Vi racconto la nostra Giornata della Memoria. Riflessioni di un'alunna del Triennio


Il 20 Gennaio 2021 le classi del triennio dell’Istituto G. Ferro hanno avuto l’occasione di prendere parte all’assemblea dedicata alla Giornata della Memoria, durante la quale Gianluca Pipitone, responsabile del gruppo Amnesty International – sezione di Alcamo – è intervenuto su YouTube sul tema della violazione dei diritti umani nel mondo odierno.

Sono passati 76 anni da quel 27 Gennaio 1945, quando le truppe sovietiche varcarono i cancelli del campo di Auschwitz-Birkenau, e commemorare questa giornata deve continuare ad avere una grande importanza proprio perché, nonostante le ideologie di quel tempo possano sembrare ormai lontane, bisogna tenere a mente che non è così e che la società civile ha sempre la necessità di ricordare e continuare ad alimentare la memoria del passato affinché determinati eventi che hanno segnato un periodo buio della storia dell'umanità non riaccadano nuovamente.

La nostra cultura democratica nasce proprio sulle ceneri della seconda guerra mondiale e della Shoah, con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo adottata dalle Nazioni Unite e sebbene gli Stati si impegnarono a far rispettare i diritti umani, tra cui soprattutto l'uguaglianza, la libertà e la protezione contro gli arresti illegali e la tortura, ciò non sempre avvenne e si sentì la necessità di dare vita a numerose organizzazioni con l’obiettivo di tutelare i diritti umani e denunciare le violazioni portandole all'attenzione dell'opinione pubblica.

Amnesty International è un'organizzazione non governativa internazionale nata in difesa dell'umanità che intraprende azioni di sensibilizzazione ed educazione ai diritti umani e ha avviato molte campagne contro la pena di morte e il maltrattamento dei prigionieri.

La genesi di Amnesty International si deve all’avvocato inglese Peter Benenson, che rimase indignato dal fatto che nei regimi totalitari erano adoperati sistemi carcerari disumani come strumento di repressione e che in Portogallo, durante il regime di Salazar, due giovani vennero arrestati e in seguito condannati a 7 anni di reclusione perché avevano brindato alla libertà e dunque inneggiato all’indipendenza. Così iniziarono degli incontri spontanei e iniziò una campagna internazionale per dodici casi di amnistia. Il simbolo di Amnesty International è la candela nel filo spinato. Il filo spinato indica la detenzione degli uomini imprigionati e torturati per le proprie opinioni e dunque le violazioni dei diritti umani verso i prigionieri di coscienza; la candela accesa invece rimanda al proverbio cinese che recitava "è meglio accendere una candela che maledire l'oscurità": rappresenta la volontà di attivarsi e fare in modo che su quella violazione si accendessero i riflettori dell'opinione pubblica, in modo tale che l’indignazione si trasformasse in azione.


Nella seconda parte dell’assemblea gli studenti hanno partecipato alla visita guidata in remoto all'interno del museo che ospita la mostra “Shoah. L’infanzia rubata“, ideata e prodotta dall’Associazione "Figli della Shoah", che ripercorre la negazione dei diritti fondamentali dei bambini e dei giovani negli anni della persecuzione nazifascista facendo luce sulle loro condizioni e le costrizioni alle quali erano sottoposti.

I bambini ebrei furono costretti ad abbandonare la loro stessa condizione d’infanzia; centinaia di migliaia di famiglie ebraiche vennero rinchiuse nei ghetti, nelle prigioni o nei campi di internamento e da lì furono trasferite, mediante terribili viaggi dentro vagoni piombati senza aria, né luce, né servizi igienici, verso i campi di concentramento.

L'unica opportunità di sopravvivenza in quella situazione era il contrabbando, spesso condotto da bambini piccoli che si organizzavano in gruppi e identificavano buchi nelle mura di cinta per accedere al settore ariano. Coloro che riuscirono a salvarsi e a vivere ebbero un ruolo fondamentale per la sopravvivenza delle loro famiglie e questo fu quello che capitò ad Emanuele Di Porto, sopravvissuto alla deportazione che nella stessa mattinata ha dato testimonianza della sua storia:


“Avevo 12 anni, la sera prima sono andato al cinema con mia madre e i miei sei fratelli; il 16 ottobre 1943 era un sabato, mio padre si alzava alle 3 del mattino per andare a lavorare alla stazione Termini, era un ambulante. Verso le 5 mia madre sente dei rumori per strada e si affaccia alla finestra, i tedeschi stavano rastrellando gli ebrei. Pensando che stessero portando via soltanto gli uomini, va subito ad avvisare mio padre di non tornare al Ghetto.

Mentre io ero alla finestra, ho visto un tedesco fermare mia madre e gettarla su un camion con dei teloni chiusi, io istintivamente ho iniziato a strillare e l’ho raggiunta, lei mi faceva cenno di andare via e mi urla di scappare. Ad un certo punto un soldato tedesco se ne accorge, mi prende e mi porta sul camion, dopo poco mia madre mi butta in strada e riesce a farmi scendere. Io corro senza girarmi e arrivo al deposito dei tram a Monte Savello, salgo su un tram, dico al bigliettaio che ero ebreo e che i tedeschi mi stavano cercando, e lui mi nasconde. Quando monta un altro collega, anche lui sta attento a me. Poi la stessa cosa fa un altro. Io sono stato due giorni sul tram. La terza mattina è salito un uomo che abitava vicino a me, mi disse che mio padre, nascosto da un cugino a Borgo Pio, mi stava cercando e credeva che mi avessero portato via, insieme a mia madre, allora io lo raggiunsi e quando mio padre mi vide iniziò a piangere. Poi siamo ritornati al ghetto, lì vedevo continuamente i fascisti ma non mi rendevo conto del pericolo che stavo correndo, molti collaboravano con le direttive naziste e gli Ebrei erano venduti per poche lire.”


I latini chiamavano “damnatio memoriae”, condanna della memoria, la cancellazione totale dell'identità collettiva ed individuale; non si deve negare la brutalità commessa da costoro che fatichiamo a chiamare uomini proprio perché la perdita selettiva della nostra memoria è il germe più grave che attanaglia l’umanità e, come afferma Liliana Segre "L'odio si combatte anche tenendo viva una memoria condivisa delle tragedie che le generazioni passate hanno patito".


Vi invitiamo al silenzio e alla riflessione, all'ascolto di quel milione e mezzo di desideri inespressi, sogni infranti e sorrisi cancellati per sempre.

E vi chiediamo di immaginarne almeno uno e adottarne la memoria, per portarlo fuori di qui nel vostro cuore, verso la vita, una vita migliore per tutti i bambini inascoltati.

Perché oggi, come allora, le coscienze dei singoli sono spesso pigre, egoiste e a volte spaventate dalla conseguenza di una presa di posizione decisa contro il Male.

Perché oggi, come allora, è più semplice seguire la corrente dominante, farsi piccoli con i prepotenti e aggressivi con i deboli.

Perché oggi, come allora, siamo tentati dal pregiudizio e limitati dai nostri piccoli interessi.

Perché oggi, come allora, preferiamo non avvertire il pericolo di certe ideologie, finché non ne siamo travolti.

Perché oggi, come allora, è difficile essere orgogliosi di ciò che si è, soprattutto quando si è parte di una minoranza.

Perché oggi, come allora, c'è tanto bisogno di sapersi confrontare e di apprezzare la ricchezza che deriva dalla diversità.

Perché oggi, come allora, il destino del mondo e dei suoi più giovani cittadini dipende dalla nostra capacità di far tesoro della Memoria per costruire un mondo più giusto.


Rossella Laudani

Vi racconto la nostra Giornata della Memoria. Riflessioni di un'alunna del Biennio

Nella giornata del 21 Gennaio le classi del biennio del liceo classico e del liceo scientifico hanno svolto l’assemblea d’istituto scegliendo di affrontare il tema della “Shoah” e dei diritti violati. L’incontro è iniziato con l’intervento di Gianluca Pipitone, responsabile dell’Amnesty International di Alcamo e in seguito è continuato con la visita virtuale al museo della Shoah di Roma, al termine della quale si è avuta la possibilità di ascoltare la testimonianza di Emanuele Di Porto, ebreo romano che ha assistito ai rastrellamenti nazisti a Roma.

Al giorno d’oggi non è scontato parlare della Shoah e riflettere sullo stretto legame esistente tra questo triste avvenimento della storia e la violazione dei diritti umani. Perciò è importante commemorare la Giornata della Memoria, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella giornata del 27 Gennaio: non una data casuale ma il giorno in cui l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz e liberò il campo di concentramento.

Da quel giorno, il 27 Gennaio di ogni anno e nei giorni immediatamente precedenti o seguenti, commemoriamo la liberazione dei campi nazisti alla fine dell’Olocausto, la fine del tremendo genocidio di cui furono responsabili i nazisti e i loro alleati nei confronti degli ebrei e di ogni fetta della popolazione ritenuta “inferiore”.

Un momento particolarmente toccante è stato ascoltare la testimonianza di Emanuele, scampato per caso alla deportazione che invece ha travolto la madre. Emanuele ha esordito dicendo che per ben 75 anni ha raccontato la sua storia senza che nessuno gli desse importanza, soffermandosi invece sulle storie di chi nei campi di concentramento c’era stato e ne era uscito vivo. La sua, invece, è la storia di un ragazzino che ha visto intorno a sé rastrellamenti e violenze ma che ne è uscito illeso, una storia che solo da alcuni anni la gente gli chiede di raccontare.

Emanuele abitava nel ghetto di Roma insieme ai suoi 5 fratelli ma nella sua casa vivevano in tutto venti persone, perché oltre alla sua famiglia c’erano anche le sorelle della madre. Suo padre si alzava nel cuore della notte e andava a vendere souvenir alla stazione di Roma Termini per guadagnarsi da vivere; il 16 Ottobre arrivarono i tedeschi, il padre era già uscito di casa e la madre affacciandosi al balcone vide che stavano rastrellando gli uomini. Pensò di dovere avvisare il marito, gli chiese di non tornare a casa, ma quando era giunta nei pressi della sua casa i tedeschi la catturarono e la caricarono su un camion: anche Emanuele, che nel frattempo era corso incontro alla madre, fu preso e buttato sul camion ma riuscì a salvarsi grazie alla madre che riuscì a farlo scendere in fretta. Camminò per un po’ da solo, salì su un tram e disse al macchinista di essere ebreo e ricercato; questi lo tenne sul tram e quando fu ora di mangiare gli offrì pure metà del suo pranzo. Per due giorni stette su quel tram aiutato e protetto dai macchinisti. Quando ritornò a casa seppe da un uomo che abitava lì vicino che suo padre era convinto l’avessero catturato i tedeschi. Emanuele ritrovò il padre, poi tornarono a casa. Emanuela ricorda che suo padre era molto triste.

Emanuele vide i tedeschi solo quel giorno, il 16 ottobre e nonostante i fascisti si aggirarono per il ghetto per diversi mesi, lui riuscì a non incorrere in alcun pericolo; lui stesso, da ragazzino qual era, non si rendeva conto del pericolo che lo circondava. Un’altra volta Emanuele si ritrovò in un luogo di ritrovo degli ebrei nel momento in cui i fascisti fecero una retata: questi presero suo zio e gli domandarono dove vivesse mentre Emanuele ed altri bambini si nascosero sotto il letto; i fascisti, li fecero uscire ma Emanuele, in un loro momento di distrazione si nascose di nuovo scampando ancora ad un pericolo vicino. Per fortuna, anche se i suoi fratelli e cugini erano stati catturati furono liberati dopo solo 6 ore, chissà perché, probabilmente per pietà.

La vita di Emanuele è stata fatta di sacrifici, ha lavorato sempre, sin dai 9 anni, quando andava in giro a vendere portafogli, pettini, elastici o altri oggetti ai soldati tedeschi. Un giorno un soldato gli diede 500 lire invece di 50 e lui per una settimana non uscì di casa per paura di incontrarlo di nuovo; casualmente incontrò proprio lui che però non gli chiese i soldi indietro, ma tutt’altro, gli offrì una cioccolata calda. L’infanzia di Emanuele sembra fatta di scampati pericoli e alla domanda del come si spiega di essere riuscito a salvarsi ha risposto semplicemente che le bande fasciste andavano a caccia di uomini facoltosi, famiglie ricche, non bambini e persone semplici, povere.

È stato importante affrontare questi argomenti e sensibilizzare la gente su un momento terribile che ha fatto, fa e farà per sempre parte della nostra storia; è stato importante per tentare di non ricadere negli stessi errori, per divenire uomini migliori, essere “umani” nel vero senso della parola.

Alessia Apavaloai

Viaggio telematico a casa Leopardi

La tecnologia, nel corso del 2020, ci è venuta incontro per sfruttare nel miglior modo possibile il fatto che siamo stati costretti a rimanere a casa per colpa della situazione pandemica. Così, la scuola ha usufruito della didattica a distanza in modo tale da venir incontro alle esigenze didattiche di studenti e docenti.

Nulla è stato lasciato al caso, tanto è vero che i nostri insegnanti hanno dato a noi alunni possibilità diverse e inconsuete. Un magnifico esempio di esperienza telematica è stato proposto dal nostro docente di italiano, il professore Pipitone, il quale ha ben pensato di proporre a noi ragazzi della VB un viaggio virtuale presso quella che fu la tenuta della famiglia Leopardi a Recanati.

Una visita davvero stimolante per tutta la classe quella del 19 dicembre 2020, che è servita a coronare il lungo studio che abbiamo svolto durante i primi mesi di questo quinto anno riguardante colui che è noto come il poeta “pessimista” per antonomasia: Giacomo Leopardi.

Una traccia evidente della vita e del percorso formativo del poeta recanatese si ritrova chiaramente nella villa in cui ha vissuto e nei luoghi e nelle persone che ha frequentato e che tanto hanno contribuito a costruirne l’identità.

La tenuta, che il 29 giugno 1798 diede i natali a Giacomo Leopardi, è situata a Recanati, borgo marchigiano nella provincia di Macerata, ed ancora oggi è abitata dai discendenti della famiglia del poeta.

Oggi la casa ospita un percorso museale in cui si può ancora respirare e rivivere l’atmosfera della vita quotidiana del poeta filosofo.

Centro vitale della casa e fulcro dell’interesse degli studi della famiglia Leopardi, la biblioteca del Conte Monaldo si presenta tutt’oggi conservata in tutta la sua maestosità dovuta, in particolar modo, alla presenza di ben ventimila volumi, che all’epoca costituivano un patrimonio unico per la sua specie. Noto è, infatti, il metodo di catalogazione dei volumi conservati all’interno della biblioteca: ogni membro della famiglia, tutte le volte che doveva aggiungere un libro, aveva il compito di scrivere una sorta di "carta di identità" dello stesso; era bene quindi specificarne autore, titolo, stanza, sezione, scaffale e numero.

Risalta anche, da questa visita, la vicenda della sua quasi cecità, provocata dall’eccessivo sforzo causato dall’ingente numero di libri letti: proprio per questo, la piccola e modesta scrivania di Leopardi era sempre posizionata in prossimità di una finestra ben illuminata.

Tutti i figli di casa Leopardi hanno ricevuto un’educazione e un’istruzione eccelse: lo stesso conte Monaldo preparava di sua mano i compiti e i saggi per i propri figli, sin dalla loro tenera età. Giacomo non era l’unico dei figli Leopardi ad essere dotato di un’intelligenza brillante, poiché anche i fratelli Paolina e Carlo si destreggiavano egregiamente nello studio così come nell’arte grafica del disegno.

Un lato della casa si affaccia sulla famosa piazzola di cui parla il poeta recanatese ne “Il sabato del villaggio”, piazzola in cui fa ritorno "la donzelletta che vien dalla campagna". Sulla medesima pare si affacci anche quella che era la tenuta del cocchiere di casa Leopardi, quindi dove risiedeva anche la celeberrima Silvia.

Come continuazione del percorso museale della tenuta Leopardi, infine, il seminterrato, dove sono tenuti esposti anche i fogli e i quaderni su cui operava il poeta recanatese, così veri ed autentici da essere macchiati persino dalle correzioni del poeta, che li rendono ancora più preziosi e di immenso valore.

In conclusione, il viaggio telematico è stato ed è una valida alternativa alle uscite fuori classe che si sarebbero svolte in tempi non pandemici, ma costituisce anche un interessante supporto affiancato allo studio normalmente svolto in D.A.D., che, a parer mio, dovrebbe essere utilizzato da questo momento in poi per riscoprire e rivalutare una conoscenza che potrebbe essere più stimolante. Giacomo Leopardi, che si è sempre dato al suo “studio matto e disperatissimo”, sarebbe stato ben lieto di affrontare questi viaggi virtuali alla scoperta delle più o meno celate meraviglie del mondo, per colmare la sua incommensurabile sete di sapere e di conoscenza e, sotto questo punto di vista, ritengo che dovremmo prendere esempio proprio da lui.

Anna Di Benedetto