Letteratura

Opere letterarie


Tutto ciò non l’avremmo saputo se non ci fossero pervenute le testimonianze di chi ha vissuto tanta crudeltà

La cipolla è un'altra cosa

W.Szymborska

Scritta da Wislawa Szymborska (poetessa polacca e premio Nobel) e raccolta insieme a tante altre bellissime poesie in “Elogio dei sogni“.



La cipolla è un’altra cosa Interiora non ne ha.
Completamente cipolla fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori, cipollosa fino al cuore, potrebbe guardarsi dentro senza provare timore.
In noi ignoto e selve di pelle appena coperti, interni d’inferno, violenta anatomia, ma nella cipolla – cipolla, non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda, fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla, riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra, nella maggiore la minore, nella seguente la successiva, cioè la terza e la quarta. Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo: il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole da sé si avvolge in tondo. In noi – grasso, nervi, vene, muchi e secrezioni. E a noi resta negata l’idiozia della perfezione.

se questo è un uomo

primo levi

Il primo protagonista dell'Olocausto che dobbiamo necessariamente citare è Primo Levi. Sopravvissuto al punto da non riuscire a convivere con il senso di colpa del salvato, come racconta nella sua opera I sommersi e i salvati, Primo Levi è lo scrittore italiano che più di tutti ha saputo raccontare gli orrori dei campi di concentramento nazisti, essendo stato prigioniero di Auschwitz.



Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

UN PAIO DI SCARPETTE ROSSE

JOYCE LUSSU

Scrittrice partigiana, ha scritto C'è un paio di scarpette rosse ricordando la morte dei bambini nei campi di concentramento nazisti. La Shoah è stata anche questo: la morte di tanti bambini e anziani, considerati entrambi inadatti al lavoro e, dunque, improduttivi per il regime nazista. Nella poesia si parte da un'immagine: un paio di scarpette rosse numero 24 poste in cima a una pila di oggetti appartenuti ai prigionieri e ormai svuotati di anima.



C’è un paio di scarpette rosse numero ventiquattro quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica “Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse in cima a un mucchio di scarpette infantili a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse a Buckenwald
quasi nuove perché i piedini dei bambini morti non consumano le suole.

ANNA FRANK

APRILE

Il primo protagonista dell'Olocausto che dobbiamo necessariamente citare è Primo Levi. Sopravvissuto al punto da non riuscire a convivere con il senso di colpa del salvato, come racconta nella sua opera I sommersi e i salvati, Primo Levi è lo scrittore italiano che più di tutti ha saputo raccontare gli orrori dei campi di concentramento nazisti, essendo stato prigioniero di Auschwitz.

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

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La letteratura concentrazionaria

«È vero, come dicevano i nostri maestri, che quando un sentimento riesce a dar vita ad una poesia, ad un romanzo, ad una commedia, riesce in una parola a fare letteratura, essa ha radici profonde nell’animo umano e non può quindi essere una passione labile e caduca, ma è destinata a germogliare, a dare frutti sempre più belli»

Andrea Bianco sul settimanale Deportazione” del 1946.

Forse non tutti sanno che esiste un filone della letteratura dedicato proprio alle opere che trattano l’argomento della Shoah. Oltre al grande Primo Levi e alla giovane Anna Frank, infatti, molte sono le opere di autori di fama, di piccola nicchia e di persone “semplici” che non hanno permesso ad un numero tatuato sulla pelle di definirli. Anzi, con voce forte, ci hanno lasciato le loro testimonianze che formano quella che definiamo “letteratura concentrazionaria”. Il termine “concentrazionaria” è stato coniato per la prima volta dallo scrittore David Rousset e si riferisce alle opere scritte dai sopravvissuti ai campi di concentramento che narrano la loro triste esperienza. Più tardi entreranno a far parte di questo filone anche opere di autori che vogliono far comprendere, ricordare e mettere in guardia i posteri, affinché quello che è accaduto in passato non si ripresenti in futuro. Quelli che scrivono, quindi, sono persone che, nonostante abbiano un segno nell’anima, hanno la voglia di continuare a vivere raccontando la loro esperienza sotto forma di racconti, lettere, autobiografia, poesie, ecc. In tutti i testi ritornano quasi sempre le stesse tematiche: l’arresto, il carcere, il viaggio in treno, l’arrivo al campo e la vita nel campo. Questo dimostra che a tutti accaddero le stesse atrocità, indistintamente. Le opere di questo filone sono scritte da autori che hanno vissuto in prima persona questa tragica pagina di storia e che, attraverso la scrittura, hanno trovato una valvola di sfogo dai loro tormenti interiori. Per altri, invece, il bisogno di mettere a conoscenza l’opinione pubblica, di denunciare tali nefandezze era così forte da creare una vera e propria documentazione storica, umana e spirituale mentre erano ancora all’interno dei lager.

«La rinnovata presa di coscienza di fatti e di sensazioni che il tempo, lungi dal porre in oblio, ha gravato di significati ancor più attuali e inquietanti, mi ha spinto a superare il riserbo che aveva fino ad oggi confinato quelle pagine nel chiuso di uno scatolone metallico. Non tanto per aggiungere l’ennesima testimonianza alle molte e ben più autorevoli che danno corpo alla storia dei seicentomila militari italiani internati in Germania, quanto per riproporre a me stesso, a mia moglie Marisa e a tutti coloro che furono coinvolti in quella vicenda, i valori che ci dettero allora la forza per contrastare con la umana dignità la degradazione del Lager e possono darci ancora oggi motivazioni ideali per affrontare le difficoltà dell’ora presente. Con la speranza che il ricordo di quel tormentato passato possa essere di qualche utilità anche ai giovani e ai giovanissimi, tra i quali mi è caro annoverare i miei figli e i miei nipotini, protagonisti di un futuro altrettanto carico di ansietà e di incognite».

Enrico Zampetti, “Dal Lager lettera a Marisa”, del 1992.

All’interno della letteratura concentrazionaria, però, vanno inserite anche le opere di tante persone che si sono adoperate per salvare gli ebrei e che attualmente sono state riconosciute tra i “Giusti”. Tra questi ricordiamo Perrone, Focherini, Schindler, Perlasca, ecc... La professoressa Elena Rondena, ha affrontato in modo molto chiaro questo argomento nella sua opera“La letteratura concentrazionaria: opere di autori italiani deportati sotto il nazifascismo”. Grazie a lei vi presentiamo alcuni testi di questo filone che non possono passare inosservati e che affiancano quelli più noti come: “Il bambino con il pigiama a righe”, “La notte”, “Un sacchetto di biglie”, “Corri, ragazzo corri”, “L’amico ritrovato”, “Se questo è un uomo”, “Un’isola in via Delle Rondini”, “La parola ebreo”, “Quando Hitler rubò il coniglio rosa”, “I ragazzi di Villa Emma”, “Arrivederci ragazzi”, “I ragazzi delle barricate”, “Storia degli ebrei in Italia”, “Anna Frank”... e tanti altri.

Ecco un breve elenco:

“A24020”

Di Alba Valech: l’autrice racconta il momento del suo arresto e di come venne portata subito, insieme ad altri ebrei, nelle stazioni. Ci narra che una delle più importanti era quella di Milano, dove dal binario 21 partivano i treni per i campi di concentramento. Il titolo prende il nome proprio dal numero con cuil’autrice veniva identificata nel campo.

“Sopravvissuta ad Auschiwitz”

Di Liliana Segre: l’autrice riporta il passaggio nel carcere quando aveva tredici anni e di come si è salvata perché, essendo più alta, era stata scambiata per una ragazza di quindici anni. Chi era inferiore ai 13 anni, infatti, andavano direttamente ai gas, insieme alle persone anziane e le donne in gravidanza.

“Il silenzio dei vivi”

Di Elisa Springer: l’autrice parla del lungo viaggio in treno; gli spostamenti, infatti, duravano cinque/sei giorni, senza la possibilità di bere e di mangiare. Se erano fortunati, quando passavano in zone fredde, molte volte si formava la brina sul tetto del treno. Attraverso una piccola feritoia, i deportati cercavano di prenderne un po’ per togliersi quell’enorme senso di sete.

“Ma domani sarà giorno”

Di Teresa Noce: l’autrice testimonia quanto dura fosse la vita nei campi. Ad esempio si svolgeva l’appello più volte al giorno e se qualcuno non rispondeva, dieci persone venivano uccise.

“Triangolo rosso”

Di Paolo Liggeri: uno dei pochi autori che è riuscito a scrivere nel lager, narrando dalle carceri di San Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Fossoli, Bolzano, Mauthausen.

“Il diario di Gusen”

Di Aldo Carpi: l’insegnante e pittore milanese, al momento dell’arresto avvenuto su delazione di un collega, aveva 57 anni. Avvisato dell’arrivo dei fascisti avrebbe potuto facilmente salvarsi ma, invece di fuggire, tornò a casa nella speranza di salvare i figli (già attivi nella Resistenza) che però, avvisati da contadini, si erano già messi in salvo. Carpi, invece, fu catturato e deportato a Gusen dove scrisse, su foglietti con scrittura minuscola, un diario sconvolgente. L’autore, messo prima a lavorare nelle cave a caricare blocchi di pietre su un treno, sarebbe sicuramente morto se non fosse stato per il suo talento di pittore, scoperto da un aguzzino del campo che gli chiese un ritratto da mandare ai famigliari. Grazie a questa attività artistica, Carpi poté lavorare in un ambiente chiuso e caldo, guadagnandosi anche qualche zuppa supplementare e altro cibo che provvedeva a distribuire anche ad altri prigionieri.

“Lettera a Marisa”

Di Enrico Zampetti: dopo il ritorno alla vita normale, l’autore si dedica alla trascrizione del diario e delle note compilate durante la prigionia nei campi nazisti.

“Il cammino di un giusto”

Di Odoardo Focherini: l’uomo lottò contro il nazifascismo e s’impegnò in particolare nella salvezza degli ebrei. Questa sua battaglia cominciò già nel 1940-’41, quando soccorse un gruppo di ebrei polacchi sfuggiti alla persecuzione nazista e giunti in Italia travestiti da soldati italiani e da infermiere a bordo di convogli della Croce Rossa Italiana. Si adoperò per trovare loro rifugio presso case religiose, procurandogli documenti falsi, ottenere salvacondotti per raggiungere la Svizzera. Dopo l’armistizio l’azione di Focherini si fece sempre più intensa ed efficace per la salvezza degli ebrei italiani.

“Dossier 3712”

di Lorenzo Perrone: egli prestò aiuto proprio a Primo Levi. Dopo il loro primo incontro e fino al dicembre 1944, Lorenzo rubò del cibo dalla cucina per sfamare il suo giovane e debole amico, gli procurò una veste multicolore che Primo indossava sotto l'abbigliamento del campo per aumentare la protezione dal freddo e spedì per suo conto anche una cartolina alla madre. Eccone un breve estratto:

“Era l’estate del 1944 e da pochi mesi era arrivato ad Auschwitz un giovane italiano: Primo Levi. Alcuni prigionieri, che stavano nella sua stessa camerata, mi dissero che era torinese, laureato in chimica e anche lui deportato qui. Stavo lavorando duramente, sotto il sole, a raccogliere patate, quando sentii parlare con accento piemontese. Si trattava di lavoratori civili italiani mandati a Monowitz dalla ditta Boetti per realizzare opere di muratura. Tra questi c’era un operaio più attento degli altri, si chiamava Lorenzo Perrone. Era conosciuto da tutti per la sua straordinaria umanità e la grande sensibilità che aveva sempre dimostrato per i più deboli e non mancava mai di offrire ciò che aveva agli altri. Quando Lorenzo incontrò Primo Levi, fu amicizia a prima vista: il muratore si prese subito a cuore la sua situazione, lo mise al corrente della terribile condizione dei deportati e cercò di aiutarlo come meglio poté”.

"Un ricordo dell’8 settembre 1943”

Di Giuseppe Zaggia: l’autore nel suo diario racconta come per molti la guerra non finisce il 25 aprile, né l’8 maggio 1945, ma per i prigionieri ci vorranno ancora settimane o mesi per rientrare a casa e riavviare una vita in tempo di pace.

“La banalità del male”

Di Hannah Arendt: la filosofa ebrea tedesca mostra come il male si trovi anche in personalità “banali” come quelle dei burocrati che hanno aiutato il regime totalitario nazista nello sterminio degli ebrei.

Tutto ciò non l’avremmo saputo se non ci fossero pervenute le testimonianze di chi ha vissuto tanta crudeltà,
raccolta attraverso
la letteratura concentrazionaria.