanda Condemi (Gallicianò), rende nota la sua amarezza per lo stato di abbandono in cui è lasciato il paese e, in particolare, la chiesa che è in condizioni di completo degrado e nessuna delle autorità ecclesiastiche fa niente per sistemarla. Le statue dei santi sono state spostate nella scuola e i bambini vengono battezzati addirittura fuori dalla Chiesa. Solo la prima frase della poesia sottolinea la festa delle Palme: “Sìmero ene arghìa, sìmero ene tis Alèa”, “Oggi è festa, oggi è delle Palme”.
Nella poesia “In aprile”, sempre della Condemi, viene raccontata una Pasqua di speranza, perché ad aprile si risveglia la natura, ma l’inverno è stato duro e il grano si è ammalato, inoltre, il vento ha buttato dagli alberi le mandorle, per cui gli uomini sono preoccupati di non avere cibo per i bambini. Per questo, quando le campane suonano per annunciare la Pasqua, si prega affinché il tempo migliori. Il primo verso del componimento annuncia già la Pasqua. “Asce aprìddhi èppe i Pascalìa”, “in aprile cadde Pasqua”.
“Pasqua in Svizzera”, invece, di Francesco Errante (Gallicianò) esprime la tristezza dell’emigrante, che proprio durante le feste, sente maggiore nostalgia di casa, perché ricorda i tempi in cui stava al suo paese tra i suoi cari.
“Il Due Novembre” di Salvino Nucera (Chorio di Roghudi), infine, parla, appunto, del giorno dei morti; il poeta descrive questa giornata triste e grigia, così come lo sono i cuori di coloro che hanno perso delle persone care. Egli stesso piange i suoi genitori che non ci sono più, ma la natura, con i suoi fiori colorati e le variopinte foglie autunnali, sembra conferire una nota di conforto.
2 Cfr. Violi, I nuovi testi, vol.I p. 106.