Scrivere, che passione! I nostri racconti e le nostre poesie

Generazione Z

Vi presento pericolosi porta-legge

tante pecore in un gregge,

sempre in cerca di una moda.

Sia inchiodato chi ci loda!

Ci chiamano "Generazione Z"

siamo l'ultima ruota del carro,

stupidi ragazzini,

non ci è concesso uno sgarro.

Lamentano che siamo immaturi

ma ci vogliono in una culla

quasi fosse una cella.

E che male c'è se la testa ci frulla?

Sid

Haku


Qualche settimana fa ho vissuto la cosa più bella che mi potesse succedere: ho trovato amore e mi sono sentito riscaldato nell'animo. Era una sensazione così bella e piacevole che non riuscivo quasi più a staccarmi da quel tepore che erano le sue braccia.

Finalmente dopo anni di sofferenza tutto era così roseo, sono riuscito a scampare a quella terribile agonia che era stata la solitudine.

Finalmente avevo trovato quella che sono soliti chiamare “amicizia”, ed era una delle più vere, caspita se ci divertivamo insieme!

A molti giorni di distanza, nonostante la mia diversità, continuava a volermi bene e a tenere tantissimo a me! Sono così felice di aver trovato qualcuno che mi accetti anche se non ho un occhio e faccio un po' paura! Tutti i bambini prima di lei, mi hanno fatto solo male e poi buttato. Mi hanno prodotto così per un errore di fabbrica che mi ha provocato molto dispiacere.

Lei si chiama Yael ed è la mia più cara amica. Mi ha trovato a terra, ai piedi di un grande palazzo, ero sudicio e tanto triste. Con mia grande sorpresa mi ha raccolto, mi ha portato nella sua graziosa casetta e mi ha lavato; non ero mai stato così bianco in vita mia! Ero così preoccupato del mio occhio appena lavata via tutta la sporcizia, si sarebbe accorta della mia menomazione... e poi cosa sarebbe successo?

Quando mi ha visto nella mia interezza è balzata in aria ed è corsa via gridando il nome della madre, come mi aspettavo, stavo per finire di nuovo in una pattumiera. Pochi minuti dopo, però, la piccolina e la madre sono tornate nel bagno dov'ero stato appoggiato e in mano avevano un ago e del filo colorato. La piccola Yael mi prese e mi asciugò in fretta e poi passò il mio corpo di pezza alla madre che si impegnò per ricucirmi un occhio bellissimo: era dorato e aveva le sembianze di una stella, anche se non ne sono certo, perché aveva ben sei punte. Era così simpatica quella stella, era come un simbolo che ci distinguesse dagli altri. Quella notte mi strinse al suo petto e mi disse che mi voleva bene e che da quel momento quella era anche la mia famiglia e la mia casa, mi disse che era un posto in cui dovevo sempre tornare perché sicuro e lontano dalle persone cattive. Ormai sapevo che con lei sarei sempre stato in quel posto sicuro che lei chiamava “casa”. Quando usciva, mi portava con lei e indossava sempre una giacchetta con la mia stessa stellina, certa gente ci guardava un po' storto ma lo facevano sicuramente per invidia. Le giornate passavano e ogni giorno il mio arcobaleno si colorava di nuove emozioni, le mie orecchie da coniglietto udivano sempre più nuove sensazioni e il mio petto era così caldo e mai stufo dell'amore di una creatura così meravigliosa come lei. Per la prima volta dalla mia data di produzione in quella fabbrica grigia, luogo di insoddisfazione e lancinante uggiosità, ero felice. Per una volta, tutto sembrava andare per il verso giusto. Scendevamo sempre sotto casa a giocare ma la mamma ci diceva di non andarci, diceva che era molto pericoloso, ma noi non l'ascoltavamo e giocavamo all'aperto lo stesso. Il nostro sogno era viaggiare ed essere liberi, provare moltissime cose nuove e provare altrettanti cibi, volevamo fare amicizia con tutto il mondo e “viverlo” davvero, e non solo tramite dei disegni che facevamo quando non avevamo voglia di dormire. Correre e giocare nelle varie stradine del nostro quartiere ci dava l'idea di essere in qualche maniera “liberi”.

Quella mattina al parco c'era aria d'inverno, la temperatura era pungente fino al limite, vi era un sole accennato appena, e le foglie degli alberi cominciavano a diventare prima più opache e poi completamente secche, in attesa che un vento leggero le spazzasse via. L'atmosfera era silenziosa e sinistra, come se da un momento all'altro tutto dovesse tingersi di spavento, come il lampo prima di un tuono. Era strano, ma decidemmo di non farci troppo caso; i minuti però passavano e la tranquillità diventava sempre più rumorosa, sempre più opprimente, come se la paura, gridando il suo nome, dovesse piombare in quel luogo da un momento all'altro.

Mai sensazione ci fu così sorda.

Un furgone di un verde più intenso di quello degli alberi apparì all'angolo della strada, e così come il fumo fuoriusciva dalla marmitta, anche i nostri pensieri venivano trasportati via da quel fumo.

Quel furgone, che ci sembrava grande quanto una casa, si fermò con nostra sorpresa proprio davanti a noi, il signore che guidava era in una divisa che in quei giorni avevamo avuto l'occasione di vedere spesso. Ci chiedevamo chi fossero da sempre, ma la mamma sviava quasi sempre il discorso, e quando non lo faceva, era sempre poco chiara, quindi eravamo arrivati alla conclusione che si trattava di persone a cui piacevano tantissimo le visite; tre sere prima infatti, avevano fatto visita al portone di fronte al nostro, erano entrati di fretta, forse perché la cena era pronta... e dopo un po' i signori e i proprietari di casa erano saliti sul furgone, credo volessero far fare una passeggiata a chi li aveva ospitati per la cena.

Quegli uomini in divisa non ci facevano paura, quindi quando ci chiesero dove fosse nostra madre, li portammo subito da lei.

Entrammo in casa e nostra madre piangeva, dalla tasca di Yael non riuscivo a vedere molto ma sentivo le urla strazianti di chi con gli occhi chiamava aiuto e, con il cuore, la morte. Nostra madre ci strinse a sé e bagnò di lacrime la giacca con la stella a sei punte, ci abbracciò e tacque; nostro padre si limitò al silenzio di chi è trafitto dalla realtà.

Non riuscivo a capire perché tutti fossero così tristi.

Si incamminarono tutti verso il furgone mentre io mi tenevo stretto ai fili scuciti della tasca nella giacca di Yael.

E poi vidi buio.

Viaggiammo nel furgone che ci sembrava una casa, nel furgone che tanto ci incuriosiva. Il furgone non era vuoto, c'erano altre persone: alcune pregavano, altre contemplavano il loro silenzio. Io sentivo solo l'amaro nell'aria, come se stessi assaggiando per la prima volta il caffè o stessi cercando di mangiare un limone.

Nell'aria non c'era soltanto una semplice sconsolata disperazione, non sapevo cos'altro ci fosse, sentivo solo il dilaniante punto interrogativo di un futuro che per tutti, compreso per noi due, era incerto.

Ricordavo tutte le volte in cui giocavamo a “campana” in mezzo alla nostra stradina, ogni tanto ci facevamo male ma il giorno dopo tornavamo più grintosi di prima!

Ricordo ancora il giorno in cui mi diede un nome!

Yael mi aveva chiamato Haku perché, secondo lei, quel nome rappresentava la felicità che si provava nel correre sotto il cielo di gennaio, la vigorosità del respiro che ti riempie di maestosa tranquillità.

Haku rappresentava la libertà di ballare la notte cantando a squarciagola e la soddisfazione di un grido in mezzo alla foresta silenziosa.

Haku rappresentava la scalata di una montagna in cima alla quale c’era la vita. Una vita che ora, come le foglie di un albero in inverno, stava svanendo. D'un tratto rallentammo e a poco a poco le ruote smisero di fare rumore; si sentivano delle voci esterne ovattate, l'ansia saliva come la temperatura dentro una sauna, la tensione cresceva come i piccoli rovi e l'erbaccia in un campo di more, l'irrequietezza era tale da esser paralizzante.

Ci spaventava il viaggio ma in realtà temevamo la destinazione.

Per la prima volta dal nostro incontro avevo paura. Temevo che, per qualche scherzo del destino, non l'avrei più rivista. Anche lei aveva paura, aveva paura di non poter più tornare a casa, aveva paura che non sarebbe più riuscita a rivedere la sua mamma e a non realizzare i suoi sogni.

Mi tirò fuori dalla sua tasca e mi strinse al suo petto, cercava la sicurezza che anch'io stavo cercando, cercava lo sguardo di sua madre che si allontanava sempre di più da lei, cercava libertà. Mi sussurrò che qualsiasi cosa sarebbe successa, non ci avrebbe separati, perché io ero parte della sua famiglia.

Anch'io volevo tenere fede alla mia promessa, non volevo separarmi dalla mia famiglia ora che finalmente ne avevo una.

Mentre mi parlava a cuore aperto, un uomo in divisa, la guardò e cominciò ad avvicinarsi in maniera frettolosa e, temendo per la mia vita, Yael mi rimise frettolosamente nella tasca. L'uomo ci raggiunse e la strattonò per un braccio facendomi accidentalmente cadere nella terra bagnata.

Fu un momento atroce, mai desiderai di poter strillare come in quel momento, mai avrei voluto saper correre come in quel momento.

Eppure adesso mi trovo ancora qui, immobile, distrutto, sporco; mentre osservavo tutti allontanarsi vedevo lei scomparire dove il mio sguardo non giungeva, la guardavo entrare in uno strano edificio che aveva odore di vuoto e di felicità spezzata. Il fumo che usciva da quell'edificio mi preoccupava ma non potevo far altro che stare dove mi trovavo.

Ora c'è silenzio, ora c'è calma, ora c'è vuoto.

Non so quanto tempo sia passato, quante notti o quante stagioni.

Vedo il giorno e vedo la notte, non c'è gioia nello splendore del sole. La notte è piena di oblio, di mostri che urlano. La pioggia arriva bagnando me e la terra che mi circonda, il forte vento mi asciuga e irrigidisce il fango.

Adesso è arrivata la neve e per scaldarmi invoco tutto ciò che mi rimane della mia famiglia: i ricordi e i nostri sogni. Cerco di ricordare tutto per non dimenticare, Yael merita di continuare a vivere, anche se solo nei miei ricordi.

Credo di essere come in un sogno irrequieto e rumoroso, e non saprei spiegare come ci si sente in un sogno. La veridicità delle emozioni nei sogni è tanto personale e soggettiva quanto l'essenza dei sogni stessi.

Quando penso a Yael mi ricordo di lei come di un girasole: così colorata, così solare. Amava condividere con chiunque la propria felicità: un po' come quando questi fiori si presentano al sole e sono così felici di poter donare al mondo la loro genuina bellezza.

Sono in mezzo alla neve, ormai fradicio, ma il dolce pensiero del suo sorriso e della sua voce fa tacere i miei affanni ed è dolce riposare in questo caloroso ricordo.

Ecco, ora sono di nuovo lì con te.


Amodeo Alessandra