SESSIONE I - Palazzo Passionei
MARTEDì 25 FEBBRARIO 2025
Chair: Stefano Santini (Università di Urbino)
La storia delle scienze della Terra è un ambito di ricerca aperto e affascinante, che può ancora consentire di scoprire, studiare e catalogare una grande quantità di fonti inesplorate, oltre ad offrire diverse interessanti opportunità di interazioni interdisciplinari. Nell'ampio contesto della storiografia della geologia, paleontologia, mineralogia e di altre discipline geoscientifiche, queste interazioni non riguardano solo il dialogo tra scienziati, storici e filosofi. Infatti, oggi il lavoro dello storico delle scienze della Terra deve essere pronto ad affrontare nuove sfide multidisciplinari, tra cui ad esempio il confronto con le scienze sociali e umane, al pari della comprensione di linguaggi e pratiche delle tecniche. Inoltre, queste sfide non dovrebbero essere confinate alle attività specializzate della ricerca universitaria e ai dibattiti accademici. Lo storico delle scienze della Terra può infatti operare più efficacemente anche nel campo della scienza contemporanea e all'interno della società: ad esempio, per sostenere l'aumento della consapevolezza ambientale e dell'apprezzamento culturale del patrimonio geologico nel grande pubblico, ma anche per contribuire a valutare correttamente le reazioni umane a vari livelli (scientifico, politico, mediatico, popolare, ecc.) nei confronti di alcune questioni attuali come i cambiamenti climatici e la percezione del rischio connesso ai fenomeni naturali.
La scoperta del ‘tempo profondo’ da parte dei geologi tra diciottesimo e diciannovesimo secolo rappresenta una delle grandi rivoluzioni scientifico-culturali dell’umanità, al punto di essere paragonata dal grande paleontologo e saggista americano Stephen J. Gould alla rivoluzione copernicana e alla teoria dell’evoluzione di Charles Darwin. A partire da una concezione fortemente radicata nella tradizione biblica di una Terra non più vecchia di 6500 anni, i ragionamenti di James Hutton facevano sprofondare per la prima volta le strutture geologiche osservate e la loro formazione ed evoluzione nell’abisso del tempo. Un abisso quasi imperscrutabile che, ieri come oggi, porta una vertigine alla mente umana, non strutturata per comprendere una dimensione temporale così sconfinata. Nel seminario sarà trattato il concetto di tempo profondo nelle varie declinazioni che può assumere nelle diverse discipline (dalla fisica alla filosofia) con un approfondimento storico sulla lenta conquista di questa pietra miliare da parte delle Scienze Geologiche e Naturali. La narrazione vedrà contrapposte le due figure titaniche di Darwin e Lord Kelvin, il riformatore delle scienze biologiche contro la ‘divinità’ indiscussa della termodinamica, sancendo per una volta la vittoria delle scienze ideografiche qualitative contro le così dette scienze “esatte” o nomotetiche.
Da diversi decenni la Storia come disciplina (con il suo statuto e le sue peculiarità), ha sviluppato settori di ricerca nelle scienze della Terra, divenendo uno strumento di conoscenza insostituibile dei fenomeni naturali accaduti in passato, quali terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche, grandi frane, alluvioni e cambiamenti climatici. Dall’esegesi delle fonti alla contestualizzazione dei quadri cognitivi, in cui i vari fenomeni naturali accaduti sono stati descritti o variamente attestati, molti sono gli strumenti di analisi storica che si sono resi necessari. Questi percorsi multidisciplinari non sempre sono diventati e diventano interdisciplinari, ossia maggiormente connessi e orientati a risultati comuni. Oltre all’uso applicativo nell’alveo specifico delle geoscienze, è emersa anche una storia nel complesso poco nota dei territori e dei luoghi, ridefinendo l’ambiente antropizzato come interrelazione fra società e ciò che nel tempo si è inteso per ‘natura’.
I forti terremoti avvengono in modo abbastanza ordinato nello spazio e nel tempo. Il loro accadimento può quindi essere in qualche modo anticipato, e i loro effetti attesi possono essere proiettati nel futuro. I moderni metodi di valutazione della pericolosità sismica possono fare affidamento su questi principi, a patto che si disponga di una conoscenza dettagliata della posizione e delle caratteristiche delle sorgenti sismogenetiche, ovvero delle singole faglie in grado di causare forti terremoti. Questa base di conoscenza può essere costruita interrogando sia la storia geologica, che se opportunamente analizzata restituisce le prove dell’attività di faglie che potrebbero generare forti terremoti, sia la storia umana, che a sua volta fornisce informazioni sul se, sul dove e sul come queste faglie in passato hanno effettivamente causato terremoti disastrosi. Ma come interagiscono tra loro questi due canali informativi primari? Identificare faglie attive e potenzialmente sismogenetiche in Italia è un compito difficile. Paradossalmente, molti fenomeni geologici sono chiaramente leggibili se si ha a che fare con processi alla scala di milioni di anni, perché ne vediamo gli effetti cumulati, e quindi naturalmente amplificati; ma decifrare i processi geologici contemporanei, come i terremoti, è un esercizio difficile e gravido di ambiguità. La sismologia storica è cruciale per la costruzione di un modello di sorgenti sismogenetiche, perché riduce a migliaia di anni il tempo di osservazione necessario per comprendere e descrivere l’attività sismica, controbilanciando la complessità e lacunosità della geologia più recente.
Le tecnologie informatiche rivestono un ruolo fondamentale per l’archiviazione e la valorizzazione dei dati storici nelle geoscienze, consentendo un’analisi avanzata delle informazioni. Attraverso la digitalizzazione e l’archiviazione di dati storici è oggi possibile integrare informazioni di vario tipo, provenienti da fonti ed epoche diverse. I sistemi di database avanzati e le piattaforme GIS (Sistemi Informativi Geografici) consentono, per esempio, la geolocalizzazione dei dati storici e la loro interconnessione con dataset attuali, offrendo una visione completa e dinamica dell'impatto e dell’evoluzione dei fenomeni naturali. Rendere disponibili tali informazioni secondo i principi dell'open science, significa inoltre promuovere la condivisione libera e aperta di tali dati, agevolare la collaborazione internazionale, rendendo accessibili i risultati delle ricerche a scienziati e cittadini. Inoltre, se le informazioni storiche sono organizzate in banche dati tematiche, è oggi possibile, attraverso tecniche di machine learning, analizzare grandi quantità di dati storici contribuendo in modo efficiente allo studio e alla comprensione dei fenomeni naturali. Verranno presentati alcuni esempi di dataset e strumenti pubblicati nel portale del Catalogo dei Forti Terremoti in Italia (https://cfti.ingv.it/) dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
SESSIONE II - Palazzo Passionei
MERCOLEDì 26 FEBBRARIO 2025
Chair: Vincenzo Fano (Università di Urbino)
L’Italia vanta la più antica tradizione nel campo dell’osservazione scientifica della meteorologia, dalla metà del XVII secolo, e della sismologia, dagli anni Trenta del XVIII secolo. L’intensa attività di progettazione di strumenti e di registrazione di fenomeni meteorologici e sismologici ha dato vita a una densissima rete di osservazione meteorologico-sismica costituita da osservatori pubblici, privati o afferenti ad alcuni ordini religiosi particolarmente attivi in questi settori. Questa plurisecolare attività ha prodotto un’immensa quantità di documentazione scientifica analitica (registrazioni su carta) o di sintesi (bollettini, registri ecc.). La maggior parte di questa documentazione è ancora esistente ed è opportuno evitare ulteriori dispersioni o perdite, per il valore culturale e scientifico: nella produzione di elaborati orientati alla mitigazione dei rischi da eventi naturali estremi è, infatti, fondamentale disporre di lunghe serie di dati. La straordinaria ricchezza di questo patrimonio italiano consente, inoltre, una ricostruzione documentata dell’originale percorso disciplinare seguito da decine di studiosi in tutta l’Italia. Per evitare la dispersione di questi preziosi dati, l’INGV ha promosso il progetto Polo Documentario storico italiano della sismologia e meteorologia. Il progetto ha l’ambizione di creare un grande archivio digitale, un database delle registrazioni analogiche e dei relativi dati sintetici delle due discipline, oltre a manoscritti ed epistolari scientifici. Partner principali di questa fase del progetto sono il Museo Galileo di Firenze, la Fondazione Osservatorio Ximeniano di Firenze, l’Osservatorio Geofisico Alberoni di Piacenza.
La Scienza della Vulcanologia tradizionalmente nasce con il primo testo che descrive più o meno compiutamente un'eruzione vulcanica: le due lettere di Plinio il Giovane a Tacito a seguito dell'eruzione esplosiva del 79 AD che distrusse le città romane di Pompei Ercolano e Stabia ed ha dato il nome di Pliniane a questo tipo di eruzioni. In Italia nei secoli successivi molte sono state le eruzioni dei molti vulcani attivi che vi risiedono e molte di esse sono state osservate e descritte, con particolare interesse verso il Vesuvio che dopo la Pliniana del 1631 entra in attività semi-continuativa per più di tre secoli, alle porte di Napoli, Capitale del Regno delle Due Sicilie ed una delle città culturalmente più vive ed attrattive d'Europa, almeno in quel lasso di tempo che si conclude con l'Unità d'Italia. L'attenzione verso i vulcani che è derivata da queste peculiarità hanno fatto d'Italia la culla della Vulcanologia sia in passato che in tempi a noi più vicini ed ha posto il problema di come utilizzare l' enorme patrimonio cartaceo ed iconografico che oggi possediamo assieme a pochi altri paesi al mondo quali Giappone, Indonesia ed Islanda. Nel tempo l'approccio a questa problematica è passato da una lettura acritica, al disinteresse, alla pura conservazione, alla riscoperta parziale di una o poche cronache ed al loro improprio utilizzo, ad un uso più corretto di queste fonti, comprensivo anche del contesto storico, ad un più moderno approccio multidisciplinare, fino a considerare la possibilità di una estrazione automatica del dato di interesse, che rappresenta la sfida che oggi stiamo affrontando.
L’intervento si propone di illustrare alcuni risultati preliminari di uno studio incentrato sulla storia della vulcanologia tra il XVII e la metà del XX secolo. Il progetto coinvolge il Dipartimento di Scienze Umanistiche, il Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania e l’Osservatorio Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. La ricerca muove dalla premessa metodologica della necessità di un dialogo tra le scienze umane e quelle dure al fine di restituire la complessità della cornice teorica all’interno della quale, in un processo diacronico, non solo maturano e vengono sperimentate nuove euristiche, ma le geoscienze creano gli strumenti utili all’avanzamento della ricerca. Una perfetta sintesi di quanto detto è l’idea di realizzare una mostra temporanea intitolata Lo studio dell’Etna tra strumenti e rappresentazioni. Il percorso espositivo prevede l’allestimento di testi antichi, documenti d’archivio e strumenti provenienti dalle collezioni delle diverse sedi, con l’obiettivo di illustrare gli sviluppi dello studio dell’Etna e l’istituzionalizzazione della vulcanologia presso l’Università di Catania. Le interferenze tra le diverse aree del sapere si riflettono anche nella scelta degli spazi destinati alla mostra: il Museo della Fabbrica, oggi parte del Dipartimento di Scienze Umanistiche, era un tempo sede dell’Osservatorio Astrofisico e Geodinamico dell’Ateneo.
Il processo decisionale volto alla gestione del rischio di disastro nel settore della protezione civile, in Italia ma in generale anche in Europa e in contesto internazionale, è sempre più “evidence-based”, fondato su solide evidenze scientifiche. In questo quadro generale si collocano anche le evidenze scientifiche relative alle pericolosità e ai rischi connessi con i processi geologici in atto. La necessità di fondare il processo decisionale su informazioni scientifiche quantitative, comprensive della stima delle incertezze e dunque, quanto possibile, di tipo probabilistico, pone l’accento sulla profondità nel “tempo” offerta dalle scienze geologiche e dalla ricerca storica sui georischi. Questo quadro generale sarà approfondito insieme ai suoi limiti e alle prospettive future.
La scienza del cambiamento climatico si è evoluta significativamente dall'inizio del XIX secolo, quando Joseph Fourier ipotizzò per la prima volta l'effetto serra naturale della Terra. Scoperte successive, come quelle di John Tyndall, che identificò le proprietà di alcuni gas nel trattenere il calore, e di Svante Arrhenius, che collegò le emissioni industriali di CO₂ al riscaldamento globale, hanno posto le basi per comprendere l'impatto umano sul clima. La metà del XX secolo segnò l'avvento di modelli climatici avanzati e la conferma dell'aumento delle concentrazioni di CO₂ grazie alle misurazioni di Charles Keeling, portando a una consapevolezza globale del cambiamento climatico di origine antropica.
La storia della vulcanologia è un campo poco esplorato, alimentato da studi episodici, spesso legati alla celebrazione di vulcanologi scomparsi ed elevati al ruolo di padri della disciplina. Questo genere di impostazione è guidato da una mentalità presentista ed è spesso proposto dagli scienziati. Parallelamente a questo, sono presenti anche ricerche riguardanti un particolare vulcano o singole opere che sono ritenute fondamentali per lo sviluppo della vulcanologia. Solo recentemente la storia della vulcanologia ha acquisito rilevanza anche nelle ricerche degli storici della scienza, sia a livello internazionale per merito dell’International Commission on the History of Geological Sciences (INHIGEO), sia grazie a iniziative più specifiche. Con questo contributo si intende mostrare la varietà degli approcci e degli argomenti trattati in chiave storica soprattutto nell’ultimo secolo, per offrire un quadro generale dello sviluppo del campo d’indagine e delle sue principali tematiche.
In contesti archeologici di siti terrestri o marini (es. relitti di imbarcazioni con relativo carico sui fondali), le macine in pietra vulcanica, i marmi bianchi e colorati per l’architettura e le pietre ollari (le cosiddette “pietre verdi”, ignee e metamorfiche) rappresentano solo alcuni esempi di come lo studio delle rocce (classificazione e processi di formazione, i.e. la petrologia) possa contribuire a fornire chiavi di lettura fondamentali per la ricerca storico-archeologica. Anche i basolati stradali del passato costituiscono fonti di informazioni sui principali siti di approvvigionamento delle rocce utilizzate per importanti reti viarie. Saranno presentati alcuni esempi di studio di manufatti in pietra rinvenuti in siti archeologici dell'area del Mediterraneo, distribuiti in differenti contesti nell’arco di più di quattromila anni, dal Tardo Neolitico fino alla fine del Medioevo. La provenienza geologica delle rocce che costituiscono questi reperti in pietra indicano areali estrattivi spesso distanti centinaia o migliaia di chilometri dai siti archeologici nei quali sono stati rinvenuti. Solo con tali studi petrologici è stato pertanto possibile tracciare le antiche rotte terrestri, marine e fluviali che consentivano il trasporto, il commercio e la diffusione di manufatti in pietra lavica (macine e basoli) o in pietra ollare o di ricercati geo-materiali come marmi e graniti a scopo architettonico-decorativo.
Il 30 ottobre 1930 un terremoto di magnitudo pari a 5.8 ha colpito l’area costiera centro-settentrionale delle Marche, determinando danni rilevanti a Senigallia, dove 318 case crollarono e 2000 furono gravemente lesionate. Nel porto di Ancona vi fu un forte effetto di maremoto, che causò la rottura degli ormeggi di un piroscafo e fu rilevato da tutti gli equipaggi in rada. Questa area è caratterizzata da terremoti infrequenti e di moderata magnitudo per cui identificare al meglio la faglia responsabile del terremoto del 1930 – ossia il terremoto storico-strumentale più forte dell’area – è cruciale per la comprensione della pericolosità sismica di tutta la fascia costiera delle Marche settentrionali. Il terremoto è stato causato dal movimento di una faglia “cieca” – una faglia che non raggiunge la superficie topografica ma si ferma in profondità all’interno della crosta terrestre – la cui identificazione è stata pertanto particolarmente complessa e ha richiesto uno studio multidisciplinare in cui sono stati congiuntamente utilizzati dati macrosismici, sismologici e geologici.
Per informazioni:
c.saltarelli1@campus.uniurb.it