Racconti brevi e brevissimi

Ancora, mi chiedo se verremo mai messi nelle canzoni o nei racconti...

J.R.R. Tolkien

Nera ragione e grigio sentimento

Alessia Pinto. 4A

«Narrami, o Diva, dell’uomo dal multiforme ingegno» che tanto soffrì affrontando mille pericoli lontano dalla sua casa.

Il prode Enea serbava nel cuore il ricordo della sua vita prima di partire e proprio la speranza di ritornare nella sua terra lo spinse a superare ogni difficoltà. Invece ora, noi, dopo aver navigato per tre lunghi mesi in un mare di paure e ansie, riusciremo a tornare a casa nostra?

Anche se la stessa casa che ci ha cullati ora ci sta distruggendo? Il nostro ‘ingegno’ è ingannevole: ogni giorno, per tutto questo tempo, abbiamo sperato di poter ritornare alla nostra «rassicurante normalità», anche se da sempre è stata etichettata da noi come corrotta e sporca.

Tuttavia, in un passo così buio della strada, chiunque tornerebbe correndo indietro piuttosto che scoprire cosa si cela alla fine di quel buio.

Con un virus mortale che minaccia le nostre vite, siamo troppo spaventati dal dopo e per questo motivo, ci appigliamo all’unico raggio di speranza che riusciamo a vedere: “tornerò a lavorare”, “tornerò in palestra”, “tornerò dalla mia famiglia”...

Ognuno spera vivamente di poter tornare a quella sua intima realtà costruita sui gesti quotidiani , quel piccolo spazio di affetti che cresce con noi e che è la normalità senza la quale ci stentiamo persi.

Infatti, durante questa quarantena soffocante, abbiamo cercato di ricreare quella normalità che ci manca, anche se con una “piccola” differenza: forzata tra quattro mura.

È notevole come l’uomo riesca a riadattarsi nelle varie e difficili situazioni solo sperando di riavere i suoi spazi.

Non è forse “l’ingegno” dell’uomo, certamente ingannevole ma pur sempre “multiforme”?

Però, dopo tutto, ormai stremati, è impossibile non dare ascolto a quella vocina che sta cercando di farci capire che è a causa di tutti gli errori compiuti prima che ora ci troviamo nel marciume.

Siamo arrabbiati perché tutto sarebbe potuto andare diversamente, ce la prendiamo con il nostro paese perché non ci aiuta a superare la crisi e lo stiamo vedendo crollare esile davanti ai nostri occhi senza poter fare nulla.

Quel “cigno nero” che silente ci porta alla distruzione, ci sta facendo soffrire, ma in realtà tutti sappiamo che quel manto così scuro e sporco non è nient'altro che il resoconto di tutte le nostre sudice azioni.

Abbiamo sporcato nei secoli quello che un tempo era candido.

Ora è malato ma noi ci ostiniamo ancora a sperare che quel cigno ritorni a “splendere” nero come prima.

Non è egoismo, è paura.

Arrivati a questo punto, che ne sarà di lui?

Ma comunque riusciamo ad essere così tanto nostalgici di quella che era una normalità sporca.

Infondo, il nero non è nient'altro che la somma di sette miliardi di diverse tonalità di grigio.

Ognuno percepisce come norma, la tonalità in cui vive e solo lui, in base alle sue scelte, può sporcarla o mantenerla pulita.

Anche se ora ci rammarichiamo di quel cigno così nero, non riusciamo a non sperare di riavere il nostro grigio.

Nonostante tutto, è la nostra “petrosa Itaca”.

Sentieri in primavera

Angelo Pellè. Prof.

Sentieri interrotti

e risvegli lussureggianti

quando senti sentimenti

come corse sfuggenti

di attimi serpeggianti.


Impercettibili rotte,

sul verde mare con nuvole a vele,

senza fughe senza ritorni,

dove l'attimo scorre

e l'inseguimento perenne:


immaginari sentieri dentrofuori,

sul confine dei tempi, sulla riva degli specchi,

tra le loro polveri; sentieri che scompaiono,

tornano indietro, rinascono; sentieri che

sgorgano da un bosco, in primavera,

e mi seguono - ora, e mi danzano - qui, e tutt'intorno,

e mi riflettono a sprazzi, mi scorrono oltre e mi portano ovunque...

La bellezza del dolore

di Giovanni D'Amone. 4E

Ho conosciuto il dolore non è una canzone, è una lirica, una poesia, perchè non c'è nulla di più poetico di un testo che grida di sé, anche senza gli strumenti.

Non é facile parlare del dolore o farne delle riflessioni, perchè trattarlo implica rievocarlo, e chi vorrebbe rovinarsi una serata cosi serena, quale questa che accompagna la mia scrittura? .... Nessuno!

Perchè è intrinseco nella nostra natura biologica, l’agire in vista di una positività e di una miglioria della nostra condizione, ed è intrinseco nel nostro genoma l’aver paura di ciò che spaventa. Ma fortunatamente (e lo continuerò sempre a dire con la forza prorompente della fiducia) non siamo un semplice agglomerato di atomi casuali in un mondo del tutto casuale, (non lo voglio pensare!) e filosofi cari, almen lasciate a questo pover uomo poterlo sperare!

Siamo esseri, perchè viviamo la vita con la duplicità del materiale e dello spirituale. Se la prima ci vincola alla nostra natura, la seconda ci libra ad un livello superiore, che a detta di molti, ci rende cosi speciali ed evoluti, ambivalentemente, amletici e “ingarbugliati”. Si, “ingarbugliati", proprio come le nostre cuffiette, quelle difficili da snodare nel loro aggroviglio di nodi, perché non riusciamo a liberarci di tutte quelle emozioni che alle volte, ci rendono, ahimè, irrimediabilmente umani e imperfetti.

È come in una grande multinazionale: più guadagni dal tuo incarico, più responsabilità hai alle tue spalle, e più impegno devi dedicare in quello che fai per non deludere le aspettative. Se siamo umani non è perchè siamo superiori agli altri esseri del creato, nondimeno più meritevoli; non ci é dato saperlo, ma ci è possibile dimostrare che chi ci ha scelti non si sbagliava!

Uno dei grandi aggrovigli della nostra “pace interiore” (direbbe maestro Miyagi) è il dolore.

Non prendiamoci in giro: tutti hanno vissuto un momento carico di questo sentimento. E anche dietro ai faccini più sorridenti, fidatevi, si cela da un piccolo amore non corrisposto fino ad un lutto o una malattia o una condizione di vita misera e precaria.

Vecchioni è un luminare da questo punto di vista: di fatto riprende il concetto di scontro sul ring del pugilato, tra individuo e dolore (fine del gong, salto fuori dal ring), ma già in questa piccola e candida immagine, l’autore compie un gran salto in avanti, almeno per la mia persona.

Se prima di ascoltare le sue parole, all’idea di “dolore” io avrei immediatamente assimilato quella di una “fuga eterna” dal mio persecutore armato di angosce e inquietudini, ora capisco che |’avversario più forte è quello che decidiamo di non affrontare, ora capisco di dovermi fermare, ora capisco di dovermi voltare, ora capisco di doverlo guardare negli occhi e affrontare, perché anch’io, come tutti, ho conosciuto il dolore e ho avuto paura di affrontarlo, paura di perdere il match. Le parole di Vecchioni suonano come una sollecitazione, uno stimolo, la sfida personale a prendere audacia e a salire su quel dannato ring!

Forse anch’io, speravo di ottenere qualche aiuto esterno, o soffocare il dolore con la distrazione, ma niente è più brutto di un diario di vita con tante pagine strappate o cancellate. Speravo in quel Dio buono e caritatevole che, con l’erronea convinzione di un piccolo professante, sarebbe intervenuto sempre, e in qualsiasi momento io avessi necessitato la sua vicinanza. Vecchioni dice “o se giuravi di esserci, e non c'eri (Dio)”.

Ma ora non sono più un professante, ora sono un “più maturo” peregrino lungo la via della fede, e mai più d’ora mi è chiaro quanto Dio non sia un supereroe, ma una prova personale, una challenge direbbero i miei coetanei: ognuno di noi è chiamato a trovarlo, nascosto com’é nella guerra e nella paura, nella violenza e nello sterminio, nella droga e nella discriminazione, nel bullismo e nella mafia e nel dolore. Il mio Dio é absconditus e vuole vedere questa sua piccola e forte creatura quanto sia in grado di sconfiggere i suoi mali e scacciare via le sue tenebre. Dio, é il nostro preparatore atletico, il nostro suppoter piu sfegatato, e magari il suo non interventismo é una prova di quanto ci voglia bene e di quanto quel famoso principio del libero arbitrio, in realtà, ci sia garantito. Ma come la giustizia delle cose vuole, se ci definiamo liberi e unici protagonisti dei nostri momenti più felici, annichilendo Dio ad un ricordo passato e incerto e non vivo, allora dobbiamo accettare di essere liberi e soli anche nel soffrire tutto ciò che la vita ha in serbo per noi, a testa alta, con grande senso di responsabilità e con lo stesso medesimo protagonismo dei facili momenti, senza puntare il dito contro chi non é dato prendere un fulmine e scagliarlo contro i nostri nemici come nei fumetti di Thor.

Ciascun uomo vive il suo dolore, ma 10 prego che ciascun uomo ora più che mai si fermi, si volti, lo guardi negli occhi, e lo affronti. Fate si che alla fine del gong, salti fuori dal ring.

“Ti ho conosciuto dolore in una notte di inverno Una di quelle notti che assomigliano a un giorno.

Ma in mezzo alle stelle invisibili e spente

io sono un uomo... e tu non sei un cazzo di niente"

Il Tetrameron della 3C

Comincia il libro chiamato TETRAMERON, nel quale si contengono ventotto novelle in quattro dì edite da quattordici giovani uomini e dodici adorabili fanciulle

IL TETRAMERON DELLA 3C - Elisa Rollo.pdf

Folle Quarantena

di Simone Soldato. 5F

Ciò che è scritto in queste brevi, iperbolicamente parlando, righe è frutto della mia esperienza e della mia stravagante fantasia. Ovviamente, i fatti narrati non corrispondono alla realtà, ma sono stati oggetto di una rivisitazione umoristica da parte dell’autore. Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale (non so quanto ci abbia a che a fare ‘sta frase, ma la mettono sempre prima dei film e chi sono per non farlo pure io?)

L’altro giorno mi appropinquavo ad andare al letto, era poco più tardi di mezzanotte e, tra me e me, ho pensato: “cosa posso scrivere per raccontare la mia quarantena?”.

All’idea di girare un video o disegnare qualcosa non ci ho neanche voluto pensare. I miei dipinti sono molti vicini all’arte di Kandinsky, con la differenza che lui è un genio mentre io, al massimo, sono al livello di un bambino di scuola materna. Un caso perso.

Allorché, ho iniziato a pensare al genere letterario che meglio rispecchiasse la mia natura:

Un diario? - Mh, direi di no, ne sono stati già scritti di migliori.

Una lettera aperta? - E chi sono, Mattarella?

Una riflessione estemporanea sull’importanza dei rapporti sociali e sull’amore al tempo del coronavirus? - sembra la descrizione di un programma di Real Time.

Alla fine una decisione non l’ho presa, ma mi sono addormentato con la consapevolezza che non avrei scritto nulla di triste. Già i telegiornali ci bombardano con notizie angoscianti e immagini di feretri che vengono trasportati fuori dalle città, se poi anche Simone, umile ragazzo di provincia, si mette a scrivere di quanto sia raccapricciante non poter uscire di casa, siamo spacciati.

Dunque, non farò altro che raccontarvi la mia quarantena senza alcun filtro, nella più totale onestà: un chiaro esempio di letteratura verista - Verga, perdonami.

Allora, partiamo dal principio. Ogni mattina mi sveglio relativamente presto, in un arco temporale compreso tra le sette e le otto quando l’aria mantiene l’umidità mattutina, ma inizia ad essere riscaldata dai raggi del sole dell’Est. E il lettore adesso penserà: “cosa potrà mai importarcene?”. Ebbene, caro lettore, in parte hai ragione, ma c’è un particolare che ancora non ti ho raccontato sul mio risveglio: ogni mattina mi desto grazie a Maria Callas.

- Ma come, Maria Callas è morta ormai da tempo! - E invece no, io la sento cantare ogni dì. Ciò che non sapete è che io vivo in una graziosa casetta a due piani, di cui il primo abitato da mia nonna, in un piccolo paesino della provincia leccese. E ciò che ancora vi sfugge è che la nonna Maria ogni giorno si sveglia molto prima di me, quasi dovesse mungere le vacche e pastorizzare il latte. Ogni mattina la nonna Maria fa colazione, accende lo stereo, apre le finestre e canta a squarciagola tutte le arie, le ballate e gli stornelli che conosce. Tutto questo entro le otto. Noi nipoti abbiamo deciso di soprannominarla Maria Callas, anche se del grande soprano non ha niente se non il nome. Ricordo vivamente che quando mio nonno era ancora fra noi - pace all’anima sua- c’era un’inusuale frammentazione di questo spettacolo operistico, degno di una prima alla Scala, che prevedeva l’alternarsi di un’aria con una bestemmia. Ebbene sì, nonno Angelo non era una persona particolarmente paziente e, soprattutto, non dovevi rompergli le scatole di prima mattina. Lei cantava una strofa, lui bestemmiava un santo. La situazione è andata così per molti anni, finché il nonno non è venuto a mancare e la nonna si è ritrovata a cantare da sola. Eppure, in questi giorni mi sembra di rivivere la mia infanzia e di riportare in auge la tradizione passata perché, che rimanga fra noi, il posto del nonno Angelo l’ho preso io. Adesso, quando sento la nonna cantare di prima mattina, inizio a spergiurare come uno scaricatore di porto. Quindi, ora, caro lettore, sei consapevole anche tu di come inizia la mia giornata di quarantena: con una rivisitazione un po’ blasfema del rosario.

Una volta destatomi dal sonno e abbandonato il dolce e caldo letto con non poca reticenza, mi reco in cucina per fare colazione. Il primo pasto della giornata è essenziale, non potrei immaginare una vita che non comprenda bere il caffè caldo appena sveglio. Anche perché, diciamocelo, solo le bestie di Satana non hanno bisogno di una buona dose di caffeina al mattino e solo nei film di Jennifer Aniston esistono quegli individui che, ancor prima del sorgere del sole, hanno l’aspetto di chi ha appena partecipato a una sfilata di moda. Nella vita reale, facciamo tutti schifo appena svegli, è un dato di fatto. Siamo nervosi, angosciati, ostili come se ci avessero nuovamente strappato dal grembo materno e quindi non prendiamoci in giro, chi non beve il caffè nel pieno silenzio della propria dimora la mattina o è uno psicopatico o un maniaco e su questo non ammetto discussioni. Ritornando a noi, dopo aver gustato un ottimo espresso all’apice della mia antipatia, solitamente accendo la tv e, dopo un breve zapping, più abitudinario che necessario, metto su Italia 1 dove mi godo i cartoni animati in santa pace. Eppure, pochi giorni fa, ho fatto una scoperta agghiacciante. Nelle ultime mattine ciò che mi donava maggior gioia era guardare le puntate di Heidi, quella figlia del demonio a cui sorridono i monti e salutano le caprette. Ho vissuto con pathos le avventure di quella bambina. Dal suo arrivo sulle montagne al ritorno a Francoforte passando per Clara, quella falsa invalida che voleva farci credere di avere problemi alle gambe. Ho partecipato con grande forza emotiva a tutte le vicende, emozionandomi quando necessario e gesticolando animatamente davanti alla televisione ogni qual volta la signora Rottermayer comparisse per rompere le uova nel paniere. Pochi giorni fa è andata in onda la 52a puntata, nella quale Clara finalmente cammina da sola e torna a Francoforte per l’inverno promettendo a Heidi che sarebbe ritornata sui monti in occasione della primavera. La puntata termina con Heidi e Peter che giocano con lo slittino immaginando il ritorno della cara amica. Ed è qui che viene la scoperta agghiacciante di cui vi parlavo prima. Mio caro lettore, mi duole informarti dal profondo del cuore che questo è il finale della storia. Eh sì, non esistono altre puntate. Inizialmente ne sono rimasto sconvolto. Avevo intenzione di scrivere al Presidente della Repubblica per informarlo di questa incresciosa situazione, ma, non possedendo l’indirizzo di Maria De Filippi, ho desistito. Non riesco ad accettare che un programma televisivo per bambini possa concludersi in modo così aberrante e sconsiderato. Vogliamo abituare i pargoli alle ingiustizie della vita già dalla tenera età? Io non ci sto e per questo ho deciso di offrirvi un finale consono per la storia. La mia mente vendicativa ha deciso che Heidi e Peter, scendendo dai monti con lo slittino, prendono in pieno un pino mugo secolare. Il povero Peter ci rimane secco su colpo, quella sconsiderata di Heidi sopravvive, ma viene trasportata d'urgenza all’ospedale di Francoforte. Nel frattempo, il vecchio dell’alpe si reca a Francoforte, ma in città viene investito da una vettura e ci rimane secco anche lui. Clara scopre ciò che era successo ai suoi amici montanari e, nella fretta di correre all’ospedale, cade dalle scale e batte la testa dimenticando l’ultimo anno della sua vita. La signora Rottermayer e il padre di Clara, che non hanno mai accettato l’amicizia della figlia con la campagnola, confabulano affinché Clara non ricordi nulla dell’amica e non riprenda mai a camminare. Heidi viene dimessa dall’ospedale, ma ormai è sola. Diventa una senzatetto, si tinge i capelli ed inizia a vagare sotto un altro nome per sfuggire alle grinfie del padre di Clara: è così che nasce Pippi Calzelunghe. Mi dispiace Heidi, ma non dovevi spezzarmi il cuore in questo barbaro modo.

Andando avanti nella mia giornata tipo, subito dopo l’intrattenimento mattutino mi reco nello studio dove seguo le video lezioni secondo il mio orario giornaliero. Dopo aver assolto ai miei impegni scolastici, inizio a preparare il pranzo in attesa che i miei genitori tornino dal lavoro. Metto il grembiule della Prova del Cuoco, quello con la mucca Carolina, non particolarmente virile per uno che si avvia ai diciannove, e mi improvviso Antonella Clerici con tanto di “pronti, cuochi, via!” prima di mettermi ai fornelli. Tra un impasto e l’altro, riesco a portare in tavola qualcosa di decente - comunque sempre meglio di come lo avrebbe cucinato mia madre, ndr. Talvolta mi diletto ad impastare il pane o la pizza, anche se, adesso che il lievito di birra è diventato un bene di lusso alla stregua della farina e dello zucchero semolato, non ne ho più l’occasione. Perché non so voi ma io sento di gente che si è data al mercato nero delle derrate alimentari. Fuori dai supermercati si sente il bisbiglio continuo delle comari, che all’inizio pensi che stiano parlando male di te, ma poi ti avvicini e ti rendi conto che stanno facendo una lista di quanta farina e quanto olio hanno sigillato in una cassaforte che hanno buttato in mare pur di tenerli al sicuro. Follia pura.

Il pomeriggio è la parte più noiosa della giornata. Faccio una pennica di due ore - che più che riposino pare un coma - e mi risveglio attorno alle cinque di pomeriggio, momento in cui ho le idee più strane. L’altro giorno, ad esempio, pensavo che sarebbe stato carino darsi alla coltivazione degli odori sul terrazzo di casa oppure a quanto sarebbe interessante imparare a suonare uno strumento, ma poi , al ricordo di saper suonare il flauto dolce - che, non per vanto, ma sono il Vivaldi del flauto dolce (ciao prof. S. che mi hai insegnato musica alle medie, ti porto sempre nel mio cuoricino) - ho capito che nella vita non bisogna strafare, che sono pigro e che va bene anche così. Dopo la merenda mi dedico a qualche attività in giardino, ma già vi avviso, io di workout in quarantena non ne voglio proprio sentir parlare quindi non vi aspettate che vi racconti di quanto sudi nel fare gli addominali che tanto vi racconterei una bugia. Ci ho rinunciato dopo il primo giorno, che a mettermi a fare le flessioni sul tappeto del salotto mi sento uno scemo masochista e, piuttosto, poto le azalee e a tinteggio i mobili da giardino fino al vespro, ma io di attività fisica non ne voglio sapere nulla. La sera, dopo cena, io e la mamma guardiamo qualche fiction di Rai1 che a lei piace tanto nonostante a me facciano tutte un po’ schifo. In alternativa alla Rai, l’offerta serale comprende il rewatch completo delle fiction di Sabrina Ferilli che mia madre definisce “davvero belle”, ma lei definisce “davvero belle” anche le immagini del buongiorno che si scambia sulla chat con le zie cinquantenni e quindi capirete che il suo parere perde di autenticità.

Insomma, la mia è una giornata come quella di tanti altri. Tra alti e bassi si va avanti e nonostante mi manchi uscire di casa anche solo per andare dalla signora Lucia della farmacia qui vicino casa- che ogni volta mi regala sempre i campioncini della Roche Posay- mi rendo conto che c’è tanta gente che ogni giorno rischia la vita per i cretini che come me vorrebbero uscire, ma non riescono a trattenersi. E allora, ogni volta che ho voglia di fare una passeggiata, penso sempre a loro e me ne sto a casa che, alla fine, le fiction di Sabrina Ferilli non sono mica tanto male.

Mezz'ora dopo

di Marcella Rizzo. Prof.ssa

Ho messo la sveglia mezz’ora dopo il solito orario. Non devo affrontare il traffico mattutino, i pedoni che attraversano le strisce pedonali come zombie, i SUV che strombazzano prepotenti, la rotatoria da superare, una sfida giornaliera delle più dure. Mi alzo, faccio colazione con calma, doccia, trucco e parrucco. Devo comunque essere in ordine. Alle 8.10 sono in postazione. Mi sono ritagliata un angolo nello studio di casa, lottando strenuamente con marito e figlie che reclamano il loro posto al computer. Li metto a tacere barattando il pc con torte e focacce. Una promessa che, ahimé, devo mantenere. E sia. Accendo il computer, libri, penne e fogli sono pronti, l'iPad è in funzione e anche il cellulare. Appendo fuori dalla porta dello studio un foglio con su scritto: "Non disturbate, non fate rumore e per qualsiasi comunicazione urgente usate WhatsApp’". Mando il primo messaggio: ”Ragazzi, siete pronti?” con il link per collegarsi a Meet, programma per videoconferenze. Cominciano a collegarsi uno alla volta. “Buongiorno prof!”’, “Eccomi prof!”’, “Io ci sono!", "Prof mi sente?’’, "Prof ha visto quanto é brutto in video Andrea?", “Prof chi é quello nella foto dietro di lei?’’, "Prof. ho il cellulare scarico!”. Faccio un lungo sospiro. “Ragazzi, per favore, chi deve intervenire mi faccia un cenno e do la parola uno alla volta". Finalmente anche l’ultimo si è collegato, è sempre lui, Fabio, il ritardatario cronico, quello che arriva in classe alle 8,20 trafelato con il casco sotto il braccio, dando la colpa al traffico. Questa volta voglio proprio sentire che scusa accamperà. “Fabio, cosa è successo?’’, “Niente prof, è che c’é troppo traffico in rete". Risata generale. Mi appello a tutta la mia pazienza, ma non posso non sorridere pure io.

Finalmente si comincia. Sono trenta visi, un po’ assonnati, sono seduti nelle loro postazioni; vedo camerette con sciarpe della loro squadra di calcio preferita, foto di loro bambini, peluches. Sono pronti con quaderni, libri e penne. Sono curiosi di questa nuova modalità per fare lezione senza banchi, cattedra, lim, finestre appannate e tapparelle che non si chiudono. Trenta visi di adolescenti che stanno vivendo una situazione straordinaria e surreale, forse nemmeno riescono a comprendere del tutto la gravità del momento. Hanno 14, 15, 17 anni e tutta la vita davanti. Hanno diritto alla loro giovinezza, ad uscire a divertirsi, ad abbracciarsi, ma devono stare in casa perché il Covid-19 non perdona nessuno. Passerà, ma è difficile, molto difficile. Bene cominciamo. Non é facile spiegare la terza declinazione latina con questa modalità. Ma ci proviamo. I ragazzi sono attenti, partecipano, fanno domande, mi aiuto con delle slide che ho preparato ieri sera. “Prof, io la sento ma non la vedo!", “Prof, io la vedo ma non la sento" e Antonio: “Prof io non la vedo e non la sento ma percepisco la sua presenza’’. Di nuovo risate. Richiamo tutti all’ordine. Mio marito si affaccia dalla porta, sorride e mi scatta una foto. Lo guardo male e gli faccio cenno di andarsene.

Continuiamo. Faccio leggere e tradurre a turno una frase. Faccio declinare a Luigi consul, consulis e a Sofia urbs, urbis. Bene, hanno compreso. Finiamo di correggere gli esercizi e passiamo alla lezione di italiano. La lezione di oggi è sull’Odissea. Sono affascinati da Ulisse, dal nostos, dalla sua sete di conoscenza e dalla sua audacia. Fanno domande, partecipano attenti. E’ bello sentirli cosi vicini anche se cosi lontani. È bello poterli vedere, guardare il loro viso anche se a tratti sfocato dalla connessione non sempre perfetta. Una video lezione non potrà mai sostituire una lezione in presenza, insegnare non è una cosa che si può fare a distanza, insegnare non vuol dire riempire la testa di nozioni, ma vuol dire prima di tutto educare alla bellezza, suscitare curiosità, accompagnare i ragazzi nel loro percorso di crescita, sostenerli e spronarli, ascoltare i loro dubbi, gioire delle loro gioie, asciugare qualche lacrima. Insegnare vuol dire anche imparare da loro, guardarli negli occhi, renderli consapevoli dei loro errori, delle loro mancanze, sgridarli e punirli quando è necessario. E tutto questo mi manca. Cosi come mi manca la Scuola, il mio liceo, i miei colleghi, il caffè la mattina in compagnia prima di cominciare, ognuno nelle sue classi, ognuno con i suoi studenti. Che ora sono qui, dietro ad uno schermo, con i loro visi adolescenti, con il loro fiducioso. “Bene ragazzi, la lezione é finita. Ci vediamo domani". Va bene prof!", “Ok prof!", “Grazie prof!", " Che cucina oggi prof?”. Il solito Antonio, che prende la vita con allegria anche quando si becca un quattro in latino perchè dice che per la tristezza c’é sempre tempo.

Spengo il computer e mi affaccio un attimo alla finestra. Un silenzio irreale mi assale, nessun rumore, nessun passante. Mi faccio forza e penso che tutto questo sarà solo un brutto ricordo.

Vabbé, vado a cucinare, che per la tristezza c’é sempre tempo.

Una solita giornata d'inverno

di Donatella Sturdà. Prof.ssa

È una solita giornata d'inverno, aria fredda, piazza completamente vuota, due cani che si annusano e Ii sole che si diverte, lanciando raggi che rimbalzano sul vetri delle poche auto parcheggiate. È qui che il mio tempo, insieme ai miei ricordi, si è cristallizzato. Il mio pianeta è aggrovigliato su sé stesso, accomunato da una solo volontà: distruggere il covid-19. Detto così sembra una formula incomprensibile, il solo pronunciarla fa affiorare la malinconia che diventa una compagna di viaggio, una brutta compagnia e, per fortuna, dura solo un attimo poi, l'emozione dell'attesa prende il sopravvento. E inizio un viaggio che non so dove porterà.

È davvero strano, noi umani siamo addestrati all'amore ma queste emozioni, d'improvviso, hanno un altro profumo: allora, perchè sto fremendo? Un attimo di apprensione mi assale, se incontrassi qualche viaggiatore solitario come me, non ci sarebbe modo di nascondere Ia mia agitazione. E da qualche tempo che, ormai la nascondo, lo faccio tutte le sere, a cena con i miei amori: mio marito e i miei figli. Sorrido, sorrido sempre e dico che andrà tutto bene, ma non lo penso affatto. Mi concentro, non sento presenze, scendo e recupero non so cosa, dal bagagliaio dell’auto. Ormai non usare questo aggeggio è diventata un‘abitudine quasi divertente. D’altronde, abbiamo I'ordine di non muoverci se non per casi estremi. Ma esattamente, da quando sono ospite? Si, perchè è proprio cosi che mi sento: ospite in un non tempo in un non... non... non... Sapete una cosa? Ho il timore continuo di compromettere la missione, mi sento impotente. Ogni sera, ogni santa sera, tutto questo mi raggela Il Sangue e diventa il mio cuscino di spine su cui poggiare !a mia testa, vuota. Accendo la radio tutti i pomeriggi, alle 18,00; ho necessità di ascoltare il bollettino della protezione civile. La sigla del notiziario lo anticipa: e un bollettino di guerra, quanti morti, oggi? Non ci sono più le immancabili notizie sportive, che mi davano una sensazione di fastidio e ora le cerco disperatamente. Ma il pensiero non si ferma no, va, corre, corre per le strade deserte della città corre verso il mare, corre verso Nord. Poi d'improvviso scorgo il ristorante: è accogliente e la conversazione è fluida, odo il fruscio delle chiacchiere tra i tavoli e mi sembra musica. Poi il mio pensiero si dipana, ecco, una fetta di charlotte: che chiude la mia cena. Accompagno il pensiero mentre mio marito mi accarezza i capelli, sono seduta, invece, nella cucina di casa nostra. Ma io voglio continuare e ritorno a pensare. Ecco, rientriamo a casa, i fari tagliano Ii buio della notte; no non voglio smettere di pensare non posso, mi spengo. Ecco ci riesco riprendo i miei pensieri, si dai, sto volando, corro, scappo, ecco ci sono volo via, rincorro ma, d'improvviso, mi ritrovo li nella stessa e solita notte: intrappolata, immobile, stanca, carica di tensioni. Ogni tanto faccio una ricognizione, noi viaggiatori solitari amiamo la notte, è troppo bella, oggi, invece, è tenebrosa e cerco disperatamente l'alba di un nuovo giorno.

Donatella Sturdà. Prof.ssa